PHILIPP MEYER, IL SEME DELLA ROVINA

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1 di FABIO PEDONE «Diventeremo padroni di tutto. All infuori, ovviamente, di noi stessi». L ossessione del dominio, sotto la minaccia perenne del crollo, è il nodo centrale del secondo romanzo di Philipp Meyer, Il figlio (traduzione di Cristiana Mennella, Einaudi «Supercoralli», pp. 553, 20,00). Cresciuto a Baltimora ma trasferitosi a vivere in Texas, lo scrittore che con l acclamato esordio di Ruggine americana si è visto selezionato dal «New Yorker» fra i venti migliori autori sotto i quarant anni tenta con questo libro la strada del romanzo storico intorno alla Frontiera, cioè al mito di fondazione della nazione americana. Ecco dunque le vicende della dinastia texana dei McCullough nel corso di quasi due secoli, dal 1836, anno di nascita del patriarca Eli detto «il Colonnello» (destinato a morire centenario) fino al 2012, quando la pronipote Jeannie ripercorre il proprio passato in punto di morte. Fra gli estremi di queste due date si squaderna tutta la storia americana: la fine dei nativi, la guerra di Secessione, le rivolte dei messicani, i conflitti mondiali, l assassinio di Kennedy, la guerra del Golfo. Ad affiancarsi alle voci di Eli e Jeannie c è anche quella di Peter, figlio di Eli, che tiene un diario dal 1915 al La prospettiva multifocale serve a Meyer, oltre che per rendere con dinamismo la profondità storica del suo discorso sulla nascita degli Stati Uniti, per sfuggire a una serie di rischi annidati negli scopi che si è prefisso, primo fra tutti quello di appiattire la pluralità di voci e di visioni della storia su una sola versione, autorizzata o meno. Nulla di più lontano dalle sue intenzioni: a Meyer interessa guardare lo stesso oggetto (l ascesa e caduta di una dinastia di grandi proprietari terrieri dall epoca dei vaqueros e delle sterminate mandrie di bestiame fino alle trivellazioni petrolifere) da prospettive diverse: quelle degli Anglos, TRAGEDIA GRECA E GERMANIA PADUANO FIDIA JANKÉLÉVITCH GIGLIOLI 700 FRANCESE JACCOTTET LEONI POETI RUSSI TESTA LISSITZKY dei messicani e degli indiani. L America è nata da una serie di espropriazioni forzate, furti e sopraffazioni: «rubavano una cosa e poi pensavano che nessuno avesse il diritto di rubarla a loro. Ma in fondo era quello che pensavano tutti: se prendevi una cosa, avevi il diritto di tenerla per sempre». Violenza ed efferatezza sono una grammatica primigenia: lo sente e lo accetta per vocazione biologica il capostipite Eli, che a quattordici anni vede l intera famiglia massacrata dai Comanche che lo portano via e lo fanno diventare per tre anni uno di loro; lo avverte con angoscioso disgusto suo figlio Peter, nel cui carattere si manifesta una tendenza introversa che lo rende ostile alla durezza e ai metodi spicci del Colonnello. Il quale da parte sua lo ritiene senza mezzi termini un fallito. C è un delitto fondativo per l impero dei McCullough, che sarà anche il seme della sua rovina. È il culmine di una faida annosa con i vicini, i messicani Garcìa: con un pretesto gelidamente manovrato dallo spietato Colonnello, la faida finisce in una strage che lascia sul terreno diciannove persone, fra cui alcuni bambini. L atto violento crea il proprio diritto dal nulla, e mediante il timore che incutono in tutto lo Stato, dopo aver sterminato i Garcìa, i Mc- Cullough riusciranno anche a prendersi la loro terra. Lo spettro della casa major dei messicani, ridotta a uno scheletro carbonizzato, ossessiona Peter, che non era d accordo con la decisione di uccidere i vicini perché credeva nella loro innocenza, e diventa il contraltare di un altro fantasma, ma vivo: la presenza spettrale del Colonnello. Eli si è fatto da solo, ha creato il proprio mito, tiene la realtà in pugno per stritolarla, è «una pistola spianata sul mondo», e grazie al lungo racconto delle sue esperienze tra i Comanche acquista un aura tra animalesca e semidivina. È la sua figura la pietra di paragone dell esistenza dei McCullough, è sempre a lui che si guarda, per abbassare la testa o per fuggire, per tacere o per opporsi; è lui a tenere insieme le strade intrecciate di questo romanzo. Ma non solo per questo Il figlio è fatto di fantasmi che ritornano: a sconvolgere la vita di Peter arriverà infatti Marìa, l ultima sopravvissuta dei Garcìa, con cui si crea un legame inaudito, fra impossibilità del perdono e istinto invincibile all amore, fomentato in Peter da quel rimorso che lo allontana definitivamente dal mondo dei suoi padri. Perché l unico modo di seguire il movimento della storia, credendo in apparenza di sottrarvisi, è tradire i padri. Ogni pretesa nobiltà, ogni eroismo vengono fagocitati da quella ferocia che è il motore del mondo: nella sua vanità (da intendersi in tutti i sensi) persino il Colonnello alla fine apparirà come un debole, uno che non ha avuto immaginazione, che ha visto solo quel che c era ed è andato a prenderselo, probabilmente portandosi nella tomba un segreto inconfessabile. Così il mito crolla. Si direbbe che in questo romanzo i veri eroi siano gli inadeguati, e forse è vero nel caso di Peter, ma la sconfitta non ha niente di poetico e non c è autentico riscatto neanche per lui; quanto a Jeannie, condannata a frenare l incombere della fine in un mondo di uomini spregevoli, tutti i suoi sforzi per trasportare in una nuova epoca la visione del Colonnello naufragano contro la frivolezza e la confusione del tardo Novecento, ma anche contro l oscuro istinto di dissoluzione che questa donna tutta volontà ha sempre covato. E intanto la terra del Texas risputa fuori ossa, fossili, reperti di altre lontane epoche, dalla terra promana un potere immemoriale: esso ricorda continuamente ai personaggi che si agitano nel Figlio il loro destino, come quello di chiunque altro: scomparire. Certo, il Colonnello giganteggia come un entità preumana, apparentemente amorale, ma il suo contatto arcaico con la terra (sola unità di misura del reale) lo rende capace di supremi gesti di pietà: come quando da ragazzo, mentre i Comanche stavano infliggendo inenarrabili torture a un cacciatore di bisonti, lui è sgattaiolato dal tepee in piena notte per liberare l agonizzante dalle sue sofferenze grazie al veleno di serpente. Inutile fingere di ignorare che un opera del genere ha di fronte a sé il modello inesorabile di quel romanzo benché molto diverso che è considerato il capolavoro di Cormac McCarthy. Il confronto è stato messo sul tavolo con piglio forse inutilmente polemico dallo stesso Meyer in alcune interviste. Rispetto a Meridiano di sangue si sente che il bisogno dell autore è quello di estendere il contatto realistico con i dettagli del quotidiano (il libro pullula di oggetti, piante, nomi) allo stesso tempo limitando la tentazione metafisica che favorirebbe l accendersi di un registro barocco della scrittura, un enfasi dai toni biblici. Nondimeno, nel Figlio le descrizioni cruente, di lancinante crudezza, sono bilanciate da episodi di pietà o terrore dotati di forte intensità tragica, tanto da ricordare gli storici antichi: nell epidemia che si scatena dopo la morte del cacciatore di bisonti, le madri indiane portano nel bosco i bambini rimasti ciechi per ucciderli, in modo che nell accampamento resti più cibo per i sani. Se l epica della grande dinastia terriera e petrolifera a confronto con i tempi che cambiano potrebbe far pensare alle prove narrative di uno scrittore come Ward Just, è anche vero che per alcune parti del Figlio sarebbe lecito parlare di romanzo di formazione: ma in realtà qui nulla pare prendere davvero forma, a parte il ripetersi di una stessa ossessione di dominio; Eli come Peter e Jeannie non evolvono davvero, e a signoreggiare la storia è un senso di vuoto e di disfacimento incombente, come in quell altro potente incunabolo western che è Butcher s Crossing di John Williams. Il mito americano è costruito sul vuoto, la fortuna precipita nella stessa tomba gli imperi in lotta, tutto potrebbe sparire senza lasciare traccia: infatti l apice dell odio non è solo uccidere l altro ma eliminare ogni traccia del suo passaggio sulla terra, come non fosse mai vissuto. Eppure, reincarnato e travisato in un altro mito, quel che scompare ritorna: basti pensare a un altro riferimento ineludibile per Meyer, lo studio fondamentale di Leslie Fiedler il cui titolo originale è The Return of the Vanishing American. La nemesi si incarnerà allora nell ultimo discendente dei Garcìa, Ulises, che rivendicherà la propria parte e per paradosso supremo è anche l ultimo dei McCullough, essendo nipote di Peter: nel suo sangue c è dunque quello di due famiglie che si sono massacrate a vicenda. Anche lui «diventerà qualcuno». Dopo tanto combatterlo, quindi, incarnare l altro: e infine non sarà un caso (con perdonabile strizzata d occhio di Meyer al lettore) che gli indiani imbottiscano i loro scudi con le pagine della Decadenza e caduta dell impero romano di Gibbon. PHILIPP MEYER, IL SEME DELLA ROVINA ASCESA E CADUTA DI UNA DINASTIA DI PROPRIETARI TERRIERI, DALL EPOCA DEI VAQUEROS ALLE TRIVELLAZIONI PETROLIFERE. SU TUTTO DOMINA LA VIOLENZA, UNICO MOTORE DEL MONDO: «IL FIGLIO», UN ROMANZO TRADOTTO DA EINAUDI

2 (2) ALIAS DOMENICA «EREDI INGRATI», UNA CORPOSA TRAGICI INDAGINE DI FABIO TURATO Da Nietzsche-Wilamowitz agli allestimenti di Hofmannsthal: sino al 45 il mondo germanico ha costruito il nostro mito della tragedia greca. Senza volerlo, questo libro ce ne allontana... di SOTERA FORNARO In un libretto dal titolo Pensieri sull imitazione delle opere greche nella pittura e nella scultura, stampato dapprima a proprie spese in cinquanta esemplari e destinato a fortuna enorme, Winckelmann indicò nel 1755 la via maestra per rifondare l arte tedesca contemporanea: imitare la nobile semplicità e silenziosa grandezza delle opere d arte greche. Il programma di Winckelmann non era solo estetico: la misura e l armonia dei Greci erano infatti assunti anche a modelli etici per il presente. Ma si trattava soprattutto di un programma politico, che durante il ventesimo secolo ha subito deviazioni aberranti nella propaganda nazista: solo i tedeschi potevano rendersi eredi dei Greci e della loro supremazia culturale, in mirata polemica con i francesi, che si rifacevano invece agli epigonali Romani. Winckelmann, allora oscuro bibliotecario a Dresda e non ancora il celebre autore della Storia dell arte, con la sua utopia estetica dette impulso alle più potenti speculazioni dell epoca e a un nuovo classicismo. Ma tale riscoperta dell antichità greca tra Sette e Ottocento ebbe anche enormi conseguenze sociali ed educative, coronate nel 1810 dalla fondazione dell Università di Berlino ideata da von Humboldt (l inventore del ginnasio umanistico): allora la filologia divenne disciplina universitaria autonoma; non solo, essa fu posta all apice delle altre discipline che insieme concorsero a formare la Scienza dell Antichità. Eppure la filologia (poi detta classica ) fu corrosa sin dai suoi esordi da un intima contraddizione: essere una scienza specialistica, per pochi iniziati che dominano le lingue antiche, concentrata dunque sui testi, e avere insieme ambizioni universali, ossia rivendicare a sé la capacità di costruire modelli ideali con cui calarsi nel presente e modificarlo. Con Nietzsche, filologo che insegnò a guardare con diffidenza al lavoro degli stessi filologi («che cosa sono mai le nostre chiacchiere sui Greci!») e scosse le fondamenta di una classicità armonica, serena, apollinea, la filologia tocca il punto più acuto di una crisi che l aveva connotata per tutto il XIX secolo. Concepita nel 1871, Nascita della tragedia, opera stravagante secondo il suo stesso GUIDO PADUANO La letteratura di fronte a carne e sangue della figura umana: «Il testo e il mondo» Filosofi, filologi e crisi tedesche di MASSIMO NATALE Al momento di ricostruire la lunga storia di Edipo re nel teatro occidentale in un lavoro di vent anni fa Guido Paduano sostava di fronte alla lettura che della pièce sofoclea ci ha consegnato Freud come davanti a un tentativo insieme rischioso e commovente, un «atto di fiducia nella letteratura e nel suo valore di verità». Ora da un analoga scommessa sulla pratica della letteratura Paduano riparte per offrire al lettore Il testo e il mondo Elementi di teoria della letteratura (Bollati Boringhieri, pp. 138, 16,00). Non aspettiamoci però che questa intatta fiducia nella capacità del testo di raccontare e interpretare il mondo discenda da una professione di fede incrollabile in un unico metodo, ortodosso e vincente: questo pamphlet è nel segno di una sana mescolanza, così come nel segno di una vitalissima contaminazione è, più in generale, l attività critica di Paduano, antichista da sempre attento all apertura comparatistica basterebbe ricordare i suoi molti interventi dedicati alla drammaturgia musicale e al teatro moderno e ai venti che spirano appunto dalla critica psicanalitica (Freud, certo, al quale tanta antichistica autore e nata scientificamente morta, intendeva liberare dai ceppi della filologia storica la tragedia greca, restituendola alle origini dionisiache e musicali. La sua influenza, insieme alla voga primitivistica, alla ricerca dell arcaico e alle scoperte della psicoanalisi, diede una svolta ineludibile alle ricezioni della tragedia greca, da allora in poi considerata evento teatrale assoluto, staccato cioè dallo spazio letterario e ideologico nel quale era stata prodotta, l Atene del v secolo a.c. Ecco perché sono definiti ingrati coloro che hanno pensato la tragedia greca in termini nietzschiani, nella ponderosa indagine di Fabio Turato Eredi ingrati (Marsilio, pp. 536, 44,00), che intende ricostruire, a cominciare dal 1871 «storia e fortuna della tragedia greca nella cultura tedesca filologica, estetico-filosofica, storico-religiosa e nel teatro sia le messe in scena di traduzioni, sia drammi che rielaborano i testi tragici antichi sino al 1945». Obiettivo assai ambizioso, a cui poteva tendere uno studioso come Turato, grecista padovano della scuola di Carlo Diano, fine conoscitore del teatro greco e autore già nel 1988 di un dotto saggio sulla fortuna del Prometeo di Eschilo nella cultura tedesca. Sembrerebbe allora che grati siano stati, invece, gli eredi dell interpretazione storicistica dell avversario di Nietzsche, Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff ( ): il quale, rigettando sia la lettura estetizzante che quella classicistica, ricercava significato e impatto della tragedia nell orizzonte d attesa del pubblico ateniese nostrana è rimasta del tutto impermeabile, ma qui il nome da fare è anzitutto quello di Matte Blanco). Le pagine del libro compongono un diorama dettagliatissimo delle molte discussioni che hanno affrontato, negli ultimi decenni, il problema-letteratura a fare da punto di riferimento è soprattutto il Compagnon de Il demone della teoria e che si potrebbero sintetizzare all ingrosso in tre punti o questioni fondamentali: che cos è la letteratura? La si può definire a partire dal messaggio e dallo statuto autoriale (vedi qui il corpo a corpo con il classico Barthes della morte dell autore)? E qual è, infine, il rapporto della letteratura con la realtà? Basterebbe guardare a quest ultimo nodo per accorgersi della ricchezza e della poliedricità metodologica delle incursioni di Paduano, che nel giro di un capitolo chiama di nuovo in causa Barthes quello dell effetto di reale ma per retrocedere poi fino a certe righe capitali della Poetica aristotelica (e tuttora efficacissime, ci insegna Paduano, per ripensare il problema della rappresentazione), non senza gratificare il lettore con due assaggi testuali: uno dedicato al Pierre Menard di Borges, e l altro nientemeno che agli inizi, fulmineamente accostati, dell Odissea e dell Eneide. Due capisaldi della cultura occidentale sono dunque indagati, nello specifico, prestando eguale attenzione alle differenze e alle reciproche costanti, traendone una sorta di legge generale dell intertestualità, schematizzata in una triangolazione fra due opere e un tertium irrinunciabile, che è la variabilità della realtà storica. Ed è questo il legame fondativo lungo il quale si snoda l analisi: quello fra Scrittura e Storia, fra autoreferenzialità della letteratura e sua opposta capacità di parlare del reale. Un legame sempre in tensione, mai risolto, pronto a sbilanciarsi verso uno dei due poli, per poi magari riequilibrarsi a seconda dell autore, del secolo, del punto di vista del soggetto che indaga il testo. Ma quello che non manca mai nell analisi di Paduano anche quando l oggetto-letteratura sembra chiuso in sé stesso è il nesso fra studio della letteratura e uomo, nesso eletto a unico principio metodologico davvero insostituibile: figure e creature del testo saranno insomma sempre «in rapporto significativo, che comporti un valore di verità, con quelle in carne e ossa». Il che, in tempi di specialismo o di sfiducia negli studi umanistici che è l altra faccia dell odierno eccesso specialistico non è davvero poco. e delle sue feste cittadine. Eppure il libro di Turato mostra, con ricchezza e talora eccesso d erudizione, come queste due linee si incrocino più spesso di quanto divergano. Così, ad esempio, il saggio più significativo su Sofocle apparso nel periodo preso in considerazione (1933) fu scritto da un allievo di Wilamowitz, Karl Reinhardt, non insensibile però al fascino di Nietzsche. Nella prassi teatrale, d altro canto, la drammaturgia si è rifatta piuttosto a Euripide, persino quella che aveva eletto Sofocle a modello e culmine dell arte tragica: proprio quell Euripide moderno che secondo Nietzsche aveva decretato la corruzione e la morte della tragedia e che Wilamowitz aveva invece prediletto nel segno dell anticlassicismo. Questo libro traccia una nuova storia delle ricezioni di Euripide: sia quando esse siano da cercarsi in filigrana, come nei drammi greci del giovane Hofmannsthal, a cavallo tra XIX e XX secolo, e nell Antigone scritta in trincea nel 1916 da Walter Hasenclever; sia quando siano esplicite, come nella traduzione rielaborata delle Troiane euripidee da parte di Franz Werfel nel Una ricerca storica come questa non si prefigge comunque come obiettivo chiedersi quale sia oggi il ruolo della tragedia greca nelle poetiche, nelle drammaturgie, nelle speculazioni teoriche sul tragico. Tuttavia nell Introduzione Turato delinea un ipotesi: cioè che le ragioni della scoperta della tragedia greca nei paesi di lingua tedesca tra Otto e Novecento (una fin de siècle che l autore estende però sino alla fine della Seconda guerra mondiale!) siano analoghe a quelle della sua fortuna nei teatri mondiali post-sessantotto. Quali? L uso strumentale dei testi greci per ridare vita a un teatro di cui da più parti si è decretata la morte, per offrire insomma una via d uscita a una profondissima crisi della scrittura drammaturgica. Se è così, si tratta, a me sembra, di una nuova forma di classicismo. Si sarà capito che il complesso libro di Turato, purtroppo non fornito di indici analitici né dei nomi, compie incursioni, nonostante il titolo, nella cultura europea anche prima del 1871 e dopo il 1945; giunge a trattare le molteplici filosofie del tragico fiorite in ambito tedesco dopo Nietzsche; traccia una storia del dionisismo del primo Novecento; si interessa del concetto di classico e del ruolo in esso giocato dalla tragedia; affronta persino la questione, immensa, del significato da attribuire alla catarsi aristotelica (da ultimo se ne è occupato Gherardo Ugolini in Jacob Bernays e l interpretazione medico-omeopatica della catarsi tragica, Cierre Grafica 2012). In questa rassegna della storia degli studi, specie nella parte I, supportata da una bibliografia indominabile (ma ferma a qualche anno fa), il lettore può disorientarsi e chiedersi quale sia il filo conduttore. Più efficaci sono le parti II-IV, in cui si dà una lettura analitica dei testi teatrali moderni: dei drammi greci di Hofmannsthal (anche gli incompiuti, come le Baccanti, abbozzate già nel 1892), delle tragedie espressioniste, delle tragedie dionisiache (1913) di Rudolf Pannwitz, della Medea (1925) di Hans Henry Jahnn. Il libro si conclude con una disamina dell Ifigenia a Delfi, l unica tragedia rappresentata dell oscura Tetralogia degli Atridi ( ) dell ottuagenario Hauptmann, profezia e insieme diario della caduta del Terzo Reich. I drammi moderni sono sempre letti e interpretati da Turato come fatti teatrali e non come Letteratura, e anche in questo distanti dagli ipotesti antichi da cui variamente prendono ispirazione, anche se nella maggior parte dei casi si tratta di riscritture e variazioni di temi mitici. Elusa tuttavia mi sembra una domanda nodale: in che misura la storia di tutta questa eredità ci aiuta, se ci aiuta, a comprendere meglio le opere degli antichi come oggetti storici? Il libro di Turato si inserisce in una tradizione di storia degli studi da parte antichistica che privilegia a ragione la cultura tedesca. Si tratta pertanto di un libro importante, specie per coloro che si avvicinano per la prima volta a questi temi e si interessano alla memoria dell antico. Ma non sembrerà un paradosso se proprio da questo libro si può piuttosto trarre l esortazione ad abbandonare l ipoteca tedesca e a verificare invece la persistenza della tragedia greca sia nelle culture non europee e post-coloniali, sia nei luoghi non istituzionali dello spettacolo: luoghi insomma del disagio e della differenza (carceri, ospedali psichiatrici, teatri di guerra), dove il teatro riacquista la sua importanza fisiologica essenziale nella vita di una comunità, come era nella polis greca. Sebbene infine sia apprezzabile l esortazione di Turato a non esagerare la presenza della tragedia greca nella storia del teatro moderno e contemporaneo, è vero anche che temi tragici greci sono presenti in maniera diffusa, per chi li sappia cogliere, nelle scritture drammaturgiche che non si rifanno esplicitamente all antichità: è anche questa una forma di ingratitudine o al contrario l unica possibile eredità del teatro tragico antico e dei suoi miti? Scena dall «Elektra» di Hofmannsthal, regia di Max Reinhardt, Berlino, Kleines Theater, 30 ottobre 1903; a sinistra, Emil Jannings è Creonte nell «Antigone» di Hasenclever, Berlino, Großes Schauspielhaus, 18 aprile 1920, regia di Karlheinz Martin

3 ALIAS DOMENICA (3) MASSIMILIANO PAPINI, «FIDIA. L UOMO CHE SCOLPÌ GLI DEI» Del divino Fidia nulla si conosce inoppugnabilmente, e affrontarlo è sempre una sfida. Questo libro attesta le qualità e i limiti di una nuova stagione degli studi di MAURIZIO HARARI Cavalieri, fregio settentrionale del Partenone, Londra, British Museum Dubbi e congetture su un fantasma della Grecia classica «Fidia sfugge, ma c è». La battuta con cui Massimiliano Papini chiude il primo dei tre capitoli partenonici del suo libro Fidia L uomo che scolpì gli dei (Laterza, «Storia e Società», pp. 292, 19,00) riassume con bella immediatezza il senso e il tono dell intera trattazione. Una battuta da accostare naturalmente all incipit minimalistico, che mette il lettore di fronte (anche in immagine) alla brocchetta a vernice nera rinvenuta a Olimpia, col famoso graffito Pheidio eimi, «io sono di Fidia», che poi sarebbe l unica sicura testimonianza materiale, a noi pervenuta, del maggiore degli scultori antichi Salvo, peraltro, certi perfidissimi rumours che circolano fra gli addetti ai lavori, mettendo in dubbio l autenticità non del vasetto, beninteso, ma dell iscrizione. Strano che Papini non ne dia alcun cenno: poiché la falsificazione di quel graffito esprimerebbe ancora meglio quel suo «Fidia sfugge, ma c è», a fronte dell ostinato (e più volte illusorio) inseguimento moderno della sua personalità. Alla ricerca (appunto) di Fidia era, pertinentemente, il titolo del grande saggio di Bernhard Schweitzer, che fu presentato al pubblico italiano, nel 1967, da Ranuccio Bianchi Bandinelli. Fidia come problema, dunque, e come obiettivo. Fidia da cercare, e vediamone subito il perché. Il limite conoscitivo di fondo è il solito di noi moderni, che dei protagonisti dell arte greca deriviamo il quadro onomastico-biografico e sequenziale essenzialmente, quantunque non esclusivamente, da tre libri racchiusi nei trentasette dell enciclopedia di scienze naturali, che fu messa assieme da Plinio il Vecchio al tempo degl imperatori Vespasiano e Tito. La pittura greca su tavola e ad affresco è quasi totalmente perduta, per l inesorabile decomposizione del legno e il crollo delle pareti che ne erano rivestiti; i capolavori scultorei in bronzo sono stati per lo più rifusi in età tardoantica e medievale, e quelli che possediamo provengono di regola dal mare (come i due Eroi di Riace), o sono rimasti celati per secoli sotto un crollo (come l Auriga di Delfi). Anche ai manufatti in marmo può capitare di soffrire seri guai (per le esigenze della produzione di calce), ma in misura statisticamente minore; e si deve una riconoscenza speciale alla passione collezionistica dei committenti romani, che alimentò un mercato vitalissimo di repliche marmoree, più o meno fedelmente tratte dagli originali greci in bronzo. La storia dell arte antica viene dunque a essere un operazione in buona parte ricostruttiva e congetturale, dove una gabbia discutibilmente evoluzionistica che ci è ineludibile ereditare dal pensiero filosofico greco è assunta a contenitore di una serie di personalità battezzate e individuate da una tradizione eminentemente letteraria; e a queste, come ai capisaldi di una sequenza coerente di stili storici, viene ricondotto quanto di materiale (originali, ma soprattutto copie) ci sia stato preservato da una pura casualità di sopravvivenza. Per davvero, come in un luogo famoso di Winckelmann, l arte antica è un amato avventuroso che s allontana in mare, e chi la studia rassomiglia alla sua fidanzata rimasta a lacrimare sul bagnasciuga: se ne ricorda Papini, che l evoca a metafora delle pur poeticissime frustrazioni degli attribuzionisti. L attribuzionismo, appunto: non si può dire che viva al giorno d oggi la sua stagione più fortunata. L esplorazione puntuale e vorrei dire grammaticale di un idioma figurativo e la scoperta (che spesso ne consegue) dei cosiddetti motivi-firma giudicati esclusivi di una mano d artista, sono parse infatti troppo ormai legate al modello di un individualismo demiurgico, di sapore romantico e tardoromantico, inapplicabile alla pratica artigianale della produzione antica; e inadeguate alla costruzione di un discorso storico sufficientemente attento al contesto socio-culturale non solo degli artisti-artigiani, ma anche della loro committenza. Riserve non nuove, per le quali basterà rimandare a pagine diffidenti, che Bianchi Bandinelli volle riservare al principe dell archeologia filologica ottocentesca, Adolf Furtwängler. Dal canto suo Papini, che discende per filiazione indiretta dalla scuola di Bianchi Bandinelli, non può non riconoscere a Furtwängler il merito grande (e strettamente fidiaco) del riconoscimento dell Atena Lemnia, attraverso la testa Palagi di Bologna e il corpo acefalo di Dresda, a dispetto di «sforzi per sottolinearne la fragilità ( ) da parte di critici incapaci ( ) di proporre alternative migliori». Nel prosieguo del saggio, questo riconoscimento al merito dei filologi tende tuttavia a sbiadire, diluendosi progressivamente in un disincanto di fondo che si manifesta nella scrittura nervosa, seppur limpida, e in più luoghi cadenzata da proposizioni interrogative, più numerose le domande che si possono concepire delle risposte che si possono dare, e queste sovente aperte e quasi mai definitive. La divulgazione scientifica non dev essere banalizzante, e Papini fa opera di sintesi di una sterminata bibliografia, senza nulla nascondere, al lettore, della complessità dei problemi. Cercherò di riassumere schematicamente quesiti e risposte. Cominciamo dalla produzione giovanile di Fidia, nel secondo quarto del V secolo a.c. È molto interessante la trattazione, offerta da Papini, del processo di trasformazione dello stile che gli studiosi italiani chiamano severo (come i tedeschi streng), e gli VIAGGI IN ITALIA 1925, a Napoli si ritrovano Adorno, Sohn-Rethel, Benjamin e Kracauer anglosassoni, significativamente, early classical, nella direzione di quel linguaggio plastico per noi pienamente e autorevolmente classico, che riconosciamo in Attica nell esperienza partenonica. Ma proprio all interno di questa riflessione, donde sembra riaffiorare, a tratti, il tema affatto novecentesco (e ambiguo la sua parte) del realismo, l aspetto invincibilmente congetturale di quasi tutte le attribuzioni fidiache conduce a una sorta di afasia critica. Tra le vittime maggiori di una cautela che si converte in scetticismo, i Bronzi di Riace o, più esattamente ed estesamente, la stessa leggibilità filologica del donario di Delfi, dov erano allineate, secondo discussa testimonianza di Pausania, tredici statue di dei ed eroi ateniesi, pagate con la decima del bottino di Maratona. Chi scrive resta un po senilmente affezionato alla sua proposta del lontano 1988 ignorata da Papini, specie per ciò che vi concerneva i connotati attici della cultura plasticofigurativa cui sembrano appartenere i due straordinari pezzi scultorei. È vero, del resto, che l intera questione del donario di Maratona (e dei Bronzi di Riace) appare governata, nella bibliografia, da paradigmi indiziari quanto conflittuali, senza possibilità, al momento, di pervenire a una soluzione definitiva. I capitoli partenonici (dal quinto al settimo) riservano, da tale punto di vista, più d una sorpresa. Perché come tutti sanno le sculture originali, nel caso del Partenone, le possedia- FIDIA mo ancora, e conservate in buona percentuale, quantunque a prezzo del loro smembramento fra Atene e Londra: i marmi delle metope, del fregio ionico, dei due frontoni; dove le congetture della filologia dovrebbero lasciar spazio, infine, alla critica d arte. Il Fidia «che sfugge, ma c è» lo potremo dunque incontrare, finalmente, in quei marmi venerabili. Ma non è così: già il singolare epiteto che gli assegna Plutarco (episkopos per conto di Pericle, qualcosa come soprintendente ) è di per sé elusivo, e giusto gli strumenti dell attribuzionismo ci palesano gl interventi di numerose mani di collaboratori di bottega. Ne deriva il paradosso di una trattazione più estesa e (filologicamente) dettagliata del gigantesco simulacro polimaterico della dea Parthenos, con la sua base e col suo scudo una statua che non c è più, che non del suo scrigno architettonico mirabilmente rivestito di sculture e tuttora esistente, sebbene martoriato dai danni e dai restauri. Partenone e Parthenos danno comunque occasione a Papini di una vivace ed erudita scorribanda esegetica entro una ricchissima imagerie, non senza inflessioni warburghiane come si può verificare nell esempio della nascita di Pandora, raffigurata sulla base del simulacro. Si direbbe anzi che fatta eccezione per il capitolo dedicato al concorso per il gruppo delle Amazzoni ferite di Efeso, in cui sono riproposte alcune tradizionali e convincenti considerazioni di ordine propriamente stilistico il saggio proceda liberandosi di ogni residuo ingombro del fantasma morfologico e risponda sempre più coerentemente a un istanza contenutistica affatto prossima all iconologia. L ultima parte è tutta per l altro colosso crisoelefantino, lo Zeus troneggiante nel suo tempio di Olimpia: commissione di data controversa, che Papini pone persuasivamente all apice della carriera del Maestro, all inizio degli anni trenta, coi lavori per la Parthenos quasi ultimati, e prima del processo intentatogli per il furto dell oro o dell avorio alla vigilia della Guerra del Peloponneso. Il finale è affidato alle parole del retore Dione Crisostomo, che davano voce suggestiva, all alba del II secolo d.c., all «uomo», appunto, «che scolpì gli dei», traducendo l esperienza della figura in una specie di sfida antiteologica: umanizzare il divino, divinizzare l umano. Come tutto ciò si sia prodotto nella dimensione dell iconografia, è ben raccontato da questo libro, a suo modo esemplare della stagione di studi che stiamo vivendo; ma vi si avverte l assenza di una riflessione portata più direttamente e intimamente al cuore dei mezzi formali: è memoria lontana, parrebbe, la bella parola tedesca, Auflockerung, allentamento, che riusciva a descrivere meglio d ogni altra quella specie di docilità con cui la plastica fidiaca soccombe alla luce e, col panneggio bagnato, dà forma visibile all invisibile nudità. Nel 1925 Adorno, Benjamin, Kracauer, Sohn-Rethel si ritrovarono a Napoli per la gioia dei biografi in cerca di scorci vivaci in queste vite segnate da tempi lugubri e pensieri inattuali. Per Mittelmeier, autore di un libro piacevole e strabiliante Adorno in Neapel (2013, Siedler Verlag, Muenchen La Casa di Goethe ne propone ora in italiano alcune pagine) (Adorno a Napoli, a cura di Gazzetti, pp. 40 5,00) quel soggiorno, così poco studiato, diventa occasione per confronti e genealogie intellettuali che sarebbero state impossibili nel caffè Westend di Francoforte. A Napoli (e dintorni) questi moralisti modulano il comune lamento sulla freddezza del mondo moderno con le sorprese di una società in cui umanità e tecnica sembrano stringere una residuale alleanza, in cui la reificazione non mummifica l esistenza e il profano preserva elementi di trascendenza: «Si evita il definitivo, il codificato... Nessuna forma è così e non altrimenti» scrivono Benjamin e Asja Lacis cercando di fissare la loro esperienza partenopea. A strutturare il cuore adorniano della ricerca di Mittelmeier è però soprattutto l inseguimento di una metamorfosi che sarebbe piaciuta a Canetti: quella del paesaggio in testo per dimostrare come proprio quel viaggio così poco turistico sia all origine di pensieri, metafore, di un idea di tecnica e di modernità che lascia tracce profonde anche nelle opere più ermetiche e catastrofiche del filosofo di Francoforte. Con la demonia di un idea imperversante, il libro rilegge pagine di Adorno restituendole alla sua fisica porosità e alle suggestioni di quel viaggio, «molto prima scrive l autore di diventare il guastafeste di ogni attività del tempo libero». Imperdibile, divertente e funambolico il saggio di Sohn Rethel Sulla tecnica a Napoli ovvero l ideale del rotto, che conclude il libretto italiano, ponte sospeso tra il cimitero lukácsiano della reificazione e il canto attutito delle sirene. (r. as.) GERENZA Il manifesto direttore responsabile: Norma Rangeri a cura di Roberto Andreotti Francesca Borrelli Federico De Melis redazione: via A. Bargoni, Roma Info: tel redazione@ilmanifesto.it web: impaginazione: il manifesto ricerca iconografica: il manifesto concessionaria di pubblicitá: Poster Pubblicità s.r.l. sede legale: via A. 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4 (4) ALIAS DOMENICA SCRITTO ALLA FINE DEGLI ANNI CINQUANTA, UN SAGGIO DI VLADIMIR JANKÉLÉVITCH di STEFANO VELOTTI Scritto da Vladimir Jankélévitch sul finire degli anni 50, Il puro e l impuro (a cura di Enrica Lisciani Petrini, Einaudi, pp. 231, 22, 00) è una requisitoria contro l ideologia della purezza metafisica, ontologica, politica, psicologica, morale e insieme una difesa appassionata della purezza di cuore di chi non si illude di potersi esimere dall impurità, ma agisce all interno di tutte le «impure» contraddizioni quotidiane animato da un intenzione buona. «L azione ci restituisce l innocenza. È l azione innocente che contrasta la stupida inclinazione della coscienza a pavoneggiarsi, a chiudere il cerchio e ad arrotondarsi nella soddisfazione di essere pura». È un libro sull innocenza, nella consapevolezza che l innocenza è sempre già perduta, non tanto nel momento in cui ci si riconosce colpevoli, quanto proprio nel momento stesso in cui ci si riconosce innocenti. Come scrive nel suo saggio introduttivo Enrica Lisciani Petrini, questo è un libro semplice e insieme straordinariamente complesso. Per arrivare al cuore del libro, allora, conviene fare un breve détour nei paraggi di una nozione sempre centralissima in tutti i libri di Jankélévitch, e che gioca un ruolo cardine anche in questo. Che in alcune nostre esperienze si dia qualcosa di essenziale, che «fa la differenza», ma che non siamo tuttavia in grado di dire, il latino lo esprimeva con una piccola frase, nescio quid, che si è poi sostantivata in tutte le lingue romanze, in cui si parla di un certo «non so che», di un «je ne sais quoi», di un «no se que» Dall antichità latina in cui ricorre in ambito retorico e teologico, da Cicerone a Agostino questa espressione arriva fino alla prima modernità, per conoscere tra 600 e 700 una vera e propria fortuna nella trattatistica sul comportamento, le buone maniere e le arti, e viene indagata non solo da preti e letterati, commediografi e poligrafi, ma anche da filosofi come Montesquieu e Leibniz. Poi la sua fortuna declina, per ragioni complesse, forse contraddittorie: Un altro giro di logica in quell attraente giardino del non so che La requisitoria del filosofo francese contro l ideologia della purezza, e a favore di chi non si illude che si possano evitare le quotidiane contaminazioni in ambito estetico, il «non so che» aveva una sua ragion d essere finché poteva essere opposto a un ideale di bellezza classicistico, che si pensava di poter fissare con regole e precetti. Ma nel momento in cui questa illusione cade, cade anche la carica polemica di un espressione che nomina una bellezza diversa, svincolata da norme concettuali, e affidata invece a qualcosa di sfuggente e impalpabile. Marivaux, per esempio, contrapponeva ancora il «giardino della bellezza» al «giardino del non so che»: nel primo appariva una matrona bellissima, statuaria e statica, ma dopo un po i visitatori si annoiavano letteralmente a morte. Nel secondo, invece, «tutto vi era come gettato a caso; vi regnava il disordine, [...]che produceva un effetto affascinante [...]. E, malgrado il mito che non parla che di tre Grazie, là ce n erano un infinità, che, percorrendo quel luogo, facevano dovunque dei lavori o dei ritocchi; dico: percorrendolo, perché esse non facevano che andare e venire, passare, darsi rapidamente il cambio le une alle altre, senza darci il tempo di fare bene la loro conoscenza». Benché sia ovunque, il «non so che» è introvabile: «Eppure, dice il «non so che» personificato non state vedendo che me [...]. Non mi cercate sotto una forma, ne ho mille, e non ne ho nessuna di stabile: ecco perché mi si vede senza conoscermi, senza poter né afferrarmi né definirmi; mi si perde di vista vedendomi, mi si sente e non mi si discerne». D altro lato, ogni ideologia scientista, dal positivismo fino allo strutturalismo degli anni 60, guardava all uso di questa espressione con sdegno: chiamare in causa un «non so che» è pretendere di dire qualcosa non dicendo nulla. Ciò non impediva ai Beatles, nel 1968, di costruirci intorno una canzone famosa: «Something in the way she moves». Questo «something», che connota il modo indefinibile in cui la donna evocata nella canzone si muove, corteggia, sorride, non era altro che la traduzione del nescio quid, che in inglese assume un aspetto positivo, nominando la vaghezza di «un qualcosa» che non si può determinare: «a certain something». Quando Jankélévitch si vuole riferire al correlato positivo della negazione contenuta nel «nescio quid», usa l indeterminato quod, prendendo a prestito dal latino (e da Schelling) un espressione che indica un «che», rifiutandosi di determinarlo con dei predicati. La filosofia contemporanea salvo alcune notevoli eccezioni (Derrida, per esempio, ha ripreso e sviluppato la meditazione di Jankélévitch sul perdono) si professa per lo più allergica a quel che non si può determinare concettualmente, a quel quod che sfugge a una presa predicativa, e lo bolla come «l ineffabile», un ritorno sterile e tautologico alla teologia negativa, una chiacchiera inconcludente. Ma non sarebbe altrettanto tautologico negare pregiudizialmente a questo quod una sua consistenza ontologica e un ruolo importante nella nostra esperienza solo perché non resta intrappolato nella rete della logica? La questione dell innocenza (della purezza, della spontaneità), è una questione cruciale in tutti gli ambiti della nostra cultura (morale, artistica, politica), e anzi nel darsi stesso di una cultura in generale. Su questo punto Jankélévitch sgombra subito il campo da ogni equivoco sostanzialista: come diceva Marivaux, il giardino del «non so che» va percorso, va accettato nel suo movimento incessante e dileguante, e chiunque voglia fare dell innocenza Alberto Burri, «Rosso plastica», 1966 uno stato permanente un possesso, una proprietà sarà preda di un illusione grottesca, che lo inchioda alla malafede, all affettazione, alla posa ridicola e pericolosa dell innocente e del puro. Quel che Jankélévitch stringe d assedio con le sue ampie volute argomentative può essere in realtà ritrovato in filosofi molto diversi, e in punti cruciali del loro pensiero: potrei ricordare la «mimesi» in Adorno, ma ancora meglio è citare un filosofo estraneo ai riferimenti culturali di Jankélévitch, e certamente più vicino allo stile argomentativo «analitico»: Jon Elster, noto per le sue ricerche sulla scelta razionale e i suoi limiti, la teoria dei giochi, le dipendenze. In Uva acerba, Elster ha indagato gli «stati che sono effetti essenzialmente secondari», vale a dire effetti di vario genere (sociali, morali, politici) che non possono essere ottenuti consapevolmente e intenzionalmente, ma solo come effetti secondari di azioni intraprese per altri fini (se soffro d insonnia, è vano sforzarsi di dormire, meglio interessarsi alla lettura di un libro; se voglio dimenticare qualcosa, non posso concentrarmi sullo sforzo di dimenticarla, ma devo intraprendere un altra azione; non si può compiere un azione per essere ammirati, e tuttavia si può deliberatamente suscitare l ammirazione, se per esempio si agisce per raggiungere un certo obiettivo; e così via). «Quel che più conta scrive Elster è che gli effetti secondari sono legati a quel che accade in virtù di quel che siamo, in quanto opposto a quel che possiamo realizzare attraverso lo sforzo e la lotta». È facile vedere come ciò valga altrettanto per la purezza, l innocenza, la spontaneità, la cultura viva. E quel che siamo non è un destino, ma è il riultato indiretto del nostro agire nel tempo, se questo agire, grazie a un «quasi niente» (un «non so che») che fa la differenza, non mira artificiosamente a fissarci in un ruolo o in un identità funzionale a un tornaconto, ma a perseguire un obbiettivo degno del nostro amore: «vivete alla giornata, seguite la vostra strada senza piagnistei, senza nemmeno accorgervi dei guaiti dei piccoli ometti rabbiosi, e nell indifferenza più completa verso il gracidare degli invidiosi anche se l indifferenza di per sé sarebbe negativa senza la presenza di un oggetto amato, il solo capace di orientare il vostro cammino». Forse Jankélévitch si illudeva quando pensava che, non essendo la purezza o l impurità uno stato, «non c è uomo», per quanto corrotto sia, «che non abbia intravisto almeno una volta nella sua vita, e per un istante divino [ ]la città candida dove il sole di mezzogiorno non proietta più l ombra delle cose». Ma sicuramente è riuscito a metterci in guardia, in maniera persuasiva, dagli infiniti trabocchetti dei sedicenti «puri». SISTEMI DI SEGNI Indagine sul volto nel dibattito tedesco del XVIII secolo: un saggio di La Manna di ROBERTO GILODI La questione è apparentemente semplice e si riassume nella domanda: esiste una corrispondenza tra l anima e il corpo? E se sì, come si manifesta? Una domanda molto antica, che oggi può suonare fuori tempo massimo, emersa più volte in circostanze teoriche e pratiche diverse nel corso della storia culturale e che si ripresentò con particolare forza nella Germania della seconda metà del Settecento. Siamo nell età della nascente antropologia intesa come studio del commercium mentis et corporis e della nascita della psicologia empirica. Ma anche nell età del romanzo moderno e in particolare della sua variante più esplicitamente biografica, il romanzo di formazione. Di questa rinascita della questione fisiognomica in ambiente tedesco si occupa il libro di Federica La Manna Sineddoche dell anima (Mimesis, pp. 135, 14,00) che opportunamente introduce il dibattito settecentesco con una ricognizione sulle fasi che l hanno preceduto. Il merito maggiore del saggio è senza dubbio la costante evidenziazione della filigrana teorica che percorre il variegato mondo di questa disciplina, di cui è incerto lo statuto, essendo essa un sapere che proprio nell età dei lumi oscilla tra la ciarlataneria, stigmatizzata e irrisa ad esempio da Lichtenberg, e le diverse declinazioni dell antropologia filosofica. Entrando più nel merito del libro si incontrano tre aspetti di notevole salienza teorica: la corrispondenza tra forma del cosmo e forma del corpo umano; la questione della fisiognomica come scienza universale o come intuizione del particolare; il corpo come specchio dell anima o come sistema segnico. Il primo istituisce un sistema di corrispondenze simboliche tra il corpo umano e le diverse apparizioni del cosmo incentrato sulla forma: il punto fondamentale è la relazione tra la frammentarietà infinita del vivente e l unità formale che consente di operare le analogie che riportano a unità il molteplice. Il secondo aspetto, ossia la questione della fisiognomica come scienza, è il nodo centrale che le diverse teorie intorno al rapporto di physis e gnosis hanno cercato di sciogliere e che si ripresenterà in chiave quasi apodittica nel clima positivistico di fine Ottocento. In quanto scienza la fisiognomica si propone di stabilire un sistema di deducibilità dell aspetto fisico, le fattezze del volto in particolare, da categorie morali universali istituendo in questo modo una tipizzazione dei tratti somatici che trascende la particolarità finita di ogni individuo. D altra parte l esercizio fisiognomico si applica al singolo individuo, la cui particolarità irripetibile è l oggetto dell osservazione del fisionomo. Universalità e particolarità costituiscono dunque i poli opposti di un esercizio interpretativo destinato a non trovare soluzione. Il terzo aspetto, quello del rispecchiamento tra interiorità e forma esterna, mette in gioco una questione di grande interesse: il parallelismo tra fisiognomica ed ermeneutica, vale a dire il problema della traducibilità dell immaterialità spirituale (psiche o senso) nella dimensione fisica concreta (corpo o lettera). L antropologia moderna è nata da un confronto con questo ordine di problemi, che per la prima volta si è liberato programmaticamente dalle ipoteche metafisiche della filosofia sistematica. Su questo terreno la ricerca di Federica La Manna incrocia gli ambiti della psicologia empirica, dell arte dell interpretazione, della traduzione e, last but not least, quello della letteratura. Se la fisiognomica riprende nel Settecento una dimensione sperimentale era fatale che le sue strade incrociassero quelle del romanzo, il genere letterario più esposto da sempre alla sperimentazione e particolarmente investito del compito di dare forma narrativa alle nuove acquisizioni filosofiche intorno alla natura umana. Lo scopo era quello, in particolare nel romanzo di formazione, di rappresentare l uomo intero, compiuto, moralmente integro. Un ideale utopico, che si infrangerà assai presto, come dimostrerà il romanzo qualche decennio più tardi, e che appare oggi, a distanza di più di due secoli, come un idea di armonia enfatizzata di fronte alle insidie ormai evidenti di una età della lacerazione del rapporto soggetto e mondo. Eloquenti a questo proposito le tentazioni solipsistiche di Anton Reiser nell omonimo romanzo di Moritz, e leconfessions di Rousseau. Una seconda considerazione che riguarda il rapporto tra letteratura e fisiognomica è quello che può essere compreso in questa domanda: se il corpo è lo specchio dell anima la questione centrale è come avviene il rispecchiamento. Si tratta di mera riproduzione meccanica o di traduzione in un sistema segnico? Se è vera la seconda ipotesi, allora si apre uno

5 ALIAS DOMENICA (5) DANIELE GIGLIOLI SMONTA VITTIME LA FORTUNA DI UN PARADIGMA Andres Serrano, «The morgue», 1992 di ADRIANO PROSPERI Non ci avevamo mai pensato: ma il lupo che si mangia l agnello nella fiaba di Fedro è una vittima. Si lamenta di offese ricevute. Lo fa dall alto, da una posizione di potere (superior stabat lupus). Oggi, sostiene Daniele Giglioli in Critica della vittima (Nottetempo, pp. 128, 12,00), sono tanti quelli che hanno imparato la lezione: lupi che non si celano più sotto la veste dell agnello secondo l antica immagine dei moralisti cristiani, ma per mangiarselo prendono la scorciatoia del vittimismo, più comoda e anche più redditizia in termini di consenso sociale. Sia chiaro: non si tratta qui della realtà dell esser vittima realtà vasta come il mondo intero. Né si tratta dell impegno di chi cerca di prendere parte per loro, accanto a loro. Qui si parla dello sfruttamento del vittimismo e si mira alla critica dell ideologia vittimaria come «falsa coscienza», strumento di legittimazione delle ingiustizie e delle violenze. Sappiamo bene come la galassia ideologica della finalità «umanitaria» abbia coperto e legittimato quasi tutte le ultime guerre condotte nel mondo restando alle vittime una sola parte da recitare nella commedia: quella di massa indistinta senza volto e senza voce che soffrono sofferenze vere e in cambio di un soccorso esibito più che veramente dato, perdono ogni diritto a dire la loro, a deliberare su ciò che è giusto. Ma la proposta di Giglioli elaborata sulla base del dossier indicato nelle dense pagine dell appendice, non si limita a questa facile constatazione. L ideologia vittimaria di cui analizza le componenti è una costruzione complessa. Si compone di ingredienti come l ossessione identitaria in opposizione al mutamento, il culto della memoria in opposizione alla storia. È l efficace supporto del populismo: il leader che si atteggia a vittima instaura con la massa un rapporto fondato sul risentimento contro un nemico esterno, di volta in volta l ebreo, lo zingaro, l immigrato, il comunista e via elencando. Ha una inconfondibile coloritura affettiva. Si nutre dell immaginario del dolore e della morte. Esalta l eroismo del patire, deprime la volontà di agire. Coltiva l ossessione della Shoah e del fantasma di Hitler come metro di misura e paradigma finale obbligatorio di ogni discorso sul mondo. Qui la storia è inattuale, al suo posto si insedia la memoria. Memoria significa soggettività e sofferenza. Da qui il moltiplicarsi delle giornate della memoria, con l invito a sentirsi in debito di sofferenza per le vittime, quelle della Shoah, quelle delle foibe, quelle delle mafie, quelle del terrorismo interno e internazionale. Il gusto di officiare i riti del dolore Nel dolore ritualizzato del ricordare al silenzio delle vere vittime si sostituisce la grancassa delle retoriche commemorative: chi parla in nome delle vittime si appropria della memoria, ne diventa l eroe sofferente. Accade qui una sostituzione di soggetti perché nella prosopopea della vittima il parlante è un testimone a nome d altri, un presentificatore della sofferenza che ci fu. L osservazione di Giglioli è amara e pungente quanto esatta. Chiunque abbia assistito o partecipato ai riti delle giornate della memoria sa quanto sia difficile rompere la cornice di un rito di compianto funebre obbligatorio da subire compunti come una parentesi che renderà più prezioso il ritorno al godimento dell esser vivi e più rapida la smemoratezza. A fronte delle tante polemiche più o meno oziose e ripetitive se Ossessioni identitarie, memoria che si oppone alla storia, rapporti politici fondati sul risentimento: un tentativo di «Critica della vittima» si debbano o non si debbano celebrare le giornate della memoria, le pagine di Giglioli toccano il fondamento dell ideologia che le ha inventate e le sottende. La retorica delle giornate della memoria obbliga per sua natura alla sovrapposizione di tempi e di punti di vista, annulla la distanza temporale e cancella la prospettiva storica. Il prezzo che si paga è alto: il testimoniare trasmette non la conoscenza dell accaduto nei suoi caratteri specifici ma immobilizza il tempo storico e comunica un idea della storia e del mondo come luogo dove non resta che far torto o patirlo: è la sconsolata filosofia del Manzoni giansenista dell Adelchi quella che viene in mente a Giglioli, o almeno quella del Renzo Tramaglino contento di essere riparato nel privato, sfuggendo al rumore e alla confusione insensata della rivolta popolare. Il paradigma vittimario ricostruito da Daniele Giglioli possiede i caratteri di quello che potremmo definire un fatto sociale totale, prendendo in prestito la definizione di Marcel Mauss: un misto di riti e miti dove è possibile individuare l espressione dei rapporti di forza e delle tendenze profonde del nostro tempo. Un tempo che a Giglioli appare come radicalmente controrivoluzionario se rivoluzione significa orientarsi al mutamento, realizzare l invito kantiano al coraggio di sapere, avere fiducia nell azione consapevole per cambiare il mondo. Oggi al contrario prevale il senso di colpa e il peso del debito, non solo quello delle finanze pubbliche e private ma anche quello della storia. Il post-moderno volta le spalle alla modernità, al Novecento che è condannato in blocco. Il Novecento è per i vittimisti il mattatoio, il secolo delle stragi, il buco nero della storia. Per raccontarlo si è inventato un genere insolito, i libri neri: si è cominciato con quello del comunismo e non si è più smesso. Nei suoi rapidi e spesso fulminanti attraversamenti di testi e pratiche Daniele Giglioli porta il lettore più distratto e diffidente a scoprire nelle sue analisi non poche ragioni di consenso. Per lo scrivente, lettore soprattutto di libri di storia e sempre più colpito dall inattualità crescente della prospettiva storica nel diffuso e comune sentire, il consenso è soprattutto per l aver individuato l aspetto fissista e astorico del paradigma vittimario. Oggi l orizzonte sociale sembra quello di una notte polare, un tempo a una sola dimensione, un cupo presente che dura senza mutamento cancellando il futuro e inabissando il passato in un museo degli orrori. Ben si può capire in questa prospettiva la legittimazione di poteri che non tollerano alternative o mutamenti. L unica prospettiva possibile quando si cancella il tempo umano del mutamento storico è quella del nesso fra un passato come immenso cimitero di vittime senza voce e un futuro di estinzione apocalittica delle specie viventi. La riprova è facile. Seguendo su internet il filo della compassione per le vittime ci si imbatte in un Centro per la storia dell universo in California : il suo fondatore, il prof. Brian Swimme, proclama la futura estinzione di massa delle specie viventi e dichiara di voler diffondere nel mondo una «compassione globale». Non è la prima volta che il profetismo apocalittico compare nella storia: ma se nel passato ha avuto spesso una forza dirompente generatrice di grandi rivoluzioni, oggi l ideologia vittimaria corrente gli conferisce il sapore di una richiesta di conservazione, di immobilità e immutabilità dei rapporti di forza che fa a pugni con l esigenza vitale di correggere le storture della società per far andare avanti la storia. Del resto non mancano precedenti modelli storici di ricorso alla esibizione della sofferenza e della compassione per le vittime come potente mezzo per legittimare il potere e bloccare ogni pulsione rivoluzionaria. Si pensi al caso, familiare allo scrivente, di quei confratelli delle conforterie cristiane attive nei dintorni del patibolo che per secoli si dedicarono a trasformare banditi, assassini, ribelli politici, bestemmiatori ed eretici in vittime pentite e capaci per loro tramite di far lacrimare gli spettatori. Come i «victimarii» dell antica Roma col loro mazzuolo per stordire le bestie del sacrificio pagano, la loro opera valse a cancellare nelle loro menti e in quelle degli spettatori il ricordo dei misfatti che avrebbero altrimenti scatenato l odio e il furore della folla. scenario interessante che riguarda da vicino anche le strategie di formalizzazione della scrittura letteraria rispetto ai contenuti dell interiorità. Ma non solo, anche rispetto al supposto reale, investendo così la questione mai risolta del realismo, una parola, come diceva Nabokov, che non può essere usata senza le virgolette. Un ulteriore aspetto, che discende dalla questione cruciale della traducibilità, è la relazione intersoggettiva che si instaura a partire da un codice condiviso: in che misura l esistenza del codice garantisce un oggettività dell interpretazione? La questione della fisiognomica come scienza ci conduce dunque nel centro della questione ermeneutica: capire un volto non è diverso da capire un enunciazione linguistica, e più in generale un opera, perché significa scoprire l intima necessità sottesa alla sua costruzione, che non discende da un applicazione meccanica di regole ma da un confronto fra norme oggettive e inclinazione individuale: nella costruzione linguistica ha un ruolo determinante la soggettività di chi scrive o di chi parla. Per questo motivo non può esserci certezza definitiva da parte dell interprete e il suo è «un compito infinito», sempre soggetto a revisione. La domanda a questo punto è: che tipo di scienza viene richiesta per comprendere la mobilità soggettiva e la modificazione morfologica del soggetto osservato? In altre parole: esiste un sapere della trasformazione del corpo e in particolare del volto umano? Una questione mai del tutto risolta, a cui Sineddoche dell anima fornisce chiavi preziose per cercare una risposta. 700 FRANCESE L esagerato Leonard, coiffeur della Regina, e altre voci in una guida critica pettegola di LUCA SCARLINI Il Settecento francese vive come immagine di squisita eleganza, di libertinaggio senza freni, di corruzione senza limiti. I romanzi capitali di quell epoca, e in primo luogo le crudeli Liaisons di Choderlos de Laclos spiegano benissimo i ritmi di un epoca in cui l eccesso era la regola, in relazione anche ai clamorosi esempi dati dalla corte di Versailles, dove l intrigo erotico e politico erano all ordine del giorno. Questa esagitata epoca, su cui spesso è intervenuta Benedetta Craveri nelle sue accurate ricostruzioni, torna ora in una divertente antologia di Francesca Sgorbani Bosi, studiosa del periodo, che sceglie un titolo inequivocabile: Guida pettegola al Settecento francese (Sellerio, pp. 354, 18,00). Una sequenza di testi antologizzati da moltissime fonti del secolo dei lumi, e riproposto come un efficace quanto divertente dizionario di usi e costumi. A ogni voce è preposta una nota critica acuta, che pone in evidenza i momenti fondativi di un età che fece del lusso la propria carta da visita, prima della crisi risolutiva. Ovviamente il lemma Moda si presenta come articolato: evoca con gusto i fantasmi di Rose Bertin, «modista della regina», artigiana che riuscì a ottenere un grande potere, determinando gli abiti delle corti di mezza Europa, ma anche quello, profumatissimo, dell arrogante coiffeur de la Reine, l esageratissimo Leonard (cui giustamente è dedicata una famosa scena di Marie Antoinette di Sofia Coppola), che giungeva con uno stuolo di assistenti, e dichiarava di essere «fisionomista», non parrucchiere, come egli stesso dichiara nell esilarante autobiografia pubblicata a Londra in esilio dopo la Rivoluzione, che varrebbe la pena di essere pubblicata come anticipazione di sensibilità camp. Egli, come uno scienziato, osservava i volti dei suoi titolati clienti, e decideva se essi meritassero i boccoli, o non piuttosto altre acconciature, mentre per le dame elaborava quelle parrucche colossali, piene di uccellini e souvenir, che spesso nascondevano dentro una molla, per poter essere abbassate all occorrenza, di fronte a moralisti o anziani, e ritornare nella loro sfacciata altezza nei ritrovi mondani in voga. Il fiore della creazione di quest epoca fu forse in scena, nella continua messa a punto della rappresentazione in teatro e in musica; non per caso voci importanti sono dedicate agli attori e ai musicisti. Categorie professionali destinate a una esistenza paradossale: spesso ostracizzate per il loro rango sociale, eppure importantissime arbitre di usi, costumi e modi di dire. Ovviamente non mancano le indiscrezioni sull eros: non si contano le relazioni piccanti di un epoca che amava molto mutare i termini per descriverle, parlando spesso di amici e amiche per descrivere relazioni sessuali intricate. L autrice riassume con garbo temi complessi, presenta scorci che permettono di percepire il sapore di un momento storico votato all estremo e sigla un ritratto sfaccettato e ironico di un epoca agitata.

6 (6) ALIAS DOMENICA EDITORIA FRANCESE: JACCOTTET LE OPERE DI PHILIPPE NELLA «PLÉIADE» di MASSIMO RAFFAELI Quando nel giugno del 1992 uscì nella «collezione bianca» di Einaudi il dittico Il Barbagianni- L Ignorante, il nome di Philippe Jaccottet, altrove già annoverato fra i massimi poeti del nostro tempo, era ancora perfettamente sconosciuto alla cultura italiana a parte molto rare eccezioni, quelle tuttavia vistose ma in sostanza ufficiose di Diego Valeri, Piero Bigongiari e Mario Luzi che saltuariamente lo avevano tradotto o citato. A presentarlo al nostro pubblico, insieme con un saggio smagliante di Jean Starobinski, era la limpida versione di un giovane poeta che oggi è fra i maggiori, Fabio Pusterla, e infatti non è un caso che proprio Philippe Jaccottet abbia voluto fosse lui a scrivere la prefazione al volume che ora ne raccoglie la produzione creativa nella collana più prestigiosa d Europa col semplice titolo di Œuvres (édition étabilie par José-Flore Tappy avec Hervé Ferrage, Doris Jakubec et Jean-Marc Sourdillon, Gallimard «Bibliothèque de la Pléiade», pp. LXXXIII+1626, 66,50). A suo tempo Pusterla aveva segnalato una poesia spoglia di ogni manto regale, ridotta a un sussurro a fior di labbra, così lontana da ogni tentazione eroica da sfiorare l annullamento nella quotidianità e nel grigiore, una poesia sempre a misura d uomo e, si direbbe, tanto «naturale» da sembrare fondata sulla difficoltà ovvero sulla fragilità e l incertezza della percezione: una poesia di luce mai sfolgorante, anzi di persistenti luci basse, di toni nemmeno smorzati ma sempre pacati, una voce costantemente modulata sul registro più usuale a riprova del fatto, come scrisse una volta lo stesso Jaccottet, che chi alza la voce lo fa più che altro per coprire il rumore fastidioso dei suoi dubbi inconfessabili. Peraltro un suo verso celeberrimo, che vale una insegna e insieme una dichiarazione di poetica, afferma l effacement soit ma façon de resplendir (è un verso tratto da L Ignorant, 1958), fissando paradossalmente nella coscienza della più ovvia opacità esistenziale l unico splendore davvero accessibile agli esseri umani. A quel memorabile esordio italiano sono seguiti vent anni di traduzioni sia dei versi sia delle prose liriche (una distinzione che, col tempo, Jaccottet ha eliminato sentendole due modalità dedotte da una identica scaturigine), su cui si sono misurati per esempio Antonella Anedda (Appunti per una semina: poesie e prose , Fondazione Piazzolla 1994; La parola Russia, Donzelli 2004), Gianluca Manzi (Elementi di un sogno, Hestia 1994; L oscurità, Fazi 1998), Albino Crovetto (Arie, Marcos Y Marcos 2000), e ovviamente Pusterla Servitore del visibile: il poeta svizzero che tiene le luci basse È stato Pusterla a valorizzare per primo, da noi, il tono pacato di questi versi spogli, annullati nel quotidiano: la poesia come diagramma dell attimo che rimane la voce italiana di Jaccottet (Libretto, Scheiwiller 1995; Paesaggi con figure assenti, Dadò 1996; Austria, Bollati Boringhieri 2003; E, tuttavia. Note dal botro, Marcos y Marcos 2006) dentro una consanguineità e in una fitta trama intertestuale, vale a dire in un dialogo mai interrotto, che ha ispirato di recente lo studio di Mattia Cavadini, Il poeta ammutolito. Letteratura senza io: Philippe Jaccottet e Fabio Pusterla (Marcos y Marcos 2004). Nella prefazione a Œuvres, intitolata «Il partito della chiarezza», scrive infatti il poeta ticinese a proposito del maestro: «Un ritmo che è divenire, flusso, movimento, musica, passaggio, metamorfosi, tutto ciò su cui, appunto, poggia la poesia che dà voce al nostro fragile rapporto col tutto di cui facciamo parte». La poesia di Jaccottet è destituita di nomi propri, di fatti che non siano i più domestici, lontana dal clamore pubblico come dalle orifiamme secolari, orfana persino delle azioni in cui dopo tutto si estroflette o si esibisce la vita, una qualsiasi vita. È la poesia di chi osserva, si rende disponibile e intanto registra lo stato di perpetuo equilibrio/squilibrio entro e fuori di sé, nello stesso momento in cui si trova a esistere e a dare, di ogni attimo vissuto, non già un bilancio ma soltanto un frammento utile all esame di coscienza. Qui la poesia, è alla lettera, il diagramma di un attimo e insieme il decorso di una giornata, di una qualunque giornata che, per ideale metonimia, vale ogni volta la vita intera. I versi e le prose di Jaccottet non ostentano mai le proprie credenziali ma le ottanta pagine della Chronologie firmata, con la sua supervisione, da José-Flore Tappy ci dicono che egli ha vissuto con estrema intensità, sia pure sottotraccia, la vita del suo secolo. Nato nel 25 a Moudon, un borgo medievale della Svizzera francese, studia a Losanna e presto si imbatte in un maestro, il poeta Gustave Roud, alla cui lezione sarà sempre fedele mentre scopre i libri mastri di tutta una vita, le opere di Hölderlin e di Rainer Maria Rilke; nel dopoguerra è a Parigi, dove si lega fra gli altri a Francis Ponge e inizia la sua attività di pubblicista e traduttore, specie dall italiano e dal tedesco: nel suo catalogo figurano Thomas Mann, Giuseppe Ungaretti, Eugenio Montale, Luis de Góngora, Osip Mandel štam, Robert Musil (di cui doppia in integrale L uomo senza qualità) e, del 55, una insuperata versione dell Odissea. Il 53 è l anno del trasferimento a Grignan, un villaggio della Francia meridionale dove vive tuttora, a due passi dal petrarchesco Mont Ventoux e a pochi chilometri da Isle-surla-Sorgue in cui visse René Char, un poeta che per temperamento e stile non potrebbe essergli più opposto. Quanto al lavoro di Jaccottet, quel che resta sulla pagina (perché dal pur cospicuo apparato di Œuvres veniamo a sapere che si tratta di un dissimulatore di varianti, di un distruttore delle redazioni intermedie dei propri testi), quel che si deposita nei versi è appena un residuo, cioè la traccia di un metabolismo percettivo che neutralizza tanto l invadenza della Storia (il poeta non per caso ha rifiutato Requiem qui proposto in appendice, poema del 47 sulle stragi naziste dove continua a sospettare una certa oltranza declamatoria) quanto l ambigua riconciliazione con la Natura. La sua voce nasce giusto sul discrimine, nella terra che pare di nessuno ed è invece la sua sola terra di individuo in cammino e in ascolto. Basta andare ancora una volta all archetipo L Effraie del 53, Il Barbagianni nella versione di Pusterla, e inoltrarsi nel folto di un bosco che sembra spaesato, remoto dai sentieri battuti: «Sembra irreale in marzo la chiarezza / di questi boschi, insiste appena, tanto tutto è fresco. / Gli uccelli sono scarsi e dentro il ceduo / distante, che rischiara il biancospino, / giusto canta il cucù. Fumate scintillanti / portano in alto quel che si è bruciato / di un giorno. La foglia morta serve le viventi / ghirlande, e per i sentieri più impervi, se li segui, / tra i rovi, giungi al nido dell anemone, / chiara e comune come la stella del mattino». Sguardo e voce qui non possono né sanno differire, sono finalmente una cosa sola e dunque si identificano nella parola che anima i versi pulsando dall interno. Nella più ricca monografia che gli sia stata dedicata (Jean Pierre Vidal, Philippe Jaccottet, Editions Payot, Losanna 1989: niente di simile esiste in italiano), viene incluso un omaggio di Peter Handke che a un certo punto, trattando di quella inimitabile cadenza, parla di una sua «meravigliosa irresolutezza» ed è, di fatto, la stessa di un poeta che non si dà altro compito se non di ascoltare, osservare, infine vedere. Capitò a Jaccottet di pensare a un poeta come a un servitore del visibile: questa è forse la definizione che più gli somiglia. Philippe Jaccottet in una fotografia di Florence Poncet, copyright Gallimard ESERCIZI CRITICI La riflessione di Sartre sull infanzia di Flaubert analizzata da Federico Leoni di FRANCO LOLLI Un contemporaneo legge un filosofo del passato: fin qui, nulla di strano, una operazione del tutto ordinaria, iscritta in una tradizione consolidata, frutto di una consuetudine antica, giustificata dalla necessità che il sapere ha di rifondarsi continuamente attraverso una nuova messa in forma del già conosciuto. Ma l ultimo lavoro di Federico Leoni, L idiota e la lettera. Quattro saggi sul Flaubert di Sartre, edizioni Orthotes, pp. 138, 13,00), che per un verso si inscrive in questo ambito di ricerca, è qualcosa di più della rilettura critica di un testo, o del suo commento dotto, o dello studio approfondito del pensiero di un autore. È come lo stesso Leoni scrive nell introduzione un esercizio, un cammino, un gesto, un azione. Dunque, un percorso avviato da quell opera straordinaria che lo stesso Sartre aveva definito una favola la favola del piccolo Gustave Flaubert che, da ritardato mentale, diventa il genio della letteratura francese da noi tutti conosciuto ma che, sin dalle prime pagine, consente al lettore di inoltrarsi nella fitta trama logica che spiega la costituzione dell essere umano in quanto tale. Il libro di Leoni che mediante continui ritorni indietro su questioni già affrontate promuove, con sorpresa del lettore, inediti avanzamenti speculativi si presenta così come un saggio indispensabile a chiunque voglia comprendere il processo causativo della soggettività umana; ovvero, il modo in cui il vivente accede a quella dimensione specifica che fa dell essere umano l assoluta eccezione nel regno animale. La riflessione fenomenologica di Sartre sull infanzia di Flaubert diventa per Leoni il pretesto per ragionare sul legame tra la «qualità» della risposta dell Altro genitoriale (definita dall amore, dal riconoscimento, dalla valorizzazione che può o meno manifestarvisi) e l effetto generativo sulla coscienza del bambino. E, ancora, il libro si ferma sul senso che l adulto offre ai primi vagiti del proprio piccolo con la sua risposta accogliente e la possibilità stessa che la dimensione del senso si installi nella vita dell infans, e ragiona sul malamore materno e sul gesto di ritrarsi dalla vita del figlio, sul non ricevere un posto e sull essere, in qualche modo, diseredato. E indaga l intensità del vissuto di morte che l esser nato nella terra di nessuno produce, tra lo stupore e la stupidità, tra l apprendimento del linguaggio limitato alla ripetizione delle parole dell altro e l essere parlato, ossia il non poter fare del linguaggio una propria azione (fenomeno che alcune forme di psicosi illustrano con chiarezza). Ed è proprio al linguaggio, al suo rapporto con la parola, al suo costituirsi come dono che l Altro offre al soggetto, al suo far accadere il mondo, al suo legame con la scrittura, con la voce, con il suono, è proprio a questo grande tema speculativo che Leoni dedica le pagine più efficaci del proprio lavoro, pagine di originale riflessione filosofica, le cui ricadute hanno un considerevole valore persino in ambito psicopatologico. Tra queste pagine, Leoni consegna particolare rilievo all approfondimento dell aspetto «allucinogeno» della parola così lo definisce lo stesso Sartre e alla «materialità» del significante, caratteri distintivi di un linguaggio inteso come puro ingranaggio «in cui il soggetto è preso», il cui

7 ALIAS DOMENICA (7) DUE AUTORI DI EPOCA POETI SOVIETICA CURATI DA ALESSANDRO RUSSI NIERO di VALENTINA PARISI Nelle pagine conclusive di Vita e destino Vasilij Grossman osserva come il successo faticosamente strappato dall Armata Rossa a Stalingrado, pur decisivo nel determinare l esito del conflitto mondiale, avesse fatalmente innescato un «duello silenzioso tra popolo e Stato, entrambi vittoriosi», destinato a dilatarsi nell immediato dopoguerra. Sembrava infatti assai verosimile che le masse mobilitate in extremis da Stalin con il celebre appello «Fratelli e sorelle!» avrebbero rivendicato, una volta deposte le armi, un ruolo nella società sovietica più consono allo sforzo bellico sopportato, nonché al sacrificio di vite umane cui si erano piegate, pur di salvare la madrepatria dall aggressione nazista. «Da quel duello dipendevano il destino dell uomo, la sua libertà», osserva Grossman, senza tuttavia precisare come l illusione di una eventuale democratizzazione fosse irrimediabilmente destinata a infrangersi contro l immagine granitica di uno Stalin ormai ultrasessantenne, auto-insignitosi del titolo di «generalissimo» e carico di medaglie, nonché risoluto a volgere a proprio esclusivo vantaggio tutte le implicazioni politiche della vittoria. Tra gli uomini che, da parti diversi del fronte, sarebbero tornati casa ben oltre la fine delle ostilità, ossia nel corso del 1946, vi erano anche due ufficiali-poeti appartenenti alla medesima generazione che, pur con intonazioni differenti, avrebbero dato voce allo spaesamento del reduce, al suo stupore di fronte a un umanità che, spossessata di qualsiasi prospettiva di riscatto o palingenesi, aveva già ripreso a girare ossessivamente nella ruota da criceto della vita quotidiana. Incrociando le lame contro lo Stato nel duello evocato da Grossman, il capitano Igor Cholin e il maggiore Boris Sluckij Da una parte l emarginato volontario Igor Cholin, che non pubblicò nulla in vita, dall altra l «integrato» Boris Sluckij, macerato tra compromessi e rimorsi: due modi opposti di confronto con il potere sovietico Versi dal fronte dello spaesamento Boris Mikhailov, dalla serie «Luriki», avrebbero finito per impersonare due modi opposti di confronto con il potere sovietico: da una parte l emarginazione volontaria del poeta non ufficiale Cholin che in vita non pubblichò un solo verso, consegnando la propria opera ai rudimentali mezzi di riproduzione del samizdat; dall altra i tormentosi sdoppiamenti dello scrittore «integrato» Sluckij che suddivise schizofrenicamente la propria opera in testi pubblicabili e altri da destinarsi al cassetto della scrivania, macerandosi tra autocensure, compromessi e rimorsi. Tanto più fortunata è dunque la coincidenza che permette ora al lettore italiano di accostarsi in parallelo a questi due autori nelle edizioni recentemente curate da Alessandro Niero, ovvero l ampia raccolta di Sluckij Il sesto cielo e altre poesie (pp. 216, 18,50, primo tassello di una nuova collana che Passigli dedica alla poesia russa del Novecento) e l elegante silloge di Cholin, significativamente intitolata Lirica senza lirica (Terra Ferma, pp. 128, 15,00). Un dittico che, snodandosi dal fronte fino alle retrovie ideologiche ed esistenziali del mondo civile, testimonia la ricerca di uno stile più aderente al vero e il tentativo di riflettere quella «vita agra» che attendeva i reduci al ritorno in una lingua scabra, refrattaria a ogni abbellimento retorico. L imperativo a narrare «ciò che è stato», senza nulla omettere né edulcorare, fu percepito da Sluckij ancor prima che come un dovere morale, come un destino iscritto nelle stesse funzioni da lui assolte al fronte, quelle di istruttore politico. Un compito che costringeva il giovane comunista, mentre combatteva sui campi della natia Ucraina, a confrontarsi quotidianamente con lo scoramento che si andava impadronendo dei soldati, nonché con la capacità innata della guerra di frantumare e confondere «sia ciò che per un uomo è bene / sia ciò che per un uomo è male». Di fronte a quell indistinto «tritume» cui l esperienza bellica ha ridotto le vite degli altri, il poeta non può che ascoltare e fissare su carta le loro confessioni, pur consapevole che quelle «verità da vecchi», scoperte prematuramente, lo tormenteranno in eterno: «È il mondo a dettarmi. A notte, fino all alba, / non scrivo, ma trascrivo. /Io non compongo, espongo storie vere» Così come graverà su di lui sia la responsabilità di aver fatto fucilare uomini al fronte in quanto disertori, sia la consapevolezza di essersi spesso autocensurato, in ossequio al partito o per ambizione personale. Pur rifuggendo istintivamente dalle vulgate ufficiali (significativa a questo proposito è la poesia che dà il titolo alla raccolta, in cui Sluckij dichiara ironicamente di essere asceso, in quanto ufficiale dell Armata Rossa, «solo» al «sesto cielo» della presa di Berlino e, non al «settimo cielo» dell epica imbastita dal potere intorno a tale battaglia), il poeta di origine ebraica ammise di non essere estraneo né a quel processo di lakirovka dejstvitel nosti («imbellettatura della realtà») cui Stalin incoraggiava gli artisti, né al linciaggio collettivo cui veniva sottoposto chi non si prestava a simili compromessi. Basti ricordare che il 31 ottobre 1958 intervenne alla seduta dell Unione degli scrittori che decretò l espulsione di Boris Pasternak all indomani del conferimento del premio Nobel. Proprio la consapevolezza di essersi piegato supinamente alla disciplina di partito e di essere rimasto «ligio al programma di edificazione» (malgrado a differenza di altri fosse cosciente di star costruendo «sulla sabbia» e non sulla roccia) conferisce all opera di Sluckij una tragicità tutta particolare, ulteriormente enfatizzata dal suo stile quasi prosastico. Una tonalità destinata ad approfondirsi nei «tempi-nontempi» della stagnazione, quando il vento della guerra che «sfogliava pagine/ di storia universale» si sarà del tutto sopito, e la domanda di libertà alimentata dalla vittoria rimarrà sepolta sotto il peso del conformismo. Ciò che in Sluckij è macigno, rovello interiore e angoscia si trasforma nel quasi coetaneo Cholin in smorfia cinica e fulminante pointe. Effetto forse anche di una biografia a dir poco picaresca che gli fornì il retroterra ideale per diventare il cantore (ovviamente ufficioso) della varia umanità alloggiata nei tetri agglomerati di baracche sorti nel dopoguerra alla periferia di Mosca. Abbandonato dalla madre, il futuro poeta scappò ben presto dall orfanotrofio cui era stato affidato e trascorse l infanzia tra i bezprisorniki (ragazzini di strada), finché alla vigilia del conflitto non prese a frequentare una scuola militare. Benché la guerra si fosse rivelata per lui un occasione sia pur effimera di ascesa sociale, non si può certo dire che a Cholin fosse sfuggito il suo effetto disumanizzante, almeno a giudicare da questi versi: «La trincea come una biscia / Per il pendio della collina/ Striscia / Vi / Brulica dentro/ Gente ammattita/ In cappotti grigi / microbi al microscopio/ gente senza volto». Condannato alla residenza coatta nella «zona» di Lianozovo, Cholin entrò casualmente in contatto durante un uscita clandestina dal campo di prigionia con la cerchia non ufficiale di poeti e artisti che si stava formando intorno alla figura di Evgenij Kropivnickij. Nei suoi versi originalissimi composti all inizio degli anni Cinquanta, Gli abitanti delle baracche, Cholin crea una sorta di sorprendente Spoon River sovietica (come già notò Gian Piero Piretto), condensando i ritratti dei tanti «morti di bottiglia» (o delle giovani spose sfiorite tra maltrattamenti domestici e gravidanze plurime) in epitaffi post o ante mortem di scarna, singolare efficiacia: «Lavora in un chiosco, vende kvas, /sgrida i figli con voce di basso / e tradisce il marito con Vlas». Epigrammi apparentemente «incolti» che, tuttavia, a uno sguardo più attento rivelano quella stessa fascinazione per l art brut popolare coltivata sia dai futuristi, sia dai poeti del gruppo Oberiu. E che, soprattutto, gettano una luce inedita sulla vita degli emarginati sovietici degli anni Cinquanta, esclusi sia da quella allora recente, sia da qualsiasi altra vittoria. «senso è un sottoprodotto del funzionamento macchinale di questa lingua ridotta a materiale linguistico, a cosa fonica, a oggetto visivo, a puro significante». Il «parlage» sartriano (e aggiungerei quella che Lacan ha chiamato la «lalingua») esprimono questo versante del linguaggio estraneo alla significazione, nel quale la parola è cosa, suono, gioco, godimento. La storia del piccolo Gustave, ci spiega Leoni amplificando e espandendo le tesi sartriane, ci insegna quale direzione può prendere la parola del soggetto quando l incontro con l Altro è in qualche misura danneggiato: una parola che non risulta al servizio della comunicazione né della relazione con l Altro, una parola presa dentro il linguaggio denso e impenetrabile dell idiozia, esteriore al soggetto, così pesante e inerte nella moterialité avrebbe detto Lacan, con il suo celebre neologismo che evidenzia nella parola (mot) il suo versante di pura materialità da confinarlo in una vita meccanica, comica, goffa, sgraziata. POESIA Spettrali, moderne allucinazioni in forma di «Camminatori»: una plaquette di Italo Testa di RAOUL BRUNI Chi sono I camminatori (Valigie rosse, pp. 48, 12,00) ai quali è intitolata l ultima, affascinante plaquette di Italo Testa? Nella premessa, l autore afferma di averli avvistati per la prima volta a Parigi negli anni novanta: «mi è parso poi» aggiunge «di riconoscerne alcuni a Berlino nel 1999 e a Venezia, su «Mondo naïf», in un fumetto di Otto Gabos. Ma solo a Parigi, intorno al , nei dintorni del Jardin du Luxembourg, ho potuto registrarne qualche prima traccia». Si tratta di informazioni enigmatiche e sfuggenti, che invece di definire il tema del libro (come ci si aspetterebbe venisse fatto in una premessa esplicativa) lo rendono ancor più misterioso. Si potrebbe infatti dire che la breve nota prosastica che apre questo libro ne sia in realtà parte integrante. D altronde, il mistero sull identità dei camminatori non viene svelato in nessuno dei frammenti poetici (tutti e non è certo un caso senza titolo) che seguono, anzi si alimenta ulteriormente insieme all inquietudine del lettore. Non ci è dato sapere se questi camminatori siano uomini o donne, né se siano creature reali, o, piuttosto, allucinazioni spettrali, come sembra suggerire l aura fantasmatica delle belle fotografie di Riccardo Bargellini intercalate ai testi. Il tentativo dell io lirico di interloquire con i camminatori si rivela del tutto inefficae: «ho provato a parlargli/ si bloccano/ all istante sul posto/ non sembrano sentirti o non rispondono». L atmosfera inquieta e minacciosa di queste liriche rimanda a molti grandi del Novecento, da Kafka a Beckett, mentre, in ambito, italiano, i riferimenti più pertinenti sembrano Caproni e Cattafi (puntualmente evocati da Paolo Maccari nella sua postfazione al volumetto); inoltre, non va trascurato il forte coefficiente filosofico di questo libro, che raccoglie e rielabora efficacemente le suggestioni di pensatori contemporanei tra più decisivi, in primis, di Heidegger (le riflessioni del pensatore tedesco sulla tecnica, in particolare, potrebbero senz altro guidarci attraverso lo scenario desolato di «zone industriali» immerse nella «nebbia più fitta» ove si aggirano i camminatori). Italo Testa è abilissimo nel dissimulare tutta questa ricchezza di riminescenze letterarie e filosofiche in un dettato limpido e disadorno, utilizzando un lessico medio, senza forme culte o aulicizzanti. Inoltre, seppure intessuta di suggestioni novecentesche, I camminatori è una raccolta poetica che parla del (e al) nostro tempo. In questo senso gli enigmatici camminatori non mi sembrano riducibili alla figura otto-novecentesca del flâneur, anzi: sono perfettamente inserti nel processo di omologazione postmoderna: «s avviano/ semplicemente/ ognuno alla sua meta/ ma simili/ e sempre più numerosi / s avvistano». Anche dopo aver letto (e riletto) tutta la plaquette, rimane ancora difficile dare un identità univoca a questi camminatori; eppure, essi continuano ad aggirarsi nella nostra memoria come un immagine archetipica.

8 (8) ALIAS DOMENICA Una mostra a tesi su El Lissitzky dà nuovo statuto formale alle ambivalenze delle sue opere anni trenta, viste in continuità con l esperienza suprematista di MAURIZIO GIUFRÈ ROVERETO È già chiara fin dall inizio la tesi della mostra al Mart di Rovereto sull artista e architetto dell avanguardia russa El Lissitzky. Fin troppo esplicita l immagine oleografica scelta per il manifesto che la promuove: un soldato parte per il fronte e saluta con un bacio un contadino, dietro di loro le truppe dell Armata Rossa ben inquadrate. È la copertina di «URSS in costruzione», la rivista della propaganda sovietica all estero che Lissitzky disegna dal Lo stile della composizione grafica è certo un altra cosa dalle opere che lo hanno impegnato un decennio prima e che nel dipinto Combatti i bianchi con il cuneo rosso (1920) lo hanno reso famoso nell internazionale dell astrazione. Il messaggio della curatrice, Oliva María Rubio, è quindi esplicito: occorre rivalutare nella sua completeza l attività artistica di Lissitzky, anche quella nazional-popolare della propaganda politica, e non solo il ruolo di primo piano da lui assunto nelle correnti delle avanguardie artistiche, fino a comprendere, negli anni successivi alla Rivoluzione, i suoi esordi di illustratore di libri in yiddish per i circoli culturali ebraici di Kiev (Kultur-Lige). L esperienza della totalità come recita il sottotitolo scelto per la mostra va riferita, quindi, non solo al significato di palingenesi rivoluzionaria o di programmata Gesamtkunstwerk, ma anche a una cognizione globale delle molteplici esperienze artistiche che Lissitzky compie. Victor Margolin, in catalogo (Mart- Electa), mette bene in risalto gli «elementi dialettici» che rappresentano la «fonte di perenne creatività» dell artista e l uso delle diverse tecniche e linguaggi che dovranno rispondere funzionalmente all ideologia politica dei Soviet, comprese le «ambiguità» alle quali la sua produzione artistica andrà incontro. Nel suo testo, nel riprendere la suddivisione del critico Yve-Alain Bois, distingue tre momenti della vita artistica di Lissitzky: il primo, «chagalliano», all inizio del 1919; il secondo, «suprematista», dalla fine del 1919 ai primi anni venti; infine quello «stalinista»degli anni trenta, sino alla sua scomparsa avvenuta a Mosca nel A differenza di Bois, che considera l ultima fase di El Lissitzky la meno significativa, per EL LISSITZKY E I KABAKOV AL KUNSTHAUS DI GRAZ I temi invecchiati alla luce del concettualismo russo Scrisse Viktor Šklovskij, riferendosi alle forme letterarie, che «il nuovo genere nasce nelle viscere di quello vecchio». Un principio valido a leggere la mostra El Lissitzky - Ilya and Emilia Kabakov. Utopia and Reality al Kunsthaus di Graz (fino al 10 maggio). I curatori Charles Esche, oltre i Kabakov hanno voluto rappresentare la trasformazione degli ideali del socialismo da ideologia di emancipazione dei popoli a dottrina repressiva e dispotica. In questo senso il concettualismo moscovita dei Kabakov è l espressione plastica dell epilogo tragico degli ideali della Rivoluzione. Lo testimonia la scultura L angelo caduto (1997), bordata da un nastro segnaletico come se l incidente fosse appena accaduto, oppure il Monumento a un tiranno (2005), dove un despota sceso dal suo piedistallo monumentale si incammina, come fosse rianimato, verso la gente impaurita. Se per El Lissitzky l esasperato processo di formalizzazione delle cose (Proun) è il solo a riscattare la società proletaria, nei Kabakov la perdita di ogni sublimazione estetica si definisce nel realismo delle loro crude installazioni, come ne L uomo che dalla sua stanza volò nel cosmo (1985), dove dall interno di un appartamento una catapulta ha lanciato un uomo nello spazio, oppure nel ciclo delle tavole Shek, pannelli in legno dai colori pallidi con su scritti i dialoghi burocratici tra gli amministratori e i residenti nelle Kommunalka, le abitazioni collettive russe. Sarebbe, forse, meno scontato che l accostamento di El Lissitsky e dei Kabakov fosse letto, oltre che in chiave di divergenza politica, per le loro qualità estetiche o, per dirla di nuovo con Šklovskij, per la loro «pura forma». Ogni epoca infatti, scrisse Šklovskij, ha «un suo particolare indice di temi invecchiati e perciò proibiti», ma la «linea» sconfitta non viene annientata, non cessa di esistere. «Essa è soltanto scivolata giù dalla cresta, è sprofondata nei flutti», ma è sempre «pretendente al trono». (ma. giu.) Margolin quella «stalinista» è «persino superiore sul piano estetico ad alcuni dei suoi progetti precedenti». In questa posizione si riflette tutto il nuovo interesse in parte mosso da interessi del mercato dell arte per il realismo socialista e le espressioni del periodo staliniano. Tuttavia su un punto si può concordare ed è quello che l opera di El Lissitzky va intesa nella sua interezza e che uno sguardo nuovo sulle figure e sugli eventi delle storia russa ci può aiutare a comprendere meglio l «ideologia della modernità». Della prima fase, quella del giovane «artista ebraico», sono esposte le litografie che illustrano il racconto Khad Gadya (La capretta), tratto da un canto tradizionale della Pasqua ebraica. Valery Dymshits, in catalogo, sottolinea il parallelo allegorico tra il trionfo della Rivoluzione e quello della giustizia divina di cui parla il testo ebraico, ma più di un riferimento al mondo ebraico sarebbe da segnalare ad iniziare dallo pseudonimo «El», forma abbreviata del nome ebraico di Lissitzky: Eliezer. Nel 1919, quando Chagall invita El Lissitzky a Vitbesk per insegnare architettura e arti grafiche all Istituto di arte popolare, i motivi folcloristici ancora presenti nei suoi libri illustrati scompaiono del tutto per lasciare il posto definitivamente all astrazione geometrica. È a Vitbesk che l artista russo chiama Malevic e insieme, nel 1920, decorano con i loro studenti il centro cittadino per la festa del primo maggio. «Grazie a Lissitzky e al suo approccio architettonico scrive Valery Dymshits il suprematismo di Malevic cessò di essere un fenomeno esclusivamente pittorico e progredì dalla bidimensionalità della tela alla terza dimensione». È a Vitbesk, quindi, che El Lissitzky supera la poetica suprematista ed è con l invenzione di Proun («Progetti per l affermazione del nuovo») che egli dichiara realizzata «la stazione di transito dalla pittura all architettura». Nelle sue intenzioni dalla superficie piana i segni di Proun si sarebbero trasformati in modelli architettonici per poi materializzarsi in costruzioni vere e LISSITZKY proprie: gli esempi di «edilizia comunista» del Costruttivismo. È difficile però immaginare come potessero realizzarsi simili combinazioni plastiche e volumetriche senza un chiaro programma politico di riferimento. Infatti, non si è mai concretizzato nulla di quello che i dipinti Proun suggerivano: essi restarono elementi astratti fluttuanti nello spazio. Assimilabile a un Proun è il progetto per la «Tribuna di Lenin» (1920) che partecipa alle azioni di propaganda del Proletkult e al tempo stesso è prova di quella «interrelazione fra le arti» che El Lissitzky promuove quale superamento sia della «rinuncia allo spettro dei colori» (Malevic) sia dell «esplorazione tattile» della materia (Tatlin). Tuttavia solo un progetto architettonico dà la misura della sua radicale volontà di sovvertire le regole del passato ed è quello di un singolare «oggetto-segno», denominato poeticamente «Staffa delle nuvole», da replicare tutto intorno al centro di Mosca. Come nelle pellicole di Dziga Vertov, nella poesia di Majakovskij o nei controrilievi di Tatlin, El Lissitzky si presenta come il «tecnico delle combinazioni formali» che si preoccupa di organizzare i «materiali» a sua disposizione perché a darne significato, come fece rilevare Manfredo Tafuri, ci penserà il «committente politico». Il suo grattacielo proiettato verso il futuro un edificio multipiano a forma di trilite si configura come un architettura fuori scala rispetto alla metropoli. Il suo effetto di «straniamento semantico», pur se non raggiunge gli estremi che riscontriamo nelle proposte di Ivan Leonidov, mostra comunque di essere una fuga dalla realtà quanto lo sono l ingegnosa macchina tatrale (mai messa in scena) predisposta per l opera di Mejerchol d Voglio un bambino (Chocu rebenka, 1928), oppure il progetto di un aereo di linea (mai decollato). In bilico tra «utilitaristi» e «formalisti» El Lissitsky è il più convinto sostenitore della dialettica tra il tecnico el artistico. L architettura, di conseguenza, va riconosciuta come «arte-guida» perché è la sola a possedere «la proprietà di riordinare, organizzare, attivare la coscienza mediante le sue cariche di energia emotiva», come scriverà a conclusione del suo saggio Russia. La ricostruzione dell architettura nell Unione Sovietica (1930). I risultati di quelle sperimentazioni che soprattutto dalla scuola (Vkhutemas) coinvolgono gli altri centri europei dell esprit de géométrie, si scontreranno com è noto con la realpolitik del partito alle prese con le questioni sociali ed economiche del nuovo stato socialista. Prima, però, del trionfo dello storicismo accademico sancito nel concorso per il Palazzo dei Soviet dalla vittoria di Boris Iofan, El Lissitzky combatte la sua «lotta contro l estetica del caotico» svolgendo una funzione di contatto tra artisti e movimenti delle avanguardie artistiche. Le molte pubblicazioni allineate in una teca della mostra sono la prova evidente sia del suo impegno di grafico sia della sua vitalità nel dibattito culturale sull asse Mosca-Berlino, e dalla Germania il suo ruolo di collegamento con le riviste di tendenza olandesi («De Stijl», «Wendingen») e svizzere «ABC»). All estero El Lissitsky incrocia la sua attività di progettista di stand di rappresentanza dello stato sovietico in fiere internazionali con quella di espositore delle sue opere costruttiviste. A riguardo sarebbe stato utile che gli allestitori della mostra avessero letto l interessante capitolo in catalogo di Isabel Tejeda Martìn. Come visitatori, forse, non avremmo reagito «fisicamente, emotivamente e intellettualmente» per la ricostruzione di una «Stanza Proun», sebbene AL MART DI ROVERETO Qui sopra, El Lissitzky, «Il costruttore», autoritratto; in grande, El Lissitky e Sophie Lissitzky, «Küppers»; in piccolo, «URSS in costruzione, nn. 2-3» la Prounenraum dell esposizione berlinese del 1923 sia stata riprodotta al Van Abbe Museum di Eindhoven nel Con piacere, però, si sarebbe visto almeno uno di quei «muri ottici» teorizzati da El Lissitzky al posto dei soliti piani e volumi bianchi scelti. Togliere la neutralità del muro è l impegno che l artista russo si assunse all Esposizione Internazionale di Dresda (1926) e al Landemuseum di Hannover ( ) con l Abstraktes Kabinett distrutto nel 1937 dai nazisti. In entrambi sperimentò come il visitatore non dovesse essere «assalito dal ruggito di migliaia di fiere diverse nello stesso tempo», come accade quando si appendono di fila i quadri nelle grandi mostre: una riflessione di sorprendente attualità. Rivalutazione della fase stalinista

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