3. L ETNO-SOCIOLOGIA FRANCESE

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1 3. L ETNO-SOCIOLOGIA FRANCESE In Francia la riflessione sulle società «primitive» nacque come estensione degli studi sociologici, che avevano ricevuto un notevole impulso fin dalla filosofia «positiva» di Comte e dalla teorizzazione della sociologia come nuova disciplina che, quasi una «fisica sociale» come lo stesso Comte ebbe a definirla, raggiunta la sua piena maturazione sarebbe stata in grado di individuare con precisione scientifica le leggi del funzionamento della società e di formulare previsioni circa le sue trasformazioni future. Sulla scorta di questa fiducia nel fatto che anche gli studi sociali, adottando i metodi delle scienze fisico-naturali, potessero trasformarsi in «scienze esatte», si mossero molti autori, fra i quali Émile Durkheim, che come è noto fu il primo ad utilizzare la statistica in campo sociale, in un famoso studio sul suicidio (1895). Émile DURKHEIM Gli studi sociali di Durkheim ( ) furono impostati secondo l ottica tipica del Positivismo, per cui si pensava che le culture umane si sviluppassero nel corso della loro storia secondo linee evolutive determinabili in modo oggettivo e identiche per tutte le società. A questo principio, non dissimile dai presupposti dell antropologia evoluzionista, si aggiungeva la convinzione che nelle società «primitive», più semplici, anche i fenomeni culturali presentassero forme più elementari, e si prestassero dunque più facilmente ad essere analizzati dal punto di vista scientifico. Da qui l interesse di Durkheim per gli studi etnologici, che lo portarono, in particolare, a indagare le origini del fenomeno religioso. I meccanismi psicologici e sociali alla base della religione presso società semplici come quelle tribali, in quanto elementi fondanti di tutti i sistemi religiosi e sociali (così come il semplice è a fondamento del complesso), avrebbero potuto infatti dare un contributo decisivo a una scienza globale delle civiltà più evolute. Nel 1912 Durkheim pubblica Le forme elementari della vita religiosa, in cui interpreta il fenomeno religioso come un fatto sociologicamente unitario, che si spiegherebbe a partire da bisogni e atteggiamenti umani fondamentali, identici in ogni società indipendentemente dalle specifiche credenze e dalle forme esteriori del culto, che variano per ogni religione. In quest opera il sociologo francese prende in esame il totemismo, da lui ritenuto la forma originaria di religione, in cui un gruppo si identifica con un animale, una pianta o, più raramente, con un fenomeno atmosferico o un oggetto inanimato. In quanto rappresentante simbolico del gruppo, e talvolta dell antenato comune, l elemento totemico è sottoposto a particolari restrizioni (ad esempio se è un animale non può essere ucciso, esistono modalità specifiche di avvicinarlo, nominarlo e rappresentarlo) e diventa oggetto di culto. Ma come, e perché, ha avuto origine tale culto? A quali bisogni risponde? La spiegazione di Durkheim è che nel totem il clan simboleggia e celebra se stesso. Quello che è apparentemente il culto tributato ad un essere vivente con cui il gruppo intrattiene una relazione particolare, in realtà e inconsapevolmente non sarebbe altro se non il culto che la comunità riserva a se stessa. Come scrive Fabietti 13 : «L unità del gruppo, la solidarietà dei suoi membri, la consapevolezza di non poter esistere al di fuori della società spingono gli individui a idealizzare la propria unione la quale si trova rappresentata in un simbolo, in un totem, e nel culto che a questo viene tributato. Gli esseri 13 U. Fabietti, Storia dell antropologia, Bologna 2001, p

2 umani opererebbero così una specie di spostamento simbolico facendo del totem un oggetto di culto, quando è invece la società (in questo caso il clan) che essi inconsapevolmente adorano». Nel testo seguente leggiamo dalle parole dello stesso Durkheim la particolare relazione sussistente fra totem, religione e società 14 : Poiché il totemismo è dominato interamente dalla nozione di un principio quasi divino, immanente a certe categorie di uomini e di cose e concepito sotto una forma animale o vegetale, spiegare questa religione vuol dire essenzialmente spiegare questa credenza, cioè ricercare in quale modo gli uomini abbiano potuto essere indotti a costruire questa idea e con quali materiali l abbiano costruita. Evidentemente non è attraverso le sensazioni che potevano sorgere nelle coscienze le cose che servivano da totem; ed infatti abbiamo mostrato che queste sono spesso insignificanti. La lucertola, il bruco, il topo, la formica, la rana, il tacchino, il susino, il cacatoa, e via dicendo per citare alcuni nomi che tornano spesso nelle liste dei totem australiani non sono di natura tale da produrre nell uomo quelle grandi e forti impressioni che possono in qualche modo assomigliare alle emozioni religiose e imprimere un carattere sacro agli oggetti che le suscitano. (...) Non è dunque la natura intrinseca della cosa di cui il clan portava il nome a designarla come oggetto di culto. D altra parte, se i sentimenti che questa ispira fossero realmente la causa determinante dei riti e delle credenze totemiche, essa costituirebbe l essere sacro per eccellenza; e gli animali o le piante usati come totem avrebbero un posto eminente nella vita religiosa. Ma noi sappiamo che il centro del culto è altrove: sono le rappresentazioni figurative di questa pianta o di questo animale, sono gli emblemi e i simboli totemici di ogni specie che posseggono il massimo grado di santità; in essi risiede dunque la fonte della religiosità di cui gli oggetti reali che questi emblemi rappresentano ricevono soltanto un riflesso. Così il totem è anzitutto un simbolo, un espressione materiale di qualche altra cosa: ma di che cosa? Dall analisi stessa che abbiamo condotto risulta che esso esprime e simboleggia due specie di cose diverse. Da un lato esso costituisce la forma esteriore e sensibile di ciò che abbiamo chiamato il principio o il dio totemico; ma dall altro è anche il simbolo di questa società determinata che si chiama clan. Ne è la bandiera; il segno in virtù del quale ogni clan si differenzia dagli altri, il segno visibile della sua personalità, impresso su tutto ciò che fa parte del clan a qualsiasi titolo uomini, animali e cose. Se esso è dunque insieme il simbolo del dio e della società, ciò non vuol forse dire che il dio e la società fanno tutt uno? In quale modo l emblema del gruppo avrebbe potuto diventare l immagine di questa quasi-divinità, se il gruppo e la divinità costituissero due realtà distinte? Il dio del clan, il principio totemico, non può esser dunque che il clan medesimo, ma ipostatizzato e presentato all immaginazione sotto la forma sensibile del vegetale o dell animale che serve da totem. Marcel MAUSS Nipote e allievo di Durkheim, Marcel Mauss ( ) è l ultimo antropologo francese a non aver compiuto ricerche sul campo. In collaborazione con Durkheim scrive Su alcune forme primitive di classificazione ( ), un saggio in cui dall analisi di alcune società di aborigeni australiani intende dimostrare che la classificazione del mondo naturale non è il frutto di un attività spontanea della mente umana, né è determinata da caratteri «essenziali» delle cose stesse (per esempio dalla loro contiguità o dalle reciproche somiglianze), ma è il riflesso di un ordine sociale. In pratica, raggruppando in categorie esseri animati ed elementi del mondo che li circonda, gli uomini riproducono le ripartizioni esistenti nella loro società: a variazioni dell ordine sociale corrispondono variazioni nella classificazione della realtà naturale. 14 É. Durkheim, Les formes élémentaires de la vie religieuse, 1912, trad. it. Le forme elementari della vita religiosa, Milano 1963, pp

3 Scrivono Mauss e Durkheim 15 che a ben guardare per l uomo delle origini non doveva esserci «nessuna distinzione fra l individuo e la sua anima esteriore, e nessuna fra l individuo e il suo totem». La sua personalità e quella del suo totem sono un tutt uno e «l identificazione giunge al punto che l uomo finisce col prendere i caratteri della cosa o dell animale cui egli si è in tal guisa accostato». Non è quindi possibile che l uomo abbia iniziato a classificare il mondo naturale con uno spirito analogo a quello che muove i nostri scienziati, in quanto non possedeva la capacità di uno sguardo oggettivo e distaccato dalla realtà circostante. Nonostante ciò, come dimostra l osservazione delle tribù australiane, all epoca ritenute le più primitive della terra, all interno del gruppo sociale erano presenti alcune forme, pur elementari, di raggruppamento. E noto quale sia il tipo di organizzazione più diffuso in tal tipo di società: ogni tribù si divide in due grandi sezioni fondamentali chiamate fratrie. Ciascuna fratria, a sua volta, comprende un certo numero di clan, gruppi di individui, cioè, aventi uno stesso totem. In linea di principio i totem di una fratria non si ritrovano nell altra fratria. Oltre ad essere divisa in clan, ogni fratria si divide in due classi che chiameremo matrimoniali. Si tratta infatti di una organizzazione che ha il precipuo scopo di regolare i matrimoni: una determinata classe di una fratria non può contrarre matrimonio se non con una determinata classe dell altra fratria. L organizzazione generale della tribù finisce quindi col disporsi nel seguente modo: FRATRIA 1 classe matrimoniale A classe matrimoniale B clan dell'emu clan del serpente clan del bruco, ecc. TRIBU' FRATRIA 2 classe matrimoniale A' classe matrimoniale B' clan del canguro clan dell'opossum clan del corvo, ecc. Il connubio è autorizzato fra le classi designate con una stessa lettera (A A e B B ). Tutti i membri della tribù si trovano pertanto classificati in quadri definiti, i quali si inseriscono gli uni negli altri: orbene, la classificazione delle cose riproduce la classificazione degli uomini. (...) Una classificazione siffatta è di una semplicità estrema, poiché si riduce a una mera bipartizione: ogni cosa è collocata nelle due categorie che corrispondono alle due fratrie. (...) Le cose attribuite ad una fratria sono nettamente separate da quelle attribuite all altra fratria; altrettanto distinte sono le cose assegnate ai diversi clan di una stessa fratria. Però tutte le cose comprese in un solo e unico clan sono, in larga misura, indifferenziate. Esse sono di un identica natura; non contemplano linee di demarcazione così come non le contemplano le varietà più basse delle nostre classificazioni. Gli individui del clan, gli esseri della specie totemica, quelli delle specie finitime, sono tutti aspetti diversi di una sola e identica realtà. Queste ultime affermazioni sono interessanti perché ci dicono che Mauss e Durkheim sono convinti che nonostante l enorme eterogeneità di significati e di livelli simbolici riscontrabili nelle diverse culture, alla base di tutti i sistemi di classificazione sussista una identica struttura formale: il raggruppamento di oggetti in classi, la gerarchizzazione fra classi con diverso grado di generalità e il persistere di una indifferenziazione di fondo al livello delle classi con grado minimo di generalità: così come le tribù australiane assimilano al totem cose, persone e animali cfr. il testo anche la specie o, a seconda dei casi, la sottospecie, la varietà o la razza, cioè la categoria meno generale nella nostra classificazione degli esseri viventi, non distingue più gli individui che le appartengono, ma li 15 Qui di seguito e nel riquadro seguente: É. Durkheim e M. Mauss, De quelques formes primitives de classification,

4 assimila considerandoli nei loro caratteri generali. Dal punto di vista formale le classificazioni prodotte dalle società primitive non sarebbero quindi diverse da quelle delle moderne scienze occidentali, se non per il fatto di presentarsi meno rigorose e più indeterminate. A partire dall analisi del materiale etnografico raccolto da Boas presso gli indiani del Nord America e da Malinowski alle Isole Trobriand, in Melanesia, nel Marcel Mauss pubblica il Saggio sul dono, sottotitolo: Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche. Con quest opera egli vuole indagare i principi che stanno alla base di alcune singolari forme di scambio e di circolazione di beni, di cui i suoi colleghi avevano testimoniato la presenza presso popolazioni primitive di varie parti del mondo, come il potlatch dei Kwakiutl e lo scambio kula fra i Trobriandesi. Secondo Mauss si tratta di fatti sociali «totali», cioè di fenomeni la cui presenza ha ripercussioni su molti altri livelli sociali, dalle relazioni economiche, ai legami fra famiglie, ai rapporti politici, alla sfera delle relazioni simboliche; tutti questi scambi, che lui raggruppa sotto la categoria del «dono», «presentano un carattere volontario, per così dire, apparentemente libero e gratuito, e tuttavia obbligato e interessato» 16. Il problema di spiegare un fenomeno culturale che presenta aspetti all apparenza contraddittori (libero o obbligato?) viene risolto da Mauss facendo ricorso a una teoria indigena, diffusa tra i Maori della Nuova Zelanda. La circostanza in sé è notevole, perché questa è forse la prima volta che un occidentale si sforza di abbandonare le proprie categorie interpretative per accogliere il punto di vista indigeno. Questa scelta, in seguito notata e apprezzata da Lévi-Strauss, costituirà, come vedremo, uno dei requisiti basilari del ricercatore secondo la recente antropologia interpretativa. In ogni caso, tornando al fenomeno del dono, esso appariva regolato da tre norme: il dare, il ricevere e il ricambiare, secondo il principio della reciprocità. Il carattere obbligatorio di tale principio viene motivato dalla spiegazione indigena con l osservazione che la cosa donata è dotata di una carica simbolica (uno hau, o potere spirituale) che rimanda alla persona del donatore. Ora, questo «spirito della cosa donata» obbliga il beneficiario a ricambiare per ristabilire l equilibrio rotto con il dono, perché in caso contrario potrebbe vendicarsi. Ciò che obbliga, nel regalo ricevuto e scambiato, è che la cosa non è inerte. Anche se abbandonata dal donatore, è ancora qualcosa di lui. Per mezzo di essa egli ha presa sul beneficiario, così come, per mezzo di essa, ha presa, in quanto proprietario, sul ladro» 17. Nel suo testo Mauss riporta direttamente anche la spiegazione maori del dono 18, quale fu fornita ad Elsdon Best 19 da uno dei suoi informatori indigeni. Vi parlerò dello hau... Lo hau non è il vento che soffia. Niente affatto. Supponete di possedere un oggetto determinato (taonga) e di darmi questo oggetto; voi me lo date senza un prezzo già fissato. Non intendiamo contrattare al riguardo. Ora, io do questo oggetto a una terza persona che, dopo un certo tempo, decide di dare in cambio qualcosa come pagamento: essa mi fa dono di qualcosa (taonga). Ora, questo taonga che essa mi dà è lo spirito (hau) del taonga che ho ricevuto da voi e che ho dato a lei. I taonga da 16 M. Mauss, Essai sur le don, ; trad. italiana Saggio sul dono, in Id., Teoria generale della magia e altri saggi, Torino 1965, p Ibid., pp. 168 sgg. 18 Ibid. 19 Elsdon Best ( ), etnologo neozelandese studioso della popolazione maori. 20

5 me ricevuti in cambio dei taonga pervenutimi da voi, è necessario che ve li renda. Non sarebbe giusto da parte mia conservare per me questi taonga, siano essi graditi o sgraditi. Io sono obbligato a darveli, perché sono uno hau del taonga che voi mi avete dato. Se conservassi per me il secondo taonga, potrebbe venirmene male, sul serio, perfino la morte. Questo è lo hau, lo hau della proprietà personale, lo hau dei taonga, lo hau della foresta. Kati ena (basta su tale argomento). Lucien LÉVY-BRUHL Lucien Lévy-Bruhl ( ), professore di filosofia alla Sorbona, incominciò ad interessarsi di etnologia dopo che i suoi studi teorici lo portarono a rispondere negativamente alla questione, in sé puramente filosofica, se esista o meno una morale oggettiva, cioè universalmente valida. Convinto che in contesti culturali differenti si sviluppino sistemi morali diversi, passò a studiare la mentalità primitiva, assumendo una posizione diversa da quella di Durkheim e Mauss. Contrariamente a quanto sostenuto da questi ultimi, Lévy-Bruhl era convinto che le forme di pensiero primitivo non siano strutturalmente affini alle forme classificatorie della scienza, bensì se ne differenzino dal punto di vista qualitativo. Se il pensiero scientifico è un pensiero logico, quello primitivo sarebbe un pensiero pre-logico, a-scientifico e a-critico. Il concetto di pre-logico non indica tuttavia una forma di pensiero meno evoluta rispetto al pensiero scientifico delle società occidentali; esso non implica l idea di una anteriorità temporale nello sviluppo delle facoltà mentali, né una sua natura irrazionale. In questo Lévy Bruhl prende le distanze dagli evoluzionisti che nelle varie tappe dello sviluppo della mente umana individuavano differenze di tipo quantitativo, per cui i «primitivi» avrebbero una mentalità meno sviluppata dei moderni. Per Lévy-Bruhl si tratta invece di sottolineare non la quantità, ma la diversità fra i due ordini di pensiero. La classificazione propria del pensiero pre-logico coglie fra gli oggetti legami di tipo simbolico-affettivo e funzionale anziché nessi logico-razionali. Così se noi classifichiamo utilizzando principi come: parte/tutto, persone/oggetti inanimati, particolare/generale (es. la mela, particolare, appartiene all insieme generale della frutta), e così via, una modalità pre-logica potrebbe annoverare nella stessa categoria il frutto e l utensile che serve per aprirlo e mangiarlo, oppure, come abbiamo visto, l animale e il gruppo di cui esso è considerato il rappresentante totemico. Per quanto stravagante ci possa apparire, questo modo di pensare non è, secondo Lévy-Bruhl, espressione di una mente non ancora pienamente evoluta che tentando di cogliere i nessi causali fra i fenomeni compie errori di valutazione, ma si tratta di uno stile di pensiero perfettamente sensato e funzionale alla cultura di cui fa parte, tant è che in quel contesto viene condiviso da tutti i membri della società e tramandato di generazione in generazione. Il lavoro e le osservazioni di Lévy-Bruhl contribuiscono in tal senso a sradicare la convinzione che esista una continuità evolutiva fra le diverse culture umane e che sia quindi possibile giudicarle secondo gli stessi parametri, distinguendo fra culture superiori e culture inferiori. Arnold VAN GENNEP Arnold Van Gennep ( ), orientalista e linguista, si occupò di etnologia e folklore (notevole il suo Manuel du folklore français contemporain, pubblicato fra il 1937 e il 1958), ma il suo lavoro per molto tempo non venne apprezzato, probabilmente a causa di una impostazione metodologica e di vedute che lo differenziavano dalla scuola durkheimiana allora dominante. 21

6 La sua opera più importante dal punto di vista antropologico è I riti di passaggio (1909), in cui esamina la struttura di atti e cerimonie che presso ogni società scandiscono la transizione degli individui da una condizione all altra della propria esistenza, indipendentemente dal fatto che tali rituali rivestano un carattere sacro, come quasi sempre appare nelle culture «primitive», o che vengano intesi in senso profano, come spesso capita presso i popoli «civilizzati». In qualsiasi tipo di società la vita dell individuo consiste nel passare successivamente da un età all altra e da un occupazione all altra. Là dove le età, e quindi le corrispondenti occupazioni, sono tenute separate, questo passaggio si accompagna ad atti particolari: essi, per esempio, costituiscono, rispetto ai nostri mestieri, l apprendistato, mentre, per i popoli semicivilizzati, si espletano in cerimonie religiose, giacché presso di loro nessun atto è completamente svincolato dal sacro. Ogni mutamento di situazione dell individuo viene a comportare dunque delle azioni e delle reazioni tra il profano e il sacro; queste azioni e reazioni devono essere appunto regolamentate e controllate, affinché la società generale non subisca né disagi, né danni 20. Un aspetto importante nell analisi di Van Gennep è l insistenza sul fatto che dei rituali occorra indagare la struttura formale la quale si osserva pressoché identica presso tutti i popoli e non concentrarsi sui contenuti, che invece vanno compresi singolarmente all interno dei contesti culturali cui appartengono, evitando di tracciare facili parallelismi fra aspetti apparentemente simili di rituali e culture diverse, perché i loro significati, rapportati al contesto di appartenenza, potrebbero rivelarsi radicalmente differenti. Quanto alla struttura dei riti di passaggio, di essi vengono individuate tre fasi: separazione, margine, aggregazione. Il momento iniziale, di separazione, è quello in cui l individuo prende le distanze dalla sua condizione precedente (ad esempio, il rito del matrimonio nella nostra società prevede un primo momento in cui la sposa viene accompagnata dal padre fino alla chiesa; a questo punto si separerà da lui e, simbolicamente, dalla sua famiglia di origine, per accostarsi allo sposo accanto al quale parteciperà alla cerimonia). La fase finale, di aggregazione, è quella che sancisce il riconoscimento di un nuovo status sociale per la persona che ha superato il rito di passaggio (le famiglie degli sposi si riuniscono a festeggiare con un banchetto comune, si brinda alla nuova famiglia e infine gli sposi si allontanano da soli per raggiungere la loro nuova abitazione). Fra l inizio e la fase finale in ogni rituale vi è, come si è detto, un momento intermedio, più o meno protratto, detto di margine, che svolge una funzione molto importante. Esso rappresenta la fase di transizione, la condizione in cui l individuo ha abbandonato lo status precedente, ma non ne ha ancora assunto uno nuovo. Molto spesso il momento di margine viene protratto per un certo tempo, attraverso una serie di atti specifici (nell esempio, e a seconda delle tradizioni, sfide oratorie, cortei a piedi, la realizzazione di servizi fotografici...) la cui durata serve a sottolineare l eccezionalità dell evento, a rendere all individuo meno brusco il passaggio da una fase all altra della vita e a garantire che la comunità ritrovi il proprio assetto nonostante al suo interno sia variata la collocazione di alcuni individui. Scrive Fabietti 21 : «L importanza della fase di margine derivava dal fatto che essa consentiva di ridurre l aspetto traumatico del passaggio dalla fase iniziale di distacco da una determinata condizione alla fase della incorporazione in un altra categoria sociale sotto forma di un nuovo status sociale. La fase di margine era anche la più delicata poiché la condizione non definitiva di chi si sottoponeva al rito era considerata come portatrice di forze giudicate pericolose per la comunità». 20 A. Van Gennep, Les rites de passage, 1909, trad. it. I riti di passaggio, Torino 1981, p U. Fabietti, Storia dell antropologia, Bologna 2001, p

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