Intervista a Simone Vender



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Transcript:

Intervista a Simone Vender MARIO ROSSI MONTI Il primo tema che volevo proporti è questo: non c è dubbio che per buona parte del 900 i contributi della psicoanalisi abbiano avuto grande influenza sulla psichiatria comunitaria o dei Servizi. Questo è stato particolarmente evidente nella psichiatria statunitense ma anche in Italia dove la cultura psicoanalitica ha permeato larga parte dei Servizi di psichiatria. Come valuteresti oggi, con uno sguardo retrospettivo, quella fase di grande fortuna e diffusione (e anche di grande speranza) nell applicazione di una psicoanalisi «senza divano» alla psichiatria? Rispondo a questa domanda facendo riferimento direttamente alla mia esperienza personale. Ho maturato questa idea: il grande successo avuto dalla psicoanalisi in quegli anni era legato alla forte contrapposizione con l istituzione manicomiale custodialistica e al fatto che la psicoanalisi aveva portato una forte ventata di innovazione e interesse per la persona e in particolare per la storia delle persone. In questo modo, al di là dell aspetto più strettamente tecnico, la psicoanalisi ha rotto quella sorta di cliché che riguardava le persone malate di mente, introducendo però anche importanti riferimenti di carattere teorico. In un epoca nella quale dominava un forte riduzionismo, non solo biologico, ma di tipo sociale per cui buona parte della sofferenza era ridotta alla sua unica dimensione sociale, era importante disporre di un punto di appoggio teorico per comprenderla meglio. La psicoanalisi e la psicoterapia si sono configurate come punti di riferimento e orientamento forti. Io a un certo punto, dopo essere stato a Gorizia e aver vissuto l esperienza con Basaglia negli ultimi anni universitari, ho proseguito gli studi con De Martis a Pavia. Avevo fatto una tesi sulla chiusura dell Ospedale Psichiatrico e in generale sul superamento dei manicomi e volevo capire un po meglio come stavano le cose. Sentivo che l aspetto esclusivamente sociale fosse un po troppo riduttivo e quindi avevo interesse a conoscere e a approfondire di più. Così mi sono trovato a contatto con Dario De Martis e Fausto Petrella a Pavia e mi sono inserito in quel contesto. Il successo di allora della psicoanalisi credo sia legato al fatto che nella instabilità dell incontro con il paziente psichiatrico grave, la psicoanalisi abbia saputo porsi come un importante punto di riferimento capace di dare stabilità, avviare ricerca e innovazione. Il fallimento che è poi seguito è consistito nel fatto che tutti questi aspetti sono scemati, anche perché i riferimenti erano diventati troppo tecnici, le teorie perdevano il contatto con la pratica psichiatrica. Si è così realizzato uno scontro, che è diventato ideologico, senza che fosse sovente possibile costruire dei ponti, dei collegamenti tra quello che era l apporto dell una e dell altra disciplina. Tutto ciò ha contribuito a rendere difficile una condizione che era già complessa di per sé e molte speranze sono andate deluse, essendo stata fatta spesso la scelta di portare nei Servizi con poca mediazione la psicoanalisi o la psicoterapia. Va poi considerato che la necessità di ottenere risultati o successi terapeutici nel breve periodo ha giocato a sfavore della psicoanalisi. Inoltre la psicoanalisi ha costruito e adottato una sorta di gergo che ha quasi impedito di comunicare con chi lavorava nelle istituzioni. Da una parte infatti si è sviluppato un gergo tecnico di carattere 1

psicoanalitico, dall altra un gergo tecnico di tipo istituzionale. Ma poi possiamo parlare anche di un gergo medico, sanitario, psichiatrico, biologico. Io oggi quando ascolto la discussione di una tesi di laurea in medicina capisco poco della terminologia che viene usata, il che potrebbe anche accadere per difetto di informazione; ma percepisco anche un modo d intendere il paziente molto lontano dai miei anni di formazione. Credo che la super-specializzazione attuale abbia comportato un distacco, una divaricazione, una contrapposizione fra discipline che ha portato a veri e propri fenomeni di etichettamento. Ricordo che quando nel 1993 sono arrivato a Varese ero connotato dall etichetta di psichiatra-psicoanalista ed ero considerato, in particolare dalle case farmaceutiche, come uno che non prescrive mai psicofarmaci. Così era stata costruita un immagine di me sulla base della mia sede di formazione. Penso che fenomeni di questo tipo siano dipesi dal fatto che le varie culture si sono ripiegate su se stesse. Oggi le cose sono certamente molto cambiate, sia negli Stati Uniti sia da noi. La psicoanalisi ha perso quel ruolo di riferimento che aveva acquisito in ambito psichiatrico. Stefano Bolognini nell introduzione a Emergenze Borderline (a cura di Cono Aldo Barnà e Giuseppe Corlito, Angeli, 2011) scrive che esistono tre psichiatrie: una organicistico-biologico-farmacologica; una politicosociale (e queste due sono quelle più macroscopicamente evidenti). Infine una terza psichiatria, silenziosa, fatta di supervisioni, attività di gruppo svolte dagli psicoanalisti nei Servizi: una psichiatria e una psicoanalisi che «parlano a bassa voce rispetto alle altre. Che cosa è cambiato rispetto al passato? In che misura gli psichiatri sono stati capaci di tenere aperta quella prospettiva psicodinamica inaugurata da Bleuler? L enorme successo che ha avuto anche in Italia il libro Psichiatria psicodinamica di Glenn Gabbard qualcosa vorrà pure significare. E tuttavia il contributo di Gabbard alla psichiatria viene spesso guardato con sufficienza, come se avesse in realtà poco a che fare con la «vera psicoanalisi. Le distinzioni proposte sono vere ma estremizzate: se consideriamo che nella psichiatria italiana si è realizzato un importante movimento volto a riportare i disturbi mentali tra le malattie in senso stretto, sottolineando la curabilità e facendo confluire il paziente psichiatrico e il suo trattamento nell ambito della medicina, evidenziando come la stigmatizzazione provochi gravi danni al paziente ed alla sua famiglia, va riconosciuto che in questo ogni orientamento psichiatrico ha dato il suo contributo positivo. È avvenuto un enorme fenomeno di avvicinamento a persone che erano state da sempre escluse dalla sanità (gli ospedali psichiatrici prima della legge 180 dipendevano dalle Province e non dalla Sanità). La psichiatria per motivi diversi nel suo complesso ha prodotto una operazione di grande apertura e dinamismo operativo, attivando molti Servizi territoriali rispetto al passato. Si potrebbe anche affermare che le prime due psichiatrie indicate da Bolognini convergono nel considerare innanzitutto il paziente come persona di cui prendersi cura, per motivi biologici e/o sociali, e questo ha comportato, dal punto di vista del paziente, la possibilità di non sentirsi più trascurato, messo da parte o addirittura segregato. Tutto ciò ha rotto la dimensione ristretta in cui viveva la vecchia psichiatria e ha fatto entrare la disciplina in una dimensione più ampia e moderna con la quale confrontarsi sia con le altre specialità mediche, sia con la realtà sociale elevando lo status del paziente e della disciplina. Dall altra parte è sempre stato necessario poi trovare il modo di relazionarsi con il paziente ed i familiari e su questo le due psichiatrie inevitabilmente mostravano i limiti. A fronte di questa necessità, ho l impressione che si sia affermata nelle sedi ufficiali della comunità psicoanalitica l idea che applicare la psicoanalisi alla psichiatria o anche 2

rompere la rigidità del tradizionale setting psicoanalitico (una psicoanalisi senza divano come diceva Racamier) era ed è un vero e proprio disvalore. Invece di essere sentito come un valore, o addirittura come un incremento di valore, legato alla interazione con un altra disciplina, per molti psicoanalisti tutto questo sembrava rappresentare l incontro con qualcosa che sviliva l oro della teoria e della terapia psicoanalitica. Mi sembra paradossale. Anche chi fa ricerca in psicofarmacologia o in neuroimaging deve abbandonare l idea di poter trovare i pazienti modello o ideali. I pazienti reclutati anche per una ricerca ad indirizzo biologico sono quelli che si trovano normalmente nei Servizi, cioè che non rispettano la nosografia, hanno sintomi eterogenei e sono molto lontani da quello che ci si augurerebbe per una ricerca «pura». Se chi fa la ricerca biologica si pone il problema dell eterogeneità delle condizioni cliniche del campione e della necessità di introdurre differenti criteri di valutazione e di mezzi d indagine e di trattamento, non capisco perché tanti psicoanalisti o psicoterapeuti, esponenti di una teoria e di una tecnica che da sempre si confronta con la eterogeneità, la complessità e la contraddittorietà della coscienza, dell affettività e della stessa vita umana, rifiutino di sporcarsi le mani con la pratica psichiatrica. Volere difendere a tutti i costi la purezza della dottrina, a fronte della eterogeneità della realtà e della clinica, ha rappresentato secondo me un errore. L esempio di Gabbard è eloquente. Il suo enorme successo a Milano vari anni fa in un convegno e fra gli operatori si è accompagnato all irrigidimento della Scuola e della dottrina. Quando sono arrivato a Varese ho trovato una situazione che chi mi aveva preceduto aveva descritto in termini molto critici, quasi con disprezzo. I colleghi e gli operatori mi erano stati descritti come personaggi poco capaci. La psichiatria varesina, molto attiva sul piano organizzativo rispetto a quella che avevo lasciato, risentiva dell impostazione storica neurologica e neurochirurgica, con alcuni apporti psicodinamici. In realtà in questo contesto ho invece lentamente trovato persone aperte e soprattutto curiose della storia delle persone, che sapevano un sacco di cose dei pazienti, ricordavano le loro vicende in modo molto preciso. In una dimensione di comunità allargata in cui ci si conosce tutti e si sa quali sono le vicende che hanno segnato la vita di ognuno, al di là della malattia e della diagnosi c erano nella mente degli operatori relazioni familiari e sociali. Questo mi ha nel tempo consentito di introdurre elementi più tecnici e interpretativi di tipo psicodinamico nella pratica clinica che facevano leva però su questa vicinanza alla storia della persona. Avendo quindi iniziato con diffidenza, per la descrizione poco lusinghiera della situazione, mi sono trovato lentamente ad apprezzare il valore della nuova esperienza: lo sviluppo di un qualsiasi percorso terapeutico inizia dall incontro con la persona, dall interesse per la persona, per la sua storia, per la storia delle sue relazioni. Non si va da nessuna parte senza questo. Solo se c è questo si possono introdurre elementi di carattere teorico e tecnico, che migliorano la professione. Nel febbraio del 2012 il British Medical Journal ha pubblicato una rubrica intitolata «Testa a testa». Quattro colleghi discutono intorno al tema «la psicoanalisi occupa un posto di un qualche rilievo nei moderni Servizi di salute mentale?». Vengono esposte «le ragioni del No» e le «ragioni del Sì». Riassumo le «ragioni del no». La psicoanalisi - sostengono Salkovskis e Wolpert - non ha nessun posto nei Servizi, anzi, è controproducente e produce effetti perversi in questo contesto per vari motivi. In primo luogo la psicoanalisi ha ormai solo un valore storico, è un appendice metaforica. In secondo luogo la psicoanalisi è una pseudoscienza che rifiuta ogni diagnosi, vede di mal occhio qualsiasi terapia farmacologica e non si occupa di trattamenti centrati sul sintomo. Quest ultimo punto ha, secondo gli autori, un valore etico poiché i Servizi hanno il compito di intervenire primariamente sul sintomo, sullo stress e la disabilità riducendo la sofferenza delle 3

persone. Dopo ci si può occupare di tutto il resto, ma non si può trascurare il sintomo. Attingendo alla tua diretta esperienza di psichiatra che lavora in un Servizio, cosa pensi di questa valutazione? Il fatto è che esistono diverse psicoanalisi e diversi psicoanalisti. Con Antonino Ferro, in La terra di nessuno tra psichiatria e psicoterapia. Terapia bi-personale nella clinica psichiatrica (Bollati Boringhieri, Torino, 2010) abbiamo sviluppato una serie di considerazioni intorno all incontro tra psicoanalisi e psichiatria, a partire proprio da quelle situazioni cliniche gravi con le quali ci si confronta nella pratica. Io credo che si possa rispondere in vario modo a questa domanda. Di quale psicoanalisi parliamo? Di quali pratiche? Di quali teorie stiamo parlando? Se sono pratiche che vogliono confrontarsi anche con pazienti psicotici o con il funzionamento mentale psicotico di un paziente, il problema non è tanto se l intervento psicofarmacologico sia migliore o meno, ma piuttosto tenere conto che per dare un farmaco è necessario instaurare una relazione. Se non dispongo di strumenti che mi aiutano in questo e di punti di riferimento che rinviano a una teoria del funzionamento mentale utile ad incontrare/curare il paziente, non potrò dargli alcun tipo di farmaco, se non in modo autoritario. Dal momento che ogni somministrazione farmacologica presuppone una relazione, il farmaco entra nella relazione e coinvolge aspetti che non sono solo quelli strettamente biologici. Inoltre, come si sa, gli effetti farmacologici variano fortemente da soggetto a soggetto. A fronte di tutto questo credo che non sia possibile dare una risposta secca e netta a questa domanda se non a partire da una posizione stereotipa e rigida. Certo esiste una psicoanalisi che non si è confrontata con situazioni di questo tipo, ma è solo una parte della psicoanalisi. Tu facevi riferimento a Gabbard che ha osato confrontarsi con il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali che purtroppo costituisce l esclusivo punto di riferimento psicopatologico per la psichiatria. Sembra che spesso l obiettivo sia più fare la diagnosi che capire la persona. Ma gli psicofarmaci non curano la diagnosi, nemmeno la «malattia» perché agiscono sui sintomi. Non a caso ormai tutti gli antipsicotici di seconda generazione trovano indicazione sia per i disturbi schizofrenici che per i disturbi affettivi, come se esistesse una sola psicosi. Senza poi trascurare la quantità enorme delle prescrizioni off label, perché i pazienti reali non sono quelli dei manuali. Ma pure nei trattamenti psicoanalitici, sono frequentissimi i pazienti in analisi che assumono psicofarmaci (come riferisce una ricerca effettuata negli U.S.A. e riportata nel volume Psicoterapie curato da Gabbard). A mio parere pertanto la dicotomia prospettata è superata dalla realtà ed a questa dobbiamo attenerci. E per quanto riguarda appunto l attenzione al sintomo? Altri indirizzi psicoterapeutici hanno fatto del sintomo il primo punto sul quale intervenire, per esempio nell ambito dei disturbi d ansia. Il problema è capire di cosa ha bisogno il paziente in situazione acuta. Se capisco che in quel momento ha bisogno di un supporto sicuro e stabile io mi muovo in quella direzione. Indipendentemente dal fatto che una certa tecnica funzioni o no, il terapeuta si dispone a comprendere il senso di quanto accade attraverso gli strumenti che ha. La psicoterapia psicoanalitica può offrire al terapeuta una opportunità in più per capire cosa sta facendo, per aiutare il paziente in quel determinato momento, invece di lasciare il campo a tecniche che magari funzionano solo come prescrizioni cieche, che vengono messe in atto senza cercare di capire perché funzionano. L approccio mediato dalla psicoanalisi offre una risposta più complessa che può aiutare 4

l operatore a capire il senso di ciò che fa. L ansia è certamente un sintomo da trattare più o meno immediatamente, ma può essere considerata anche una diagnosi, declinata nei vari disturbi d ansia. Per quanto riguarda la diagnosi/sintomo penso che vada pensata come una bussola per orientarsi, soprattutto di fronte a situazioni cliniche complesse. E utilissimo disporre di alcuni parametri per capire che cosa si può o si deve fare e dove si sta andando. In alcuni casi poi la diagnosi ci dà indicazioni precise sulla terapia. Pensiamo per esempio al caso del delirium tremens. Ma ritornando alla bussola, avere un ventaglio delimitato di diagnosi ci aiuta meglio ad ipotizzare quali saranno i problemi che nella terapia potremmo incontrare con quel paziente. Naturalmente poi bisogna anche avere la capacità di cambiare diagnosi. È tragica l adesività nella psichiatria ad una sola diagnosi, che rimane al paziente magari per tutta la vita. La capacità di cambiare è un dato essenziale, anche perché poi questi cambiamenti si riflettono anche nella terapia. Nell istituzione poi la diagnosi risponde anche ad esigenze di carattere burocratico ed economico. Nel mio reparto spesso è fatta diagnosi di psicosi schizoaffettiva. In realtà sovente questi pazienti hanno un evoluzione negativa. La valorizzazione però degli aspetti affettivi segnala probabilmente il fatto che con quella diagnosi sono colti sintomi affettivi che fanno sperare in una capacità relazionale del paziente che potrebbe portare ad una migliore prognosi. Questo mi sembra segnalare un avvicinamento al paziente, con un attenzione ad alcuni sintomi. Ma per quello che tu vedi nel mondo psichiatrico, ti sembra, come scriveva Freud in Introduzione alla psicoanalisi, che sia ancora vero che lo psichiatra si accontenta della diagnosi quasi fosse appagato dall aver trovato un nome sotto cui collocare i fenomeni clinici che osserva, senza sentire il bisogno di spingersi oltre? Credo non sia vero. In Lombardia i piani terapeutici e riabilitativi individualizzati, con il coinvolgimento di vari operatori psichiatrici, indicano un attenzione alla cura che va ben al di là del momento diagnostico. In Lombardia vige per i trattamenti psichiatrici la distinzione tra interventi di consulenza, interventi di assunzione in cura e infine di presa in carico. La Consulenza è un intervento nel quale fai la diagnosi poi invii per lo più il paziente al medico di base per la prescrizione, ma può essere seguito anche per un certo periodo dallo specialista. Assunzione in cura è invece la decisione del terapeuta di prendere in carico dal punto di vista psichiatrico un paziente anche a lungo termine e di essere responsabile del progetto terapeutico. Anche in questo caso si va molto al di là della diagnosi. La Presa in carico è altra cosa ancora e prevede il coinvolgimento anche di altre figure professionali, sempre e costantemente sotto l occhio vigile dello psichiatra. Si possono avere trattamenti in comunità, day hospital, centri diurni. Tutto ciò mi sembra smentire l idea che la diagnosi sia un punto di arrivo: il rapporto continuativo negli anni, la affiliazione, la adozione del paziente sono ben altra cosa di quello che accadeva un secolo fa. Dopo la diagnosi si mette in moto un meccanismo di cura che non ha per oggetto solo l entità malattia ma anche la persona. Oggi, rispetto ad allora (quando esisteva ben poco) ci sono molti strumenti terapeutici e la formazione psicoterapeutica psicoanalitica credo possa avere una marcia in più. Il problema attuale è esattamente l opposto rispetto a quello indicato da Freud ed affligge anche le altre discipline mediche: la presa in carico a lungo termine, la cronicità, la difficoltà di dimettere il paziente dalla cura, di farlo uscire dal circuito sanitario. Una volta che hai «adottato» un paziente non lo molli più, è inserito in un girone che sembra non avere fine. Una volta che sei stato adottato 5

dal sistema sanitario, in psichiatria come in medicina, non ti abbandonano quasi più! Sei fidelizzato e su questo sarebbe necessaria una riflessione al di là delle scuole di pensiero. Spostando l attenzione su quelle che sono state chiamate le «nuove forme della clinica» o la «psicopatologia del presente» (area borderline, disturbi alimentari, dipendenze) pensi che la psicoanalisi possa dare un contributo alla psichiatria dei Servizi in questo campo? Credo che l apporto della psicoanalisi sia comunque indispensabile indipendentemente dalle forme della clinica. Il suo apporto può essere particolarmente utile quando si devono fronteggiare situazioni difficili. Il terapeuta, se ha strumenti professionali adeguati, può diventare più capace di entrare in sintonia con il paziente e di allarmarsi meno rispetto a certe forme della clinica borderline. Oggi si osservano meno le forme disorganizzate di psicosi ad evoluzione grave o addirittura irrecuperabili. Negli anni 70, c erano 250.000 ricoverati circa negli Ospedali Psichiatrici. Oggi, a fronte di un aumento della popolazione, il numero di coloro che sono ricoverati in comunità terapeutiche è quasi dieci volte inferiore. Ci sono quindi forme di sofferenza mentale, come quelle che citavi, che compromettono meno le relazioni sociali e non si traducono solo in ritiro e disorganizzazione mentale, cui eravamo più abituati. Per molti psichiatri i pazienti gravi sono solo questi di un tempo, e si trovano spesso in difficoltà di fronte a queste nuove forme della clinica paradossalmente perché le persone conservano capacità superiori rispetto ad una volta nell affrontare la vita e la loro sofferenza compare con l azione o con comportamenti impulsivi, che infastidiscono l interlocutore. Mi viene in mente una paziente che con messaggi, comunicazioni varie, riesce a mantenere rapporti ma a distanza di sicurezza, che sono per lei molto utili, mentre rapporti più ravvicinati e costanti le risultano intollerabili. In questi casi i comportamenti rispondono alla necessità di scaricare le tensione emotive. Per utilizzare i nuovi strumenti tecnici in modo non dogmatico, è necessaria una preparazione prtatica-teorica, e quella psicoanalitica mi è stata molto utile. Mi riferisco ovviamente a quella che ho incontrato nella mia storia. Mi muovo abbastanza bene con i pazienti dell area borderline, cui da molti anni mi sono interessato (molto meno con le altre patologie citate) perché sono situazioni cliniche con le quali si possono avere successi terapeutici se si riesce a intravedere nell azione e nei comportamenti qualcosa che ha a che vedere con una tensione emotiva gravissima che deve trovare una via di sfogo. Se il terapeuta riesce a cogliere la necessità di evacuare e il bisogno del paziente di trovare qualcuno che faccia da sponda, ricettacolo, che riceva con pazienza dentro le sue cose senza sentirsi per questo svalutato o sminuito, può più facilmente avere dei buoni risultati, partendo proprio dalla comprensione della necessità di questo funzionamento mentale di cui la persona non può fare per ora a meno. Ti sembra che questa comprensione dell azione alla luce di una cultura della evacuazione sia diventata in qualche misura patrimonio dei Servizi? Un po sì, però non so con certezza; nella formazione degli operatori è assolutamente da promuovere, a mio parere, questa idea che i comportamenti eclatanti devono anche essere tollerati e ascoltati, non solo soffocati. È necessario cogliere ad esempio anche il senso di ciò che abitualmente si chiama «manipolazione». Quando qualcuno dice «ma questo mi manipola!», io penso che questo debba essere valorizzato. È peggio il paziente autistico ritirato che non manipola 6

proprio nessuno. Il paziente spesso non può fare diversamente, è una necessità e non una scelta quella di funzionare attraverso l evacuazione manipolatoria. Questo può essere l unico modo, in un certo periodo per il paziente, per entrare in relazione. L alternativa è rompere la relazione. In fondo finché il paziente mi manipola, posso provare a fare qualcosa per lui, nel senso che mentre mi manipola è aperta la relazione. Certo, e poi forse è proprio da come il paziente ti tocca in senso metaforico o ti manipola che puoi capire delle cose importanti di lui Per venire all ultima domanda volevo ricordati una polemica che si svolse nel 2003, sulle pagine dell International Journal of Psycho-Analysis, tra Lucas e Michels. Quest ultimo in particolare sosteneva che se la psicoanalisi fornisce al lavoro psichiatrico un contributo di sfondo, allora però questo contributo non risulta specifico, non vale cioè solo per le patologie psichiatriche ma anche per molte altre patologie. Perché non migliorare la capacità di ascolto anche nel caso della cura di un paziente con Morbo di Parkinson, si domanda infatti Michels? In questo senso, allora, quale sarebbe il contributo specifico che la psicoanalisi può offrire al lavoro con le più gravi patologie mentali? Si tratta di vedere quali sono i fattori terapeutici in gioco: ci sono quelli aspecifici che possono essere presenti in qualsiasi terapia ed altri che sono invece specifici, riguardando la tecnica di trattamento e la patologia trattata. Ancora più utile poi è valutare, come dice l amico Nino Ferro, i fattori di malattia ed i fattori di guarigione. È troppo difficile parlare degli effetti avversi delle psicoterapie, ma nel nostro libro abbiamo spesso scelto casi in cui il terapeuta faceva «errori», proprio per imparare. Per rispondere ti racconto una scenetta clinica con una paziente psicotica grave, con sintomi ossessivi. Alcuni farebbero anche diagnosi di disturbo schizofrenico altri di disturbo di personalità. L unica cosa certa è che qualsiasi tipo di trattamento (comunità, psicofarmaci, ricoveri etc) per un periodo non breve la peggiorava. È stato un disastro. Ho dovuto anche mandarla via dalla comunità psichiatrica perché accumulando oggetti ed anche alimenti si era resa insopportabile agli operatori ed agli altri pazienti. A questo punto avevo deciso di seguirla io in CPS. Dopo vari mesi in cui mi chiedeva di accompagnarla in qualche posto per essere sottoposta ad eutanasia, entra nello studio e mette, in maniera molto ordinata, tutte le scatolette di farmaci che sta prendendo sulla scrivania. Su ogni scatola vuole che sia scritto esattamente come prendere le medicine. Le mette una vicina all altra e mi dice poi che cosa avrei dovuto prescriverle. A quel punto io, così, sulla base di una qualche immaginazione o di una ispirazione le dico: «Ma questo qui mi sembra un trenino. Che facciamo, ci mettiamo a giocare col trenino?» Da quel momento non ti so dire che cosa sia successo ma una cosa è certa: da quella faccenda del trenino, negli incontri successivi, il discorso si è straordinariamente aperto e abbiamo cominciato a parlare di problemi veramente importanti della sua vita, anche di temi religiosi che avevano a che fare con un episodio molto significativo. Nei colloqui introducevo sempre, come diceva lei, un elemento aberrante rispetto alla sua rigidità, il mio discorso non filava a piombo, scombinavo un po i suoi pensieri iperrazionali. Siamo andati avanti così e lei è arrivata a non prendere più alcun farmaco. Riusciva a vivere, intrattenere rapporti sociali, a distanza, ad avere una vita con quella autonomia che sembrava avere perso per anni. Quella sorta di fantasia (rêverie) che ho fatto sul trenino come qualcosa che collega un pezzetto a un altro e che è anche un gioco ha dato avvio ad una relazione terapeutica che sembrava in precedenza impossibile. In passato aveva avuto una crisi gravissima; era stata ricoverata e lo psichiatra aveva dato forfait. Di lì in poi, per tre anni, era stato impossibile 7

occuparsene in modo utile come ho detto prima. Ma questo elemento evidentemente terapeutico che cosa è se non l introduzione di un elemento altro, ma specifico che non è solo una questione di ascolto? La possibilità evolutiva è nata quando è nata un empatia, un essere all unisono da parte del terapeuta con quanto la paziente aveva messo sulla scena. Bisogna chiedersi insomma quali sono i fattori terapeutici più efficaci nel trattamento delle patologie gravi e credo che vari psicoanalisti, non certo quelli di scuola, abbiano dato molto aiuto agli psichiatri per migliorare i trattamenti, non solo alla loro capacità di stare con lo psicotico. Qui si è il realizzato un superamento dell ossessività mediante una immagine giocosa, che non ha certo cambiato la paziente ma ha avviato un percorso nuovo. Mi viene in mente quello che Di Chiara scriveva intorno al riconoscimento, e questo è un altro contributo specifico. Nella clinica ho constatato molto frequentemente che quando si ha a che fare con la aggressività dei pazienti, quel fattore è importantissimo. Se un paziente, quando minaccia di spaccare tutto, incontra una persona da cui si sente riconosciuto nella sua paura e terrore, l aggressività si ferma. Quando uno si sente riconosciuto o incontra qualcuno già conosciuto la faccenda cambia, perché la catastrofe incombente di quel momento trova l arrivo della protezione. Il riconoscimento reciproco è qualcosa che ha a che fare con l incontro e la possibilità dell altro di farsi riconoscere e riconoscere nell altro una persona. Questo lo puoi fare se acquisisci delle doti attraverso un pensiero, una teoria e una tecnica. Qui si cambia registro relazionale e quindi terapeutico. Il riconoscimento è il primo dato di fatto. Un paziente psicotico ha la necessità di essere riconosciuto. In conclusione mi sembra che una manutenzione della mente del terapeuta mediante la psicoanalisi può mettere il clinico in condizione di fare interventi specifici, derivanti da una psicoanalisi più aggiornata rispetto a Freud e alla stessa Klein, che hanno una importante valenza terapeutica anche nelle gravi patologie psichiatriche. Sarebbe poi ancora meglio se ci fossero le risorse per migliorare la relazione medico-paziente in qualsiasi malattia, argomento peraltro al quale mi sono anche dedicato, senza per questo arrivare agli obiettivi psicologizzanti dei gruppi Balint. 8