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CENTO ANNI Jeanne Calment è morta a Arles il 4 Agosto del 1997. Il fatto, in se, non è di grande interesse, se non fosse che Jeanne era nata il 21 Febbraio del 1875 quando le ferite di Sedan e della Comune erano ancora aperte e che si tratta della persona che ha vissuto più a lungo al mondo, e per la quale la longevità è documentata in modo incontrovertibile. Certo Matusalemme e altri personaggi dell Antico Testamento hanno campato molto di più, ma le anagrafi ancora non erano state inventate. Cento ventidue anni rappresentano una lunga vita, ma si può pensare che resti un fatto eccezionale, dovuto a una coincidenza straordinaria di eventi, con scarsa rilevanza per la società. Le cose, tuttavia, non stanno esattamente così. In tutti i paesi che hanno sistemi statistici affidabili, si nota un fatto assai interessante. Anno dopo anno, pur con oscillazioni dovute al caso, l'età "massima" alla morte si è spostata in avanti. Ciò, in piccola parte, è dovuto a un fatto meramente statistico: il pool dei concorrenti (supponiamo coloro che riescono a diventare dei vegliardi) è aumentato, un po perché molte più persone sopravvivono a 90, 100 o più anni e un po perché le popolazioni sono cresciute di numero. E' quindi più facile che il caso operando invece che su 100 persone, su 1000, 10000 o 100000, determini circostanze eccezionali che innalzano il record. Tuttavia il fattore più importante sta nel fatto che una durata "limite" della vita umana non può essere identificata, e che l'età massima alla morte si sposta in funzione del miglioramento del grado di salute della popolazione. Il caso della Svezia - con statistiche secolari affidabili e precise - è stato studiato con accuratezza: negli anni '60 dell'ottocento, l'età massima al decesso era attorno a 101 anni (circa 100 per gli uomini e 101 per le donne, con fluttuazioni di qualche anno da un anno di calendario all altro); questi valori sono andati gradualmente aumentando, fino a toccare 108 anni (circa 107 per gli uomini e 109 per le donne) negli scorsi anni '90. L'aumento più forte si è toccato negli ultimi tre decenni: l'età massima alla morte si è accresciuta ad una media di circa 1,1 anni ogni decennio, si potrebbe ipotizzare che - mantenendo questo ritmo - il "tetto" record dei 122 anni eccezionalmente toccato da Jeanne Calment potrebbe diventare l estremo limite (con un ossimoro: l estremo normale limite) della vita nei paesi ricchi alla fine di questo secolo. La massima durata di vita, comunque, riguarda una persona, e non una parte significativa della collettività, e che essa si allunghi sembrerebbe fatto di poca rilevanza. Ma non è così, perché assieme alla crescita della durata massima si verifica dappertutto un aumento molto forte dei sopravviventi a età molto anziane -- i 90 o i 100 anni, per esempio. Nella recente esperienza italiana (secondo le tavole di mortalità ufficiali, che si riferiscono al 1

1994) il 23 per cento di una generazione di bambine è destinata a sopravvivere a 90 anni; circa l'1 per cento a 100 anni. Poco più di venti anni prima (nel 1970-72), a 90 anni ne sopravvivevano appena l'11 per cento e 0,4 per cento a 100 anni. I guadagni sono dunque assai rapidi, in conseguenza di un continuo abbassamento dei rischi di morte alle età anziane e di condizioni di salute notevolmente migliorate. Si pone adesso un importante problema, e cioè quello della qualità della vita - intesa in senso biofisico - degli anziani e delle prospettive future. Dalla qualità della vita dipende non solo il benessere individuale, ma anche l'onere che una lunga sopravvivenza genera per la società in termini di salute e assistenza. Il fatto che i rischi di morte - ad una determinata età - siano andati diminuendo nel tempo è di per se un fatto positivo: oggi i rischi di morte a ottanta anni (52 per mille per le donne) sono diminuiti del 40 per cento rispetto a venticinque anni fa; benché manchino informazioni precise e comparabili, assieme ai rischi di morte è diminuito il grado di disabilità, l'incidenza delle malattie croniche, la vulnerabilità fisica in genere. Si vive, insomma, in miglior salute e in migliore efficienza fisica. Ma quanto avvenuto fino ad ora si può ragionevolmente avvenga anche in futuro? Mentre tutti convengono che ulteriori guadagni siano possibili, le opinioni divergono sulla loro entità. Tra le varie ipotesi ne citiamo due per semplificare un problema evidentemente intricato. I sostenitori della prima ipotesi ritengono che le principali malattie che conducono alla morte siano strettamente dipendenti da fattori di rischio che possono essere modificati, ridotti o addirittura eliminati cosicché - con modi di vita adeguati e una disponibilità ottima di servizi medici - una speranza di vita di 100 anni possa essere alla portata delle popolazioni nel corso del prossimo secolo. Questa ipotesi sarebbe in linea con l'attuale tendenza alla riduzione della mortalità nelle età anziane e con la longevità dimostrata da gruppi selezionati (con stili di vita impeccabili sotto il profilo della salute e con ottime cure mediche). I sostenitori della seconda ipotesi sono assai meno ottimisti: essi ritengono che la selezione naturale abbia operato con efficienza nelle età riproduttive, affinando le capacità di mantenimento e di riparazione dell'organismo. In contesti favorevoli, tutti o quasi tutti, sopravvivono fino al termine del periodo riproduttivo. Oltre le età riproduttive la selezione naturale non avrebbe operato con altrettanta efficienza: è come se la natura non avesse avuto interesse a evitare il decadimento, l'invecchiamento e la morte. Certamente il controllo dei fattori di rischio e adeguate cure mediche possono migliorare la sopravvivenza e rinviare l'insorgere delle malattie della senescenza, ma nel frattempo malattie nuove o poco frequenti e più difficili da contrastare tendono ad affermarsi e non esistendo un programma genetico per una vita molto estesa, è da attendersi che la lotta 2

alle malattie della vecchiaia divenga una battaglia senza fine progressivamente più difficile all'abbassarsi della mortalità. Queste differenze teoriche (ho selezionato e semplificato due ipotesi da un insieme molto complesso) hanno implicazioni diverse: chi sostiene la prima ipotesi ritiene che le generazioni che nascono in questa parte iniziale del secolo possano plausibilmente aspirare a una durata di vita di 100 anni. I sostenitori della seconda ipotesi ritengono che i progressi registrati negli ultimi decenni siano destinati a rallentare e che sia difficile pensare - senza l'ausilio di rivoluzionarie scoperte scientifiche - a una speranza di vita (per ambedue i sessi) superiore agli 85 anni. Un riscontro empirico è interessante. Si consideri la popolazione giapponese che è quella che attualmente ha i più alti livelli di speranza di vita (80 anni per l'insieme dei due sessi nel 1995-2000, 77 anni per gli uomini e 83 per le donna) e che maggiori guadagni ha fatto negli ultimi 30 anni (8,3 anni in più per gli uomini e 9 per le donne). Per l'insieme della popolazione ogni anno di calendario ha significato un aumento della speranza di vita di circa 0,3 anni. Anche se questo ritmo molto alto fosse conservato invariato in futuro - ma questo è assai poco probabile che avvenga - la speranza di vita di 100 anni verrebbe toccata nel 2065. Se non si può escludere che a "quota 100" si arrivi, questo progresso non sembra possibile prima della fine del prossimo secolo. Vi è tuttavia un altro argomento che vale la pena di toccare, che è quello della sostenibilità dell'estensione della durata della vita, oggi data per scontata e che deve essere assicurata sotto il profilo biologico, politico e economico. Sotto il profilo biologico occorre ricordare che il mondo delle biopatologie è in continuo movimento; che nuove malattie possono emergere e antiche patologie - date per sconfitte - riemergere; che i sistemi di prevenzione, allarme, controllo, ricerca, cura, non sempre sono capaci di reagire con prontezza e efficienza. Fin troppo facile ricordare che l'aids ha provocato, nei paesi sviluppati, un aumento della mortalità nelle età giovani. Sotto il profilo politico, occorre ricordare che la lunga sopravvivenza oggi assicurata alle popolazioni ricche del mondo (e, oramai, anche a buona parte di quelle povere) si basa su un complesso sistema che garantisce accesso universale e alto livello di assistenza sanitaria, il funzionamento della ricerca, il controllo dell'ambiente, sufficiente e corretta alimentazione, assenza di gravi traumi e lacerazioni sociali. Già prima del suo dissolvimento, l'unione Sovietica aveva traversato un lungo periodo di crisi interna che aveva rallentato e poi invertito i progressi della sopravvivenza (che erano andati di pari passo con quelli realizzati in occidente tra gli anni '50 e gli anni '70) finché - negli anni '90 - la fine del sistema ha prodotto un effetto devastante 3

sulla sopravvivenza, per l'aumento della povertà, il peggioramento dell'alimentazione, il deteriorarsi degli stili di vita (alcol, fumo, violenza), l'aggravarsi dell'inquinamento, il peggioramento del sistema sanitario. Alla metà degli anni '90 la speranza di vita alla nascita degli uomini era caduta a 59 anni, inferiore a quella media dei paesi in via di sviluppo. E' difficile che una crisi sistemica analoga a quella del mondo sovietico si verifichi in quello occidentale; tuttavia questa dimostra che i progressi acquisiti non lo sono incondizionatamente e vanno difesi e protetti, e che quelli da acquisire vanno guadagnanti sul campo con una complessità di azioni che ogni dura crisi può compromettere. Vi sono minacce alla sostenibilità di una lunga sopravvivenza non legate a situazioni di crisi ma dipendenti dal costo economico e, più in particolare, dalla crescente incidenza della spesa per la salute sul prodotto. Dalla fine degli anni 80 questa è cresciuta, nelle principali economie, di un paio di punti, raggiungendo l'8 per cento, con una punta del 14 per cento negli Stati Uniti. A questo aumento contribuiscono vari fattori, in primo luogo la maggiore incidenza, sulla popolazione, degli anziani che richiedono cure mediche e sanitarie più intense; ma vi contribuiscono anche i costi crescenti, mediamente più alti che negli altri settori dell'economia, delle cure fornite, che hanno un alto contenuto tecnologico. Inoltre se - come molti temono - l'estensione della vita comportasse l'emergere di patologie legate alla senescenza e determinasse un aumento degli anni vissuti in buona salute meno che proporzionale all'aumento di quelli vissuti in salute precaria, allora un ulteriore fattore di costo si comporrebbe con quelli sopra ricordati. Ci si deve perciò domandare quali siano i limiti sostenibili della crescita della spesa sanitaria; se questa, entrando in competizione con altre destinazione del reddito (istruzione, sicurezza, assistenza, ambiente) non rischi di trovare presto dei limiti alla sua espansione; se, infine, eventuali limiti introdotti non implichino limiti alla estensione della sopravvivenza o pongano in pericolo i livelli raggiunti. Quanto sviluppato fin qui può sintetizzarsi come segue. Un'estensione della durata media della vita a 100 anni non è, allo stato attuale delle conoscenze e delle tendenze in atto, da escludersi. Tuttavia questo non può avvenire se non in un periodo di molti decenni, in un'epoca presumibilmente più vicina alla fine che non alla metà del secolo in corso. Inoltre occorre che l'estensione della sopravvivenza sia sostenuta da risorse adeguate; ma le risorse destinate alla salute, nella storia recente, sono cresciute più in fretta del prodotto e il proseguire di questa tendenza rischia di confliggere con altre destinazioni del reddito. Supponiamo adesso che la transizione alla "società dei 100 anni" si sia compiuta e che la situazione si sia "stabilizzata" - espressione demografica il cui significato è intuitivamente 4

chiaro. Consideriamo il caso più semplice: la popolazione è stazionaria (cioè le sue dimensioni restano costanti) con le nascite che uguagliano le morti; la speranza di vita è di 100 anni, l'età massima alla morte eccede i 120 anni. La sopravvivenza ha toccato la sua massima estensione e i rischi di morte disegnano una curva per età che rimane fissa. In questa situazione anche la struttura per età rimane costante nel tempo. Questo scenario implica che la fecondità stia a livello di rimpiazzo, a due figli e frazione per donna, anziché al livello attuale che ne resta del 40 per cento inferiore. La società dei 100 anni è, per molti versi, assai diversa da quella attuale. Molte delle differenze, tuttavia, si svilupperanno con gradualità e potranno essere facilmente assorbite dai meccanismi di adattamento tipici delle società umane. Nel prospetto che segue sono riportate quattro strutture per età corrispondenti a popolazioni stazionarie aventi speranza di vita di 40 anni (raggiunta dalla popolazione Italiana attorno al 1890), di 60 anni (raggiunta verso il 1940); di 80 anni (alla quale siamo assai prossimi avendo superato i 78), e di 100 anni, in ipotesi raggiungibili alla fine del secolo. [INSERIRE PROSPETTO] Come può vedersi, questa serie indica una struttura per età che gradualmente si sposta verso le età anziane come è inevitabile che avvenga quando la popolazione è stazionaria e aumenta la sopravvivenza. Passando da 80 a 100 anni c è tuttavia una vera discontinuità nelle dimensioni della popolazione oltre gli 80 anni di età, frazione trascurabile (2 per cento) con speranza di vita di 60 anni; ancora modesta con 80 anni (nemmeno il 7 per cento) ma molto considerevole (quasi il 22 per cento) nella società dei 100 anni. Per le altre età, la modificazione della struttura è più graduale e alle capacità di adattamento della società - dipendenti dal solo mutamento della struttura per età - non si chiedono sforzi addizionali rispetto a quelli compiuti in passato. Ma questo vale soprattutto in superficie, perché a guardare bene oltre vi saranno modificazioni qualitativamente assai diverse rispetto a quelle occorse in passato. Un primo aspetto da considerare riguarda l'evoluzione del capitale umano o - meglio - della componente bio-demografica di questo. Capitale umano non è solamente la dotazione di conoscenze e capacità acquisite con l'istruzione, la formazione o l'esperienza; esso è anche la capacità di sopravvivere e di vivere in buona salute, di riprodursi, di esplicare un'adeguata mobilità geografica e sociale per ricercare migliori condizioni di lavoro e di vita. Si consideri la sopravvivenza in buona salute (parte e base essenziale del capitale umano): questa è enormemente migliorata nel Ventesimo secolo mediante l'eliminazione delle morti precoci, 5

l'abbassamento delle disabilità, il miglioramento della salute e dell'efficienza. Insomma sono state recuperate alla società persone con buone prerogative bio-demografiche. Ho già affermato che questo potrebbe non avvenire in futuro per l'emergere di patologie legate alla senescenza e comunque, anche nell'ipotesi ottimistica che questo non avvenga, la sopravvivenza di persone di 90, 100 o più anni significa recuperare persone con prerogative demografiche assai indebolite. Si può affermare che sotto il profilo della crescita del capitale umano l'estensione della sopravvivenza sia avvenuta, nel corso del Ventesimo secolo (o nella gran parte di esso), con rendimenti crescenti ai quali potrebbero sostituirsi rendimenti decrescenti nel corso del secolo attuale. Un'altra considerazione rafforza il ragionamento. Riduciamo alla stessa scala la durata della vita nelle varie età, e consideriamo come anziana la popolazione che si trova nell'ultimo terzo di essa. Nella società dei "100 anni", supponendo una durata di vita massima di 120 anni, anziani sarebbero coloro che hanno più di 80 anni che, nel prospetto precedente, costituirebbero il 22 per cento della popolazione. Nella società dei "60 anni", con una durata massima di 105 anni, anziani sarebbero stati quelli con oltre 70 anni, con appena l'8 per cento. L'invecchiamento "reale" della popolazione è, senza dubbio, notevole. Semplificando una realtà complicata, si può dire che il ciclo di vita si ripartisce approssimativamente in tre grandi fasi. Nella prima fase - quella della crescita, della formazione e del lento processo di approssimazione all'emancipazione e all'autonomia - si è percettori netti di risorse, trasferite prevalentemente dalla famiglia. Nella seconda fase, che coincide approssimativamente con la vita attiva si è erogatori netti - prevalgono i trasferimenti fatti ai figli, o allo stato, sui benefici ricevuti da quest ultimo. Nella terza fase, quella della quiescenza, si è percettori netti, per lo più per i trasferimenti previdenziali o sanitari dello stato. Naturalmente queste tre fasi non sono rigidamente separate da età fisse e non sono quindi tra di loro impermeabili: si pensi alla formazione di chi è in età attiva, alla quiescenza di chi non è anziano, al lavoro di chi è vecchio. Tuttavia vi è una "necessità biologica" in questa tripartizione che fa ritenere poco rilevanti, anche nel futuro, le reciproche invasioni di campo. Le società avanzate hanno praticamente determinato la suddivisione del ciclo di vita in quattro parti approssimativamente uguali, assegnandone una alla formazione, due all'attività produttiva e una alla quiescenza. Qualora rimanessero costanti le regole del giuoco e questa approssimativa ripartizione, i cittadini della società dei 100 anni dovrebbe dedicarne almeno 50 al lavoro e rinviare la quiescenza, che oggi si aggira (di fatto) attorno ai 60 anni, ai 75. In 6

uno scenario di estensione della speranza di vita e di un ulteriore, ragionevole, miglioramento delle condizioni di salute, questo slittamento da compiersi nell'arco di molti decenni sembra del tutto praticabile. Non sembra in astratto impossibile convincere la collettività che per ogni anno di vita guadagnato si debbano aggiungere sei mesi al percorso lavorativo. Se di un contratto di questa natura fosse richiesta la sottoscrizione, non dubito che la gran maggioranza degli interpellati apporrebbe la sua firma senza esitazioni. Il ciclo di vita ha altre scansioni, in primo luogo quella determinata dal ciclo riproduttivo. Nonostante la forte diminuzione della fecondità dell'ultimo secolo, l'età media dei genitori alla nascita di un figlio è rimasta nei dintorni dei 30 anni, senza troppe variazioni. All'inizio del '900, quando il controllo delle nascite era ancora prerogativa di una minoranza, la maggior parte dell'arco riproduttivo (grosso modo tra i 20 e i 40 anni) era utilizzata intensamente; oggi per mettere al mondo il primo e il secondo figlio (insieme rappresentano il 95 per cento delle nascite) bastano pochi anni disposti a cavallo dei 30 anni. La durata delle generazioni (intervallo medio tra genitori e figli) è rimasto però invariata nel tempo. Poiché l'orologio biologico - che non è impossibile manomettere o imbrogliare - impone un limite netto alla capacità riproduttiva femminile, è da escludersi che questa durata possa accrescersi in futuro (anzi molti - tra i quali chi scrive - ritengono che già oggi il "ritardo" a mettere al mondo il primo figlio stia sfiorando dimensioni patologiche, e che quindi sia più facile accorciarlo che allungarlo). E' improbabile che imbrogli e manomissioni dell'orologio biologico (possibili dall'evoluzione delle tecnologie) diventino fatto comune e che la riproduzione in età nelle quali essa è oggi preclusa diventi fenomeno di massa. Ecco dunque un altro fondamentale cambiamento: nella società dei 100 anni diventerà "normale" la coesistenza di quattro generazioni; la probabilità di sopravvivere a 90 anni potrebbe essere vicina al 90 per cento, con la quasi certezza di avere in vita figli, nipoti e bisnipoti (se sono già nati). Quasi tutti i nonni sarebbero ancora figli, uomini e donne adulti con figli avrebbero i nonni in vita; in un buon numero di casi sarebbe possibile la convivenza di cinque generazioni. Quali mutamenti questo significhi per le relazioni familiari e sociali, per la trasmissione di esperienza e conoscenza, per le relazioni e le gerarchie tra classi di età, per il trasferimento di ricchezza e patrimoni di generazione in generazione, lascio ad altri più ricchi di immaginazione di pensarlo. La società dei 100 anni è una società a lento ricambio. Confrontare le società stazionarie dei 40 e dei 100 anni è come porsi di fronte a due laghi delle stesse dimensioni, 7

alimentati e drenati da due corsi d acqua, il primo con molta acqua, il secondo un ruscello. Nei due laghi il livello dell acqua è costante, ma nel primo il ricambio è rapido, nel secondo lentissimo. Naturalmente il lento ricambio, cioè la lunga vita, è ciò che vogliamo ed è quindi una conquista, ma esso si ripercuote sulla società. Molti ritengono che l allungamento della vita sia neutro (a parità di altre condizioni: in questo scritto ho considerato che si sia sempre in società stazionarie che non aumentano né diminuiscano di numero) e che implichi solo un cambiamento di scala, con uno spostamento in avanti del ciclo di vita. E osservazione comune che il settantenne o l ottantenne di oggi che fa sport, viaggia, partecipa, e sta bene fisicamente somiglia a persone dieci o venti anni più giovani di mezzo secolo fa. Somiglia, ma non è. L allungamento della vita è sicuramente non neutro non fosse altro che la giovinezza e la pienezza definitivamente abbandonate con la fine del periodo riproduttivo divengono una porzione del ciclo di vita progressivamente più corta. NOTA I ragionamenti comparativi svolti in queste pagine sulla società dei 100 anni, e sulle società che hanno altre durate di vita si basano come detto nel testo sul modello stazionario. Questo modello, oltre alle caratteristiche indicate (nascite uguali alle morti e tasso d incremento zero; struttura per età costante) ha anche una caratteristica importante: i tassi di natalità e di mortalità (N/P e M/P) sono pari al reciproco della speranza di vita. Se la speranza di vita è pari a 100 anni, allora tali tassi debbono essere uguali a 1/100, cioè al 10 per mille; se la speranza di vita è di 40 anni, i tassi in questione debbono essere pari a 1/40, cioè al 25 per mille. Nella realtà la struttura per età della popolazione dei 100 anni può assumere una varietà di connotazioni, diverse dal presupposto stazionario dipendendo non solo dalle eventuali migrazioni (qui supposte pari a zero), ma anche dal livello di natalità. Il presupposto stazionario implica che ogni generazione riproduca se stessa, e che quindi ogni donna metta al mondo durante la sua vita almeno una figlia, con un tasso di fecondità totale pari a 2,07 (nascono più maschi che femmine, e bisogna tenere in conto la lieve mortalità che anche nella società dei 100 anni toccherà la popolazione prima del concludersi della vita riproduttiva). Questo stesso tasso oggi in Italia è pari a circa 1,2, inferiore al livello di rimpiazzo per oltre il 40 per cento. La società dei 100 anni sarebbe diversa da quella qui prospettata qualora la fecondità fosse superiore, o inferiore al livello di 2,07, od oscillasse fortemente attorno a tale livello. 8

BIBLIOGRAFIA National Research Council, Beteween Zeus and the Salmon: The Biodemography of Longevity, National Academy Press, Washington, 1997 J.R. Wilmoth, The Future of Human Longevity: A Demographer s Perspective, Science, 280, 17 Aprile 1998 J.R. Wilmoth, L.J. Deegan, H. Lundstrom, S. Horiuchi, Increase of Maximum Life-Span in Sweden, 1861-1999, Science, 289, 29 Settembre 2000 9