della domanda al prezzo e positiva del prezzo all'intensitaá di domanda, presupposti necessari per raggiungere l'equilibrio, oltre a variabili



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VII. DALLE RIVISTE L. Pezzolo, Elogio della rendita. Sul debito pubblico degli Stati italiani nel Cinque e Seicento, in ``Rivista di Storia Economica'', n. 3, ottobre 1995. Il debito pubblico, in Italia, tra il Cinquecento e il Seicento, fu un elemento che interessoá la rivoluzione dei mercati finanziari europei all'inizio dell'etaá moderna. In questo articolo, l'autore affronta l'evoluzione del debito statale, sottolineando non solo il carattere, prevalentemente, economico degli investimenti in rendite pubbliche, ma anche l'importanza del crescente numero di risparmiatori che impegnarono i loro capitali in questo settore. Il lavoro riguarda, dapprima, il sistema del debito pubblico veneziano e, poi, l'evoluzione delle entrate statali delle altre cittaá italiane. A Venezia, tra il Quattrocento e il Cinquecento, il debito pubblico si basoá sui prestiti forzosi. I contribuenti veneziani, infatti, dovettero investire una parte dei loro redditi in rendite pubbliche, in cambio di un interesse del cinque per cento. Nel Cinquecento, questo sistema fu abbandonato, poicheâ lo stato fu inadempiente verso i contribuenti sfiduciati. Successivamente, il governo costituõá i depositi in Zecca, che consistettero in titoli emessi dallo stato e sottoscritti liberamente dagli acquirenti. Il ricorso al libero mercato creditizio fu incentivato dagli alti saggi di interesse, dalla possibilitaá di restituire il capitale in breve tempo, dalla totale esenzione fiscale e dalla dispensa da qualsiasi tipo di sequestro. Alla metaá del Seicento, un incremento della pressione fiscale causoá un'elevata attivitaá speculativa nell'acquisto dei titoli statali. Durante il XVII secolo, la rendita finanziaria fu definita parassitaria ed improduttiva, poicheâ serviva piuá per affermare un proprio potere sul territorio che per rappresentare una somma da investire in attivitaá commerciali o in altre attivitaá produttive. Coloro che investirono nella rendita pubblica furono persone che rappresentavano vari ceti sociali, quali nobili, borghesi, magistrati, enti religiosi, istituzioni laiche, mercanti ed artigiani. Una delle principali ragioni, per cui i governi italiani ebbero bisogno di prestiti di denaro furono i conflitti bellici, i cui costi erano in continua crescita. Nella rendita pubblica si riscontroá una triplice importanza. Dapprima sociale, per cui il pagamento degli interessi sostenne quotidianamente tutti i cittadini. Una rilevanza politica, poicheâ rappresentoá un mezzo per rafforzare la sicurezza sociale e consolidare i rapporti tra i governanti e gli investitori. Dal punto di vista economico, invece, costituõá uno degli investimenti piuá appetibili. Questa situazione sorprese, poicheâ i rendimenti dei titoli pubblici furono piuttosto bassi, rispetto a quelli di altre attivitaá, ma piuá sicuri. La crisi di alcuni settori, quali quello agricolo e commerciale, ridusse la differenza tra i vari saggi di interesse. CioÁ indusse i risparmiatori ad investire i propri capitali in un'attivitaá non rischiosa. 145

Si puoá concludere, che i titoli di stato furono principalmente un mezzo per consolidare i patrimoni personali, una possibilitaá di impiego sicuro, uno strumento di pagamento in mancanza della moneta ed una rendita per il sostentamento della collettivitaá. (T. Borriello) P. Ventura, Le ambiguitaá di un privilegio: la cittadinanza napoletana tra Cinque e Seicento, in ``Quaderni Storici'', n. 89, anno XXX, fascicolo 2, agosto 1995. Durante il XVI secolo, la cittaá di Napoli ebbe una densitaá di popolazione tale da essere considerata il secondo centro urbano in Europa. Numerosi furono gli immigrati che, nella seconda metaá del Cinquecento, si trasferirono nella cittaá partenopea, ottenendo ne la cittadinanza. Fu un privilegio essere considerato cittadino napoletano, poicheâ si ottennero numerosi vantaggi fiscali e giurisdizionali. L'ente che concesse la cittadinanza fu la Regia Camera della Sommaria; un ufficio, che oltre a sostenere gli interessi del fisco, disciplinoá e limitoá i permessi di cittadinanza napoletana. I privilegi furono l'esonero dal pagamento delle imposte dirette e indirette, il vantaggio di non essere processati per reati di lesa maestaá e la possibilitaá di partecipare alla vita politicoistituzionale. Dalla fine del Quattrocento fino al Settecento, gli Eletti (cioeá gli amministratori del comune), come i componenti della Camera della Sommaria, ebbero dal sovrano il compito di accordare il privilegio di cittadinanza. Tale vantaggio si ottenne in base a dei canoni di giustizia sociale, come l'acquisto di una casa, oppure con il possesso di cariche onorifiche, L'acquisizione, o meno, del privilegio di cittadinanza non incise sullo svolgimento delle attivitaá produttive, associative ed assistenziali. Nelle corporazioni di mestieri, ad esempio, si creoá una struttura che integroá bene le persone che vi lavoravano, al di laá del possesso della cittadinanza. Gli enti assistenziali, invece, si preoccuparono di trovare persone in grado di soccorrere i bisognosi, senza fare alcuna discriminazione. Per la concessione della cittadinanza napoletana la Camera della Sommaria istruõá un processo, in cui si accertoá che il richiedente avesse i requisiti giuridici, una buona integrazione sociale, il possesso di beni mobili e immobili, la mancanza di debiti e lo svolgimento di un'attivitaá mercantile. Il privilegio, una volta accordato, fu necessario rinnovarlo in base a delle norme giuridiche prestabilite. (T. Borriello) N. Giocoli, La teoria dell'interesse di Ferdinando Galiani e l'ipotesi di Bernoulli: una grande occasione perduta?, in ``Pensiero Economico Italiano'', V/1997/1. L'articolo riassume la teoria dell'interesse di Galiani e valuta il suo contributo all'evoluzione della teoria economica alla luce delle possibili interpretazioni di ``Bernoulli'' presente nel volume Della Moneta. Propedeutica all'analisi della teoria dell'interesse eá la teoria del valore: secondo Galiani, il valore eá determinato da ``un rapporto tra due rapporti, I cui fattori sono: l'utilitaá, scaturente dal rapporto tra costi e benefici e la raritaá, derivante dal rapporto tra stock di beni ed uso degli stessi. Da cioá nascono i princõápi di ``soggezione'' negativa 146

della domanda al prezzo e positiva del prezzo all'intensitaá di domanda, presupposti necessari per raggiungere l'equilibrio, oltre a variabili economiche, quali incidenza del reddito, del gusto e dell'analisi qualitativa dei beni correlati all'elasticitaá della domanda, rispetto al prezzo. Le intuizioni arrivano, passando per il principio dell'utilitaá marginale del bene, all'asserzione che la massimizzazione dell'utilitaá scaturisce dalla soluzione di un sistema, le cui incognite sono il bene (piacere) ed il male (batticuore), tendente ad eguagliare i benefici marginali ai costi marginali. Nella teoria dell'interesse, in relazione al contratto di mutuo, il giovane Galiani supera l'impasse dell'usura identificando i tratti essenziali del contratto: ``consegnare una cosa con il patto di riavere l'equivalente e niente di piuá''. Con il ``niente di piuá'' evita le problematiche connesse all'usura; mentre con ``l'equivalente'' ammette l'interesse in relazione al rischio che il mutuante corre, ragguagliato alla sicurezza del prestito ed all'incomodo subito: l'interesse ± prezzo corrisposto eá quello individuato seguendo l'equivalenza tra il piacere e la pena. L'interesse eá cioá che il mutuante avrebbe ottenuto investendo da seâ il denaro: il suo trasferimento, nel tempo e nello spazio, rappresenta la rinunzia ad un fondo di riccheza. I motivi del dovuto guadagno hanno aperto una querelle tra gli studiosi di economia: eá un compenso per la perdita di produttivitaá del capitale o un aggio per il rischio sostenuto? L'autore propende per questa seconda ipotesi. Dunque la portata innovatrice ed antesignana della teoria di Galiani risulta limitata con il conseguente allontanamento dalla stessa ``teoria dell'astinenza'', ma restano salde le intuizioni. Sul fraintendimento tra interesse ed usura, nel saggio Della Moneta, l'autore compie un'accurata analisi sugli accidenti del caso e della fortuna, evidenziando il passaggio storico da quando essi erano causa di paura a quando, grazie ``alla luce della vera scienza'', divennero eventi domabili tramite il calcolo di una proporzione tra il ``certo presente e l'incerto avvenire'', cosõá che l'arte dell'indovinare diventa figlia della matematica. L'interesse, compenso del rischio, quantificabile con il calcolo delle probabilitaá non eá altro che il concetto di speranza matematica o valore atteso. La deduzione del giovane iliuminista eá frutto della lettura dell'opera di Daniel Bernoulli ed il paradosso di San Pietroburgo, ovvero deriva dalle asserzioni sul sistema di regolaritaá logiche del lavoro di Jaques Bernoulli? E Á imputabile, Galiani, di essersi fatto sfuggire un'occasione? Se si fosse trattato di Daniel, certamente si, per non aver ripreso e sviluppato le possibilitaá applicative nella sua opera piuá matura. L'autore propende per la seconda ipotesi, sottolineando le considerazioni che la rendono piuá plausibile: l'arte di indovinare, di cui parla Galiani, non sarebbe altro che il titolo del libro di Jaques; le sue successive applicazioni, nel settore assicurativo, si basano sul progresso del calcolo delle probabilitaá sviluppato in seguito da Daniel; l'utilizzo della definizione di speranza matematica lo allontana dal concetto di speranza morale elaborato da Daniel. Le intuizioni di Galiani sarebbero potute approdare alla teoria di Daniel se non fossero state tese piuá a smontare l'errore logico-etico di avversione all'interesse che a costruire una teoria matematica, per la quale, per altro, non avrebbe avuto la competenza necessaria. La sua tesi, comunque, gli rende merito per aver applicato i concetti del calcolo delle probabilitaá alia teoria economica. Al margine dell'articolo l'autore sottolinea la distanza tra le due opere di Galiani 147

(il Della Moneta eidialoghi sul Commercio del grano) sulle intuizioni intorno al concetto di probabilitaá, che, nell'opera piuá matura, subiscono un ridimensionamento dovuto alla successiva lettura di Hume (1756). (S. Scognamiglio) G. Zedra, Il sistema bancario nel Mezzogiorno dalla crisi alla convergenza, in ``Bancaria'', settembre 1997, n. 9. Il direttore generale dell'abi, in questo articolo, riporta le condizioni del sistemabancarionelmezzogiornod'italiaeincentralesueriflessionisuiproblema della bancarizzazione e sull'ampliamento di questo verso i mercati esterni dell'area. La struttura bancaria operativa, secondo i dati del quinquennio 1992-96, nel meridione eá sufficientementepresente,allineataaquelledelsuopil,anzirisulta,rispetto al Nord, un overbranching. Tuttavia il prodotto bancario per sportello diventa negativo se commisurato alla popolazione ed al volume dei depositi per abitante, cioá riflette un piuá basso grado di crescita economica dell'area e costituisce un fattore di abbattimento di economie di scala e di innalzamento dei costi bancari. Positivo eá il risultato secondo cui il sistema creditizio ha sostenuto il sistema produttivo del Mezzogiorno, anche durante il quinquennio 1992-1996 di crisi, posta la scarsa incidenza di canali alternativi di finanziamento, dovuta alla dimensione delle aziende ed alla scarsa cultura esistente circa i moderni sistemi di gestione di impresa. Sorge, cosõá, un problema qualitativo, piuá che quantitativo, che rende fragile la struttura finanziaria delle imprese. Il secondo aspetto considerato eá la presenza di nuovi poli bancari (quali BNL ± INA ± Banco Napoli ± Mediocredito Centrale ± Banco Sicilia ± Sicilcassa ± Ambro ± Cariplo e Banca di Roma) che da soli controllano il 40 per cento degli sportelli del Mezzogiorno, creando un oligopolio concorrenziale tale da rinvigorire il mercato dell'offerta bancaria. Aspetto non secondario eá l'assorbimento, da parte dei poli bancari, di problematiche tipicamente meridionali connesse alle sofferenze, le quali divennero voci nazionali nei bilanci consolidati. Il processo di aggregazione modificheraá la politica di offerta di prodotti e servizi, di controllo rischi e le strutture organizzative: risorse manageriali, politiche distributive, ecc. tenderanno all'omogeneitaá per tutto il territorio nazionale. La presenza di grandi gruppi bancari nel Mezzogiorno, inoltre, fortificheraá le aziende bancarie locali in prospettiva di una futura aggressione da parte di enti creditizi stranieri. Nella stessa ottica, sono da collocare sia il progetto del governo di creare un ``Fondo di Garanzia'' finalizzata a concentrare le sofferenze in uno stretto numero di banche e ad agevolare l'ingresso delle stesse nel capitale delle PMI, promuovendo incentivi agli intermediari finanziari e subordinando la compartecipazione delle imprese alle stesse, che la proposta di Messori di istituire un ``Fondo Assicurativo'', su base volontaria, per favorire il controllo sui rischi, anche se saraá da limitare la naturale tendenza alla concentrazione di troppe funzioni da parte del fondo stesso. Zadra aggiunge altri elementi da tenere in considerazione nell'attuare i due progetti citati e valutarne i risultati economici significativi e le proposte di introdurre benefici fiscali, analoghi a quelli previsti per le funzioni bancarie. (S. Scognamiglio) 148

T. Bianchi, Un nuovo modo di fare banca in Europa, in ``Bancaria'', giugno 1997, n. 6. Secondo l'autore, che scrisse questo articolo prima che l'economia italiana rientrasse nei parametri di Maastricht, l'unione Europea rappresenta l'unica possibilitaá, per il vecchio continente, di competere con altre aree geografiche (Nord America, Est e Sud Est), e, in quest'ottica, uno scenario dal quale l'italia non puoá essere estromessa. Il raggiungimento dei parametri di Maastricht richiede un impegno serio dell'italia, soprattutto sul versante della riforma sociale. Il dibattito si incentra su due voci che incidono, sensibilmente, sul bilancio dello stato: la spesa previdenziale pensionistica e quella sanitaria. L'allungamento della vita media, il pagamento delle prestazioni con il metodo della ripartizione, in luogo della capitalizzazione, e il maggior bisogno di assistenza medica, sono tutte cause di una situazione che non puoá attendere oltre. Nella Unione Europea eá possibile entrare e rimanervi anche grazie ad una consistente politica di privatizzazione. Le ragioni sono molteplici. Il nuovo mercato richiederaá delle ``ristrutturazioni, intese, collegamenti, fusioni e acquisizioni'', per le quali la proprietaá pubblica potrebbe rappresentare un grosso elemento di disincentivazione. Essa, inoltre, permetterebbe allo stato di liberarsi di compiti ed oneri che non gli sono consoni, favorendo ``lo spirito di creazione di valore, tipico dell'imprenditoria moderna in competizione su mercati sempre piuá integrati''. Oltre che necessaria, si tratta di una scelta conveniente, visto che essa permetterebbe, in via diretta o mediata, la liberazione di cospicue risorse statali. A cioá va aggiunto che il processo di privatizzazione configura una condizione indispensabile al rafforzamento del mercato mobiliare e, di conseguenza, ad una migliore amministrazione del risparmio nazionale, altrimenti attratto da altri mercati. In tale contesto gioca un ruolo fondamentale il sistema bancario, sotto il duplice profilo del concorso al successo delle operazioni finanziarie, conseguenti alle operazioni di privatizzazione e percheâ sono esse stesse oggetto di tale politica. Sotto questo secondo aspetto, la prospettiva dell'unione Europea costituisce una spinta ulteriore alla dismissione di pacchetti azionari di banche da parte di fondazioni. Il problema, come sottolinea l'autore, non eá solo di una modifica dell'assetto proprietario. La terza rivoluzione industriale e l'integrazione dei mercati impongono la ristrutturazione e il riposizionamento strategico delle banche italiane. La privatizzazione delle banche infonderebbe al sistema creditizio uno spirito d'impresa di creazione del valore, che la mano pubblica non ha mai promosso, e favorirebbe la capacitaá competitiva, da sempre ostacolata da un modello di crescita incentrato esclusivamente sul processo di autofinanziamento. Il terreno sul quale si innestano queste esigenze non eá tra i migliori, soprattutto sul versante della redditivitaá, rispetto al quale le banche italiane presentano livelli inferiori ad altri stati europei. Il primo passo deve essere finalizzato al ripristino di una situazione di equilibrio economico, agendo su due fronti: riduzione dei costi operativi, in particolare del costo del lavoro, e mutamento organizzativo, attraverso un ridimensionamento degli assetti e delle professionalitaá da troppo tempo definiti entro l'orizzonte domestico. Il percorso lungo il quale le banche italiane possono muoversi, purtroppo, eá delineato da confini stretti tracciati dalla politica monetaria e da quella tributaria. Se, peroá, rispetto alla prima, la posizione dell'abi non eá contraria, in quanto pur 149

limitando le possibilitaá di sviluppo delle tipiche attivitaá bancarie (i depositi e i prestiti per cassa) risulta essere, comunque, una delle poche strade percorribili, molto piuá duro eá il giudizio sulla seconda. La riduzione del disavanzo pubblico, infatti, va raggiunto attraverso una politica di contenimento delle spese, piuttosto che di un inasprimento fiscale. (K. Iacoviello) C. Doria, G. Majnoni e C. Salleo, Rendimenti e valori di mercato delle banche italiane, in ``Bancaria'', maggio 1998, n. 5. L'articolo affronta, per il decennio 1987-1997, il problema della significativitaá dei valori di mercato delle azioni bancarie, con particolare riguardo alle partecipazioni bancarie detenute dalle fondazioni. Il tutto risponde ad un quesito fondamentale: quali ostacoli si pongono alla dismissione delle partecipazioni bancarie, non costituenti pacchetto di maggioranza, da parte delle fondazioni? La risposta non puoá prescindere dal confronto dei diversi sistemi bancari dei paesi piuá industrializzati (Italia, Germania, Francia, Spagna, Regno Unito e Stati Uniti), passando in rassegna gli indici maggiormente rappresentativi (indice di capitalizzazione, price/earning e dividend yield). Il risultato di questa prima fase evidenzia un sostanziale allineamento dei valori, ravvisando delle differenze che trovano la loro origine piuá nelle carattertistiche peculiari del mercato azionario italiano, che in bassi livelli di performance delle banche italiane. La seconda parte dell'analisi ha per oggetto, da un lato, la stima del saggio di rendimento delle azioni bancarie, attraverso l'utilizzazione del Capital Asset Pricing Model (CAPM), dall'altro l'individuazione delle influenze che tale tasso subisce a causa di fattori macroeconomici (inflazione, cambio reale della lira, prezzo del petrolio, differenziali di tassi a breve e a lungo termine), ricorrendo all'uso dell'arbitrage Pricing Theory, non applicato, tuttavia, nella sua forma pura. I dati elaborati nelle due fasi precedenti permettono di determinare il valore di mercato delle partecipazioni bancarie, il cui pacchetto di controllo eá, in forma diretta o indiretta, nelle mani di fondazioni. In realtaá, si tratta di una simulazione condotta su un campione di 69 banche, considerando tre ipotesi differenti di saggio di sconto e crescita degli utili. Ne eá derivato un valore di mercato che, in due casi su tre, risulta essere inferiore al valore contabile. In particolare: «a fronte di un valore contabile di 40.480 miliardi per il campione analizzato, un collocamento sul mercato frutterebbe dai 22.230 ai 26.680 miliardi (a seconda del tasso di sconto compreso tra il 6,1per cento e il 7,3 per cento) nell'ipotesi piuá pessimistica di crescita zero degli utili, dai 30.620 ai 39.580 miliardi nell'ipotesi intermedia (tasso di crescita 2 per cento annuo), e dai 49.180 ai 77.290 miliardi nell'ipotesi piuá ottimistica di crescita reale di lungo periodo degli utili del 4 per cento''. CioÁ, naturalmente, comporta l'impossibilitaá se non a caro prezzo, della dismissione di tali partecipazioni. Quanto eá stato rilevato trova eccezione nella sola ipotesi di cessione di pacchetto di maggioranza; in questo caso, infatti, il premio per il controllo incide, sensibilmente, sul valore finale, portandolo ad un livello superiore a quello contabile. (K. Iacoviello) 150

G. Cavera, Un conflitto istituzionale dietro la ``crisi Tambroni'', Carteggio Giovanni Gronchi ± Cesare Merzagora (luglio 1960), in ``Nuova Storia Contemporanea'', anno II, n. 5, settembre-ottobre 1998. Scopo principale del lavoro eá quello di presentare alcuni documenti inediti reperiti nel ``Fondo Gronchi'' conservato nell'archivio storico dell'istituto Luigi Sturzo e ancora in fase di riordinamento. Si tratta di uno scambio epistolare tra G. Gronchi (presidente della Repubblica) e C. Merzagora (presidente del Senato): in particolare, di una lettera inviata a Merzagora dal capo dello stato, il 5 aprile 1960; la risposta del presidente del Senato, datata 21aprile, ed uno ``schema di risposta'' alla lettera di Merzagora del 21aprile. Per agevolare la comprensione del contenuto delle lettere e, nel contempo, per fornire la giusta chiave di interpretazione del cosiddetto ``caso Merzagora'' ± a cui scarsa attenzione ha dedicato la storiografia contemporanea e per il quale poco ``confortanti'' sono risultate le informazioni della stampa quotidiana e dei periodici di attualitaá politica del tempo ± l'autore ripercorre i fatti storici e politici alla luce dei quali si consumarono la ``crisi Merzagora'' ed il ``clamoroso'' conflitto tra le due massime cariche dello stato: Gronchi e Merzagora. Il 20-21febbraio 1960, l'uscita dal Partito Liberale di Malagodi dalla maggioranza parlamentare, che sosteneva il secondo governo Segni, fu dettata dal tentativo di impedire la prospettata ``apertura a sinistra'' del governo democristiano e dalla volontaá di dimostrare che soltanto con stabili governi ``centristi'' si poteva assicurare al paese una crescita politica, economica e sociale. Il rifiuto gronchiano della proposta liberale di aprire un dibattito parlamentare dimostroá ``l'incapacitaá del partito di maggioranza relativa di elaborare una linea politica forte ed unitaria'' e, conseguentemente, conferõá alle dimissioni dell'esecutivo la natura di una crisi extraparlamentare. Il clima di tensione, che si respirava negli ambienti politici nazionali, giunse ad interessare anche la sfera delle istituzioni dello stato. L'annuncio delle dimissioni di Segni e, ancor piuá il carattere extraparlamentare della crisi, spinsero Merzagora a prendere netta posizione'' contro una crisi di governo provocata da una ``semplice dichiarazione di ostilitaá antigovernativa di un organo di partito''. Il presidente del Senato si dichiaroá pronto a rivendicare i diritti del Parlamento, stigmatizzando la violazione delle norme costituzionali. La seduta del consiglio dei ministri del 24 febbraio 1960 ratificoá la decisione di Segni di rassegnare le dimissioni. Il giorno successivo (25 febbraio), Merzagora, come preannunciato, presentoá, a Palazzo Madama, un discorso che non si limitoá a deplorare il sistematico ricorso alla pratica delle crisi extraparlamentari; ma denuncioá il ``malcostume dilagante'' e lo strapotere dei partiti, che unito all'``affarismo'' e agli ``interventi finanziari illeciti e ben noti dei grandi gruppi di potenza parastatali e privati'', favorõá il diffondersi di ``un'atmosfera di corruzione'' che pesava in modo preoccupante ``sulla vita politica italiana''. I toni ed i contenuti del discorso crearono un aspro contrasto tra Merzagora e la Democrazia Cristiana (A. Moro, leader democristiano, A. Segni e G. Gronchi), che trovoá la soluzione con la presentazione delle dimissioni di Merzagora dalla, carica di presidente del Senato. Il 29 febbraio 1960, dunque, la ``crisi Merzagora prese corpo, contrassegnata dalla commistione di contrasti di natura po- 151

litico-costituzionale con tensioni di carattere esclusivamente politico. Questo ``pericoloso intreccio'', cosõá definito da Cavera, ``comprensibile alla luce del rapporto di stretta consequenzialitaá esistente tra la caduta del governo Segni e le dimissioni del senatore lombardo, contraddistinse anche la fase conclusiva di tale complicata vicenda''. La duplice votazione, con la quale, a fine marzo, Merzagora fu convinto a ritirare le dimissioni, non fu soltanto una dimostrazione di gratitudine dell'assemblea senatoriale, ma anche frutto di una ``ritirata strategica'' della DC, che aveva subito pensato ad un proprio candidato (Piccioni) alla presidenza del Senato. Fu, dunque, in virtuá del ripensamento democristiano che il senatore lombardo fu riconfermato alla guida di Palazzo Madama, con un numero di voti maggiore rispetto a quanti ne aveva ricevuti nel 1953 e nel 1958. Il ``ritorno'' di Merzagora non fu gradito da Gronchi. Il disappunto del capo dello stato eá rilevabile dallo scambio epistolare intrattenuto con Merzagora. Cavera riproduce integralmente e commenta le lettere reperite nell'archivio personale di Gronchi. Uno scambio di lettere che copre un arco temporale di sedici giorni, durante i quali si manifestarono gli eventi piuá significativi della crisi politica della primavera-estate 1960. L'articolista, facendo particolare riferimento alla ``crisi Tambroni'' si chiede la ragione per la quale Gronchi, preoccupato per il difficile inizio del dibattito sulla fiducia del governo Tambroni, si fosse deciso ad esprimere il proprio parere sul ``caso Merzagora'' solo quando la vicenda si era ormai conclusa. La lettera del 5 aprile fornisce una risposta inequivocabile: l'intenzione di Gronchi di scrivere a Merzagora, nei giorni immediatamente successivi al ``clamoroso'' discorso, venne meno in seguito alle dimissioni del presidente del Senato. Il proposito di Gronchi si rinnovoá quando Merzagora ritiroá le sue dimissioni. La forza del dissenso del capo dello stato, rispetto alle iniziative di Merzagora, sono al centro del commento di Cavera al documento. Il forte contrasto esistente tra Gronchi e Merzagora, forse iniziato qualche anno prima (1955) ± quando alla presidenza della Repubblica fu preferito il ``brillante'' presidente della Camera e non Merzagora che, vittima delle faide interne della DC, non riuscõá ad ottenere la maggioranza necessaria per il mancato voto di una parte dei deputati democristiani ± risulta chiaro dalla critica gronchiana articolata in tre paragrafi che ricalcano con puntualitaá gli argomenti trattati da Merzagora nel suo discorso del 25 febbraio 1960. In sostanza, Gronchi, con toni polemici, tentoá di dimostrare la correttezza del suo operato, considerando, ormai, superata la tradizionale distinzione tra crisi parlamentare ed extraparlamentare fondata sull'applicazione dell'art. 94 della Costituzione; si mostroá, inoltre, schierato a difesa del ``sistema dei partiti''. La risposta di Merzagora, datata 21aprile, risultoá speculare rispetto alla lettera di Gronchi, senza mostrare alcun cedimento circa le posizioni assunte e le affermazioni fatte nel ``discorso sul piacere dell'onestaá''. La tenacia e la fermezza con cui Merzagora ribadõá il suo pubblico l'accuse spinse il presidente della Repubblica ± nello ``schema di risposta'' conservato nelle carte di Gronchi ± alla sarcastica constatazione della ``mancanza di valide controdeduzioni'' alle sue argomentazioni. In ogni caso, non si intravide alcuno spiraglio di intesa tra le due massime autoritaá dello stato. (R. Scarica) 152

M. De Cecco, La strana origine della natura speciale dell'attivitaá di banca d'affari in Italia, ``Tahoma'', in ``Studi e note di economia'', n. 2, 1996, quaderno 1. Sono sempre ricchi di spunti originali gli interventi di Marcello De Cecco che riesce ad estrapolare dagli eventi storici le tendenze dei sistemi finanziari e monetari cogliendo analogie e diversitaá tra il caso italiano e le evoluzioni internazionali. L'articolo in oggetto segue e precede altri scritti di De Cecco sul modello bancario italiano indicandone le radici e le sue possibili prospettive in un mercato che vede la crescente integrazione internazionale. Le analisi dell'autore, che in conclusione del suo intervento esamina le possibili modalitaá di integrazione delle banche italiane con istituti internazionali, sono particolarmente interessanti ora che si stanno realizzando una serie di integrazioni tra banche nazionali che sicuramente, in un futuro prossimo, si porranno il problema dell'internazionalizzazione. De Cecco trae spunto per le sue riflessioni da un articolo scritto alla fine del 1995 sul Sole 24 ore da Alessandro Penati di cui condivide le premesse, ma non le conclusioni ed in cui l'autore analizza il fenomeno degli scorpori che dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna si eá esteso all'europa. Gli anni novanta sono stati caratterizzati, scrive Penati, da un'inversione di tendenza rispetto all'accorpamento nei vari gruppi industriali di una quantitaá disparata di aziende che non agivano negli stessi settori, secondo la logica delle conglomerate. L'ampliamento delle dimensioni dei grossi gruppi eá stato, infatti, fonte di inefficienze per la capogruppo di cui ha aumentato i costi. Nei paesi orientati al mercato come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, la logica di premiare quelle aziende che producono profitti nel breve termine, ha spinto i gruppi industriali ad una riaggregazione per settore di attivitaá industriale secondo le logiche delle economie di scala e della integrazione verticale. Questa politica eá stata ad esempio svolta dal gruppo chimico Sandoz, dalla Du Pont, dalla Ici dalla Kodak dalla Dow Chemical e da numerose altre aziende. Per cioá che riguarda il settore bancario la logica di integrazione tesa a creare maggiore efficienza si rivela in maniera chiara in operazioni come l'acquisizione da parte di alcune banche continentali, come la Dresdner Bank, la Ing, la Suiss Bank e la Deutsche Bank delle principali merchant banks inglesi ossia, rispettivamente, la Kleinwort Benson, la Baring, la Warburg, la Morgan Grenfell. Il fatto che banche olandesi, tedesche e svizzere abbiano fagocitato banche inglesi, insieme al fenomeno degli scorpori, di cui si eá parlato, eá, a parere di Penati, la chiara dimostrazione della volontaá delle istituzioni continentali di affidarsi, nella competizione internazionale, all'esperienza anglosassone. Diversa la conclusione di De Cecco. I fatti esposti da Penati, rappresentano per De Cecco l'estendersi del modello tedesco su scala internazionale. Le banche inglesi sono rimaste vittime di cospicue perdite nel settore dei derivati e dei titoli a reddito fisso che, con le dimensioni straordinariamente grandi dei mercati attuali, richiedono una solida base patrimoniale estranea alle merchant banks inglesi. Il nuovo modello di integrazione del sistema bancario sembra mostrare la necessitaá di avere una istituzione specializzata come una merchant mani:: sulla piazza di Londra o di New York, con alle spalle una raccolta capillare di risparmio che permetta alla banca londinese di appoggiare le sue operazioni su una massa patrimoniale adeguata che, anche avendo a disposizione il mercato piuá efficiente al mondo, una merchant inglese non eá in grado di avere. Questa saldatura tra un'attivitaá di 153

raccolta capillare ed una presenza massiccia sul territorio, tipica delle banche continentali da un lato e l'attivitaá specialistica di una merchant bank avraá con molta probabilitaá un suo sviluppo anche negli Stati Uniti. L'acquisizione di Bankers Trust da parte di Deutsche Bank sembra andare nella direzione preconizzata da De Cecco. Ridefinite le conclusioni di Penati nei termini esposti, De Cecco passa all'analisi del caso italiano. Penati si chiede come mai le Banche italiane abbiano una scarsa vocazione all'acquisto di banche straniere: merchant banks inglesi con ROE doppio rispetto a banche regionali italiane sono state pagate molto meno. La risposta eá per De Cecco da ricercarsi nell'evoluzione del sistema bancario italiano. L'autore evidenzia come il punto di svolta per il sistema bancario italiano sia stata la crisi degli anni trenta da cui, sotto la regia di Beneduce, l'organizzazione del credito ha finito per assomigliare piuá al modello sovietico che a quello occidentale. Se fino a quegli anni, infatti, il nostro sistema si era sviluppato in linea con quanto succedeva in Europa, paradossalmente, contrariamente a quanto doveva avvenire, con la legge del 1936, si arrivoá ad una despecializzazione del credito. Il pluriaffidamento, nel frazionare i rischi dell'affidamento bancario, deresponsabilizzava le banche creando, di fatto, un'unica banca con una miriade di sportelli. In questo modo il credito eá arrivato alle singole imprese con una diffusione a pioggia. Se al pluriaffidamento si affianca il controllo della Banca d'italia all'apertura degli sportelli, che l'autore definisce la vendetta postuma di Beneduce su Comit e Credit, il forte spread tra tassi, le commissioni corpose realizzate sui titoli del debito pubblico, si comprendono le ragioni della despecializzazione del nostro sistema bancario, della sua inefficienza, della sua incapacitaá di selezione del merito creditizio. Il decentramento industriale e l'erogazione del credito a pioggia hanno fatto sõá che vi fosse ben poca necessitaá di merchant banks. Le crisi di liquiditaá, periodicamente abbattutesi sul nostro mercato, venivano affrontate dalle imprese italiane, per lo piuá medio-piccole, con il lavoro a domicilio, il lavoro nero e la flessibilitaá produttiva. Per le esigenze di corporate finance consulting la piccola impresa italiana ha utilizzato i servizi offerti dai commercialisti. Questo quadro cosõá delineato per grandi linee da De Cecco, che pone in sede storiografica numerosi interrogativi sulla troppo rapida condanna della banca mista e sulla presunta inevitabilitaá della legge bancaria del '36, eá stato messo in crisi dal confronto con l'europa. A partire dal '93 si eá preso atto che la normativa europea consentiva la costituzione della banca universale. Di fronte all'erosione dei profitti si sono realizzate le prime fusioni frutto piuá di integrazioni regionali che funzionali. Nella logica della monobanca plurisportello ad avviso di De Cecco si eá voluto con queste operazioni arrivare ad una diversificazione territoriale che attenuasse i rischi di incaglio distribuendo il credito su aree geografiche non omogenee. Questa notazione, che risponde alla precedente domanda di Penati, trascura, a nostro avviso, alcune motivazioni alla fusioni come la necessitaá di creare economie di scala in settori come quello del risparmio gestito; la regia ``politica'' della Banca d'italia tesa a creare gruppi patrimonialmente forti in grado di resistere agli attacchi dei colossi stranieri e, per cioá che riguarda il mancato acquisto di merchant straniere, la scarsa vocazione internazionale del nostro sistema bancario che, fatte salve rare eccezioni, non eá stato in grado di proporsi come polo di aggregazione per gruppi multinazionali. In questa situazione ben poca necessitaá vi eá stata delle merchant banks, di cui si avvertiraá i bisogno in concomitanza con lo sviluppo delle privatizza- 154

zioni e l'esigenza di razionalizzazione avvertita dai pochi gruppi privati esistenti in Italia. Dato che Mediobanca non potraá fare tutto vi saraá spazio per l'ingresso delle merchant banks straniere che cercheranno un accordo con le imprese italiane il cui valore aggiunto saraá di conoscere meglio un mercato poco trasparente. Su questo terreno, certo non particolarmente graátificante, potraá avvenire l'integrazione tra banche italiane e banche straniere le cui professionalitaá potranno essere utilizzate anche per dar vita a quel fenomeno di razionalizzazione illustrato da Penati che soprattutto nei grossi gruppi pubblici diverraá sempre piuá necessario. (G. Mastroianni). B. Curli, Ricostruzione e sviluppo. La banca mondiale e l'economia italiana, 1947-1951, in ``Archivi e Imprese'', anno VII, giugno 1997, n. 15, pp. 33-71. Questo saggio propone una ricostruzione della storia della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (BIRS), istituita, insieme al Fondo monetario internazionale, durante i lavori della seconda Commissione della Conferenza monetaria e finanziaria internazionale di Bretton Woods, il 3 luglio 1944. PiuÁ che sull'impalcatura politica-diplomatica del cosiddetto ``sistema'' di Bretton Woods, l'autrice si sofferma sull'effettivo funzionamento dell'istituto, approfondendo, in modo particolare, i rapporti tra la Banca e l'italia. Emergono, cosõá, numerosi spunti di riflessione storiografica, sia su alcuni momenti dello sviluppo economico italiano del dopoguerra e sulle loro dimensioni internazionali, sia sulla dinamica del processo decisionale interno alla Banca come organismo finanziario, nel suo rapporto con un paese membro e cliente al tempo stesso, e in relazione alle scelte di politica estera economica degli Stati Uniti. La documentazione a cui si fa riferimento ± consultata, tra l'altro, presso l'archivio storico della Banca che eá parte degli World Bank Group Archives ± riguarda due principali serie di discussioni che coinvolsero l'italia: quelle relative a un prestito per la ricostruzione nel 1947-48, restate senza esito; e quelle che condurranno, nel 1951, alla decisione di finanziamento. Per entrambi le parti, Italia e Banca mondiale, si trattoá di una sorta di apprendistato alla cooperazione internazionale, entro il quale si trovarono ad essere negoziati e continuamente ridefiniti mutevoli prioritaá, interessi e vincoli reciproci. In tale percorso prese forma la nuova natura del dirigismo post bellico, sia nella sua forma interna ± di costruzione dello ``Stato economico'' occidentale ± sia sul piano internazionale che, sotto l'egemonia degli Stati Uniti, fu perseguito attraverso istituzioni nuove. Dai diversi momenti di interesse della banca mondiale nei confronti dell'italia emergono, cosõá, elementi di forza e di debolezza dello stesso Stato italiano, cosõá come vengono percepiti da un organismo finanziario internazionale. Emerge, anche, per quanto il punto d'osservazione possa non sembrare del tutto appropriato, un'ulteriore chiave di lettura del rapporto bilaterale Italia-Banca mondiale, che attiene alla dimensione europea della crescita, una dimensione che sembra talvolta configurarsi come momento intermedio tra singole realtaá economica nazionale e sistema multilaterale e, talaltra, come sistema alternativo. (E. Boccia) 155