SU LACUNE E DISCREZIONALITÀ: UNA REPLICA AD ENDICOTT

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1 SU LACUNE E DISCREZIONALITÀ: UNA REPLICA AD ENDICOTT Nel suo saggio Legal Reasons, Sources, and Gaps 1 Raz sostiene che i giudici esercitano discrezionalità ogniqualvolta debbono applicare regole giuridiche che li sollecitano a porre in essere considerazioni morali. Egli chiarisce questa affermazione per mezzo di un esempio drastico: se per il diritto i contratti sono validi solo se non sono immorali, allora un contratto può essere valido solo prima facie sino a che un giudice o una corte di giustizia non abbia stabilito in maniera autoritativa la sua validità. Secondo Timothy Endicott, questa conseguenza della tesi delle fonti di Raz è in contrasto con la convinzione diffusa dei giuristi (ragionevoli) 2 che molti contratti sono indiscutibilmente vincolanti prima che la loro validità venga decisa o stabilita dai giudici. Queste pagine sono state scritte a mo di replica in occasione di un seminario tenuto da Timothy Endicott presso l Università di Palermo. Qui vengono presentate senza alcuna modifica. 1 J. Raz, Legal Reasons, Sources, and Gaps, in Id., The Authority of Law. Essays on Law and Morality, Clarendon Press, Oxford 1979, pp Il «giurista ragionevole» è quel giurista che non è «vittima di nessuna grave confusione filosofica». È interessante sottolineare che Endicott, nella sua «nota sulla metodologia» scrive: «un filosofo [perché filosofo e non teorico?] deve essere in grado di capire i modi in cui la comprensione che le persone hanno di sé possa essere distorta» [p. 6]. In astratto, questa affermazione può essere interpretata in almeno tre modi. (1) Si potrebbe pensare che la comprensione di sé delle persone sia «completamente» distorta. In un caso del genere, il filosofo non afferma che esiste un interpretazione corretta della pratica ma, semplicemente, che la pratica in questione deve essere abbandonata. Ad esempio, questo è ciò che pensa Feuerbach della reli-

2 396 Endicott tenta di «rassicurare» i giuristi (ragionevoli) in due modi. Il primo modo è del tutto interno all analisi raziana. Esso consiste in una spiegazione della tesi delle fonti tesa a mostrare che essa non implica necessariamente che i giudici esercitino discrezionalità ogni volta che le regole giuridiche introducono nel diritto considerazioni morali. Tuttavia, questo «modo» non soddisfa del tutto Endicott. Egli afferma che questa riconsiderazione della tesi delle fonti produce (o, quantomeno, potrebbe produrre) una conclusione altrettanto sorprendente rispetto alla conclusione originaria di Raz. Il secondo modo (peraltro il più importante) si presenta come una critica, anche se parziale, a Raz: la discrezionalità dei giudici non dipende dalla presenza di termini morali nelle regole giuridiche, ma dall elevato grado di vaghezza che caratterizza questi termini. Tuttavia, anche nel caso di termini morali c è «un nucleo di certezza» in cui i giudici non esercitano discrezionalità. Endicott afferma: «Sosterrò che una prescrizione giuridica di ricorrere a considerazioni morali dà discrezionalità ai giudici, ma solo perché le considerazioni morali sono vaghe. Infatti, la vaghezza è l unica fonte importante di discrezionalità giudiziale, se si escludono i margini di discrezionalità esplicitamente concessi e le convenzioni che attribuiscono ai giudici il potere di sviluppare il diritto» [supra, p. 368]. Per esigenze di chiarezza, è opportuno confrontarsi separatamente con queste due linee argomentative del saggio di Endicott. gione, o Marx (e, in una certa misura, il Critical Legal Studies Movement) del diritto. Certamente, questa non è la corretta interpretazione del passo citato. (2) La comprensione di una pratica sociale da parte dei partecipanti può essere distorta rispetto ad un «modello universale» di quella pratica. Questa interpretazione evidentemente implica una qualche versione di oggettivismo etico. (3) Le persone impegnate in una pratica posso intendere la loro pratica in molti modi diversi più o meno convincenti. In questo caso, il filosofo adotta come parametro la prospettiva di quei partecipanti che (dal suo punto di vista) interpretano la loro pratica «nel modo migliore». Ma, in questo caso la prospettiva del filosofo è come sottolinea correttamente Dworkin interna. Cfr. A. Schiavello, Internal point of view: Dworkin a confronto con Hart, in P. Comanducci-R. Guastini (a cura di), Analisi e diritto Ricerche di giurisprudenza analitica, Giappichelli, Torino 1998, pp

3 SU LACUNE E DISCREZIONALITÀ: UNA REPLICA AD ENDICOTT 397 1) Endicott afferma che la «tesi sorprendente» di Raz è meno sorprendente di quanto potrebbe apparire a prima vista. È possibile addurre almeno tre ragioni a sostegno di questa affermazione. (a) L esempio di Raz della condizione in base alla quale «per il diritto i contratti sono validi solo se non sono immorali», non rispecchia in modo corretto la pratica giuridica dei contemporanei sistemi giuridici occidentali. In questi sistemi, il potere legislativo non attribuisce ai giudici il potere di decidere, senza alcun vincolo, quando un contratto è immorale e quando non lo è. La ragione risiede nel fatto che l ideale delle «aspettative protette» per dirla con Dworkin costituisce uno dei principi più importanti dei nostri sistemi giuridici. Di conseguenza, probabilmente non è l intero passo de The Authority of Law citato da Endicott ad essere sorprendente per i giuristi, ma soltanto l esempio eccessivo scelto da Raz. In ogni caso, vi sono altre importanti considerazioni che consentono di spiegare questa «osservazione sorprendente» contenuta nella tesi delle fonti in modo ragionevole per i giuristi. (b) Alla riduzione della discrezionalità dei giudici contribuisce anche il fatto che il diritto è fondamentalmente una pratica sociale. Per quel che rileva in questa sede, ciò significa che le decisioni giudiziali non sono mai in vacuo: esse si fondano su decisioni precedenti e, a loro volta, costituiscono la base di decisioni future. Endicott utilizza l appropriato esempio dei contratti finalizzati alla commissione di un omicidio, i quali sono giuridicamente invalidi non (soltanto) perché sono immorali, ma (anche) perché vi sono precedenti giudiziali che stabiliscono che tali contratti non sono azionabili. Per questa ragione, i «sostenitori» della tesi delle fonti possono affermare che, alla luce di una fonte sociale (per esempio, un precedente vincolante), un contratto finalizzato alla commissione di un omicidio è giuridicamente invalido, eludendo la necessità di ricorrere a considerazioni morali. È appena il caso di rimarcare che da questo punto di vista non vi sono differenze significative tra paesi di common law e paesi di civil law: anche in questi ultimi sistemi giuridici le decisioni precedenti vincolano i giudici in modo stringente, anche se non c è alcuna regola esplicita del «precedente vincolante». È certamente corretto enfatizzare i vincoli imposti sull attività giudiziale dalle decisioni precedenti; tuttavia, questi vincoli non consentono di escludere del tutto il ricorso a considerazioni morali da parte dei giudici, né di eliminare la discrezionalità giudiziale. Il pro-

4 398 blema è che molto spesso i giudici possono individuare precedenti che consentono loro di giustificare qualsiasi decisione. Ciò è conseguenza del fatto a cui a mio avviso Endicott non dedica l attenzione che meriterebbe che la moralità positiva o sociale dei giudici non è un blocco monolitico, ma un insieme di credenze morali tra loro non sempre congruenti. Su questo punto tornerò ancora in seguito. Inoltre, i giudici possono sempre «distinguere», o «spiegare in modo diverso», il caso attuale dal precedente. Per questa ragione, concordo con Neil MacCormick quando afferma che la giustificazione di ogni decisione giudiziale riposa necessariamente su un argomento consequenzialista. In altri termini, i giudici esercitano sempre un certo grado di discrezionalità. L unico modo che io vedo per sfuggire a questa conclusione richiede che si possa distinguere nettamente tra casi facili e casi difficili. Un giudice che si confronta con un caso facile può giustificare la sua decisione per mezzo di un semplice argomento deduttivo; in altre parole, non esercita discrezionalità. Egli avrà discrezionalità solo quando è chiamato a risolvere casi difficili. Sfortunatamente, non è possibile distinguere chiaramente ex ante i casi facili dai casi difficili; quantomeno, ben pochi teorici del diritto contemporanei fanno affidamento su questa possibilità. Endicott certamente non è tra questi. In un saggio precedente egli ha introdotto l espressione «vaghezza di secondo livello» e, più in generale, «vaghezza superiore» proprio per «[ ] descrivere l assenza di confini precisi tra casi chiari e casi limite» 3. A questo proposito, è interessante ricordare che MacCormick distingue tre diverse tipologie di casi facili: (i) casi in cui «[ ] non possono essere sollevati dubbi sulla interpretazione della regola o sulla classificazione dei fatti»; (ii) casi in cui «[ ] nessuno ha pensato a sollevare e ad argomentare un punto che era, in realtà, discutibile» e, infine, (iii) casi in cui «[ ] si è provato ad argomentare in questo modo, ma la corte ha respinto l argomento perché pretestuoso o 3 T.A.O. Endicott, Vagueness and Legal Theory, in «Legal Theory», 3 (1997), pp , citazione p. 39. Incidentalmente, non capisco come Endicott possa argomentare a favore della vaghezza superiore e, al contempo, affermare che «i giudici hanno discrezionalità soltanto nei casi limite di applicazione delle considerazioni morali che il diritto indirizza ai giudici (e ad altri) come guida dell azione» (T.A.O. Endicott, Raz sulle lacune: una tesi sorprendente, supra, p. 390, corsivo aggiunto). Se non è possibile distinguere chiaramente tra casi chiari e casi limite, come possono i giudici esercitare discrezionalità solo nei casi limite?

5 SU LACUNE E DISCREZIONALITÀ: UNA REPLICA AD ENDICOTT 399 stiracchiato». Tuttavia, alla fine di questa nitida classificazione, MacCormick aggiunge che le tipologie (ii) e (iii) si trovano in una zona di penombra e, inoltre, che «[ ] è difficile individuare esempi di (i) per i quali non sia possibile porre la questione se essi non siano effettivamente casi del tipo (ii) o (iii)» 4. A mio avviso, l unica possibile conclusione che può essere tratta da queste osservazioni è che i precedenti giudiziali o, se si preferisce, la moralità positiva dei giudici, possono soltanto arginare la discrezionalità giudiziale e, come conseguenza di ciò, possono accrescere la fiducia dei giuristi circa l identificazione del corretto significato delle regole giuridiche ma non eliminarla. A questo punto, Endicott rimarca correttamente che la common law non è l unica fonte del diritto; in particolare, le leggi possono modificare o riformulare, in modo radicale e veloce, il diritto in numerosi ed importanti aspetti, ed esse possono conseguire questo risultato anche sollecitando considerazioni morali e valutative. Di conseguenza, il prossimo e conclusivo passo per ridurre la sorpresa dei giuristi richiede che si mostri che, anche nel caso della promulgazione di una nuova legge che sollecita considerazioni morali e valutative, vi sono pur sempre dei vincoli che i giudici sono chiamati a rispettare. (c) In questo caso, Endicott adotta una strategia assai simile rispetto a quella scelta per la common law (si veda supra il punto b). The Unfair Contract Terms Act (1977), ad esempio, richiede che le clausole contrattuali siano «ragionevoli». Alla luce della tesi sorprendente di Raz, sembrerebbe che il primo giudice che ha applicato questa legge abbia esercitato discrezionalità; in altre parole, anteriormente alla prima decisione giudiziale, le clausole contrattuali possono essere valide solo prima facie. Endicott ha ragione a sostenere che, per la tesi delle fonti, questa non è una conclusione necessaria. Egli scrive: «Alcune clausole esonerative sono indiscutibilmente ragionevoli; alcune sono indiscutibilmente irragionevoli. Di alcune si può dire sia che sono ragionevoli sia che sono irragionevoli. L effetto della legge del 1977 è stato quello di invalidare al- 4 N. MacCormick, Legal Reasoning and Legal Theory, Clarendon Press, Oxford 1978, pp ; trad. it. Ragionamento giuridico e teoria del diritto, a cura di V. Villa con traduzione e introduzione di A. Schiavello, Giappichelli, Torino 2001.

6 400 cune clausole, di lasciarne alcune immutate, e di produrre la conseguenza suggerita da Raz (cioè, di rendere la validità di una clausola indeterminata e soggetta a determinazione per via giurisdizionale) solo nel caso di una condizione che non è né chiaramente ragionevole, né chiaramente irragionevole. Le condizioni che sono indiscutibilmente ragionevoli sono certamente vincolanti anche immediatamente dopo l approvazione della legge. La legge ha prodotto una buona dose di incertezza, ed il diritto attribuisce ai giudici la discrezionalità per risolvere l incertezza ciononostante, tale legge non ha relegato nel limbo tutte le clausole esonerative» [supra, p. 378]. Raz, comunque, nel recente saggio Intention in Interpretation 5 sembra sottoscrivere la stessa conclusione di Endicott. In breve, egli afferma che esistono delle convenzioni di interpretazione che riducono la discrezionalità dei giudici che sono chiamati ad interpretare requisiti come quello della «ragionevolezza». Neanche le nuove promulgazioni di leggi sono in vacuo (o, per dirla con Endicott, «le nuove leggi non vengono fuori dal nulla»): ad esempio, un giudice può interpretare la legge del 1977 guardando alle leggi precedenti in cui ricorreva il requisito della ragionevolezza. In questo modo, è possibile affermare che alcune clausole contrattuali fossero indiscutibilmente vincolanti per il diritto immediatamente dopo la promulgazione del 1977, e anteriormente alla prima decisione giudiziale, senza per questo contraddire la tesi delle fonti. Solo nel caso di leggi «rivoluzionarie» 6 che contengono termini morali, i giudici sono chiamati a fare appello alle loro proprie considerazioni morali. Endicott considera questa conclusione altrettanto sorprendente della conclusione originaria di Raz. Egli afferma: «Se le leggi stabiliscono quello che la loro formulazione significa alla luce delle convenzioni della cultura giuridica, allora sembra che ogni tentativo della legislazione di rimandare a considerazioni morali si riduce a nulla più di una richiesta ai 5 J. Raz, Intention in Interpretation, in R.P. George (ed.), The Autonomy of Law. Essays on Legal Positivism, Clarendon Press, Oxford 1996, p Una legge è «rivoluzionaria» quando modifica in modo considerevole una branca del diritto di un paese.

7 SU LACUNE E DISCREZIONALITÀ: UNA REPLICA AD ENDICOTT 401 giudici di dare corso alla loro moralità positiva» [supra, p. 380]. In breve, se ogni tentativo del potere legislativo di sollecitare considerazioni morali viene interpretato come una richiesta affinché i giudici applichino la loro moralità positiva, allora «la validità dei contratti (o di qualunque altra cosa) non dipenderà mai da considerazioni morali». Concordo con Endicott che questa conclusione sarebbe sorprendente, ma non ritengo che sia la conclusione corretta. Le ragioni sono più o meno le stesse di quelle che ho presentato al punto (b), supra. La moralità positiva dei giudici (o la loro cultura giuridica) può essere intesa ed interpretata in molti modi differenti; ciò significa che ogniqualvolta i giudici si rifanno alla loro moralità positiva, in effetti fanno appello ad una determinata versione (o concezione) di essa, e la loro scelta presuppone il ricorso a considerazioni morali. Dunque, la mia conclusione è che la cultura giuridica può essere in qualche modo considerata come una cornice (sfortunatamente, senza confini precisi) in cui sono contenute tutte quelle considerazioni morali che sono giustificabili da un punto di vista giuridico. Tuttavia, se questo è vero, è altresì vero che quando i giudici prendono una decisione sulla base delle loro considerazioni morali, essi esercitano (quantomeno in una certa misura) discrezionalità. (2) Il secondo argomento di Endicott si compone di due passaggi: (i) talvolta i giudici sono chiamati ad agire sulla base di genuine considerazioni morali; (ii) ciò non significa necessariamente che essi debbano esercitare discrezionalità. In relazione ad (i) Endicott scrive: «Le convenzioni che interessano una legge formulata in termini morali sono convenzioni di interpretazione (cioè, modi per decidere quale significato attribuire alla legge), non convenzioni morali. [ ] Questa importante distinzione porta con sé due conseguenze: in primo luogo, queste convenzioni, intese come una tecnica per determinare l effetto di una legge sul diritto, possono essere radicalmente incomplete. [ ] In secondo luogo, non è affatto inconcepibile, e può essere frequente, che le tecniche di interpretazione dei giudici richiedano loro di con-

8 402 siderare l inserimento di termini morali nelle leggi come una richiesta nei loro confronti di agire direttamente sulla base di considerazioni morali, piuttosto che di dare effetto alla moralità positiva loro propria» [supra, p. 382]. La distinzione tra «convenzioni di interpretazione» e «convenzioni morali» è importante nel limite in cui la moralità positiva dei giudici è considerata una sorta di fonte sociale. Al contrario, se ho ragione nel sostenere che il ricorso dei giudici alla loro moralità positiva non è in grado di sostituire il ricorso a considerazioni morali (si vedano i punti (b) e (c,) supra), allora questa distinzione non è particolarmente rilevante al fine di argomentare a favore del ruolo delle «considerazioni morali genuine» nella determinazione del diritto. Riguardo a (ii) c è ben poco da dire. Infatti, all inizio del suo saggio Endicott precisa che in questa sede non difenderà la sua tesi secondo cui «[ ] il diritto attribuisce discrezionalità ai giudici quando rimanda a considerazioni morali, ma solo perché (e nel limite in cui) queste considerazioni sono vaghe» [supra, p. 369]. A partire da questo postulato, Endicott afferma che per quanto la tesi delle fonti implichi che una normativa che richiede ai giudici di porre in essere considerazioni morali crea una lacuna nel diritto, ciò non attribuisce ai giudici discrezionalità in tutti i casi sussumibili sotto tale normativa. Questa affermazione non mi è del tutto chiara. Essa presuppone che si abbandoni la definizione tradizionale (e raziana) di lacuna. Secondo Raz, «c è una lacuna nel diritto quando una questione giuridica non presenta una soluzione completa» 7. In modo simile, Norberto Bobbio afferma che c è una lacuna ogniqualvolta un giudice non può decidere un caso per mezzo di una regola giuridica 8. Riccardo Guastini sostiene più o meno lo stesso: «[ ] un insieme di norme rivela una lacuna ogniqualvolta si presenti una fattispecie concreta per la quale nessuna norma dell insieme preveda una conseguenza giuridica qualsivoglia» 9. 7 Raz, Legal Reasons, Sources, and Gaps, cit., p Cfr. N. Bobbio, Teoria dell ordinamento giuridico, Giappichelli, Torino 1960, rist. come parte II di N. Bobbio, Teoria generale del diritto, Giappichelli, Torino 1993, pp. 237 e ss. 9 R. Guastini, Teoria e dogmatica delle fonti, Giuffrè, Milano, 1998, p In realtà, la definizione raziana di lacuna è più ampia di e parzialmente differente da quella proposta da Bobbio e Guastini. Tuttavia, tutte queste definizioni condividono l idea di una connessione necessaria tra lacune e discrezionalità.

9 SU LACUNE E DISCREZIONALITÀ: UNA REPLICA AD ENDICOTT 403 Endicott rifiuta questa definizione tradizionale perché essa «[ ] collega necessariamente le lacune alla discrezionalità giudiziale» [supra, p. 385, nota 16]. Di conseguenza, egli propone di definire le lacune in modo differente: «si hanno lacune nel diritto nella misura in cui vi sono questioni di diritto a cui il diritto non offre risposta» [supra, p. 384]. Si tratta di una definizione stipulativa e, come ogni definizione stipulativa, non è né giusta né sbagliata. Tuttavia, perché confondere il giurista ragionevole? Non ritengo, peraltro, che cambiare la definizione di lacuna sia la via da seguire per dimostrare l assenza di una connessione necessaria tra lacune e discrezionalità. Infine, l esempio di lacuna presentato da Endicott non è molto convincente (a dire il vero, la mia attenzione su questo esempio è stata richiamata da tre punti interrogativi posti al suo fianco dallo stesso Endicott nella copia del saggio che mi ha inviato). Attraverso questo esempio, Endicott si propone di suffragare la tesi che una lacuna non implica la discrezionalità giudiziale. Se compro un automobile usata, il prezzo di questa automobile non è fissato dal diritto. Il diritto afferma soltanto che ho un obbligazione giuridica di pagare il prezzo previsto dall accordo. Secondo la definizione di lacuna di Endicott, in questo caso c è una lacuna; infatti, il venditore e l acquirente devono operare una scelta (per es., stabilire il prezzo) 10. A dispetto di ciò, in questo caso non c è alcuna discrezionalità giudiziale: non è il giudice che deve stabilire il prezzo! Ritengo che questo esempio chiarisca perché debba essere preferita la definizione tradizionale di lacuna: se si accetta la definizione di Endicott è molto difficile immaginare una questione giuridica che non presenti alcuna lacuna. È altresì opportuno richiamare l attenzione sulla «vaghezza» della definizione di lacuna proposta da Endicott. Che cosa significa che «il diritto» non offre risposte per «una questione di diritto»? Tornando all esempio, è possibile sostenere che il diritto offra una soluzione relativamente al problema del prezzo dell automobile: i contraenti possono stabilire il prezzo che preferiscono in quanto il diritto, esplicitamente o implicitamente, attribuisce loro questo potere. 10 Probabilmente, alla luce della definizione di Endicott qui c è più di una lacuna; ad esempio, il diritto non dice se il contratto deve essere firmato con inchiostro blu o nero, o se i contraenti debbono essere vestiti in modo elegante

10 404 Ho già manifestato la mia preferenza per la definizione tradizionale di lacuna, che collega le lacune e la discrezionalità giudiziale. Tuttavia, la corrispondenza tra lacune e discrezionalità giudiziale non è biunivoca: ogniqualvolta c è una lacuna i giudici esercitano discrezionalità, ma non è detto che ogniqualvolta i giudici esercitano discrezionalità vi sia una lacuna 11. Endicott definisce la discrezionalità come «[ ] il potere di prendere una decisione, senza essere vincolati a pervenire ad un determinato risultato» [supra, p. 385]. Egli aggiunge, correttamente, che vi sono diversi gradi di discrezionalità. Dworkin, come è ben noto, distingue tre differenti significati di discrezionalità. Si esercita discrezionalità (in senso debole) se si agisce seguendo determinati criteri che non possono essere applicati in modo meccanico. Anche chi deve prendere una decisione definitiva o finale esercita discrezionalità (in senso debole). Infine, chi deve agire o decidere senza essere vincolato da nessuno criterio esercita discrezionalità (in senso forte). Secondo Dworkin, i giudici non esercitano mai discrezionalità in senso forte, anche se essi hanno sempre un certo grado di discrezionalità. In altre parole, ciò significa che i giudici non hanno mai la possibilità di fare ciò che vogliono ma, al tempo stesso, come sottolineano anche Coleman e Leiter, l oggettività di una decisione giudiziale non è «platonica», ma «modesta» 12. In breve, anche se non c è «un unica risposta giusta», c è un unico modo corretto per decidere un caso giudiziale. Come ho già detto, Endicott accetta la tesi secondo cui esistono diversi gradi di discrezionalità, ma egli espressamente non condivide la tesi secondo cui i giudici esercitano immancabilmente una discrezionalità debole. Più precisamente, a me sembra che talvolta Endicott indulga ad una semplificazione eccessiva del compito dei giudici: nel decidere i casi facili, i giudici non esercitano discrezionalità, mentre essi esercitano discrezionalità (in senso forte) quando decidono i casi difficili. Usando le categorie di Dworkin, Endicott potrebbe essere 11 Tradizionalmente, i teorici del diritto ed i giuristi affermano che quando c è una lacuna bisogna ricorrere al ragionamento analogico o a quello basato su principi; comunque, non è necessario approfondire questo argomento in questa sede. 12 Cfr. J.L. Coleman-B. Leiter, Determinacy, Objectivity, and Authority, in A. Marmor (ed.), Law and Interpretation. Essays in Legal Philosophy, Clarendon Press, Oxford 1995, pp

11 SU LACUNE E DISCREZIONALITÀ: UNA REPLICA AD ENDICOTT 405 considerato, quantomeno da questo punto di vista, un convenzionalista. Endicott, quindi, seguendo le orme di Hart 13, deve ridurre la zona di penombra in cui i giudici esercitano discrezionalità. Ad esempio, quando affronta il tema della discrezionalità collegata alla vaghezza del diritto, egli afferma che «[ ] di solito non si hanno chiari casi limite. Di conseguenza, può darsi che non si abbiano casi in cui un giudice abbia chiaramente discrezionalità» [supra, p. 390]. Tuttavia, cambiando la prospettiva, ritengo che sia anche possibile affermare, proprio per la stessa ragione sottolineata da Endicott, che non si abbiano mai casi in cui un giudice non abbia chiaramente discrezionalità. Se ciò è vero, la conclusione di Endicott che «i giudici hanno discrezionalità soltanto nei casi limite di applicazione delle considerazioni morali che il diritto indirizza ai giudici (e ad altri) come guida dell azione» [supra, p. 390], è falsa. 13 Cfr. T.A.O. Endicott, Linguistic Indeterminacy, in «Oxford Journal of Legal Studies», 16 (1996), n. 4, pp

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