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OSSERVATORIO SULLA GIURISPRUDENZA PENALE AGGIORNATO AL 30 GIUGNO 2012 a cura di Cristina Cilla Corte di Cassazione, sez. II, sent. 21 giugno 2012, n. 24643: l inapplicabilità della causa di non punibilità di cui all art. 649 c.p. alle ipotesi previste dal terzo comma della medesima disposizione si riferisce alle sole forme consumate e non anche a quelle tentate. Con la sentenza in commento la Suprema Corte si pronuncia sull ambito di applicazione dell art. 649 c.p. Tale disposizione prevede, al primo comma, la non punibilità del soggetto che ha commesso alcuno dei fatti previsti dal titolo XIII del codice penale (delitti contro il patrimonio) in danno dei congiunti. Segnatamente, tale causa di non punibilità opera nei confronti del coniuge non legalmente separato, degli ascendenti, discendenti, affini in linea retta, adottanti, adottati ovvero di fratelli o sorelle conviventi con il reo. Al secondo comma, invece, prevede la punibilità a querela della persona offesa se i suddetti fatti di reato siano commessi a danno del coniuge legalmente separato, ovvero del fratello o della sorella non conviventi con l'autore del fatto, ovvero dello zio o del nipote o dell'affine in secondo grado con lui conviventi. Infine, il terzo comma statuisce che la disciplina prevista dai commi primo e secondo non si applica ai delitti preveduti dagli artt. 628 (rapina), 629 (estorsione) e 630 (sequestro di persona a scopo di estorsione) e ad ogni altro delitto contro il patrimonio commesso con violenza alle persone. Con la pronuncia in esame la Suprema Corte affronta tre importanti questioni di diritto. In primo luogo, chiarisce che nel caso in cui uno dei coniugi abbia un figlio nato da precedente matrimonio, ai fini dell'operatività della causa di non punibilità di cui all'art. 649, comma 1, egli è considerato affine in linea retta dell'altro coniuge. In secondo luogo, la Corte di Cassazione conferma il pacifico orientamento giurisprudenziale secondo cui l esclusione dell'esimente per i delitti contro il patrimonio commessi in danno dei congiunti si riferisce, nel fare menzione dei delitti di rapina, estorsione e sequestro di persona a scopo di estorsione, alle sole forme consumate e non anche al tentativo (cfr., da ultimo, Cass. pen., sez. 2, 27 febbraio 2009, n. 12403). Tale soluzione si giustifica in ragione 1

dell'autonomia della fattispecie tentata rispetto a quella consumata, ancorché essa conservi il medesimo nomen iuris della corrispondente figura di delitto consumato. Anche la dottrina concorda con la soluzione di descrivere il tentativo quale autonoma figura di reato, risultante dalla combinazione di una norma principale - la norma incriminatrice speciale - e di una norma secondaria - quella sancita dall'art. 56 c.p., che ha efficacia estensiva -. Del resto, la qualificazione del delitto tentato quale autonoma fattispecie di reato rispetto a quello consumato non risponde ad esigenze meramente classificatorie, ma produce rilevanti conseguenze pratiche: nei casi in cui l'ordinamento ricolleghi determinati effetti giuridici alla commissione di reati specificamente indicati mediante l'elencazione degli articoli che li prevedono, senza ulteriori precisazioni, dovrà ritenersi che essi si producono esclusivamente per le fattispecie consumate e non anche per quelle tentate (v. Cass. pen., sez. II, 14 dicembre 1998, n. 7441). Aderendo a tale principio, anch esso pacifico in giurisprudenza, la Suprema Corte precisa che, tenendo conto dell'autonomia del delitto tentato e, al tempo stesso, del principio di tassatività della norma penale di cui all'art. 25, comma 2, Cost. (da cui è desumibile il divieto di analogia in malam partem), deve ritenersi che gli effetti giuridici sfavorevoli, previsti con specifico richiamo a determinate norme incriminatrici, vadano riferiti alla sola ipotesi del reato consumato e non anche al tentativo. Essendo, infatti, le norme sfavorevoli di stretta interpretazione, ne consegue che, in difetto di espressa previsione, esse non possano essere analogicamente riferite alla figure di delitto tentato (cfr. anche Cass. pen., sez. I, 15 aprile 1985, n. 1036). Non sarebbe, pertanto, consentito, l'ampliamento per analogia in malam partem del novero dei reati per i quali la causa di non punibilità di cui all'art. 649 cod. pen. non opera. In terzo luogo, la Suprema Corte si pronuncia sull ambito di applicazione della formula ogni altro delitto contro il patrimonio commesso con violenza alle persone prevista dall art. 649, comma 3, ultima parte, c.p. Sul punto, la Corte condivide l orientamento maggioritario in giurisprudenza secondo cui tale locuzione esclude la non punibilità di tutti i delitti, quindi anche di quelli tentati, commessi con 'violenza sulle persone'. Pertanto, con riguardo alla specifica questione sub judice (concernente una tentata estorsione commessa dal figlio di un coniuge nei riguardi del secondo marito dell altro coniuge senza violenza alle persone, ma unicamente con minaccia e violenza sulle cose) statuisce che il tentativo di estorsione commesso con minaccia in danno 2

del genitore non è punibile ex art. 649 cod. pen., in quanto le ipotesi criminose escluse dalla sua operatività concernono solamente, da un lato, i delitti consumati (non anche quelli tentati) di cui agli artt. 628, 629 e 630 cod. pen.; dall'altro, tutti i delitti contro il patrimonio, anche tentati ma commessi con violenza, con l'esclusione, quindi di ogni rilevanza, al fine che interessa, di quelli commessi con minaccia (in senso conforme v. Cass. pen., sez. II, 15 marzo 2005, n. 13694; Cass. pen., sez. II, 27 febbraio 2009, n. 12403; Cass. pen., 19 gennaio 2011, n. 18273). Per converso, la Suprema Corte non condivide il contrario indirizzo giurisprudenziale (v. Cass. pen., sez. VI, 18 dicembre 2007, n. 19299; Cass. pen., 4 luglio 2008, n. 35528), per il quale nella nozione di 'violenza alle persone' di cui all'ultima parte dell'art. 649 c.p., comma 3, rientrerebbe anche la violenza morale, perché tutte le fattispecie criminose a cui sì riferisce la causa di non punibilità si connotano per l'equiparazione della violenza alla minaccia. Invero, si obietta che il legislatore distingue inequivocabilmente la 'violenza'' dalla 'minaccia', quale possibile elemento costitutivo di reati contro il patrimonio. Corte di Cassazione, sez. VI, sent. 4 giugno 2012, n. 21446: sul discrimen tra l associazione per delinquere e il concorso di persone nel reato e tra il reato di corruzione e quello di concussione. La pronuncia in esame si segnala per il fatto di confermare il discrimen tra l associazione per delinquere ed il concorso di persone nel reato, nonché quello tra il reato di corruzione e quello di corruzione. In ordine al primo punto, infatti, la Corte di Cassazione conferma il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui l'associazione per delinquere in tanto sussiste, in quanto si costituisca e permanga un vincolo associativo continuativo tra tre o più persone, allo scopo di commettere una serie indeterminata di delitti, attraverso la predisposizione comune dei mezzi necessari alla realizzazione del programma criminoso e con la permanente consapevolezza da parte di ciascuno degli associati, di far parte del sodalizio e di essere disponibile ad attuarne il programma, e tale particolare atteggiarsi del 'pactum sceleris' distingue nettamente l'associazione per delinquere dal concorso di persone nel reato, anche continuato, il quale al contrario richiede l'accordo di due o più persone diretto a conseguire un determinato reato o anche più reati, collegati da un medesimo disegno criminoso (così anche Cass. pen., sez. I, 23.101994, n.10835; Cass. pen., 9.02.1996 n. 4825). Pertanto, 3

l associazione per delinquere si caratterizza per l indeterminatezza del programma criminoso, mentre la fattispecie concorsuale sussiste in caso di accordo diretto alla realizzazione di uno o più reati precisamente individuati. In ordine alla seconda questione, la Suprema Corte richiama il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui l'elemento distintivo del reato di concussione rispetto a quello di corruzione non è tanto l'eventuale vantaggio, che deriva al privato dall'accettazione della illecita proposta del pubblico ufficiale, quanto l'esistenza di una situazione idonea a determinare uno stato di soggezione psicologica del privato nei confronti del pubblico ufficiale, esercitata mediante l'abuso della sua qualità o dei suoi poteri (cfr., ex plurimis, Cass. pen., sez. VI, 3.12.2009 n. 46514). Nel caso di specie, infatti, l'imputato, nella sua qualità di funzionario della agenzia delle entrate, aveva costituito una associazione a delinquere unitamente ad altri due colleghi, allo scopo di commettere più delitti di concussione in danno dei titolari delle società oggetto di verifica fiscale in ordine all'osservanza della legge n. 388/2000 in materia di crediti di imposte per investimenti nelle aree svantaggiate. Pertanto, alla luce del principio sopraenunciato e dello stato di assoggettamento psicologico riscontrato in capo alle vittime, la Suprema Corte ritiene corretta la qualificazione giuridica delle ipotesi di reato contestate all'imputato in termini di concussione piuttosto che di corruzione. Corte di Cassazione, sez. III, sent. 15 giugno 2012, n. 23798: il reato di illecito trattamento di dati personali di cui all art.167 d.lgs. 196/2003 è un reato di pericolo effettivo e non meramente presunto, donde l illecita utilizzazione di detti dati è punibile non già in sé e per sé, ma in quanto suscettibile di produrre nocumento alla persona dell'interessato e/o al suo patrimonio. Nella vicenda sottoposta all attenzione della Suprema Corte, l amministratore delegato e il responsabile del trattamento dei dati di una società sono stati condannati dal giudice di merito per il reato di cui all art. 167, comma 1, d.lgs. 196/2003 perché, in concorso tra loro, con più azioni ed in tempi diversi, al fine di trarne profitto (rappresentato dagli introiti commerciali e pubblicitari derivanti dall'uso, su internet, dei dati informatici gestiti) hanno effettuato un trattamento dei dati personali in violazione degli artt. 23, 129 e 130 della medesima legge. Segnatamente, la società incriminata ha stipulato un contratto di concessione di spazi pubblicitari con un altra, che ha creato un sito al quale era abbinato un servizio di newsletter; in seguito alla risoluzione unilaterale del contratto, la prima società, senza consenso e senza 4

informare gli iscritti della cessazione della lista, ha continuato ad accedere al sito, recapitando agli stessi altre newsletter non richieste, pubblicizzando così gratuitamente i suoi servizi e cagionando simultaneamente all altra società. Data la peculiarità della fattispecie sub judice, la Suprema Corte coglie l occasione per fare delle precisazioni importanti, in primo luogo, in tema di frode informatica, in secondo luogo, in materia di illecito trattamento di dati personali. In ordine al primo punto, la Corte di Cassazione richiama la distinzione tra il reato di frode informatica di cui all art. 640 ter c.p. e quello di truffa previsto dall art. 640 c.p.: è pacifico, infatti, che la frode informatica consta dei medesimi elementi costitutivi della fattispecie generale di truffa, dalla quale si differenzia solamente perché l'attività fraudolenta dell'agente investe non la persona (soggetto passivo), di cui difetta l'induzione in errore, bensì il sistema informatico di pertinenza della medesima, attraverso la manipolazione di detto sistema (così Cass. pen., sez. II, 11.11.2009; Cass. pen., sez. VI, 4.10.99). Di conseguenza, anche la frode informatica si consuma nel momento in cui l'agente [manipolando il sistema informatico] consegue l'ingiusto profitto con correlativo danno patrimoniale altrui (cfr. anche Cass. pen., sez. II, 11.11.2009; Cass. pen., sez. VI, 4.10.1999; Cass. pen., sez. V, 24.11.2003). Essenziale è, quindi, la definizione della nozione di profitto ai fini dell art. 640 ter c.p., posto che essa è sempre stata intesa, sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza, nel senso più ampio ed aderente al contesto in cui viene evocata (es. misura di sicurezza o elemento costitutivo dei reato), nonché alla tipologia di reato che viene di volta in volta in rilievo. Sennonché, la giurisprudenza ha ritenuto che costituisca profitto non solo il vantaggio economico (e, più ingenerale, l'incremento del patrimonio), ma anche qualunque soddisfazione o piacere che l'agente si riprometta di conseguire dalla propria condotta criminosa. Inoltre, con riguardo al reato di truffa, di recente, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno precisato che il concetto di atto di disposizione patrimoniale (cui corrisponde, di riflesso, il profitto ingiusto dell'agente) consiste in un atto volontario, causativo di un ingiusto profitto altrui a proprio danno e determinato dall'errore indotto da una condotta artificiosa. Ne consegue che lo stesso non deve necessariamente qualificarsi in termini di atto negoziale, ovvero di atto giuridico in senso stretto, ma può essere integrato anche da un permesso o assenso, dalla mera tolleranza o da una "traditio", da un atto materiale o da un fatto omissivo, dovendosi ritenere sufficiente la sua idoneità a produrre un danno (Cos, 5

Cass. pen., SS.UU., 29.09.2011). Analogamente, è stato affermato che, per la configurabilità del reato di traffico illecito di rifiuti di cui all art. 53 bis d.lgs 22/1997, il profitto ingiusto non deve assumere necessariamente carattere patrimoniale, potendo essere costituito anche da vantaggi di altra natura (Cass. pen., sez. III, 16.10.2005). In termini simili, con specifico riferimento al reato di frode informatica, si è detto che il profitto non deve coincidere necessariamente con un vantaggio economico, ma possa assumere altre caratteristiche (come il potere fare una telefonata internazionale eludendo il sistema di blocco telefonico per le chiamate internazioni ovvero - come nel caso in esame - il farsi pubblicità presso clienti i cui recapiti siano stati acquisiti artificiosamente). Peraltro, la circostanza che la manipolazione del sistema informatico possa determinare il compimento di un atto di disposizione patrimoniale da parte di una persona fisica o, comunque, determinarne una deminutio patrimoni, non vale a cambiare la natura del reato posto che la differenza rispetto al reato di truffa consiste nel fatto che l'atto di disposizione patrimoniale consegue alle risultanze informatiche, anziché ad una diretta induzione in errore. Del resto, può accadere, come nel caso di specie, che vi sia una sovrapposizione dei momenti della condotta e dell'evento, posto che l'attività manipolatoria del sistema coincide con il conseguimento del profitto (che non deve essere, necessariamente, di tipo economico): qui, infatti, il profitto viene ottenuto dall'agente immediatamente, nel momento in cui egli con un semplice "click", spedisce simultaneamente un numero imprecisato di missive elettroniche pubblicitarie ad indirizzi acquisiti illecitamente; di conseguenza, il danno patrimoniale si è verificato già nel momento del profitto raggiunto sì che l'atto di disposizione patrimoniale (eventualmente) conseguente è successivo e non necessario, in quanto giuridicamente non rilevante, ad integrare un profitto (anche di altra natura) già conseguito dall'agente. In senso conforme a tale impianto argomentativo, la stessa Suprema Corte, in una recente pronuncia (Cass. pen., 25.01.2011) ha asserito che il reato di frode informatica aggravata, commesso in danno di un ente pubblico, si consuma nel momento in cui il soggetto agente (netta specie: un pubblico dipendente infedele) interviene, senza averne titolo, sui dati del sistema informatico, alterandone, quindi, il funzionamento. In ordine all illecito trattamento dei dati sensibili, la Suprema Corte si sofferma sulla natura giuridica del nocumento richiesto dalla fattispecie di reato di cui all art. 167, d. lgs. n. 196/2003. 6

Contrariamente a quanto accadeva nella vigenza della pregressa normativa (legge n. 675 del 1996) - quando il trattamento di dati sensibili senza il consenso dell'interessato integrava il reato anche se non ne derivava un nocumento alla persona offesa ed il suo verificarsi dava luogo ad un'ipotesi aggravata, secondo la normativa vigente, invece, questo elemento costituisce una condizione obiettiva di punibilità, la cui assenza impedisce la sottoposizione a sanzione di un reato in sé strutturalmente completo. In base ai principi generali di diritto, la natura di condizione obiettiva di punibilità del nocumento fa sì che esso sia un fattore esterno alla fattispecie delittuosa che è integralmente realizzata dal verificarsi dei suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso di causalità ed elemento psichico), ma che diviene punibile solo al verificarsi di questo quid pluris che il legislatore definisce nocumento e che deve discendere dal fatto (così Cass. pen., sez. III, 3.05.2008 e Cass. pen., sez. III, 9.07.2008, che hanno altresì evidenziato la continuità normativa esistente fra la disposizione attuale e quella precedente). In ordine al significato del termine nocumento, esso altro non significa che "l atto, o l effetto, del nuocere". Sennonché, sebbene tale termine sia sovrapponibile a quello di danno (anch esso indicante ogni fatto, circostanza o azione che "nuoce", sia materialmente che moralmente), occorre però considerare, alla luce della ratio legis, che il legislatore, con la valorizzazione del fattore "nocumento", ha inteso richiamare l'attenzione sulla concreta offensività della condotta. In termini simili, quanto detto si è verificato anche nell ambito del reato di patrocinio infedele di cui all'art. 380 c.p., relativamente al quale la sempre Suprema Corte ha affermato che, pur quando sia accertata la dolosa astensione del difensore dall'attività processuale per la quale aveva ricevuto il mandato, non si può ritenere raggiunta la prova della colpevolezza, se non vi è anche quella del nocumento, per gli interessi della parte, che da quella condotta sia derivato (Cass. pen., sez. VI, 26.05.2011). Pertanto, il "nocumento" non coincide con il "danno", bensì con la effettività ed incidenza dell'evento lesivo causato da quest'ultimo, donde, ai fini della disposizione dell'art. 167 in esame, il richiamo al nocumento evoca ed istituzionalizza il principio di offensività. A tale stregua, considerata la molteplicità di forme di manifestazione del "nocumento" che può conseguire ad un illecito trattamento dei dati personali (pregiudizi sia patrimoniali che non strettamente economici, come quelli subiti dai familiari di una persona, deceduta, la cui immagine in stato morente era stata illecitamente diffusa), la Corte di Cassazione conclude asserendo che con l'inserimento della condizione obiettiva di punibilità di cui trattasi, il 7

legislatore abbia inteso, in qualche modo, arretrare la soglia dell'intervento penale anche alla semplice esposizione al pericolo di una lesione dell'unico bene protetto dal d.lgs. 196/93 (vale a dire il diritto dell'interessato al controllo sulla circolazione delle sue informazioni personali) formulando la norma come se si fosse al cospetto di un reato di pericolo concreto con dolo di danno. Il reato de quo, dunque, è perfetto quando la condotta si sostanzia in un trattamento dei dati personali posto in essere in violazione di disposizioni di legge e con il fine precipuo di trame un profitto per sé o per altri o di recare ad altri un danno, ma la sua punibilità discende dalla ricorrenza di un effettivo "nocumento" (nel senso, cioè, che il profitto conseguito o il danno causato siano apprezzabili sotto più punti di vista). In altri termini, aggiunge la Corte, si è al cospetto di un reato di pericolo effettivo e non meramente presunto, con il risultato che la illecita utilizzazione dei dati personali è punibile, non già in sé e per sé, ma in quanto suscettibile di produrre nocumento (cosa che, ovviamente, deve essere valutata caso per caso) alla persona dell'interessato e/o al suo patrimonio il nocumento che consegue all'illecito trattamento di dati personali è di vario genere non solo economico, ma anche più immediatamente personale, quale ad esempio, la perdita di tempo nel vagliare mail indesiderate e nelle procedure da seguire per evitare ulteriori invii. In fattispecie come quella in esame, al fine della individuazione del nocumento, non vi è alcun bisogno di identificare compiutamente ed interrogare decine (o centinaia) di migliaia di utenti internautici, i dati personali dei quali siano stati utilizzati in violazione della normativa, perché, in fattispecie di tal fatta, per il numero delle persone e le caratteristiche non certo estemporanee dell'attività di propaganda - attuata e da attuare - il vulnus è di tale entità da potersi quasi definire in re ipsa. E, dunque, innegabile che l'utilizzo in rete da parte della società dei dati personali di almeno 177.090 persone (che a ciò avevano facoltizzato solo la società concedente), ha rappresentato una indubbia e rilevante invasione della libertà personale sotto il profilo del diritto alla riservatezza di un significativo numero di persone, un indubbio fastidio, per la necessità di cancellare la posta indesiderata ed anche la messa in pericolo della privacy, attesa la circolazione non autorizzata di dati personali. Del resto, se si dovesse provare il nocumento in questo tipo di reati identificando ed escutendo tutte (o gran parte) delle persone offese raggiunte da mails indesiderate, si renderebbe la disposizione in esame pressoché inapplicabile, relegandola al pari di una norma-manifesto. 8

Corte di Cassazione, sez. I, sent. 14 giugno 2012, n. 23588: sul discrimen tra dolo eventuale e colpa cosciente nell ambito della circolazione stradale. Con la sentenza in epigrafe, la Suprema Corte torna a pronunciarsi sulla differenza tra dolo eventuale e colpa cosciente in materia di circolazione stradale. Nel caso sottoposto al vaglio della Corte Suprema, l indagato guidava per diciassette chilometri in autostrada contromano ad una velocità di circa 255 Km/h, viaggiando nella corsia d'emergenza o in quella centrale e obbligando le auto, che procedevano nel senso opposto, a cambiare direzione per evitare l'urto. Un autovettura con cinque ragazzi, non riuscendo ad evitare l impatto, urtava frontalmente contro l automobile dell imputato e, a causa dell incidente, quattro ragazzi decedevano. Il giudice di prime cure, qualificato il fatto come omicidio volontario, ha ritenuto che l imputato avesse agito non solo rappresentandosi la possibilità di cagionare con il suo comportamento - continuare a viaggiare in autostrada contromano di notte ad elevatissima velocità - la morte degli occupanti di uno o più veicoli, ma che ne avesse anche accettato il rischio, non compiendo alcuna manovra per evitare l'urto con altri veicoli ed aumentando sempre più la sua velocità per raggiungere il fine che si era prefissato, identificabile, in mancanza di un qualsiasi chiarimento in proposito, in quello di raggiungere al più presto il casello dal quale intendeva uscire dall'autostrada. La Suprema Corte condivide l impostazione seguita dal Tribunale del riesame, che ha, quindi, correttamente inquadrato l'elemento psichico dell agente nel dolo eventuale che, secondo la costante giurisprudenza di detta Corte, sussiste quando l'agente, ponendo in essere una condotta diretta ad altri scopi, si rappresenti la concreta possibilità del verificarsi di ulteriori conseguenze della propria condotta, e ciò nonostante agisca, accettando il rischio di cagionarle (V. Cass. pen., sez. un., sent. 14.02.1996, n. 3571; Cass. pen., sez. VI, 26.10.2006, n. 1367). Così, dunque, argomenta la Corte: sussiste il dolo eventuale quando chi agisce non ha il proposito di cagionare l'evento delittuoso, ma si rappresenta anche la semplice possibilità che esso si verifichi e ne accetta il rischio; quando invece l'ulteriore accadimento si presenta all'agente come probabile, non si può ritenere che egli, agendo, si sia limitato ad accettare il rischio dell'evento, bensì che, accettando l'evento, lo abbia voluto, sicché in tale ipotesi l'elemento psicologico si configura nella forma del dolo diretto e non in quella di dolo 9

eventuale. Per contro, si versa nella colpa cosciente qualora l'agente, nel porre in essere la condotta nonostante la rappresentazione dell'evento, ne abbia escluso la possibilità di realizzazione, non volendo né accettando il rischio che quel risultato si verifichi, nella convinzione, o nella ragionevole speranza, di poterlo evitare per abilità personale o per intervento di altri fattori. Nel caso di specie, quindi, non si rinviene nel comportamento dell'imputato alcun elemento dal quale dedurre che, in qualche modo, egli contava di poter evitare l'evento, perché ha invece continuato a marciare ad elevatissima velocità per circa dieci minuti senza porre in essere alcuna manovra che, per quanto spericolata, potesse far pensare alla sua intenzione di evitare l'urto con altri veicoli, contando sulla sua abilità. 10