IL MARCHIO: IDENTITÀ DI ORIGINE DEL PRODOTTO - Rosaria CONVERSO

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1 IL MARCHIO: IDENTITÀ DI ORIGINE DEL PRODOTTO - Rosaria CONVERSO Il marchio contraddistingue le merci, i prodotti o i servizi di un impresa e l art. 2569, come modificato da d.lgs 4 dicembre 1992, n. 480 (art. 81), che lo definisce in tal senso, stabilisce, fra l altro, il diritto dell imprenditore "di valersene in modo esclusivo per i prodotti o servizi per i quali è stato registrato". Chi, tuttavia, ha fatto uso di un marchio non registrato può continuare ad usarlo, nonostante la registrazione da altri ottenuta, nei limiti in cui anteriormente se ne è avvalso (si cfr. art c.c.). Il complesso delle norme che nel codice civile interessano il marchio, operano una distinzione tra marchi figurativi e marchi denominativi. Con l ingresso nel mercato di nuove tecniche distributive - si pensi al franchising assume particolare importanza la distinzione tra marchi di fabbrica o del produttore e marchi di commercio o del rivenditore (si cfr. art c.c. e art. 12, r.d. 21 giugno 1942, n. 929). Articolare rilievo ha il c.d. marchio celebre, ossia quel marchio che, per avere acquistato una particolare rinomanza sul mercato in relazione ad una determinata categoria di prodotti e di servizi, viene utilizzato su licenza per contraddistinguere prodotti di tutt altro genere, per modo che il marchio celebre, da segno distintivo di un dato imprenditore, tende a diventare il segno che contraddistingue prestigio e stile dell imprenditore medesimo. Con riferimento ad una vicenda riguardante i rapporti tra marchi, si è analizzata la sentenza del la Corte di Giustizia Europea. La sentenza della Corte di Giustizia origina da un caso all attenzione del giudice inglese. La Court of Appeal of England & Wales era stata chiamata a decidere una controversia promossa dai titolari di alcuni marchi registrati ed utilizzati per profumi ed altre fragranze di particolare pregio (e dotati di rinomanza) contro altri produttori di profumi di minor prezzo, imitazioni di quelli degli attori. I convenuti utilizzavano elenchi comparativi dei profumi, in cui era indicato, tramite il marchio, ciascun profumo degli attori del quale ciascun profumo dei convenuti costituiva imitazione. La Corte, nel precisare le condizioni (alternative) di tutela del marchio che gode di rinomanza, previste dall'art. 5, n. 2, della direttiva n. 89/104, segnala il pregiudizio al carattere distintivo del marchio rinomato, il pregiudizio alla notorietà del marchio rinomato ed il vantaggio indebitamente tratto da parte del terzo del carattere distintivo o della notorietà del marchio altrui. Il terzo elemento viene illustrato riprendendo l'idea del «porsi nel solco» tracciato dal marchio rinomato («to ride on the coat-tails of the mark») al fine di profittare del suo potere attrattivo: idea già proposta dalla stessa Corte di Giustizia in propri precedenti ( si cfr. Corte di Giustizia CE, 27 novembre 2008, in causa C-252/07, Intel Corporation Inc. c. CPM United Kingdom Ltd, in Giur. ann. dir. ind., 2008, n. 5327, 1322). La sentenza ricorda (mass. II, punto 58), che il diritto vigente protegge non solo la funzione essenziale del marchio di «garantire al consumatore l'identità di origine del prodotto o del servizio», ma anche «le altre funzioni del marchio, segnatamente quella di garantire la qualità del prodotto o del servizio [...], o quelle di comunicazione, investimento o pubblicità». E questa regola viene riferita sia al marchio tout court, sia al marchio che gode di rinomanza. Le prime due massime della sentenza non presentano, quindi, significativi elementi di novità rispetto a posizioni già espresse dalla Corte di Giustizia. La terza massima si esprime, invece, su una questione nuova per giudici comunitari: il problema della liceità di elenchi comparativi di profumi, al cui interno ciascun profumo, prodotto da terzi, viene identificato tramite il marchio (rinomato) utilizzato per esso. In una vicenda analoga, la stessa casa produttrice di profumi (L'Oréal) ha ottenuto da un giudice italiano un provvedimento cautelare (Trib. Bologna, 5 marzo 2008, in Giur. ann. dir. ind., 2008, n. 5277, 797). In questo caso, oltre la diffusione di una tabella di concordanza di profumi, è stata riscontrata anche una contraffazione dei marchi speciali della ricorrente. La questione viene esaminata alla luce dell'art. 3-bis della direttiva n. 84/450, in materia di pubblicità ingannevole, inserito dalla direttiva n. 97/55, che ha modificato la direttiva n. 84/450 al fine di includere in essa la disciplina della pubblicità comparativa [con l'entrata in vigore della direttiva n. 2005/29 in tema di pratiche commerciali sleali l'art. 3-bis della direttiva n. 84/450 è stato ulteriormente ritoccato. Il punto h), di cui si dirà più avanti, è diventato punto g), ma il suo testo è rimasto immutato.

2 L'art. 3-bis della direttiva n. 84/450 presenta una serie di condizioni di liceità della pubblicità comparativa e, tra esse, il fatto di non ingenerare confusione sul mercato (punto d), il fatto di non trarre indebitamente vantaggio dalla notorietà connessa al marchio di un concorrente (punto g), ed il fatto di «non rappresent(are) un bene o servizio come imitazione o contraffazione di beni o servizi protetti da un marchio o da una denominazione commerciale depositati» (punto h). Per meglio delineare la fattispecie affidata al giudizio della Corte, conviene precisare che, nel caso di specie, era esclusa in fatto la presenza di un rischio di confusione tra prodotti degli attori e prodotti dei convenuti. Si può ritenere che fosse anche esclusa la presenza di un rischio di associazione. Deve dirsi, inoltre, che non è emersa alcuna significativa differenza, in fatto, tra i prodotti (ciascun profumo) delle attrici ed i prodotti (ciascun profumo) delle convenute che venivano «comparati» come identici; non si poneva quindi, in fatto, un problema di possibile confusione della comparazione. Neppure è emerso che, in fatto, i prodotti imitati fossero di qualità particolarmente scadente rispetto agli altri, e che quindi l'accostamento degli uni agli altri potesse nuocere alla reputazione delle imprese attrici e/o dei loro prodotti e/o dei loro marchi. Tutto ciò merita essere sottolineato perché è ampiamente noto che in varie ipotesi di comparazione possono riscontrarsi, di volta in volta, rischio di confusione, o rischio di associazione, o rischio di inganno del pubblico per la non identità dei prodotti comparati, o rischio di «infangamento» del marchio (rinomato) per la cattiva qualità del prodotto comparato. In ciascuno di questi casi, come pure è noto, si perviene correntemente ad una valutazione di illiceità della comparazione, motivata proprio dalla presenza, volta a volta, dei fattori elencati, e non della comparazione in sé. La fattispecie - al vaglio della Corte di Giustizia - non presenta nessuna delle note fattuali sopra da ultimo elencate. Il problema della liceità o illiceità di una tabella di comparazione diretta tra prodotti uguali, indicati tramite i loro marchi, viene portato per la prima volta all'esame della Corte di Giustizia. Per la verità, esattamente un anno prima, la Corte, con la sentenza 02 Holdings Limited e 02(UK) Limited contro Hutchinson 3G UK Limited (Corte Giustizia CE, 12 luglio 2008, in causa C-533/06, 02 Holdings Limited e 02(UK) Limited contro Hutchinson 3G UK Limited, in Giur. ann. dir. ind., 2008, n. 5324, 1269) aveva deciso dell'uso di un segno simile al marchio altrui all'interno di una pubblicità comparativa. In quel caso, una pubblicità poneva a confronto, senza alcun effetto confusorio, le tariffe proposte da diversi operatori di telefonia, ed in essa, per meglio indicare i servizi altrui, comparivano «segni» simili ai marchi utilizzati dal loro produttore. La Corte ha rilevato che «il legislatore comunitario ha voluto favorire la pubblicità comparativa», ed «ha ritenuto che la necessità di favorire la pubblicità comparativa rend(e) necessario limitare in una qualche misura il diritto conferito al marchio». Del resto, la direttiva n. 97/55 espressamente riconosce, al considerando 14, che «per potere svolgere una pubblicità comparativa efficace, può essere indispensabile identificare i prodotti o i servizi di un concorrente facendo riferimento ad un marchio di cui quest'ultimo è titolare, oppure alla sua denominazione commerciale». La Corte ha, quindi, interpretato l'art. 3-bis della direttiva n. 84/450 nel senso che «il titolare di un marchio registrato non può vietare l'uso da parte di un terzo in una pubblicità comparativa che soddisfa tutte le condizioni di liceità enunziate dal detto art. 3-bis, n. 1, di un segno identico o simile al suo marchio [...] quando tale uso non dà adito ad un rischio di confusione per il pubblico». Il caso deciso dalla sentenza che si annota si differenzia dal precedente appena citato per due elementi: in primo luogo, per il fatto che il marchio utilizzato da soggetto diverso dal titolare in una pubblicità comparativa non confusoria era un marchio che godeva di rinomanza; in secondo luogo, per il fatto che la pubblicità comparativa raffigurava il prodotto dell'autore della pubblicità come imitazione del prodotto contrassegnato dal marchio rinomato. A monte si nota una ulteriore e netta differenza in fatto tra i due casi, perché in 02 Holdings Limited e 02(UK) Limited l'autore della pubblicità proponeva solo il confronto tra due servizi, mentre nel caso L'Oréal l'autore della pubblicità proponeva una tabella comparativa articolata su un numero consistente di coppie di prodotti messi a confronto. Ma questa differenza non ha inciso, e non aveva ragione di incidere, sul problema del reperimento della disciplina, mentre invece hanno inciso le due differenze che segnalo nel testo.

3 Dando rilievo a questi due dati, la Corte perviene ad una conclusione opposta rispetto a quella offerta dalla sentenza precedente, senza, tuttavia, alcuna specifica argomentazione in ordine al fatto che tali dati giustifichino davvero il ribaltamento di posizione. La Corte, infatti, si limita ad affermare che l'art. 3-bis della direttiva n. 84/450 deve essere interpretato nel senso che esso vieta di affermare, nella propria pubblicità, che il proprio prodotto sia imitazione di un prodotto altrui se quest'ultimo viene indicato tramite il marchio, ed il marchio gode di rinomanza. La Corte non si preoccupa di spiegare chiaramente per quale ragione venga capovolto, in presenza di un marchio rinomato e di una affermazione del carattere imitativo del proprio prodotto, il rapporto tra tutela del marchio e interesse alla esistenza e diffusione della pubblicità comparativa che la sentenza 02 Holdings Limited e 02 (UK) Limited aveva detto essere fissato dalla normativa comunitaria in favore del secondo elemento; rapporto che la direttiva n. 97/55 (come evidenzia, in particolare, il considerando 14, sopra citato) espressamente riconosce atteggiarsi in quei termini. In definitiva, la Corte non spiega perché l'interesse alla diffusione della pubblicità comparativa (che, nel precedente 02 Holdings Limited e 02(UK) Limited, era stato detto prevalere rispetto all'interesse del titolare del marchio al non uso del suo marchio da parte del terzo) diventi recessivo rispetto all'interesse del titolare del marchio, quando questo è un marchio che gode di rinomanza e quando la comparazione indica il prodotto dell'autore della pubblicità come imitazione di un prodotto altrui. Inoltre, e soprattutto, la Corte non si avvede che, nella pubblicità comparativa posta al suo esame, il marchio del profumo altrui veniva utilizzato come «nome comune», denominazione generica del profumo stesso. E questo uso non poteva avere equipollente, perché il singolo profumo non ha un suo nome comune, non ha una denominazione generica. In realtà, il marchio del profumo equivale in fatto (almeno, come si vedrà più avanti, in alcuni casi) al nome comune del prodotto. Diviene quindi impossibile, a chiunque, indicarlo, se non attraverso il marchio che lo contrassegna. In altri tempi, in altre occasioni, una risposta al problema del nome del prodotto nuovo è stata reperita nella disciplina della volgarizzazione. Così fu deciso, ad esempio, in sede penale, nel caso del marchio «nylon» (Cass., 17 novembre 1959, in Riv. dir. ind., 1960, II, 331, con nota di Jager, Sulla volgarizzazione del marchio) e, in sede civile, nel caso «cellophane» (Trib. Milano, 9 ottobre 1972, in Riv. dir. ind., 1975, II, 275 ss. con nota di Franceschelli, Il caso Cellophane, e in Giur. ann. dir. ind., 1972, n. 181, 1312 ss.; App. Milano, 21 novembre 1975, in Riv. dir. ind., 1976, II, 69; Cass., 11 dicembre 1978, n. 5833, ivi, 1979, II, 392, con nota di Franceschelli, La Cassazione italiana sposa, sulla volgarizzazione del marchio, la teoria oggettiva, e in Giur. ann. dir. ind., 1978, n. 1016, 121 ss.) In quei casi, come è noto, i Giudici hanno ritenuto che l'interesse alla libera utilizzazione del marchio del prodotto nuovo (cioè, l'interesse alla libera utilizzazione del nome del prodotto nuovo) è salvaguardato dalla norma secondo la quale il diritto di marchio si estingue (appunto, per volgarizzazione) quando il marchio è divenuto «denominazione generica del prodotto». Non mi sembra che questa risposta sia adeguata. Il problema del nome del prodotto nuovo può trovare risposta nella disciplina della volgarizzazione, se lo si pone quando in fatto sono presenti i presupposti specifici di questa fattispecie, e cioè (tra gli altri) un uso sufficientemente diffuso del marchio altrui come nome, il decorso di un arco temporale sempre alquanto lungo, e (a partire dall'entrata in vigore della direttiva n. 89/194/CE) una «attività o inattività» del titolare. La presenza di queste note costitutive rende però la regola dell'estinzione per volgarizzazione inadatta a gestire sempre il problema del nome del prodotto nuovo, perché non consente di affermare una generale libertà di uso del nome anche nella prima fase di vita del prodotto nuovo, quando queste condizioni di norma non sono in fatto presenti. In altri termini: la disciplina della volgarizzazione ha un obiettivo diverso da quello che si vorrebbe (e si dovrebbe) raggiungere nel caso in esame. Essa si propone di reagire alla perdita di capacità distintiva, cioè ad una sopravvenuta carenza del carattere distintivo. Altra cosa è l'assenza originaria di tale carattere, rispetto alla quale gli strumenti giuridici di reazione devono essere altri. Il caso del marchio del prodotto nuovo, che non ha un nome comune, dovrebbe ritenersi pienamente coperto dalla regola che esclude la tutelabilità dei marchi che siano «composti esclusivamente da segni o indicazioni che in commercio possono servire a designare la specie [...] del prodotto o servizio» (si cfr.no

4 art. 3, n. 1, lett. c), della direttiva n. 89/104; art. 7, n. 1, lett. c), del regolamento n. 40/94 sul marchio comunitario; art. 13, comma 1, del nostro codice della proprietà industriale). Inoltre, va tenuto presente il limite agli effetti del marchio d'impresa, costituito dal fatto che il diritto di marchio «non permette al titolare dello stesso di vietare ai terzi l'uso nel commercio: [...][...] b) di indicazioni relative alla specie [...] o ad altre caratteristiche del prodotto o del servizio» ( si cfr.no anche art. 6, comma 1, lett. b), della direttiva n. 89/104; analogamente l'art. 12, lett. b), del Regolamento n. 40/94 e l'art. 21, comma 1, lett. b) del codice della proprietà industriale). Queste regole del diritto di marchio sono universalmente note. Esse sono importanti sotto due profili diversi. Da un lato, perché attribuiscono direttamente una libertà di uso del nome del prodotto nuovo (ovviamente, in funzione descrittiva, e non in funzione distintiva); dall'altro, perché esprimono un principio che (assieme ad alcuni altri) attesta l'inesistenza, nel sistema europeo e nel sistema nazionale del diritto di marchio, di una tutela per così dire «assoluta» del marchio, che consenta di valutare illecita ogni utilizzazione del marchio altrui da parte di soggetto diverso dal titolare. Il coordinamento di queste regole - con la normativa di protezione del marchio che gode di rinomanza - è assicurato dalla previsione (s.v. art. 5, comma 2, della direttiva n. 89/104/CE) secondo la quale il marchio che gode di rinomanza conferisce al suo titolare «il diritto di vietare ai terzi [...] di usare [...] un segno identico o simile [...] se l'uso immotivato del segno consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla notorietà del marchio d'impresa o reca pregiudizio agli stessi». Le normative moderne ammettono la registrazione come marchio solo per i segni «suscettibili di essere raffigurati graficamente» (così l'art. 7, c.p.i. e, analogamente, l'art. 2 della direttiva n. 89/104/CE e l'art. 4 del Regolamento n. 40/94/CE). A proposito di aromi e profumi, si scrive, infatti, che «può in linea di principio ammettersi la registrazione di [...] marchi olfattivi, costituiti da profumi o odori. [...] Di fatto, tuttavia, si tende a negare in giurisprudenza che questi marchi possano essere oggetto di una idonea rappresentazione grafica». «[...] Nel nostro ordinamento la registrazione di un marchio olfattivo non appare di per sé incompatibile con il presupposto della rappresentabilità grafica del segno. Per quanto attiene, invece, alle modalità attraverso le quali la registrazione può essere effettuata, appare necessario un approccio flessibile al problema?». «Ove si tratti di una fragranza semplice, caratterizzata da una o più componenti facilmente identificabili (ad esempio, rosa, lavanda, o limone e menta) la descrizione solo verbale appare sufficiente. Nel caso, invece, di fragranze più complesse, la descrizione verbale potrebbe risultare eccessivamente indeterminata [...]. In queste ipotesi, la soluzione di accompagnare alla descrizione verbale anche la «strisciata» risultante da una o più analisi delle componenti della fragranza potrebbe essere più tranquillizzante [...]». L'Autore qui si riferisce agli esiti di specifiche indagini quali la gascromatografia (GC), la high performance liquid chromatography (HPLC), la spettrometria di massa (MS), la risonanza nucleare magnetica (NMR), la spettroscopia agli infrarossi (IR), la spettroscopia agli ultravioletti (UV). E, per il caso che tali metodi non consentano l'identificazione del profumo, e dunque «la fragranza non possa essere altrimenti identificata (la registrazione sarà possibile attraverso la indicazione della composizione chimica del profumo, ndr)». (L. Mansani, I marchi olfattivi, in Riv. dir. ind., 1996, I, 263 ss. I brani citati sono alle pp ) Una descrizione verbale di un profumo, a volte possibile, in altri casi è sicuramente impossibile. In tanti altri, ancora, la situazione è profondamente diversa, anzi opposta, perché il prodotto nuovo può essere identificato in termini accettabili. Ad esempio, se un produttore di pasta realizza un nuovo tipo di tortellini alla cannella, o di cornetti al peperoncino, che nessuno prima ha mai visto o mangiato, si avrà certamente un prodotto nuovo, un prodotto, cioè, che nessun altro ha mai realizzato. Chiunque potrà imitarlo (posto che non esista per esso un diritto di esclusiva), ma è verosimilmente da escluder che si possa anche impiegare il marchio che il primo produttore utilizza per contrassegnare il proprio prodotto: quanto creato, infatti, potrà, di regola, essere indicato facendo ricorso ad altre parole comuni. Potrà dirsi, ad esempio, tortellini alla cannella, o cornetti al peperoncino, ma mai utilizzare il marchio già in uso al primo imprenditore. In definitiva, solo quando il linguaggio comune non consente di indicare il prodotto con altre parole o con perifrasi accettabili (nel senso sopra indicato), chi produce quel prodotto potrà legittimamente utilizzare, per indicarlo, la parola che il creatore del prodotto ha utilizzato come marchio, perché in realtà quella parola è, appunto, il nome del prodotto, e non un marchio. Fermo restando che,, potrà

5 usare solo la parte denominativa del marchio, e non i suoi altri elementi caratterizzanti (grafismi, colori, disegni, ecc.) eventualmente presenti nel marchio stesso. Certamente, la linea di confine tra le due fattispecie astratte che vengono a delinearsi (prodotto nuovo descrivibile a parole e prodotto nuovo non descrivibile a parole) può presentarsi difficile da tracciare e da identificare in concreto. Ma si tratta delle ordinarie difficoltà, cui il giurista è (o dovrebbe essere) educato da sempre, che presenta il modo di procedere per fattispecie astratte. Questa la prima «giustificazione» dell'uso del marchio rinomato altrui nel caso L'Oréal: quella che muove dalle regole che consentono l'uso del marchio altrui in funzione descrittiva. La seconda «giustificazione» è quella che deriva dalle regole della pubblicità comparativa e che, peraltro, e non per caso, è alla prima strettamente collegata sul piano logico (l'uso del marchio altrui nella pubblicità comparativa non è che un caso particolare di uso del marchio altrui in funzione descrittiva). La Corte di Giustizia decide il caso sottoposto al suo esame alla luce della norma espressa dall'art. 3-bis della direttiva n. 84/450, che indica come condizione di liceità della pubblicità comparativa, tra le altre, il fatto di «non rappresent(are) un bene o servizio come imitazione o contraffazione di beni o servizi protetti da un marchio o da una denominazione commerciale depositati». Questa condizione viene intesa, dalla Corte, nel senso che la pubblicità comparativa non possa mai legittimamente rappresentare un prodotto come imitazione di un prodotto altrui contrassegnato da un marchio registrato. Il diritto dell'unione Europea pensa che sia importante incentivare l'uso della pubblicità comparativa, perché consente al pubblico di identificare le differenze esistenti tra i vari prodotti della stessa specie e, quindi, consente al pubblico di effettuare con maggiore consapevolezza il proprio atto di acquisto. Con tutta evidenza, questa funzione chiarificatrice della comparazione non può essere affermata solo per l'ipotesi in cui i prodotti siano effettivamente diversi: tutto sommato, in questa ipotesi, il pubblico potrebbe ancora (visto che, appunto, esistono margini di differenziazione qualitativa identificabili) cavarsela da solo, anche in assenza di pubblicità comparativa. Di converso, è proprio quando i prodotti sono tendenzialmente o esattamente identici che la pubblicità comparativa può svolgere un ruolo prezioso, se non insostituibile, avvertendo appunto il pubblico di una identità difficilmente percepibile. L'unica lettura sistematicamente accettabile dell art. 3-bis della direttiva n. 84/450 è quella per la quale la comparazione deve ritenersi illecita (solo) quando l'imitazione del prodotto o servizio altrui è in sé illecita (perché, ad esempio, il prodotto è coperto da un brevetto per invenzione o per modello, o da una registrazione come modello, o da una privativa per novità vegetale, o altro). In definitiva, la comparazione dovrebbe, invece, essere valutata sempre lecita (salva, ovviamente, la presenza di tutte le altre condizioni di liceità di cui al detto art. 3-bis) se in essa si afferma l'imitazione del prodotto altrui, ma questa imitazione è lecita. Condizionare la liceità della pubblicità comparativa alla liceità della produzione e commercializzazione del prodotto è sicuramente razionale e ragionevole. Sia la direttiva, sia la sentenza, nella versione italiana, parlano di «beni o servizi protetti da un marchio». Questa terminologia, inavvertitamente ed incautamente, potrebbe suggerire un ampliamento, certamente indebito, del contenuto dell'esclusiva dal segno al prodotto stesso. Il tema delle funzioni del marchio, come è ampiamente noto ai cultori del diritto di marchio, è tema intricato e controverso, e l'evoluzione dei tempi, ed i cambiamenti recati dal tempo al mercato, hanno portato all'emersione di nuove funzioni del marchio; ma nessuno fin qui ha mai detto apertamente, né in Italia né all'estero, e certamente il diritto vigente non consente di dire, che tra le funzioni del marchio vi sia, o potrebbe esservi, quella di «proteggere» un prodotto, nel senso che questa parola ha nel diritto della concorrenza, e cioè nel senso di attribuire un diritto esclusivo di produzione e commercio di un prodotto.

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