Rassegna Stampa. 8 marzo A cura de: L Agenzia Culturale di Milano Con sede in Milano, via Locatelli, 4

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1 Milano - Basilica di Sant Ambrogio Rassegna Stampa La nostra marzo 2015 A cura de: L Agenzia Culturale di Milano Con sede in Milano, via Locatelli, 4 Estratti da: Questa rassegna stampa è scaricabile integralmente anche dal sito Ciclostilato in proprio

2 27/2/2015 Slancio agli ultimi di MASSIMO CALVI Da qualche tempo diversi indicatori economici segnalano che sull'italia si sta finalmente per aprire una fase meno cupa. Le esportazioni, la produzione delle industrie, l'occupazione, mostrano cenni di ripresa che, nel contesto reso più favorevole dagli stimoli della Banca centrale europea, dall'euro più debole e dal calo dei prezzi petroliferi, possono far pensare a un 2015 di 'ripartenza'. Un altro elemento si è aggiunto ieri al quadro di moderato ottimismo, la fiducia dei consumatori tornata a salire dopo anni di depressione. La fiducia è un elemento decisivo in economia, e il segnale non è da sottovalutare, tuttavia questo scatto è più legato alle prospettive di lungo periodo che alla situazione attuale. Che resta abbastanza complicata, in molti casi drammatica. Prima che i segnali positivi possano trasformarsi in una condizione strutturale risollevando un Paese in ginocchio, dove un italiano su quattro è a rischio povertà, servirà del tempo. Saranno necessarie, soprattutto, piccole e grandi azioni capaci di aiutare dal basso, di tenere unite le comunità, di rafforzare le reti di sostegno vicino alle famiglie, di dare una mano in senso letterale alle persone quando il loro stato di bisogno diventa di ostacolo alla sopravvivenza e alla dignità. È, questo, il terreno dell'impegno delle nostre parrocchie, delle Caritas e delle migliaia di persone di buona volontà che fanno ricca l'italia, persino più di tanti altri Paesi con Pil brillanti e conti pubblici virtuosi. Ed è l'esatta prospettiva nella quale si inserisce, coronando tante iniziative avviate nelle diocesi, il 'Prestito della speranza', il progetto di microcredito sociale promosso dalla Conferenza episcopale italiana in collaborazione con Banca Intesa Sanpaolo-Banca Prossima. Proposto la prima volta nel 2009, a 'Grande crisi' appena iniziata, il progetto ha erogato nelle sue prime fasi prestiti a famiglie altrimenti escluse dal credito. Ora la Chiesa italiana assieme alla Banca partner, alimentando con l'8 per mille un fondo di garanzia di 25 milioni, punta molto più in alto: arrivare a prestare in due anni almeno 100 milioni di euro a 15mila soggetti, famiglie e coppie di fidanzati, ma anche piccole imprese, artigiani, nuove attività, giovani impegnati nel cercare o costruirsi un lavoro. Ci sono molti segnali di ripresa, oggi in Italia, ma la realtà, come ha ricordato il presidente della Cei, il cardinale Angelo Bagnasco, resta quella di «un Paese in affanno, che fatica a interpretare la ripresa e, quindi, a costruire il suo domani». Un contesto ancora caratterizzato, nonostante le previsioni incoraggianti, da disperazione, da una forte «incidenza della povertà e una diseguaglianza nella distribuzione del reddito». È per questo che il 'Prestito della speranza', nella sua riproposizione, ha deciso di portare in primo piano l'emergenza drammatica del lavoro. Perché se la fiducia è una forma di credito che si attribuisce fondamentalmente a qualcun altro, una sorta di patto tra adulti destinato a migliorare la superficie dei rapporti, la speranza - virtù spontanea per natura - è come un credito che si concede alla propria anima, nella più profonda delle relazioni, ciò che rende possibile non solo rimettersi in cammino, ma l'idea stessa di futuro. Il microcredito è uno strumento semplice. Occorrono una dotazione iniziale e un istituto bancario disposto a superare gli schemi tradizionali dell'attività creditizia, oltre alla disponibilità di persone desiderose e capaci di accompagnare - e non di abbandonare, come accade in altri casi - chi ottiene il sostegno (qui i volontari di 'Vobis', tutti bancari in pensione). L'esemplarità del 'Prestito della speranza' è nella sua spinta a rendere universale l'accesso al credito, guardando in basso, tra i più deboli del tessuto sociale ed economico, dove la positività degli indicatori non riesce a farsi sentire né a essere capita. Ma dove è la rinascita della speranza, in genere, ad anticipare ogni altro tipo di ripresa, nella consapevolezza che se non si riparte dagli ultimi, nessuno di noi riparte veramente. RIPRODUZIONE RISERVATA. 27/2/2015 L'INIZIATIVA Intesa Sanpaolo-Cei Riparte il Prestito della Speranza di Alessia Gozzi ROMA «INTESA Sanpaolo non ha mai smesso di erogare credito a famiglie e imprese». L'ad Carlo Messina (nella foto col presidente della Cei, cardinale Bagnasco) rivendica il ruolo della banca: 27 miliardi distribuiti nel 2014, con un obiettivo di 36 miliardi per il Con un occhio al sociale attraverso Banca Prossima, dedicata al no profit. Dal 2 marzo, tramite la rete delle Caritas diocesane, il Prestito della Speranza 3.0', sarà riproposto nelle filiali specializzate di Intesa. L'obiettivo è di erogare 100 milioni di finanziamenti garantiti da un fondo costituito da risorse della Cei e affidato a Banca Prossima, guidata dall'ad Marco Morganti. La nuova edizione punta a finanziare 15mila soggetti e ad allargarsi a imprese, giovani e start up. pagina 2

3 4/3/2015 Sarà lo sterco del demonio ma senza l'8 per mille l'attività dellachiesa si bloccherebbe Il denaro serve anche per il bene È anticristiano solo l'uso egoistico della ricchezza digianfranco MORRA Con decisione e perentorietà papa Francesco ha ripreso una espressione che condanna il danaro come «sterco del diavolo». Lo ha fatto mosso non solo dall'amore per i poveri, ma anche dalla preoccupazione per la salvezza delle anime, che il denaro troppo spesso corrompe. Come quella borsa piena di monete, che gli affreschi medievali mettevano al collo dell'avaro (allora avaritia significava avidità), per mostrare che precipiterà nell'inferno. Cosa giusta e del tutto consona con la tradizione (se non sempre con la prassi) della Chiesa cattolica. Di solito quella frase viene attribuita a Lutero; ma già la troviamo in un padre greco del quarto secolo, Basilio di Cesarea. Ed è, soprattutto, la parola dicristo: «Non potete servire insieme Dio e il denaro» (Mt 6 24; Lc 16, 3). La moneta ha sempre due facce: può essere strumento del peccato, ma anche mezzo di carità. Non è un caso che il sistema bancario (Monti di pietà) sia stato istituito nel Quattrocento proprio dalla Chiesa cattolica. Che, per alcuni secoli, aveva proibito il prestito del denaro, tanto che lo esercitavano gli ebrei. Era l'economia curtense dell'europa medievale. Il grande storico francese Jacques LeGoff ce lo ha fatto capire con una fortunata opera, che l'editore Laterza volle intitolare moralisticamente Lo sterco del diavolo, mentre nell'edizione originale era Le moyen âge et l'argent (2010). Dopo le crociate, quando questa economia chiusa decadde, mentre nascevano città e traffici, la Chiesa capì che doveva regolamentare il prestito, in modo da renderlo meno esoso. E fu proprio S. Tommaso a darne una giustificazione teologica. Egli, come già Platone e Aristotele, condanna l'usura, ma ammette un compenso per il prestito del danaro, nel caso in cui chi lo concede si privi della possibilità di guadagnare investendo quei soldi che ha prestato. L'usura non è più il prestito, ma l'eccesso dell'interesse. Le affermazioni perentorie non possono mancare nel discorso religioso, che è sempre (come ha mostrato Charles Morris) «prescrittivo-stimolante». Ma la realtà è più complessa e la religione stessa introdurrà distinzioni e sfumature. Come ha fatto la Chiesa cattolica in tutta la sua storia. Già nel Duecento, mostrando gli eccessi dei movimenti pauperistici e distinguendo, col settimo successore di S. Francesco, San Bonaventura, tra un possesso personale, vietato ai frati, e uno conventuale, necessario per poter esercitare l'assistenza ai poveri. L'attaccamento al denaro e l'uso egoistico della ricchezza è anticristiano. Rimane tuttavia una verità incontrovertibile: per distribuire ricchezza alle classi povere (beneficienza o welfare) occorre prima produrla, con quel denaro che non è sempre e solo sterco del diavolo. La storia mostra che i miglioramenti delle condizioni di vita dei ceti subalterni sono avvenuti soprattutto nelle nazioni occidentali, in non casuale coincidenza con lo sviluppo dello spirito acquisitivo del capitalismo. A partire dai paesi protestanti, nei quali il guadagno verrà usato largamente da enti e istituzioni private per fini di assistenza (scuole, ospedali, ricoveri). Occorre dunque guadagnare per aiutare chi ha bisogno, dato che, come Cristo ci ha detto, «i poveri li avrete sempre». Ha detto anche «Guai ai ricchi», ma il vero povero evangelico non è il non-ricco, che odia i ricchi perché vorrebbe avere la loro ricchezza, ma il povero «nello spirito», che si libera della ricchezza per una vita più autentica. Una povertà, dunque, non sociologica, ma volontaria. Una «Chiesa dei poveri», che facesse per loro una «scelta preferenziale», non sarebbe più una Chiesa universale, ma una succursale delle utopie comuniste. Come nel Sud-America con la «teologia della liberazione». L'attivismo lavorativo e accumulativo dell'occidente non è in contrasto col Vangelo, quando si traduce in uso del danaro anche per fini di benessere generale. Mentre quelle utopie populiste, che combattono il denaro, conducono sempre ad una miseria diffusa. Con tutti i limiti e i pericoli che il guadagno comporta, esso è necessario per l'assistenza. Profitto e solidarietà sono interdipendenti. Papa Francesco lo sa bene: come potrebbe il Vaticano mantenere i preti senza l'otto per mille? e aiutare i poveri senza le sue ricche banche? Questo denaro non è sterco del diavolo. Ricordo che nel 1987, in un dibattito a Bologna, l'economista Romano Prodi, allora presidente dell'iri, riprese, col suo consueto sorriso, questa frase: «Il denaro è lo sterco del diavolo». E il card. Biffi, arcivescovo di Bologna, aggiunse: «È vero, ma può servire a concimare i campi di Dio». Avevano ragione entrambi, ma Biffi era più completo, in quanto mostrava che quello sterco del diavolo può essere utilizzato anche per fini di bene comune. pagina 3

4 27/2/2015 Il bambino acquistato da una coppia, e i casi analoghi Quella nera miseria di chi vende e compra figli di Lucia Bellaspiga Che cosa avrà avuto in cuore quella madre, una donna rumena, raccogliendo le poche cose di suo figlio in una valigia e partendo con lui per l'italia, sapendo bene che a casa sarebbe tornata senza di lui? Con che animo avrà chiuso la porta, conscia che non sarebbe più rientrato? E a lui, al suo bambino, che cosa avrà spiegato? Perché forse gli avrà detto di salutare per l'ultima volta il padre e i fratelli, prima di cedere alla miseria nera, quella che affama ma ancor più anestetizza i sentimenti, e di venderlo a una ricca coppia di italo-svizzeri. Un dramma emerso ieri in Sicilia, dove il traghetto è approdato a Messina con a bordo il piccolo, sua madre e la coppia di italiani. Se non che i carabinieri erano già lì, pronti ad arrestare gli otto adulti, tutti in maniera diversa complici e colpevoli di quel turpe baratto: un essere umano indifeso in cambio di trentamila euro. In carcere sono finiti i due coniugi acquirenti, la madre e il fratello maggiore del bambino, i pregiudicati messinesi autori della tratta e i loro intermediari italiani. Un'operazione brillante, come si usa dire, cui i militari dell'arma sono arrivati intercettando le telefonate in un'indagine su un traffico di auto rubate. Quale allora la loro sorpresa quando, durante una di queste telefonate, si sono resi conto che il «pacchetto» di cui si parlava non era una macchina ma un figlio. Perché così i trafficanti chiamavano Angelo (nome di fantasia), «pacchetto», o in alternativa «cosetto». E quel pacco, quella cosa, non sapeva di avere il destino già segnato dalla nascita, se è vero che la coppia di ricchi acquirenti, abituati a pensare che il denaro compra tutto, fin dal 2008 aveva dichiarato la nascita di un figlio fantasma, in realtà mai esistito, pre-meditando con agghiacciante cinismo quel baratto avvenuto solo adesso. Così si spiega anche la strana scelta di comprarsi un bambino in fondo attempato, forse difficile da far affezionare, che solo con gli anni avrebbe finalmente dimenticato il volto di quella madre che un tempo lo aveva tenuto per mano salendo su una nave bianca e poi si era dissolta fino a confondersi con un pallido sogno. Non chiamiamolo amore, non "desiderio di avere un figlio": la ricca coppia siciliana, che in Svizzera gestisce alberghi e night club, e ha già una figlia maggiorenne, non volendo perder tempo con procedure legali di adozione, si è rivolta ai due ladri di auto, che a loro volta hanno coinvolto i complici in Romania. Pago e compro, pago e ho diritto. Nessuna pena per quel figlio preteso, non un attimo di compassione pensando che anche lui, come ogni bambino, amava sua mamma e l'avrebbe invocata per giorni e notti, disperato e impaurito. E che cosa gli avrebbero spiegato, una volta in Svizzera? Che se n'era andata abbandonandolo con loro, che era cattiva ed era meglio dimenticarla, che gli conveniva il prima possibile affezionarsi a loro, i nuovi padroni, perché se compri una cosa questa è tua... Lo avrebbero consolato, certamente, comprando (di nuovo questo verbo) i suoi sorrisi: è facile si saranno detti con un bambino così povero che non ha avuto mai un vestito nuovo, figuriamoci un ipad. Perché è questa, infatti, la vigliaccata: il sottile ricatto del ricco verso il povero. Per nera miseria la mamma di Angelo ha accettato di cederlo ad altri, forse ascoltando chi le diceva che con quei signori sarebbe stato meglio. La stessa nera miseria che convince altre madri, tutte del Terzo Mondo, a separarsi dal figlio non appena lascia il loro grembo: utero in affitto, lo chiamano, come fosse un lecito commercio, un contratto alla pari, tu produci io ti pago. Ma il prodotto (il cosetto, il pacchetto) è un figlio. E nessuna madre arriverebbe a venderlo se non fosse sadicamente sfruttata nella sua povertà. Certo mondo ricco lo chiama diritto: infastidito da quell'utero a noleggio troppo realista, preferisce parlare di madre portante o gestazione di sostegno. Lo denuncia la più bella, e non a caso la meno pubblicata, tra le vignette di Charlie: una donna nera, gravida, è tenuta al guinzaglio da due opulenti gay occidentali. Loro sorridono con fare filantropico e si definiscono genitori, lei spezza l'ipocrita eufemismo: «Io sono una schiava». Schiava lei, schiavo il suo bambino: che sia comprato al concepimento o invece a otto anni. RIPRODUZIONE RISERVATA pagina 4

5 26/2/2015 Chi ha scelto di fare della TV il regno di azzardi senza freni? LA MARTELLANTE SUCCESSIONE DI SPOT IN UNA PARTITA DI CALCIO Sky calcio, domenica 22 febbraio. Intorno alle 20,30 Ilaria D'Amico passa la linea alla collega. Così almeno crediamo. Ma no, forse non è proprio una collega, anche perché parla di quote: l'1 vale tanto, la x vale un po' meno, il 2 un po' di più. Nella scritta alle spalle della presunta collega si legge "Bwin". Facciamo una rapida ricerca su internet: «Bwin.it offre ogni giorno scommesse su oltre 90 discipline sportive». Allora è una società di scommesse. E perché la brava e bella Ilaria, che è giornalista e quindi soggetta alle regole deontologiche dell'ordine, introduce direttamente uno spot pubblicitario senza annunciarlo come tale e senza un segnale audio o video che lo faccia capire? Lasciamo perdere: la partita sta per iniziare. Il telecronista e il commentatore dal Franchi di Firenze sono pronti. Le squadre sono a centrocampo. Ma prima del fischio d'inizio viene annunciato il "superspot". Scorrono alcune pubblicità. L'attenzione si concentra su "Betfair". Mannaggia a internet! Viene voglia di fare un'altra ricerca: «Moltiplica le tue vincite. Registrati ora». Un altro sito di scommesse. Vabbè! L'arbitro fischia l'inizio: godiamoci la partita. Ma alla fine del primo tempo è zero a zero. Nell'intervallo torna l'ilaria nazionale, scambia qualche battuta con gli ospiti in studio e poi ridà la linea alla ragazza di prima, che insiste a parlare di quote, dice che sono cambiate: la x, cioè il pareggio, vale meno, resta invariato l'1, aumenta il 2. Riparte anche il "superspot". Questa volta compare "William hill". Solita rapida ricerca grazia al tablet sempre a portato di mano: «Scommesse sportive online». Nel frattempo un altro spot: "Betclic". Come sopra: «Scommetti online e gioca in maniera legale e sicura! Registrati e ricevi un bonus sulla tua prima scommessa!». Pensandoci bene, quando Sky poco prima della partita intervistava i giocatori e i dirigenti della Fiorentina e del Torino alle loro spalle scorrevano varie scritte tra cui proprio quella: "Betclic". Sta per iniziare il secondo tempo. Se contiamo le pubblicità alle scommesse online, perdiamo il resto della partita. Però, a pensarci bene: Bwin, Betfair, William hill, Betclic... Ed è solo un posticipo domenicale. E poi Fiorentina e Torino (è inutile illudersi) non sono così importanti da meritare tante "giocate"! N e m m e n o i t e l e s p e t t a t o r i s i meriterebbero tanta pubblicità più o meno camuffata per un gioco che non è un gioco, ma la rovina di tante famiglie. E a nulla vale l'ipocrita dicitura salvaapparenze per cui "il gioco può creare dipendenza". Ma davvero il bando della pubblicità dell'azzardo, proprio come quello stabilito per i prodotti da fumo, sarebbe solo un lusso? Piuttosto, una liberazione dall'assedio... RIPRODUZIONE RISERVATA. pagina 5

6 26/2/2015 Il «sì» dopo le polemiche: la copia della Madonnina in mostra nel sito di Expo Lettera della Veneranda Fabbrica. Sala: «Un onore» Milano Per sei mesi Milano avrà due Madonnine. Quella originale continuerà a brillare da lontano sulla guglia maggiore della cattedrale. L'altra, una copia identica che sta prendendo forma nelle Fonderie Del Giudice di Nola, sarà esposta nel sito di Expo. L'amministratore delegato Giuseppe Sala ha accolto la richiesta del presidente della Veneranda Fabbrica del Duomo. È la soluzione, arrivata in extremis, che (forse) chiude una settimana di polemiche e scontri politici. L'idea di una riproduzione della statua simbolo della città è nata come «regalo» della Veneranda Fabbrica ai milanesi e ai visitatori di tutto il mondo in occasione del semestre di Expo. Ma da quasi una settimana è diventata l'argomento di felpati scambi di messaggi tra l'ente che gestisce la cattedrale e l'amministrazione comunale, e l'occasione per attacchi politici del centrodestra alla giunta di centrosinistra. Il problema? La collocazione della Madonnina-bis. Il progetto della Veneranda Fabbrica prevedeva uno spazio espositivo in piazzetta Reale, a poche decine di metri dal Duomo. L'effetto ricercato era quello di permettere di vedere, finalmente, la Madonnina da vicino, ma da una posizione che consentisse di ammirare contemporaneamente anche l'originale. Un gioco di luce, sia diurno che notturno, avrebbe enfatizzato il collegamento tra le due statue. Insomma, una «festa per la città» annunciata per il 29 aprile. E invece a Milano scoppia un caso. Dalla commissione «interassessorile» che ha il compito di esaminare la questione, arriva il no all'uso della piazzetta Reale. L'installazione per esporre la Madonnina spezzerebbe il fronte architettonico, dice la Sovrintendenza ai Beni architettonici. E ancora: su quello spazio convergeranno non meno di 50 mila persone alla settimana, perché è lì che si formano le sempre più lunghe code per le mostre. La controproposta del Comune è piazza Fontana, ma la Veneranda Fabbrica la giudica «inadeguata» e decide - senza mascherare più di tanto il disappunto - di chiudere la discussione deliberando che la copia della Madonnina sarà esposta all'interno del Duomo stesso. A quel punto divampa la polemica. Quasi subliminale quella tra Comune e Fabbrica, senza esclusione di colpi quella politica. La Lega e tutto il centrodestra accusano il sindaco e la giunta di voler «segregare» il simbolo di Milano, il primo cittadino replica spiegando di non aver «mai detto no» all'esposizione della statua, e confermando la disponibilità a individuare un luogo adatto. Così si arriva alla giornata di ieri con i giochi apparentemente chiusi. Ma proprio mentre in piazzetta Reale un gruppetto di leghisti manifesta con una statuetta contro il Comune che «sfratta la Madonnina», ecco la notizia: la copia della Madonnina sarà ospitata dall'expo. È stato Monsignor Gianantonio Borgonovo, presidente della Veneranda Fabbrica nonché arciprete del Duomo, a prendere l'iniziativa con una lettera all'ad di Expo, Giuseppe Sala, per chiedere «una soluzione positiva per la collocazione della Madonnina nel contesto di Expo, ben consapevole che i tempi sono molto stretti, per evitare che continui questo inutile logorio su un simbolo che dovrebbe unificare la città». Immediata la replica: «È per noi un grande onore - dice Sala - ricevere la Madonnina all'expo e le assicuro fin d'ora la più completa disponibilità a valutare insieme la possibilità di una soluzione che sia all'altezza del suo significato religioso, storico e civile». L'assessore alla Cultura, Filippo Del Corno, esprime la «soddisfazione» per la soluzione a nome del Comune, la coordinatrice regionale di Forza Italia, Mariastella Gelmini, punzecchia ancora: «Speriamo che il commissario Giuseppe Sala sia più serio di chi amministra questa città». Intanto a Nola, l'intera famiglia Del Giudice lavora per completare la statua. In fonderia non sanno nulla delle polemiche milanesi. Ma ricordano che sono stati sempre loro a realizzare il monumento alla famosa testata di Zidane. Giampiero Rossi. Cristiani rapiti 27/2/2015 Già uccisi 15 ostaggi, si teme un'esecuzione di massa Crescono i timori per la sorte dei cristiani assiri e caldei rapiti dall'isis nella valle del Khabur, nel nord-est della Siria. Secondo l'arcivescovo di Hasseke, mons. Hindo, sono oltre 250,280 secondo il portavoce dell'osservatorio assiro per i diritti umani, Jamil Yarbakarli. Tra loro molti anziani, donne e bambini. L'archimandrita Youkhana, leader dei cristiani assiri, ha detto che gli ostaggi sono oltre 350 e che sono almeno 15 quelli già uccisi dai miliziani, molti mentre tentavano di difendere le loro famiglie. Una donna sarebbe stata decapitata. Lo ha riferito lo stesso archimandrita all'organizzazione Aiuto alla Chiesa che soffre. A destare ulteriore preoccupazione e la notizia, riferita dalla stessa organizzazione ma tutta da verificare, che per oggi, venerdì di preghiera per i musulmani, e stata annunciata agli abitanti di Bab Alfaraj un'esecuzione di massa di infedeli sul monte Abdul Aziz, zona controllata dall'isis. Esattamente la zona in cui Youkhana ritiene che siano stati portati gli ostaggi. Il Papa, che oggi concluderà gli esercizi spirituali ad Ariccia, segue costantemente la situazione. «È chiaro- ha detto alla Radio Vaticana il nunzio a Baghdad mons. Zenari- che il Papa vive continuamente pensando a noi, pensando alla situazione dei cristiani e pensando alla situazione di tutta questa gente che soffre. È continuamente informato e la sua preghiera e sempre in sintonia con la sofferenza di questa gente e dei cristiani in particolare». pagina 6

7 27/2/2015 Lo sfregio di Lorenzo Cremonesi Mazze e martelli pneumatici contro i capolavori assiri Così l'isis vuole cancellare la storia millenaria dell'iraq. Non ci sono limiti alla furia distruttrice dei volonterosi jihadisti dello Stato Islamico (Isis). Dopo i video delle decapitazioni, delle esecuzioni di massa, delle crocifissioni, adesso indugiano a riprendere in diretta lo scempio dei reperti archeologici all'interno del museo di Mosul e sul sito dell'antica Ninive. Le immagini diffuse ieri dai fedeli barbuti del Califfato tornano a scuotere la comunità internazionale. Il video, della durata di cinque minuti, si apre con la scena dei barbuti vestiti alla talebana che prendono a mazzate due statue di re antiche circa anni scavate nell'antica città di Hatra, sita nel deserto un centinaio di chilometri a sud di Mosul. Viene diffuso mentre i dirigenti cristiani in Siria denunciano che il rapimento negli ultimi giorni di circa 300 di loro correligionari da 33 villaggi è il più grave dalla presa di Mosul da parte di Isis nel giugno scorso. L'archimandrita Youkhana parla di 15 persone trucidate. Nel filmato le nenie religiose, assieme alle urla dei nuovi iconoclasti, coprono il fracasso della pietra infranta. Seguono le picconate contro bassorilievi, maschere di pietra, altre statue di notabili, personaggi di rilievo della civiltà dei Parti fiorita nell'odierno Iraq centro-settentrionale tra il primo e terzo secolo dopo Cristo. I distruttori si accaniscono con le mazze contro le teste, i volti, le braccia delle figure antropomorfiche. Il museo dopo pochi minuti di barbarie appare devastato, i pavimenti delle sale coperti di detriti, i muri bucati, sfregiati. Sono sufficienti pochi colpi ben assestati per cancellare vestigia di civiltà scomparse che si erano preservate per due millenni. Ricorda le statue dei Budda di Bamyian fatte esplodere dai Talebani 14 anni fa. Ma non occorre andare in Afghanistan. A Mosul l'estate scorsa Isis ha distrutto l'antica moschea di Jona e un mese fa ha bruciato oltre 2 mila volumi «blasfemi» della biblioteca locale e dell'università. «Oh musulmani, queste statue erano idoli venerati da popoli vissuti secoli fa, prima di Maometto», grida adesso uno dei militanti brandendo la mazza come una clava. «Gli assiri, gli accadi e altri popoli inventavano gli dei della guerra, dell'agricoltura e della pioggia cui offrivano sacrifici. Il Profeta ci ordina di rimuovere queste statue, proprio come fecero i suoi primi seguaci quando conquistarono le altre nazioni», aggiunge a spiegazione. Quindi, il video indugia in una sala più buia, dove le torce illuminano la riduzione in briciole di una magnifica aquila scolpita in pietra marmorea. Non contenti, i jihadisti si accaniscono con il trapano sulle macerie. Poi la scena si trasferisce all'esterno. E il video torna a ricordarci la perizia dei cineasti di Isis. A sinistra mostrano la foto ripresa agli inizi del Novecento, quando gli archeologi portarono alla luce i celebri leoni androcefali, che gli addetti ai lavori conoscono come «Lamassu». Statue di animali con la testa di re. Si trovano numerosi a guardia delle porte lungo le mura di Ninive, l'antica capitale assira tra il nono e settimo secolo avanti Cristo, posta alla periferia della Mosul contemporanea. Sulla destra della foto ecco quindi l'immagine di un Lamassu che verrà distrutto. Il gigantesco blocco di pietra scolpita è aggredito, ferito con i trapani e le seghe elettriche. Piomba sull'erba in macigni scomposti. Era un dio resistito per quasi tremila anni, diventa un cumulo di sassi. «Vedere queste scene crea rabbia, ma soprattutto immenso, profondo dolore», sostiene Roberta Ricciardi Venco. Archeologa, docente all'università di Torino da poco andata in pensione, sin dai primi anni Ottanta ha condotto lunghe campagne di scavi nella regione di Mosul e soprattutto ad Hatra. «La quasi totalità del materiale esposto al museo devastato viene proprio da Hatra. I reperti più importanti e massicci vennero raccolti nelle campagne di scavo degli anni Cinquanta e Sessanta. Hatra è un sito importante e magnifico, ampio oltre 300 ettari con molti resti in superficie e ben conservati. Si vedono tuttora le case, le strade, le statue, le colonne, le mura tutto attorno», spiega. Non a caso è considerata patrimonio dell'umanità dall'unesco, che ora ne chiede la protezione. Lorenzo Cremonesi. pagina 7

8 PAPA FRANCESCO ANGELUS Roma - Piazza San Pietro II Domenica di Quaresima, 1 marzo 2015 Cari fratelli e sorelle, buongiorno. Domenica scorsa a liturgia ci ha presentato Gesù tentato da satana nel deserto, ma vittorioso sulla tentazione. Alla luce di questo Vangelo, abbiamo preso nuovamente coscienza della nostra condizione di peccatori, ma anche della vittoria sul male offerta a quanti intraprendono il cammino di conversione e, come Gesù, vogliono fare la volontà del Padre. In questa seconda domenica di Quaresima, la Chiesa ci indica la meta di questo itinerario di conversione, ossia la partecipazione alla gloria di Cristo, quale risplende sul suo volto di Servo obbediente, morto e risorto per noi. La pagina evangelica racconta l evento della Trasfigurazione, che si colloca al culmine del ministero pubblico di Gesù. Egli è in cammino verso Gerusalemme, dove si compiranno le profezie del Servo di Dio e si consumerà il suo sacrificio redentore. Le folle, non capivano questo: di fronte alla prospettiva di un Messia che contrasta con le loro aspettative terrene, lo hanno abbandonato. Ma loro pensavano che il Messia sarebbe stato un liberatore dal dominio dei romani, un liberatore della patria e questa prospettiva di Gesù non piace loro e lo lasciano. Anche gli Apostoli non capiscono le parole con cui Gesù annuncia l esito della sua missione nella passione gloriosa, non capiscono! Gesù allora prende la decisione di mostrare a Pietro, Giacomo e Giovanni un anticipo della sua gloria, quella che avrà dopo la resurrezione, per confermarli nella fede e incoraggiarli a seguirlo sulla via della prova, sulla via della Croce. E così, su un alto monte, immerso in preghiera, si trasfigura davanti a loro: il suo volto e tutta la sua persona irradiano una luce sfolgorante. I tre discepoli sono spaventati, mentre una nube li avvolge e risuona dall alto come nel Battesimo al Giordano la voce del Padre: «Questi è il Figlio mio, l amato: ascoltatelo!» pagina 8

9 (Mc 9,7). Gesù è il Figlio fattosi Servo, inviato nel mondo per realizzare attraverso la Croce il progetto della salvezza, per salvare tutti noi. La sua piena adesione alla volontà del Padre rende la sua umanità trasparente alla gloria di Dio, che è l Amore. Gesù si rivela così come l icona perfetta del Padre, l irradiazione della sua gloria. E il compimento della rivelazione; per questo accanto a Lui trasfigurato appaiono Mosè ed Elia, che rappresentano la Legge e i Profeti, come per significare che tutto finisce e incomincia in Gesù, nella sua passione e nella sua gloria. La consegna per i discepoli e per noi è questa: Ascoltatelo!. Ascoltate Gesù. E Lui il Salvatore: seguitelo. Ascoltare Cristo, infatti, comporta assumere la logica del suo mistero pasquale, mettersi in cammino con Lui per fare della propria esistenza un dono di amore agli altri, in docile obbedienza alla volontà di Dio, con un atteggiamento di distacco dalle cose mondane e di interiore libertà. Occorre, in altre parole, essere pronti a perdere la propria vita (cfr Mc 8,35), donandola affinché tutti gli uomini siano salvati: così ci incontreremo nella felicità eterna. Il cammino di Gesù sempre ci porta alla felicità, non dimenticatelo! Il cammino di Gesù ci porta sempre alla felicità. Ci sarà in mezzo sempre una croce, delle prove ma alla fine sempre ci porta alla felicità. Gesù non ci inganna, ci ha promesso la felicità e ce la darà se andiamo sulle sue strade. Con Pietro, Giacomo e Giovanni saliamo anche noi oggi sul monte della Trasfigurazione e sostiamo in contemplazione del volto di Gesù, per raccoglierne il messaggio e tradurlo nella nostra vita; perché anche noi possiamo essere trasfigurati dall Amore. In realtà l amore è capace di trasfigurare tutto. L amore trasfigura tutto! Credete voi in questo? Ci sostenga in questo cammino la Vergine Maria, che ora invochiamo con la preghiera dell Angelus. Copyright Libreria Editrice Vaticana pagina 9

10 quaderno febbraio 2015 LA DIMENSIONE AFFETTIVA DEL PERDONO Giovanni Cucci S.I. Il perdono richiede, come ogni atto umano, una sorta di «allenamento» pratico e mentale, una ripetizione continua perché possa divenire sempre più possibile ed efficace. Più che un gesto, esso è un percorso, un cammino, che coinvolge il tempo nelle sue modalità dinamiche: a partire dal presente, lavora sul passato, per aprirsi al futuro. Quando invece ci si rifiuta di perdonare, ci si fossilizza sull'evento passato, come se il tempo si fosse fermato; da qui la sensazione di morte interiore, di aridità e di isolamento. Perdonare significa iniziare qualcosa, compiere negli anni una serie di passi, esercizi e attività capaci di rivisitare ed educare i1 proprio vissuto; questo lavoro, non facile, può portare nuovi colori e mostrare nuove possibilità in chi lo coltiva. In quanto atto anche psicologico, il perdono può essere favorito o ostacolato da alcuni elementi basilari, di cui si deve tener conto. Si è visto come il temperamento e la personalità possano incidere sul processo del perdono; dal punto di vista affettivo si possono ulteriormente evidenziare alcuni stati d'animo che possono bloccare tale processo, come il rancore e il risentimento: essi vanno riconosciuti e contrastati, perché fonte di avvelenamento interiore e punizione di sé. Ve ne sono invece altri che risultano di indubbio aiuto: l'empatia e la gratitudine. A differenza delle emozioni, che sono reazioni primarie, antecedenti una possibile valutazione cognitiva e morale, queste quattro modalità sono elaborazioni secondarie, complesse, che riuniscono elementi differenti: gli affetti, la memoria, la conoscenza, l'immaginazione e la volontà. Tale complessità consente di rileggerle, di evidenziarne le caratteristiche fondamentali, e soprattutto di educarle, portando a esiti differenti. Possibili ostacoli affettivi al perdono Il rancore e la ruminazione portano il soggetto a ripiegarsi su di sé, occupando la mente, l'immaginazione, il pensiero e gli affetti attorno alla ferita ricevuta, impedendo di volgersi ad altri interessi e occupazioni. È come rivedere da soli, nella propria mente, continuamente il medesimo filmato, esacerbando l'animo, isolandosi e amareggiandosi sempre più. È il circolo vizioso del rancore; una sorta di «delitto e castigo interiore» in cui il soggetto, credendo di punire l'altro, in realtà punisce se stesso in modo sempre più crudele. E questo ha una ricaduta anche sulla salute fisica. Nel processo proprio del risentimento non si tiene conto che l'accrescimento dell'astio è opera della fantasia e dell'immaginazione, soprattutto della maniera di considerare l'avversario in termini di totale malvagità, attribuendogli la piena e deliberata intenzione di compiere il male, senza attenuanti. Dalle ricerche emerse sembra tuttavia che le cose non stiano quasi mai in questi termini, perché quanto suggerito dal rancore, pur comprensibile, è una costruzione accentuata. È infatti risaputo che, anche quando risultano chiari i ruoli di colpevole e di vittima, la percezione dell'accaduto rimane sempre differente. Quando si chiede a una persona di raccontare un episodio in cui aveva avuto il ruolo di offensore e un altro in cui era pagina 10

11 quaderno febbraio 2015 vittima, si nota una grande disparità di vedute, in termini di emozioni provate, di valutazione della gravità del gesto, delle sue possibili conseguenze, ma soprattutto in termini di consapevolezza e responsabilità morale. L'offensore tende a essere piuttosto indulgente con se stesso, porta attenuanti circa la volontarietà di quanto accaduto, al contrario della vittima. Prendere consapevolezza di questa diversità di valutazioni è fondamentale per correggere la propria percezione della realtà, che viene per lo più elaborata spontaneamente, in base alle emozioni suscitate, che sono univoche e caratterizzate da potenti filtri soggettivi. Il passaggio, difficile ma indispensabile, per rileggere quanto accaduto è di accettarne la complessità, il che significa che la situazione non può essere giudicata unicamente in base a categorie emotive dicotomiche e onnicomprensive (giusto/sbagliato), buono/cattivo, responsabile/innocente. L'incapacità, in sede di giudizio, di cogliere le possibili sfumature (sempre presenti in ogni accadimento) e di entrare nella complessità si traduce in un approccio alla realtà in termini di splitting, di separazione netta tra il bene e il male, considerando l'offensore come totalmente cattivo ( all bad), senza riconoscere possibili attenuanti o altri elementi in gioco. E il meccanismo alla base dell'odio, che porta a svalutare l'altro fino a considerarlo non umano, un «mostro» indegno di vivere: «Le storie di odio hanno una struttura semplificata anche perché prevedono solo due ruoli stabili, quello del perpetratore da odiare e quello della vittima che odia». E così il male tende a perpetuarsi. Dal punto di vista psicologico, lo splitting viene considerato una difesa primitiva («primitiva» dal punto di vista dello sviluppo psichico): la semplificazione fornisce una facile descrizione di quanto accaduto, perché individua una causa onnicomprensiva. E legata al bisogno di capire: più la motivazione è semplice, chiara e globale, più risulta soddisfacente in termini di attribuzione di responsabilità. I meccanismi del risentimento e dell'odio sono alimentati da questo tipo di approccio cognitivo, dall'esigenza di sapere e capire, che tuttavia, in mancanza di informazioni adeguate, rischiano di plasmare il mondo in base ai propri vissuti emotivi. In tal modo si raffigura l'altro con il colore delle proprie ferite - mediante quel meccanismo noto come «proiezione» -, un colore cupo, di morte. Considerati sotto l'aspetto del dinamismo e della salute psichica, perdono e rancore si presentano come del tutto antitetici: «Il perdono è un principio di mobilità e fluidità, a differenza del rancore che è un principio di staticità e rigidità (caratteristiche che accompagnano spesso la sofferenza psichica e un processo di umanizzazione, poiché spinge a fare i conti con i propri limiti e la propria vulnerabilità, è un principio di libertà». Modificare i pensieri automatici è difficile, ma consente di cogliere la complessità del reale, rivisitando i criteri di giudizio, e ponendo termine al meccanismo di autolesionismo proprio della ruminazione interiore. Entrare nella complessità non significa giustificare l'altro, né sminuire la propria sofferenza, o far finta di nulla. La difficoltà di rendere ragione della complessità consiste anzitutto nel tenere insieme i possibili e molteplici aspetti dell'accaduto. Per fare ciò, si richiede di incentivare un atteggiamento affettivamente uguale e contrario al rancore, l'empatia. I risultati delle ricerche, soprattutto circa i conflitti relazionali che avvengono in pagina 11

12 quaderno febbraio 2015 famiglia, mostrano a questo riguardo un'altra cosa interessante, e cioè che quanto meno ci si sente colpevoli tanto più si tende ad attribuire una responsabilità unilaterale alle mancanze altrui. Come si è visto, la mancata esperienza del perdono porta a una esagerata colpevolizzazione: «Le persone che tendono con più facilità a incolpare gli altri hanno difficoltà a empatizzare, e sono più propense a considerare se stesse come innocenti». Perdono e rabbia non sono incompatibili, ma con il perdono si manifesta anche il desiderio di vivere diversamente sia l'avvenimento, sia soprattutto la rappresentazione interna della persona che ci ha fatto del male. Il risentimento Uno degli effetti principali del rancore, il risentimento, è stato esplorato anzitutto in filosofia, in particolare da Max Scheler nella sua opera Il risentimento nella edificazione delle morali. In questo libro egli riconosce due caratteristiche essenziali al risentimento: a) la persona avvelena se stessa, continuando a ritornare su pensieri ed avvenimenti spiacevoli; b) non si confronta mai, né riconosce il proprio sentire. Il risentimento, come la coazione a ripetere di Freud, nasce da un conflitto profondo, riproponendo un copione già noto: quanto più viene ripetuto, tanto più aumenta il malessere, l'autoavvelenamento, senza che il processo possa conoscere una fine. Si tratta di qualcosa di virtualmente infinito, che porta la persona a incattivirsi sempre più: «I moti e gli affetti che in primo luogo si offrono all'osservazione sono: senso e impulso di vendetta, odio, cattiveria, invidia, gelosia, malizia». L'analisi di Scheler trova una perfetta rispondenza in sede analitica. L. Kancyper riporta in proposito la descrizione di un paziente: «Il risentimento è come cercare di premere l'acceleratore di un'auto incagliata nel fango. Quanto più si accelera, tanto più l'auto affonda nel fango e meno si muove... Si è come in un vicolo cieco. Mi viene un gioco di parole: se sono risentito, invece di sentire risento, sento di nuovo cose vecchie, ormai stantie, e passo la mia vita così». È una descrizione che esprime in modo molto efficace l'autopunizione di siffatti atteggiamenti: più ci si arrovella per quanto accaduto, più ci si sente amareggiati e astiosi, ossessionati dal pensiero di vendicarsi per il torto subìto, avvertendo un crescente avvelenamento di sé. Così si rimane avvinghiati, prigionieri dell'evento, che continua a rivivere al proprio interno, alimentando la coazione a ripetere. Al termine di questo processo la persona non ricorda più, ma rielabora, ripresentandolo, il proprio conflitto irrisolto, senza trovare via d'uscita, come la macchina che accelera nel fango rievocata dal paziente di Kancyper. Tale modalità è, per Freud, uno degli ostacoli più forti nei confronti di una possibile interpretazione e successiva cura di un trauma, perché questo rimane come congelato, senza presente né futuro, del tutto ancorato al passato, un passato deformato dai filtri della sofferenza inconscia. In questo modo, come osserva Ricoeur, «il soggetto ripete i suoi fantasmi anziché elaborarli; cosa ancora più grave, li lascia passare all'atto in gesti che minacciano lui stesso e gli altri». Per la persona succube del risentimento, il tempo si è fermato: è diventata affettivamente e psichicamente morta, fossilizzata su un evento anch'esso morto, che l'ha interamente pervasa, impedendole di vedere, sentire, notare altro: «Il soggetto risentito resta prigioniero nell'atemporalità, suo malgrado incapace di perdonare. Resta come coinvolto in una dimensione di tortura, quella del "lavare l'onta", pagina 12

13 quaderno febbraio 2015 del "saldare i conti" per le offese subite, ma paga un prezzo molto elevato, cioè l'ibernazione degli affetti». In questo modo egli rimane bloccato e ripete, come un disco rotto, la medesima storia. L'odio Il risentimento, in quanto rancore sedimentato, sceso in profondità, può con più facilità portare all'odio. A differenza della rabbia, che è concreta e individuale, legata a un avvenimento preciso, l'odio è generalizzato, indirizzato alla persona o a una categoria nella sua totalità. Una seconda differenza tra l'odio e la rabbia è che quest'ultima è per lo più legata a un dolore che con il tempo tende a scomparire, cosa che invece non accade nell'odio. La rabbia infine cerca giustizia per un torto subìto, l'odio vuole la distruzione dell'altro, senza comunque trovare soddisfazione adeguata: «Le storie d'odio tendono ad avere una struttura più semplice di quelle d'amore, che sono caratterizzate da un'ampia varietà di tipi di ruoli. Le storie d'odio hanno di solito due ruoli quasi stabili: il colpevole, che deve essere odiato, e la vittima, che deve odiare. Come ha fatto notare Baumeister, le persone che fanno del male si considerano, in genere, vittime di coloro che perseguitano! Le storie d'odio crescono soprattutto a livello sociale, attraverso la propaganda: ciò significa che l'odio è, in buona parte, appreso». Il fatto che l'odio sia una forma di fuga dalla complessità e dall'ambiguità proprie della realtà per costruirsi un mondo di fantasia malata, troverebbe conferma nei ripetuti gesti di violenza collettiva riportati dalla cronaca. Gli autori della strage al liceo di Colombine - per citare uno degli esempi più noti -, avvenuta a Denver il 20 aprile 1999, erano due studenti timidi, introversi e appartati, con scarse relazioni sociali, che trascorrevano il tempo libero a fantasticare sul modo di vendicarsi per presunti torti subiti. Altre manifestazioni di violenza esplosiva simili mostrano questa combinazione di isolamento sociale, fuga nella fantasia, prevalenza delle valutazioni emotive, morbosa attrazione verso la violenza distruttiva. Nell'odio è presente un aspetto cognitivo, il desiderio di far capire all'altro l'entità della sofferenza subita, e l'odio risulta più accentuato quando è rivolto a una persona estranea. Ciò confermerebbe la sua componente immaginativa, perché, a differenza di un conoscente o di un familiare, vengono con più facilità a mancare informazioni essenziali, sostituite dalle emozioni suscitate. L'odio non porta mai ai risultati sperati ma assomma dolore a dolore, distruggendo chi lo prova. Primo Levi, rievocando la vicenda di P. Améry - come lui scampato ad Auschwitz, ma intenzionato a vendicarsi, rendendo colpo su colpo - e la sua tragica conclusione, commentava: «Chi "fa a pugni" col mondo intero ritrova la sua dignità, ma la paga ad un prezzo altissimo, perché è sicuro di venire sconfitto». Per uscire da questa gabbia, si è chiamati a operare, come direbbe Freud, «il lavoro del lutto», lasciando andare quanto è accaduto; ciò è indispensabile per rileggerlo sotto nuova forma, e ricominciare a vivere. È il primo passo verso il perdono, «lo sforzo di raccontare altrimenti e dal punto di vista dell'altro gli eventi fondatori dell'esperienza personale e comunitaria». Un tale approccio, certamente faticoso, svincola da facili semplificazioni e apre a una possibile comprensione dell'altro. pagina 13

14 quaderno febbraio 2015 Il primo a beneficiarne è la persona stessa che lo compie. Spezzare il meccanismo del risentimento può interrompere la macerazione interiore e aprire la porta del proprio animo ad altre componenti affettive e cognitive: il soggetto inizia ad avvertire un senso di pacificazione interiore, smette di essere ossessionato, e può finalmente investire le sue energie, i pensieri, i sentimenti su altro. Possibili aiuti affettivi al perdono: empatia e gratitudine L'empatia, come il risentimento, è stata studiata dalla filosofia prima che dalla psicologia: è la capacità di provare i medesimi sentimenti dell'altro, unita al desiderio di conoscere un mondo differente dal proprio. Nell'antichità classica, essa trova un posto privilegiato nei dilemmi propri della tragedia. In queste situazioni viene caratterizzata, in linea con quanto osservato sopra, come una modalità anzitutto cognitiva, come flessibilità, condizione di accesso alla complessità della situazione: nella flessibilità i sensi restano attenti e l'animo pronto a riconoscere ciò che è meglio. Sofocle, nell' Antigone, mostra questa caratteristica fondamentale dell'empatia mediante il personaggio di Èmone, secondo il quale l'incapacità di ascolto e di dialogo, propri di un cuore indurito, nascondono una povertà interiore: «Chi ritiene di avere lui soltanto il senno oppure una facondia, un'anima preclusa ad altri, se lo smonti e guardi dentro, c'è il vuoto». La flessibilità rende invece la persona più forte e maggiormente capace di affrontare le difficoltà della vita: «Presso i torrenti, quelle piante che, percosse, si piegano cedendo, salvano i rami, e quelle che resistono sono schiantate fin dalle radici. Così chi tiene le scotte ben tese senza mollare, rovescia la nave e naviga coi banchi capovolti». Questa capacità consente inoltre di imparare qualcosa dalle esperienze vissute, anche da quelle negative, e di vivere diversamente i dilemmi futuri, guardando ad essi con speranza e libertà, accogliendo la fragilità - propria e dell'altro - e spezzando il circolo vizioso del risentimento. L'insegnamento etico di Sofocle viene ripreso e approfondito in sede filosofica da Aristotele, il quale reca l'esempio dei buoni architetti di Lesbo, che usavano un regolo di piombo non rigido, capace di adattarsi alla forma della pietra su cui costruire, così da poter decidere ciò che era meglio nel caso specifico. L'empatia consente di riconoscere la complessità della situazione e delle parti in gioco, superando le semplificazioni e i riduzionismi: si tratta di un approccio faticoso, perché richiede di rivedere le proprie posizioni, ma che consente di apprezzare la ricchezza della vita, aprendo alla speranza. A differenza dell'odio, l'empatia si mostra più vicina alla verità, perché capace di differenziare. Questa caratteristica complessa dell'empatia, indispensabile per un approccio autentico alla realtà dell'altro, viene ripresa nella filosofia contemporanea. Per Husserl, essa consente di fare «esperienza dell'estraneo», inteso come qualcosa di non riconducibile al soggetto, è la condizione per riconoscere la diversità, e accedere così al reale. M. Scheler preferisce invece usare il termine «sim-patia», in cui non ci si limita solo a conoscere l'altro, ma soprattutto se ne condividono gli affetti. La versione «simpatica» dell'empatia viene fatta propria dalla prospettiva pagina 14

15 quaderno febbraio 2015 psicologica, secondo la quale si può parlare di comprensione solo quando si è in grado di riconoscere e apprezzare gli stati d'animo dell'altro, di immedesimarsi con esso. L'empatia in questa sede, oltre a quanto già notato (in particolare circa la flessibilità e la capacità di apprezzare la diversità), è indice di una buona salute psichica della persona: essa mostra infatti la capacità di vivere relazioni profonde e stabili, senza essere turbati dalla complessità, dai limiti e dalla presenza di un orizzonte di pensiero differente dal proprio. È anche segno di una buona struttura della personalità, in quanto capace di superare l'approccio «primitivo» dello splitting, notando le sfumature. All'empatia è inoltre collegato un altro sentimento proprio di una elevata maturità cognitiva, e ugualmente essenziale per il perdono: l'umiltà, la conoscenza realistica dei propri limiti e delle proprie lacune (in termini conoscitivi) e di scelte compiute. Applicata alle relazioni e al vissuto, essa è la consapevolezza di essere incapaci di cogliere un'intera vicenda e la situazione interiore dei protagonisti. È indice anche di una concreta stima di sé, perché non si ha paura di riconoscere eventuali proprie mancanze e difetti. Umiltà viene da una parola latina, humus, che indica letteralmente la conoscenza della «terra» che caratterizza l'uomo e gli permette di «radicarsi», di vivere in profondità, di accogliere i limiti e la fragilità come elementi essenziali della verità di se stesso. Essa è anche legata alla consapevolezza di un dono ricevuto, senza proprio merito, senza perciò sentirsi superiori agli altri. Per questo l'umiltà è alla radice della gratitudine e del perdono: «L'umiltà è orientata agli altri, non a se stessi. Essendo orientata agli altri, la persona umile è grata di ciò che gli altri hanno fatto. È grata a Dio, ai genitori, agli amici, ai sostenitori». Un altro atteggiamento di fondamentale aiuto per iniziare un cammino di perdono è il senso di gratitudine. Essere grati significa esplicitare ciò che si vive interiormente di fronte a un beneficio ricevuto. Quando questo viene compiuto, ci si appropria di quel bene nella maniera più piena; l'atto di ringraziare si traduce in gioia e soddisfazione interiore, come osserva Clive Staples Lewis: «Amiamo lodare ciò che apprezziamo, perché la lode non soltanto esprime la gioia, ma la completa: è il suo compimento. Non è solo per questione di complimenti che gli amanti continuano a dirsi quanto siano belli; il diletto è incompleto finché non viene espresso». Essere grati aiuta inoltre ad affrontare situazioni difficili e a mantenersi in buona salute anche dal punto di vista psicologico e mentale. C'è infatti un evidente collegamento tra questo tipo di atteggiamento e la contentezza di vivere: «Più le persone riconoscono di essere grate, più esprimono soddisfazione nella loro vita [...]. Le persone grate tendono ad essere felici». Per questo un approccio alla vita improntato alla gratitudine può diventare un efficace antidoto alla ruminazione interiore propria della depressione: il senso di gratitudine presenta infatti un andamento e una crescita inversamente proporzionali agli atteggiamenti propri del risentimento, dell'invidia, dell'autocommiserazione e del ripiegamento su di sé. La gratitudine può con più facilità aprire al perdono, perché è antitetica ai sentimenti negativi propri della memoria negativa, come il risentimento e il rancore, che, come si è visto, sono di grande ostacolo al perdono. In altre parole, gratitudine e rancore sono tra pagina 15

16 quaderno febbraio 2015 loro incompatibili: l'accoglienza dell'uno comporta l'assenza dell'altro. Aprirsi al perdono Si è più volte osservato come il perdono sia un atto che coinvolge aspetti molteplici della persona: cognitivo, affettivo ed eventualmente anche relazionale. Esso non è mai un gesto magico capace di dissolvere il male ricevuto: richiede una sorta di guarigione della memoria, di confronto con la complessità e il mistero dell'altro, ben diverso dal tentativo di giustificazione o razionalizzazione di quanto accaduto. Nello stesso tempo, esso è indispensabile per poter vivere; in caso contrario, l'accaduto rimane non più rivisitabile, anticipando il «definitivo» proprio della morte, come accade nel risentimento. Concedersi la possibilità di un'altra lettura è salutare per se stessi, come riconosce Etty Hillesum di fronte alla propria situazione di reclusa nel lager: «Se noi abbandoniamo al loro destino i duri fatti che dobbiamo irrevocabilmente affrontare - se non li ospitiamo nelle nostre teste e nei nostri cuori, per farli decantare e farli diventare fattori di crescita e di comprensione -, allora non siamo una generazione vitale». Se il perdono viene considerato anzitutto come uno stato interiore, il suo punto di arrivo, dal punto di vista psicologico, è di sostituire con sentimenti positivi la negatività provata nei confronti dell'offensore e della situazione di sofferenza, passando dalla contrapposizione all'integrazione tra loro, fino alla prevalenza dei sentimenti positivi. Tale passaggio è possibile perché questi sentimenti avversi non sono primari, come le emozioni (ad esempio, la paura), ma una risonanza finale, variegata e complessa, della valutazione dell'accadimento compiuta dal soggetto. Nel momento in cui vengono esplorati, si scopre che il rancore, il risentimento e l'odio sono spesso la copertura di altre sensazioni basilari, ritenute inaccettabili dal soggetto e usate perciò in forma difensiva, ma regressiva, impedendo cioè di affrontare in maniera più matura ed equilibrata la complessità e ricchezza di interpretazioni possibili: «Le persone possono essere spaventate dalla propria rabbia o vergognarsi della propria paura o aver imparato che la tristezza è inaccettabile. La ruminazione si verifica quando è presente una rabbia secondaria che copre un'emozione primaria adattiva di tristezza». Questi atteggiamenti possono anche avere una seconda funzione, di tipo simbolico, per dominare l'altro; la tristezza interiore, per esempio, può diventare un modo manipolativo di far sentire in colpa, o suscitare compassione, ricavando vantaggi da quanto accaduto. Va anche messo in conto che prendere contatto con i sentimenti più profondi comporta un'esperienza di perdita, di lutto, perché si deve abbandonare qualcosa cui si era fortemente affezionati: fare verità di tutto ciò implica un punto di non ritorno nei confronti del passato, per entrare nella realtà dell'oggi e aprirsi a un possibile differente domani. Poter dare spazio a questi atteggiamenti positivi è indispensabile per tornare a vivere. Smettere di tormentarsi è il primo segno che si sta perdonando, con risvolti benefici anche sulla salute fisica del soggetto.

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