Famiglia di fatto e impresa familiare

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1 FAMIGLIA / IMPRESA FAMILIARE Famiglia di fatto e impresa familiare La convivenza more uxorio come fenomeno giuridicamente rilevante e l applicabilità dell istituto dell impresa familiare. Maurizio A. Innocenti, Avvocato in Milano Si analizza il caso di partecipazione all impresa familiare del convivente more uxorio. IL CASO Tizia, convivente more uxorio di Caio dal 1997, vorrebbe partecipare all impresa familiare costituita nel 2004 dal padre di Caio, Sempronio. In tale impresa partecipano Caio, la madre e il fratello. L impresa così costituita rappresenta una vera e propria impresa familiare ex art. 230-bis c.c. I soci dell impresa, nonché parenti di Caio, non sono d accordo a che Tizia partecipi all impresa, a meno che la stes- sa non decida di sposarsi con Caio e regolarizzare la loro unione. Poiché Tizia, però, non si sente pronta al matrimonio e vorrebbe prolungare la sua convivenza con il partner, si pone la questione se Tizia possa partecipare all impresa familiare di Caio pur non essendo con lui regolarmente sposata. TRATTAZIONE Qualificazione giuridica L istituto dell impresa familiare è stato introdotto nell ordinamento italiano a seguito della riforma del diritto di famiglia, attuata con la l. n. 151/1975. La fattispecie in esame è stata collocata in un apposita sezione del codice civile 72 IL CIVILISTA OTTOBRE 2007 civilista imprimatur-ok.indb 72 25/09/

2 QUESTIONI STRAGIUDIZIALI PUNTI RILEVANTI 1 L impresa familiare è di sciplinata dall art bis c.c. introdotto con la l. n. 151/ Per la costituzione dell impresa familiare non sono previste forme particolari. PUNTI CONTROVERSI 1 Natura della prestazione: assonanze e dissonanze con la disciplina del lavoro subordinato. 3 (la sezione VI del capo VI, libro I) dedicata al regime patrimoniale della famiglia. L art. 230-bis c.c., pertanto, rappresenta l unica norma diretta a regolare i rapporti patrimoniali intercorrenti fra soggetti diversi dai coniugi, seppur legati da vincoli di parentela e di affinità. Per impresa familiare s intende «quella cui collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo» (art. 230-bis c.c.). La definizione ricorda, apparentemente, quella del piccolo imprenditore contenuta nell art c.c., tuttavia l impresa cui si riferisce l art. 230-bis c.c. non si caratterizza per la natura o le dimensioni, bensì riguarda la collaborazione familiare in una qualunque impresa.con tale norma, il legislatore ha voluto dettare la disciplina positiva di un fenomeno estremamente diffuso e precedentemente trascurato: il lavoro familiare. In altre parole, ha voluto offrire una protezione giuridica efficace a quelle situazioni in cui un soggetto, prestando il proprio lavoro a favore di un familiare, non aveva garantita alcuna protezione, dal momento che, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, si riteneva che tali prestazioni avvenissero tutte affectionis vel benevolentiae causa. L impresa familiare è costituita da un familiare imprenditore, che è il titolare, con il quale collaborano i familiari (coniuge, parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo). Si evince, quindi, che l impresa familiare non è un fenomeno di esercizio collettivo, infatti, la collaborazione dei familiari non è di ostacolo alla presenza di un unico titolare. Costituzione dell impresa Ai fini civilistici, vale a dire al fine di conseguire il riconoscimento dei diritti di cui all art. 230-bis c.c., la norma non detta condizioni di forma particolari. Al riguardo la Cassazione ha stabilito che la costituzione dell impresa familiare non è automatica ma deve pur sempre sussistere una manifestazione di volontà, cioè alla base dell impresa deve esserci un fat- Per partecipare all impresa di famiglia occorre possedere lo status di familiare previsto espressamente dall art. 230-bis c.c. 2 Ingresso della cosiddetta famiglia di fatto nella nozione di impresa familiare. RIFERIMENTI NORMATIVI ART. 230-BIS C.C. Impresa familiare. Salvo che sia configurabile un diverso rapporto, il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell azienda, anche in ordine all avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato. Le decisioni concernenti l impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell impresa sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano alla impresa stessa. I familiari partecipanti alla impresa che non hanno la piena capacità di agire sono rappresentati nel voto da chi esercita la potestà su di essi. Il lavoro della donna è considerato equivalente a quello dell uomo. Ai fini della disposizione di cui al primo comma si intende come familiare il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo; per impresa familiare quella cui collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo. Il diritto di partecipazione di cui al primo comma è intrasferibile, salvo che il trasferimento avvenga a favore di familiari indicati nel comma precedente col consenso di tutti i partecipi. Esso può essere liquidato in danaro alla cessazione, per qualsiasi causa, della prestazione del lavoro, ed altresì in caso di alienazione dell azienda. Il pagamento può avvenire in più annualità, determinate, in difetto di accordo, dal giudice. In caso di divisione ereditaria o di trasferimento dell azienda i partecipi di cui al primo comma hanno diritto di prelazione sulla azienda. Si applica, nei limiti in cui è compatibile, la disposizione dell articolo 732. Le comunioni tacite familiari nell esercizio dell agricoltura sono regolate dagli usi che non contrastino con le precedenti norme. OTTOBRE 2007 IL CIVILISTA 73 civilista imprimatur-ok.indb 73 25/09/

3 I requisiti necessari per costituire un impresa familiare sono lo status di familiare, il lavoro nell impresa e nella famiglia to giuridico. Tale espressione di volontà può essere espressa o tacita, da parte dei familiari interessati, quindi anche attraverso comportamenti concludenti (facta concludentia) cioè fatti volontari, dai quali si possa desumere l esistenza della fattispecie. In tal senso non viene richiesto necessariamente un atto negoziale, né uno specifico atto di conferimento di beni, essendo sufficiente lo svolgimento di un attività lavorativa in comune la quale risulta di per sé idonea ad esprimere la volontà negoziale. La forma scritta La quale, anche se non obbligatoria ai fini civilistici, è pur sempre consigliabile per poter definire in modo chiaro la sfera dei reciproci diritti e doveri - risulta invece necessaria ai fini dell applicazione delle disposizioni fiscali; a questo fine non è sufficiente che l atto costitutivo sia redatto in forma scritta e che contenga la previsione delle condizioni e dei limiti di partecipazione e di imputazione nei confronti dei familiari, ma è anche necessario che tale atto rivesta la forma dell atto pubblico o della scrittura privata autenticata. Ad ogni modo non esiste alcun diritto del familiare ad essere ammesso all impresa e di conseguenza non c è alcun obbligo a parteciparvi. Partecipanti I requisiti necessari per costituire un impresa familiare sono lo status di familiare, il lavoro nell impresa e nella famiglia. Come detto i partecipanti sono, oltre al titolare, il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo. Non rientra nella previsione della norma, la prestazione di lavoro che sia resa da membri della famiglia legittima che non siano del grado considerato, o da persone che vantino legami quasi familiari, in seguito a situazioni di fatto. Il vincolo di parentela, di affinità e di coniugio vanno valutati nei confronti di colui o di coloro che hanno la qualifica di imprenditore; devono sussistere al momento dell ammissione nell attività e devono persistere durante tutto il rapporto. Perdono la condizione presupposta dalla legge il coniuge ed i suoi parenti, quando siano cessati gli effetti civili del matrimonio; non producono tal effetto la separazione di fatto od il provvedimento con il quale di dichiara la separazione legale, o viene omologata la separazione consensuale, salvo che la collaborazione resa dal coniuge non possa essere prestata che in seno alla famiglia. In caso di annullamento del matrimonio, per quel che concerne la posizione del coniuge, dei figli e dei loro parenti, ci si deve regolare in conformità delle disposizioni contenute nell art. 128 e ss c.c. Perde, altresì, la condizione presupposta dalla legge, il figlio, in seguito della sentenza che accoglie l azione di disconoscimento della paternità o in caso di revoca dell adozione. Sono considerati familiari ai sensi dell art. 230-bis c.c. anche i figli naturali, riconosciuti o riconoscibili, e quelli adottivi: all impresa, quindi, possono partecipare anche i figli naturali riconosciuti dal titolare, evidenziando come la legge non restringa il numero dei parenti ai soli legittimi. PUNTI CONTROVERSI 1 Natura della prestazione, assonanze e dissonanze con la disciplina del lavoro subordinato. Con l art. 230-bis c.c., il legislatore ha preso posizione contro quel orientamento che aveva escluso la possibilità di un rapporto di lavoro subordinato tra coniugi e tra genitori e figli. Con l introduzione di tale norma, così, è stata legittimata una revisione dei modelli interpretativi del lavoro familiare, infatti, in passato, la dottrina aveva sottolineato la mancanza degli elementi tipici del rapporto di lavoro subordinato (es. subordinazione, retribuzione). Innanzitutto è stata superata la convinzione che la prestazione fornita dal congiunto fosse caratterizzata dall elemento della gratuità: con la previsione di un 74 IL CIVILISTA OTTOBRE 2007 civilista imprimatur-ok.indb 74 25/09/

4 QUESTIONI STRAGIUDIZIALI diritto al mantenimento e alla partecipazione agli utili, quale tutela economica della prestazione eseguita nell ambito di un impresa familiare, si esclude, certamente, una presunzione di gratuità della prestazione lavorativa del collaboratore, ma soprattutto si esclude che possa parlarsi di una coincidenza tra lavoro familiare e lavoro subordinato. Il lavoro familiare, quindi, non deve essere considerato una forma di lavoro subordinato alla quale applicare la normativa prevista per quest ultimo, tant è che il legislatore ha predisposto, con l art. 230-bis c.c., un apposita sezione. Tuttavia, pur non essendo la prestazione di lavoro ex art. 230-bis c.c. riconducibile tout court a quella subordinata, è alle norme poste a tutela di quest ultima che si deve far riferimento per colmare i vuoti legislativi di tale disposizione, affinché venga garantita un efficace protezione al lavoratore che presta la sua opera all interno dell impresa familiare. Anzi, la giurisprudenza ritiene applicabile all istituto in esame lo speciale regime del processo del lavoro. L art. 409 c.p.c. attribuisce alla competenza del giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro e alle regole dello speciale procedimento non solo le controversie relative a rapporti di lavoro subordinato, ma anche quelle relative a rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione d opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato (art. 409, comma 3, c.p.c.). Riguardo a queste ultime, si tratta di fattispecie di lavoro formalmente autonomo, ma alle quali la posizione del lavoratore è debole rispetto alla controparte, sicché sono state definite come ipotesi di lavoro parasubordinato; è opinione diffusa, in dottrina come in giurisprudenza, che anche l impresa familiare rientri nella previsione dell art. 409, comma 3, c.p.c. La Corte di Cassazione ha cercato di definire la fattispecie dell art. 230-bis c.c. indicando quali requisiti minimi la collaborazione ivi disciplinata doveva presentare: ciò è avvenuto nel 1981, quando si sono richiesti i caratteri della continuità, della coordinazione ed esplicazione prevalentemente personale. Nello stesso anno, inoltre, si è sostenuta l applicazione del nuovo rito e la competenza del giudice del lavoro nell ambito dell impresa di famiglia. Questa tesi, tuttavia, non è esente da critiche poiché, parte della dottrina, ha sostenuto che in merito alle controversie nascenti tra collaboratori familiari, la competenza debba spettare al giudice ordinario in quanto tale, e non in veste di giudice del lavoro, in considerazione degli interessi coinvolti. Alcuni autori (G. Oppo, Dell impresa famigliare, «Scritti giuridici», Padova 1992), infatti, considerano l impresa familiare non tanto un istituto di diritto del lavoro, quanto di diritto di famiglia, cosicché la prestazione eseguita da congiunti non rientrerebbe né nella fattispecie di lavoro subordinato, né in quella di lavoro autonomo. Da queste riflessioni si evince come il lavoro prestato nell impresa familiare presenti alcune peculiarità che lo differenziano da altre tipologie di attività lavorative regolate dalla legge e presenti nelle relazioni economiche. Il collabora- Il lavoro familiare non deve essere considerato una forma di lavoro subordinato RIFERIMENTI NORMATIVI ART. 409 C.P.C. Controversie individuali di lavoro. Si osservano le disposizioni del presente capo nelle controversie relative a: 1) rapporti di lavoro subordinato privato, anche se non inerenti all esercizio di una impresa; 2) rapporti di mezzadria, di colonia parziaria, di compartecipazione agraria, di affitto a coltivatore diretto, nonché rapporti derivanti da altri contratti agrari, salva la competenza delle sezioni specializzate agrarie; 3) rapporti di agenzia, di rappresentanza commerciale ed altri rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato; 4) rapporti di lavoro dei dipendenti di enti pubblici che svolgono esclusivamente o prevalentemente attività economica; 5) rapporti di lavoro dei dipendenti di enti pubblici ed altri rapporti di lavoro pubblico, semprechè non siano devoluti dalla legge ad altro giudice. OTTOBRE 2007 IL CIVILISTA 75 civilista imprimatur-ok.indb 75 25/09/

5 IL RAGIONAMENTO IL CONVIVENTE MORE UXORIO NON PUÒ COSTRUIRE UNA IMPRESA FAMILIRE Mancata sussistenza del vincolo di subordinazione Convivente more uxorio come familiare Esclusione per espresso riferimento al coniuge da parte dell art. 230-bis Schema del ragionamento: 1 L impresa familiare è stata introdotta per garantire tutela al lavoro che i prossimi congiunti dell imprenditore svolgevano al suo interno, quindi per superare la convinzione che la prestazione fornita dal congiunto fosse caratterizzata dall elemento della gratuità. 2 Ma tale prestazione è paragonabile al lavoro subordinato di un ordinario dipendente? No, anche se per dirimere eventuali controversie sorte tra titolare e collaboratori si fa riferimento alle norme di cui agli artt. 409 e ss. c.p.c. 3 Può considerarsi alla stregua del prossimo congiunto qualsiasi individuo legato da vincoli affettivi ai partecipanti all impresa? E il convivente more uxorio del partecipante all impresa deve considerarsi come una normale persona legata affettivamente allo stesso o come una sorte di coniuge di quest ultimo? 4 Il tenore letterale dell art bis c.c. prevede espressamente chi può far parte dell impresa familiare e tra questi non si fa menzione al convivente more uxorio. Per poter coinvolgere nell impresa familiare il convivente del parente dell imprenditore sarebbe necessario riformulare la norma di legge. tore familiare, infatti, deve essere considerato un partecipante agli utili, pur rimanendo estraneo al rischio d impresa. 2 Ingresso della cosiddetta famiglia di fatto nella nozione di impresa familiare. Tornando alla volontà di Tizia di partecipare all impresa familiare non vi sono dubbi sul fatto che tale evenienza le sarebbe preclusa. La nozione di familiare di cui si parla al comma 3 dell art. 230-bis c.c., non lascia dubbi su quali siano i soggetti che possano far parte dell impresa in questione, e sembrerebbe che il legislatore del 1975, nel disciplinare l istituto, abbia considerato esclusivamente la famiglia legittima. Si è sviluppato tuttavia un ampio dibattito, volto a stabilire se la cosiddetta famiglia di fatto possa trovare ingresso nella nozione di impresa familiare, e tutt oggi tale problema rimane aperto. I problemi interpretativi che nascono dal dettato normativo in ogget- 76 IL CIVILISTA OTTOBRE 2007 civilista imprimatur-ok.indb 76 25/09/

6 QUESTIONI STRAGIUDIZIALI to derivano non tanto dalle espressioni utilizzate, che sotto il profilo tecnico formale appaiano inequivocabili, quanto piuttosto dall esigenza di apprestare minimi strumenti di tutela alle cosiddette unioni libere, non formalizzate, cioè, dal vincolo matrimoniale. La famiglia di fatto costituisce un fenomeno sempre più diffuso nel costume sociale, e le limitazioni che ad essa derivano dal riconoscimento costituzionale della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio, non possono sicuramente essere intese come il segno di un atteggiamento di riprovazione e disapprovazione verso i vincoli non formalizzati. Di opinione contraria, tuttavia, si schiera quella parte di dottrina che considera il matrimonio come connotato originario della famiglia, in quanto appartiene all ordine stesso di quest ultima, intesa come società naturale. Al riguardo viene in evidenza la funzione dell art. 29 Cost. che è, chiaramente, quella di accordare preminenza e garanzia costituzionale alla famiglia legittima, fondata sul vincolo matrimoniale, ma tale considerazione, non esclude la possibilità di conferire un riconoscimento, seppur di minor rilievo, alla famiglia di fatto. Infatti, in questo senso la Corte costituzionale ha affermato: «un consolidato rapporto, ancorché di fatto, non appare costituzionalmente irrilevante quando si abbia riguardo al rilievo offerto al riconoscimento delle formazioni sociali e alle conseguenti intrinseche manifestazioni solidaristiche. Tanto più allorché la presenza di prole comporta il coinvolgimento attuativo d altri principi, pur costituzionalmente apprezzati: mantenimento, istruzione, educazione. In altre parole, si è in presenza di interessi suscettibili di tutela, in parte positivamente definiti ( ), in parte da definire nei possibili contenuti». (C. Cost. n. 237/1988). Tale riconoscimento è stato sostenuto anche dalla dottrina e dalla giurisprudenza dominanti, le quali hanno basato le loro affermazioni sull art. 2 Cost., ove è prevista la tutela della formazioni sociali nelle quali si svolge la personalità dell uomo. Tale disposizione, se considerata come norma in bianco, è in grado di assicurare in via immediata tutela giuridica a tutte quelle forme associative che si sviluppano nella realtà sociale in vista dello svolgimento della personalità dei singoli; tra queste formazioni sociali viene inserita anche la famiglia di fatto, alla base della quale vi è il consenso di coloro che la compongono, unitamente al legame affettivo. Dopo queste prime considerazioni, ci si deve chiedere se esiste la possibilità affinché il convivente more uxorio, in base ad un interpretazione analogica e/o estensiva dell art. 230-bis, terzo comma, c.c., possa vedersi riconosciuto un diritto di partecipazione all impresa familiare in sostanza ci si domanda se la normativa disciplinante la fattispecie dell impresa familiare possa trovare applicazione anche in caso di unioni non formalizzate dal vincolo matrimoniale. La questione, pur essendo stata dibattuta di frequente in dottrina, non ha portato ad un orientamento prevalente; inoltre, il problema ha costituito oggetto d esame da parte dei giudici in più occasioni, sebbene spesso solo in conclusione dell indagine volta a stabilire il rilievo da attribuire, sul piano giuridico, alle prestazioni di lavoro effettuate da un soggetto a favore del convivente. La dottrina che esclude l estensione dell art. 230-bis c.c. al convivente more uxorio fa leva principalmente su dato letterale che emerge dalla norma; essa, inoltre, trascura di esaminare le istanze e le preoccupazioni che stanno a cuore di chi spinge per una forzatura del dato formale, evita cioè di esaminare quelle situazioni di abuso e di sfruttamento che hanno portato al varo dell art bis c.c., che permangono, quindi, con riguardo al convivente non sposato. Ad ogni modo gran parte della dottrina (G. Oberto, Impresa familiare e ingiusti- Il legislatore nel disciplinare l istituto dell impresa familiare ha considerato esclusivamente la famiglia legittima OTTOBRE 2007 IL CIVILISTA 77 civilista imprimatur-ok.indb 77 25/09/

7 L art. 230-bis parla esplicitamente di coniuge inteso come termine tecnico, non riferibile a soggetti che non siano uniti in matrimonio ficato arricchimento tra conviventi more uxorio, «Giur. It.» 1991, I, 2, 573) sostiene che l elenco dei soggetti dell impresa familiare appare tassativo, in quanto esclusivamente correlato al dato formale della presenza di un rapporto di coniugio, di parentela o di affinità entro gradi ben individuati. Tale corrente di pensiero, si basa sul fatto che l art. 230-bis c.c. parla esplicitamente di coniuge e questi è il soggetto dello specifico stato familiare (e coniugale) che viene ad assumersi, immediatamente, con il matrimonio. Si afferma che coniuge è inteso come un termine tecnico, non riferibile, senza alcun tipo di forzatura, a soggetti che non siano stati uniti in matrimonio, e non può parlarsi di una discriminazione del convivente rispetto al coniuge, poiché le due situazioni sono diverse. Altra parte della dottrina (V. Colussi, Impresa e famiglia, Padova 1985), ha negato l applicabilità dell art. 230-bis c.c. alla fattispecie della famiglia di fatto, partendo non tanto dal dato formale della norma, quanto dalle conseguenze logico giuridiche che una siffatta apertura comporterebbe: infatti, si afferma che, coloro i quali considerano la situazione del convivente sostanzialmente identica a quella del coniuge, dovrebbero estendere, per analogia, alle coppie semplicemente conviventi, le norme sulla comunione legale e in genere tutte quelle che regolano i rapporti tra coniugi. Agli inizi degli anni ottanta, una pronuncia del Tribunale di Ivrea (Trib. Ivrea 11 ottobre 1981) apparve a molti come il segno di un apertura della giurisprudenza verso un primo riconoscimento della famiglia di fatto : attraverso un accurata indagine di tipo sociologico sull evoluzione della famiglia in seguito alla rivoluzione industriale, soprattutto con riferimento alla famiglia rurale e all azienda da essa gestita, i giudici giunsero ad affermare la configurabilità di un impresa familiare tra conviventi more uxorio. Fu una sentenza che per la decisa apertura dimostrata, in un periodo in cui con fatica si cercava di comprimere la presunzione di gratuità del lavoro prestato dal convivente, ricevette diverse critiche, prime fra tutte quella per aver ritenuto la famiglia fatto equiparata a quella legittima. Negli anni successivi, la giurisprudenza ha negato l applicabilità dell art. 230-bis c.c. al convivente more uxorio, venendo così ad attribuire alla sentenza dei giudici di Ivrea il valore di una decisione estemporanea, priva di quella continui tà necessaria per poterla considerare come il punto di partenza per un cambiamento di rotta. A distanza di quasi dieci anni da questa sentenza, una nuova pronuncia dei giudici di merito affermò l applicabilità della disciplina di cui all art. 230-bis c.c. alla famiglia di fatto: tale pronuncia, emessa dal Tribunale di Torino (24 novembre 1990), voleva rappresentare il tentativo verso una nuova apertura in favore della famiglia di fatto, per conferirle rilievo e dignità giuridica. Nel 1994, tuttavia, la Suprema Corte (sentenza n. 4204) cercando di porre fine ad ogni incertezza, si pronunciò affermando che l art. 230-bis c.c., in quanto norma eccezionale rispetto a quelle generali in tema di prestazioni lavorative, non è suscettibile di applicazione analogica Ad oggi, ad ogni modo, il problema non ha trovato una soluzione univoca: ufficialmente, l art. 230-bis c.c. non è suscettibile di applicazione analogica, in quanto norma eccezionale rispetto a quelle generali in tema di prestazioni lavorative. Tuttavia, negli ultimi tempi sia la giurisprudenza che il legislatore hanno mostrato di voler rivedere la disciplina dell impresa familiare: la sezione lavoro della Cassazione con la sentenza n del 15 marzo 2006, ha stabilito che l attività lavorativa e di assistenza svolta nell ambito di un contesto familiare in favore del convivente di fatto, normalmente rinviene la sua causa nei vincoli di solidarietà ed affettività esistenti, i 78 IL CIVILISTA OTTOBRE 2007 civilista imprimatur-ok.indb 78 25/09/

8 QUESTIONI STRAGIUDIZIALI quali di norma sono alternativi ai vincoli tipici di un rapporto a prestazioni corrispettive, qual è il rapporto di lavoro subordinato, mentre qualche volta si può inquadrare il rapporto stesso nell ipotesi dell impresa familiare, applicabile anche alla famiglia di fatto considerato che la stessa rappresenta una formazione sociale atipica di rilievo costituzionale ai sensi dell art. 2 Cost. Infine il progetto di legge n. 682 (art. 4), nell ottica di garantire alle coppie di conviventi diritti tipici della famiglia legittima, vorrebbe riformulare l art. 230-bis c.c. nel seguente modo: «ai fini delle disposizioni di cui al primo comma si intende come familiare il coniuge, il convivente more uxorio, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo; per impresa familiare quella cui collaborano il coniuge, il convivente more uxorio, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo». CONCLUSIONI Attualmente, quindi, i conviventi more uxorio non possono costruire una impresa familiare e, quindi, non possono godere della tutela dettata dall art bis del codice civile. Quindi, Tizia, non potrà essere considerata socia all interno dell impresa del padre di Caio, a meno che non decida di convolare a nozze con quest ultimo. Questo, perché ancora oggi la giurisprudenza di legittimità ritiene che l impresa familiare presuppone la famiglia legittima, e che il matrimonio pone a carico dei coniugi precise conseguenze, mentre la convivenza è una situazione di fatto caratterizzata dalla precarietà. Una volta esclusa, da parte della giurisprudenza e della dottrina maggioritaria, la possibilità di estendere al convivente more uxorio la disciplina dell art. 230-bis c.c., questi può trovare tutelati i propri interessi attraverso altri istituti. Le possibili soluzioni possono essere diverse: ad esempio, Tizia e Caio potrebbero stipulare un contratto di società. Oppure potrebbero pensare ad una soluzione di tipo non pattizia, come ad esempio l obbligazione naturale e/o l arricchimento senza giusta causa. Il primo rimedio, però, è poco adatto ad ottenere una remunerazione per le prestazioni effettuate, poiché l obbligazione naturale rileva solo nel momento in cui si deve far valere la soluti retentio sicché acquista valore nel momento in cui l adempimento è avvenuto. Proprio per questo motivo l obbligazione naturale non è idonea ad assicurare tutela effettiva perché quest ultima non può essere causa di un obbligazione civile. Più valido appare il rimedio relativo all arricchimento senza giusta causa: occorre partire dal presupposto, infatti, che benché le prestazioni effettuate tra i conviventi, nella maggior parte dei casi, sono di pura cortesia, queste hanno un rilevante valore economico poiché non si limitano a semplici collaborazioni marginali. Queste prestazioni (affectionis vel benevolentiae causa) sono poste in essere soprattutto dal convivente più debole per rispondere ad un dovere morale e sociale. Questo però non significa che il convivente più debole che le esegue voglia impoverirsi rinunciando ad una qualsiasi remunerazione. In verità, in capo a chi esegue la prestazione nasce un principio di affidamento che non consiste nell aspettarsi una retribuzione in senso stretto, ma che consiste nell ottenere l adempimento, da parte del convivente beneficiario della prestazione, degli stessi doveri sociali e morali, in base ai quali egli per primo ha eseguito la prestazione. Quindi, pensare di ottenere una controprestazione (di qualsiasi entità o natura) fa si che tra i conviventi si consideri il rapporto di tipo oneroso. I conviventi non possono costruire un impresa familiare e, quindi, non possono godere della tutela dettata dall art. 230-bis OTTOBRE 2007 IL CIVILISTA 79 civilista imprimatur-ok.indb 79 25/09/

9 GIURISPRUDENZA RILEVANTE LAVORO FAMILIARE E LAVORO SUBORDINATO Orientamento maggioritario Cass. civ., Sez. lav., , n L attività lavorativa e di assistenza svolta all interno di un contesto familiare in favore del convivente more uxorio trova di regola la sua causa nei vincoli di fatto di solidarietà ed affettività esistenti, alternativi rispetto ai vincoli tipici di un rapporto a prestazioni corrispettive, qual è il rapporto di lavoro subordinato; ciò non esclude che talvolta le prestazioni svolte possano trovare titolo in un rapporto di lavoro subordinato, del quale il convivente superstite deve fornire prova rigorosa, e la cui configurabilità costituisce valutazione in fatto, come tale demandata al giudice di merito e non sindacabile in cassazione ove adeguatamente motivata. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto esente da vizi la sentenza di merito che aveva rigettato la domanda della ricorrente volta ad ottenere dagli eredi il trattamento economico a titolo di lavoro domestico non corrispostole dal defunto convivente, sulla base delle risultanze probatorie escludenti il vincolo di subordinazione ed attestanti, tra l altro, che tra i due esisteva una relazione sentimentale, sfociata dopo anni di frequentazione a distanza in una prolungata convivenza, e che l attrice veniva presentata abitualmente come compagna del convivente e trascorreva abitualmente le vacanze in località di villeggiatura con il defunto convivente). Cass. civ., Sez. lav., , n In un rapporto lavorativo che si svolga nell ambito della convivenza more uxorio è da escludere la ricorrenza di un rapporto di subordinazione onerosa, mentre è possibile inquadrare il rapporto stesso, in carenza di prove contrarie, nell ipotesi della comunione tacita familiare come delineata dall art. 230-bis c.c. Cass. civ., Sez. lav., , n L art. 230-bis c.c., che disciplina l impresa familiare, costituisce norma eccezionale, in quanto si pone come eccezione rispetto alle norme generali in tema di prestazioni lavorative ed è pertanto insuscettibile di interpretazione analogica. Deve peraltro ritenersi manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell art. 230-bis nella parte in cui esclude dall ambito dei soggetti tutelati il convivente more uxorio, posto che elemento saliente dell impresa familiare è la famiglia legittima, individuata nei più stretti congiunti, e che un equiparazione fra coniuge e convivente si pone in contrasto con la circostanza che il matrimonio determina a carico dei coniugi conseguenze perenni ed ineludibili (quale il dovere di mantenimento o di alimenti al coniuge, che persiste anche dopo il divorzio), mentre la convivenza è una situazione di fatto caratterizzata dalla precarietà e dalla revocabilità unilaterale ad nutum. Cass. civ., Sez. lav., , n Le prestazioni di lavoro tra conviventi more uxorio possono rientrare fra prestazioni di cortesia gratuite e sfornite di valore contrattuale, o costituire esecuzione di un vero contratto di lavoro, con diritto alla retribuzione. Del carattere contrattuale del rapporto deve dar la prova chi, per avvantaggiarsene, lo invoca. Accertarne la sussistenza è compito del giudice di merito, il quale è libero di formare il proprio convincimento utilizzando gli elementi probatori ritenuti rilevanti. La sua valutazione, se adeguatamente motivata ed immune da errori logico-giuridici, non è censurabile in sede di legittimità. Cass. civ., Sez. lav., , n Al fine di stabilire se le prestazioni lavorative svolte nell ambito di una convivenza more uxorio diano luogo ad un rapporto di lavoro subordinato o siano fornite in un quadro di relazioni nelle quali non trovano realizzazione né il requisito della subordinazione né quello della retribuzione in senso proprio, il giudice tenuto conto che l art. 230-bis c.c. ha compreso l estensione della presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative svolte nell ambito familiare, influenzando così i criteri di estensibilità della detta presunzione al rapporto analogo di convivenza more uxorio, e che, tra le norme che attribuiscono rilevanza alla famiglia di fatto, l art. 2 d.p.r. 31 gennaio 1958, n. 136 definisce come famiglia, ai fini anagrafici, anche un insieme di persone legate da vincoli affettivi e coabitanti che normalmente provvedono al soddisfacimento dei loro bisogni mediante la messa in comune di tutto o parte del reddito di lavoro da esse percepito, non può limitarsi all accertamento della mera comunanza di vita, in senso così materiale come spirituale ed affettivo, ma deve ricercare se in concreto esista una equa ed effettiva partecipazione della convivente alle risorse della famiglia di fatto. Cass. civ., Sez. lav., , n Per applicare la presunzione di gratuità alle prestazioni lavorative svolte dalla convivente more uxorio occorre una dimostrazione particolarmente rigorosa di una comunione materiale e spirituale di vita analoga a quella che caratterizza il rapporto coniugale. Ciò occorre in particolare dopo l entrata in vigore della riforma del diritto di famiglia che, all art. 230-bis c.c., ha palesemente circoscritto l ambito di operatività di tale presunzione anche all interno della famiglia legittima. Pronuncia isolata Trib. Torino Le disposizioni di cui all art bis c.c. in tema di impresa familiare sono applicabili anche al lavoro prestato nella famiglia o nell impresa familiare dal convivente more uxorio. Trib. Ivrea È applicabile la disciplina dettata dall art. 230-bis c.c. all impresa familiare condotta dalla famiglia di fatto. 80 IL CIVILISTA OTTOBRE 2007 civilista imprimatur-ok.indb 80 25/09/

QUESITO SOLUZIONE INTERPRETATIVA PROSPETTATA DAL CONTRIBUENTE

QUESITO SOLUZIONE INTERPRETATIVA PROSPETTATA DAL CONTRIBUENTE RISOLUZIONE N. 169/E Direzione Centrale Normativa e Contenzioso Roma, 1 luglio 2009 OGGETTO: Consulenza giuridica - Trattamento IVA applicabile alla gestione del patrimonio immobiliare. Art. 4, primo comma,

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