Attenzione agli antipsicotici negli anziani: aumentano il rischio di IMA

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1 Attenzione agli antipsicotici negli anziani: aumentano il rischio di IMA L uso di AP (farmaci antipsicotici) è associato ad un aumentato rischio di IMA (infarto miocardico acuto) tra i pazienti residenti in comunità di anziani trattati con inibitori della colinesterasi. Queste sono le conclusioni a cui sono giunti il dott. Antoine Pariente ed i suoi colleghi che hanno voluto valutare l'associazione tra uso AP ed il rischio di IMA in pazienti trattati con inibitori della colinesterasi, poiche gli AP sono comunemente prescritti a pazienti anziani affetti da demenza. Sono stati utilizzati i dati ottenuti dalla banca dati del Quebec. Da questa coorte di pazienti anziani in trattamento con inibitore della colinesterasi osservati tra il 1 gennaio 2000 e il 31 dicembre 2009, tutti i nuovi utilizzatori di AP sono stati confrontati con un campione casuale di controlli, ossia pazienti che non utilizzavano gli AP. Il rischio di IMA è stato valutato utilizzando modelli proporzionali di Cox, aggiustato per età, sesso, fattori di rischio cardiovascolare, l'uso di farmaci psicotropi e propensity score. Di soggetti in terapia con inibitori della colinesterasi, (29,5%) iniziavano la terapia con AP. Dai risultati ottenuti è emerso che entro il 1 anno di trattamento con AP l 1,3% di loro ha avuto un IMA. Gli Hazard ratio per il rischio di IMA dopo l'inizio del trattamento con AP sono stati 2,19 (95% CI, 1,11-4,32) per i primi 30 giorni, 1,62 (95% CI, 0,99-2,65) per i primi 60 giorni, 1,36 (95% CI, 0,89-2,08) per i primi 90 giorni, e 1,15 (95% CI, 0,89-1,47) per i primi 365 giorni. Possiamo quindi concludere che l uso di AP è associato ad un aumento modesto e limitato nel tempo del rischio di IMA tra i pazienti residenti in comunità di anziani trattati con inibitori della colinesterasi. (Arch Intern Med. Published online March 26, doi: /archinternmed ) Frequenza cardiaca in pazienti affetti da malattia coronarica: quale beta bloccante? La frequenza cardiaca a riposo (FCR) viene considerata un fattore di rischio indipendente per eventi cardiovascolari. In questo ambito, i beta bloccanti (BBs) rappresentano un utile ausilio nel trattamento di pazienti affetti da malattia coronarica (CAD), in cui il beneficio è strettamente correlato alla riduzione della frequenza cardiaca. In tale contesto, dobbiamo considerare i beta bloccanti tutti uguali tra loro? Per chiarire questo dubbio, in un recente studio osservazionale multicentrico sono stati valutati circa pazienti (età media 67,4 anni, di cui 75,9% maschi) affetti da CAD. In tutti i pazienti, si è proceduto alla valutazione della storia clinica, dei fattori di rischio e della terapia farmacologia assunta. Un buon controllo della FCR è stato definito come la presenza di valori inferiori a 70 battiti per minuto (bpm). Una FCR significativamente più bassa è stata osservata nei pazienti trattati con un BBs rispetto agli altri (67,2 vs 73,0 bpm, p<0.01). Soltanto i pazienti in terapia con atenololo, bisoprololo e metoprololo, tuttavia, mostravano valori di FCR significativamente inferiori rispetto a quelli dei pazienti che non assumevano BBs. In conclusione, la terapia con BBs è più efficace nel controllare la FCR in pazienti con CAD. L atenololo, il bisoprololo ed il metoprololo hanno dimostrato di avere un maggior effetto bradicardizzante. (Clin Cardiol 2011 Dec; 34 (12): )

2 Statine dopo il primo ictus: riducono le recidive e migliorano la sopravvivenza... follow up a 6 anni! La terapia con statine nei pazienti con primo ictus acuto riduce il rischio a 6 anni di recidiva di ictus e migliora la sopravvivenza in una coorte di persone anziane dell'area mediterranea. Queste sono le conclusioni a cui sono giunti il dott A. Sicras-Mainar ed i suoi colleghi che si sono posti l'obiettivo di determinare se la terapia con statine in pazienti con primo episodio di ictus riducesse l'incidenza a 6 anni di recidiva di ictus fatale o non fatale e la mortalità per qualsiasi causa in una popolazione mediterranea anziana, che non avesse malattia coronarica nota e che fosse seguita di routine nella pratica medica. I ricercatori per questo studio retrospettivo hanno utilizzato i dati relativi a morte, ospedalizzazione per stroke e storia di terapia con statine presenti nel database BSA (Badalona Serveis Assistencials), che comprendeva una coorte di pazienti consecutivi presentanti un primissimo episodio acuto di ictus tra il mese di gennaio 2003 ed il mese di dicembre In questa coorte sono state calcolate la percentuale di recidiva (PR) e di incidenza (PI) di ictus fatale/non fatale e la mortalità per tutte le cause. L associazione con la terapia con statine è stata valutata mediante il calcolo del rischio relativo (RR) e dell hazard ratio (HR), utilizzando un analisi di regressione logistica multivariata ed i modelli proporzionali di Cox di controllo per le covariate confondenti. Dallo studio è emerso che in una serie di 601 pazienti consecutivi [57% uomini, 75,9 (12,4) anni (88% >60 anni)], il 32% aveva ricevuto statine e questi pazienti erano risultati associati con una minore PR di ictus fatale/non fatale, 7% contro il 18% [RR regolato = 0,32 (CI: ), P=0.001] e una più bassa IR; 16,78 vs 45,22 eventi/anno per soggetti [HR aggiustato = 0.35 ( ), P=0,001]. Inoltre, è stato osservato che la mortalità per tutte le cause è stata inferiore nella coorte che riceveva statine: 11% vs 16% [RR regolato = 0,29 (CI: ), P=0,072] e anche la percentuale di incidenza di morte: vs 36,25 morti/anno per soggetti [HR aggiustato = 0.23 ( ), P=0,007]. (Journal of Clinical Pharmacy and Therapeutics DOI: /j x) Troponina I e NT-proBNP nella fibrillazione atriale: utili predittori di rischio cardiovascolare I biomarcatori cardiaci sono forti predittori di esiti avversi in diverse popolazioni di pazienti. In questo studio sono stati valutati la prevalenza di elevata troponina I e la frazione N-terminale del pro-peptide natriuretico di tipo B (NT-proBNP) e la loro associazione ad eventi cardiovascolari in pazienti con fibrillazione atriale (FA) partecipanti al Randomized Evaluation of Long-Term Anticoagulation Therapy (RE-LY) trial. Al momento della randomizzazione, i biomarcatori sono stati analizzati in pazienti. I risultati sono stati valutati mediante modelli proporzionali di Cox corretti per i fattori di rischio cardiovascolare e per i punteggi della CHADS2 e della CHA2DS2- Vasc. I pazienti sono stati stratificati sulla base delle concentrazioni di troponina I (<0,010 mg/l, n=2.663; 0,010-0,019 mg L, n=2.006;,020-0,039 mg/l, n=1.023; 0,040 mg/l, n=497) e per i quartili di concentrazione di NT-proBNP (<387, , ;> ng/l). I tassi di ictus sono risultati indipendentemente correlati ai livelli di troponina I risultando nello 2,09%/anno nel gruppo con valori più elevati e 0,84%/anno nel gruppo con valori minori di troponina I (hazard ratio [HR], 1,99 [95% CI, 1,17-3,39], P=0,0040), e di NT-proBNP con il 2,30%/anno vs 0,92% tra il quartile con valori più elevati e il quartile con valori più bassi di NT-proBNP (HR, 2,40 [95% CI, 1,41-4,07], p=0,0014). Inoltre, anche la mortalità vascolare è risultata indipendentemente correlata ai livelli di biomarcatori con il 6,56% anno nel gruppo a troponina I più elevata e 1,04%/anno ne gruppo a troponina I più bassa (HR, 4,38 [95% CI, 3,05-6,29], p<0,0001), e 5.00%/anno nel qurtile con NT-proBNP più elevato e 0,61%/anno nel quartile a NT-proBNP più basso (HR, 6,73 [3,95-11,49], p<0,0001). In conclusione, l aumento di troponina I e NT-proBNP sono comuni nei pazienti con fibrillazione atriale e indipendentemente correlati a maggior rischio di ictus e di mortalità,

3 mostrando un utilità nella previsione del rischio cardiovascolare nei pazienti con FA oltre quello attualmente utilizzato in clinica. (Circulation 2012; 125: ) Parametri diastolici ecocardiografici e fibrillazione atriale La fibrillazione atriale (AF) è la più comune aritmia sostenuta negli anziani, e condivide diversi fattori di rischio con la disfunzione diastolica, tra cui l'ipertensione e l'età avanzata. Lo scopo di questo studio è stato quello di esaminare la disfunzione diastolica come un fattore di rischio per la fibrillazione atriale incidente. È stata esaminata l'associazione dei parametri ecocardiografici di funzione diastolica con l'incidenza di fibrillazione atriale in partecipanti iscritti al Cardiovascular Health Study, una coorte in continuo di residenti adulti divisi per gruppi di età da quattro centri degli Stati Uniti. I partecipanti sono stati sottoposti ad ecocardiografia al basale nel e sono stati seguiti per FA incidente con follow-up di routine e per ospedalizzazioni. Dopo anni-persona di follow-up (mediana di follow-up 12,1 anni), partecipanti hanno sviluppato fibrillazione atriale. In modelli di Cox d analisi multivariata aggiustati per categorie di età, i parametri ecocardiografici diastolici sono risultati significativamente associati con il rischio di incidente FA. I parametri più significativi sono stati le velocità Doppler di picco dell'onda E e del diametro atriale sinistro, che ha dimostrato una associazione positiva lineare [HR 1.5 (CI 1,3-1,9) e HR 1,7 (CI 1,4-2,1) per il quintile più alto vs basso, rispettivamente], e la velocità A-Doppler delle onde nel tempo, che ha mostrato un rapporto a forma di U con il rischio di fibrillazione atriale [HR 0.7 (CI 0,6-0,9) tra i quintili medio vs basso]. Ogni parametro di funzione diastolica ha mostrato una significativa associazione con adeguati livelli di NT-proBNP, anche se la natura dell'associazione non è significativamente associata il rischio di fibrillazione atriale. L'analisi dei cluster ha inoltre rivelato modelli unici di funzione diastolica che possono identificare i pazienti a rischio di fibrillazione atriale. (European Heart Journal Volume 33, Issue 7Pp ) BPCO: una condizione peggiorativa nei pazienti con scompenso... e i beta bloccanti sono trascurati Il setting è: pazienti con scompenso cardiaco (HF) in comunità che hanno concomitante malattia cronica ostruttiva (BPCO). I pazienti sono 783 con disfunzione sistolica ventricolare sinistra sotto la cura di un infermiere regionale. Di questi, 101 pazienti (12,9%) hanno avuto una diagnosi di BPCO. Il 94% dei pazienti sono stati trattati con diuretici dell'ansa, l'83% con gli inibitori dell'enzima di conversione dell'angiotensina, il 74% con beta bloccanti, il 10,6% con broncodilatatori e 42% con antagonisti dell'aldosterone. L'età media dei pazienti è stata di 77,9 ± 5,7 anni, il 43% era di sesso femminile e la media della classe New York Heart Association è stata del 2,3 ± 0,6. Il follow-up è stata di 28,2 ± 2,9 mesi. L'utilizzo dei β-bloccanti è stato significativamente inferiore nei pazienti trattati con broncodilatatori rispetto a quelli che non li assumevano (complessivamente 21,7% vs 81%, P<0,001). A 24 mesi la sopravvivenza è stata del 93% nei pazienti con scompenso cardiaco da solo e 89% in quelli con entrambe le comorbidità (p = non significativo). La presenza di BPCO è stata associata ad un aumentato rischio di ospedalizzazione per HF [hazard ratio (HR): 1.5, 95% CI: 1,4-2,1, p<0.001] e di eventi avversi cardiovascolari maggiori (HR: 1,23, 95% CI: p<0,001). In conclusione, la BPCO è una comune comorbilità nei pazienti con scompenso cardiaco nel setting ambulatoriale ed è una potente predittrice di cattiva prognosi. Essa, tuttavia, non sembra influenzare la mortalità a breve termine. L'uso concomitante di broncodilatatori è il principale motivo di mancato o di sottoutilizzo di beta bloccanti.

4 (World J Cardiol Mar 26;4(3):66-71) Metanalisi sulla colchicina: sicura ed efficace nella prevenzione primaria e secondaria della pericardite Le evidenze disponibili suggeriscono che la colchicina è sicura ed efficace per la prevenzione primaria e secondaria della pericardite. Queste sono le conclusioni a cui sono giunti il dott. Massimo Imazio (Maria Vittoria Hospital di Torino) ed i suoi colleghi che si sono proposti di valutare l'efficacia e la sicurezza della colchicina per la prevenzione della pericardite, obiettivo importante, che apporterebbe una riduzione della morbilità e dei costi di gestione. Finora, anche se empirica, la terapia antinfiammatoria è considerata il trattamento cardine e nessun farmaco specifico ha dimostrato di essere efficace per la prevenzione. A tale scopo i ricercatori hanno condotto questa metanalisi che, da un campione di 127 studi, ne ha inclusi cinque, clinici e controllati, comprensivi di 795 pazienti: tre studi erano studi randomizzati in doppio cieco e controllati, mentre due studi erano open-label, randomizzati e controllati. Il follow-up dei pazienti era in media di 13 mesi. Dall analisi dei dati ottenuti i ricercatori hanno dimostrato che l'uso della colchicina era associata ad un ridotto rischio di pericardite durante il follow-up (RR = 0,40, IC 95% 0,30-0,54, p per effetto <0.001, p per eterogeneità = 0.95, I2 = 0%) in prevenzione primaria o secondaria, senza un rischio significativamente superiore di eventi avversi rispetto al placebo (RR = 1.22, 95% CI 0,71-2,10, p per effetto 0,48, P per eterogeneità = 0,44, I2 = 0%), ma maggior numero di casi di sospensione di farmaco (RR = 1,85, IC 95% 1,04-3,29, p per effetto 0,04, P per eterogeneità = 0,42, I2 = 0%). Inoltre, l intolleranza gastrointestinale ha rappresentato l'effetto collaterale più frequente (in media l'8% di incidenza), ma gli eventi avversi registrati sono stati non gravi. (Heart doi: /heartjnl ) La diagnosi di cancro aumenta suicidio e morte cardiovascolare Dai dati riportati da questa ricerca, sembra infatti che dopo aver ricevuto una diagnosi di cancro, i pazienti hanno presentato un aumentato rischio di suicidio e di morte cardiovascolare. Questi risultati, pubblicati sul New England Journal of Medicine, sono il frutto di un ampio studio di coorte in cui i ricercatori hanno scelto di concentrarsi sul periodo immediatamente dopo una diagnosi di cancro al fine di indagare le gravi conseguenze dello stress psicologico indotto da tale informazione. Il dott. Fang Fang (Karolinska Institute di Stoccolma, Svezia) e il suo team hanno identificato pazienti che avevano ricevuto una prima diagnosi di cancro nel periodo di studio, compreso tra il 1991 ed il Tra tutti i pazienti inclusi: avevano diagnosi di cancro alla prostata, di cancro al seno, di cancro del colon-retto, di melanoma o un altro cancro della pelle, di cancro di natura linfatica o tumore ematopoietico, di cancro ai polmoni, e con tumori del sistema nervoso centrale. Oltre a queste forme comuni di cancro, sono stati raggruppati anche pazienti a cui era stato diagnosticato un tumore altamente fatale (per esempio, dell'esofago, del fegato e del pancreas). Dai risultati dello studio è stato evidenziato che, rispetto a individui privi di tumore, il RR (rischio relativo) di suicidio tra i pazienti che avevano ricevuto una diagnosi di cancro era 12,6 (29 pazienti) durante la prima settimana post diagnosi, e 3,1 (260 pazienti) durante il primo anno. Il più alto rischio relativo è stato osservato per i tumori dell'esofago, del fegato e del pancreas, che sono i tipi più mortali di cancro. Mentre il RR di morte cardiovascolare dopo la diagnosi è stato del 5,6 durante la prima settimana (1.318 pazienti) e 3,3 durante le prime 4 settimane (2.641 pazienti). Inoltre, Fang e colleghi affermano che, poiché il maggior rischio di suicidio e morte per cause cardiovascolari è stato trovato in pazienti con tumori altamente mortali, e il più piccolo rischio è stato osservato per la

5 diagnosi di cancro della pelle, questo riflette probabilmente vari gradi di stress psicologico in relazione ai diversi tipi di cancro che sono stati diagnosticati. (NEJM 2012; 366: ) Ictus criptogenetico e forame ovale pervio La prevalenza di forame ovale pervio nei pazienti con ictus criptogenetico è superiore a quella della popolazione generale. La chiusura del forame con un dispositivo percutaneo è spesso raccomandata in tali pazienti, ma non è noto se questo intervento riduca realmente il rischio di recidive di ictus. È stato condotto uno studio multicentrico, randomizzato, open-label tra la chiusura percutanea del forame rispetto alla sola terapia medica in pazienti tra 18 e 60 anni che avevano presentato un ictus criptogenetica o un attacco ischemico transitorio (TIA) e avevano un forame ovale pervio. L'end point primario composito valutava la recidiva di ictus o di attacco ischemico transitorio durante 2 anni di follow-up, la morte per qualsiasi causa durante i primi 30 giorni o la morte per cause neurologiche tra 31 giorni e 2 anni. Lo studio ha arruolato un totale di 909 pazienti. L'incidenza cumulativa dell'end point primario è stata del 5,5% nel gruppo di chiusura del forame pervio (447 pazienti) rispetto al 6,8% nel gruppo di terapia medica (462 pazienti) (hazard ratio aggiustato, 0,78, 95% di confidenza intervallo 0,45-1,35, p=0,37). I rispettivi tassi erano 2,9% e 3,1% per l'ictus (p=0,79) e il 3,1% e 4,1% per TIA (P=0,44). Nessun decesso si è verificato nei primi 30 giorni in entrambi i gruppi e non ci sono stati decessi per cause neurologiche nel corso de 2 anni di followup. Nei pazienti con ictus criptogenetico o TIA e con un forame ovale pervio, la chiusura percutanea del forame stesso non ha offerto un maggiore beneficio rispetto la sola terapia medica per la prevenzione delle recidive di ictus o TIA. (N Engl J Med 2012; 366: March 15, 2012) Studio ASCERT: miglior sopravvivenza nei pazienti sottoposti a CABG vs PCI Che l'eterna diatriba continui!! Meglio CABG o PCI nei pazienti multivasali? Tanti studi e numeri ci dicono di procedere con la rivascolarizzazione chirurgica ma, in barba alle evidenze, ecco sempre più multivasali trattati con multiple PCI. Ecco qui lo studio ASCERT (Survival after PCI or CABG in older patients with stable Multivessel Coronary Disease: Comparative Effectiveness of Revascularization Strategies), che ha coinvolto oltre pazienti con una analisi finale composta da pazienti trattati con PCI e trattati con CABG. I pazienti erano tutti multivasali (2 o 3 vasi). I risultati sono stati schiaccianti a favore della rivascolarizzazione chirurgica (follow up a 4 anni), già a partire dal primo anno di follow up e con curve di sopravvivenza che via via sono diventate sempre più divergenti a favore dell'approccio mediante CABG (a 4 anni: mortalità gruppo PCI 20.9% vs 16.0% gruppo CABG: RR: 0.76: IC ). Il Dott. Weintraub, durante l'esposizione dello studio davanti ad un'aula gremita, ha sottolineato i limiti di questo studio che, benchè così ampio dal punto di vista numerico, rimane uno studio di tipo osservazionale. (American College of Cardiology Congress 2012, Chicago) Eventi cardiovascolari avversi ed angina stabile a coronarie indenni I pazienti con dolore toracico e nessuna malattia ostruttiva coronarica (CAD) sono considerati a basso rischio di eventi cardiovascolari, ma le prove a sostegno di questa asserzione sono scarse. Sono state studiate le implicazioni prognostiche di angina pectoris stabile in relazione alla presenza ed il grado di CAD senza condizione di ostruzione. Sono stati identificati pazienti sottoposti ad angiografia coronarica (CAG) nel periodo con angina pectoris stabile e 5.705

6 partecipanti del Copenhagen City Heart Study per il confronto. Le principali misure di outcome erano eventi avversi cardiovascolari maggiori (MACE), definiti come morte cardiovascolare, infarto miocardico, ictus o insufficienza cardiaca e mortalità per qualsiasi causa. Le donne avevano un rischio significativamente più alto (65%) rispetto agli uomini (32%) anche se non presentavano CAD ostruttiva (P <0,001). Nei modelli di Cox aggiustati per età, indice di massa corporea, diabete, fumo, e l'uso di farmaci ipolipemizzanti o terapia antipertensiva, l hazard ratio (HR) associato a CAD non ostruttiva erano simili negli uomini e nelle donne. Nell'analisi aggregata, il rischio di MACE è aumentato con diversi gradi di CAD con analisi multivariata e dati aggiustati per HR di 1,52 (intervallo di confidenza 95%, 1,27-1,83) per i pazienti con coronarie normali e 1,85 (1,51-2,28) per i pazienti con CAD non-ostruttiva diffusa rispetto alla popolazione di riferimento. La mortalità per qualsiasi causa, arterie coronarie normali e CAD diffusa non-ostruttiva sono state associate con HR di 1,29 (1,07-1,56) e 1,52 (1,24-1,88), rispettivamente. (European Heart Journal Volume 33, Issue 6Pp ) Ore trascorse seduti correlate alla mortalità generale Il mantenimento protratto della posizione seduta rappresenta un fattore di rischio per la mortalità generale, indipendentemente dallo svolgimento di attività fisica. I programmi di salute pubblica dovrebbero focalizzarsi sulla riduzione del tempo passato stando seduti oltre che sull'aumento dei livelli di attività fisica. È la conclusione tratta da uno studio effettuato da Hidde P. van der Ploeg, della Scuola di Salute pubblica dell'università di Sydney, e collaboratori, basandosi sui dati prospettici di individui di età pari o superiore a 45 anni ottenuti tramite questionari, collegati ai dati di mortalità del New South Wales registry. Nel corso di un follow-up pari a annipersona (follow-up medio: 2,8 anni), si sono rilevati decessi. L'hazard ratio per mortalità generale è risultato variabile, a seconda delle ore al giorno passate stando seduti: 1,02 tra 4 e 8, 1,15 tra 8 e 11, 1,40 per 11 e oltre, in tutti e tre i casi rispetto a meno di 4 ore, dopo aggiustamento per attività fisica e altri fattori confondenti. L'associazione tra la posizione seduta e la mortalità generale è risultata costante tra sessi, gruppi di età, categorie di body mass index, livelli di attività fisica, e nei partecipanti sani rispetto a quelli con preesistenti malattie cardiovascolari o diabete mellito. (Arch Intern Med, 2012; 172(6): )

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