Teoremi per appelli e orali. Dimostrazioni. Federico Lastaria, Analisi e Geometria 1. Politecnico di Milano Corso di Analisi e Geometria 1
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1 Politecnico di Milano Corso di Analisi e Geometria 1 Federico Lastaria federico.lastaria@polimi.it Teoremi da studiare per gli appelli e per le prove orali. 18 Dicembre 2018 Indice 1 Teoremi per gli appelli e per tutte le prove orali Unicità del limite Successioni monotòne limitate Permanenza del segno Radici n-esime Continuità della funzione composta Teorema degli Zeri Teorema dei Valori Intermedi Derivabilità implica continuità Teorema di Fermat Teorema del Valore Medio (di Lagrange) Funzioni derivabili strettamente monotòne Funzioni con derivata nulla su un intervallo Teorema di de l Hospital Formula di Taylor con il resto di Peano Teorema della Media Integrale Teorema Fondamentale del Calcolo Integrale. Formula di Newton Leibniz Integrazione per parti Integrabilità di 1/x a in un intorno di Struttura dello spazio delle soluzioni di un equazione lineare Proiezione di un vettore lungo un altro Derivata di un vettore di lunghezza costante Equivalenza di due definizioni di curvatura Decomposizione dell accelerazione Pag. 1
2 1 Teoremi per gli appelli e per tutte le prove orali. 1.1 Unicità del limite Teorema 1.1 (Unicità del limite). Una successione in R ha al più un limite. Prima dimostrazione. Supponiamo che L e L siano limiti della successione (a n ). Allora, per definizione di limite, per ogni ε > 0 esistono K, K N tali che n > K = a n L < ε, n > K = a n L < ε Poniamo K = max{k, K }. Allora, per ogni n K abbiamo (facendo uso della disuguaglianza triangolare): L L = L a n + a n L L a n + a n L < ε + ε = 2ε (1.1) Dal momento che ε è un numero positivo arbitrario, concludiamo che L = L. Osservazione 1. Unicità del limite significa che il limite, ammesso che esista, è unico. Nel linguaggio matematico l unicità non implica l esistenza. L unicità del limite vale (e si dimostra in modo del tutto analogo) anche per i limiti di funzioni. Osservazione 2. Se analizziamo la dimostrazione dell unicità del limite per successioni in R, vediamo che, al fine di dimostrare l unicità del limite, la struttura di campo ordinato completo di R non gioca alcun ruolo. Infatti, l unicità del limite vale, più in generale, per successioni in un qualunque spazio metrico. Ricordiamo le definizioni. Uno spazio metrico (X, dist) consiste in un insieme X e in una funzione X X dist R detta distanza in X, che soddisfa le proprietà seguenti. Per ogni scelta di p, q, r X: dist(p, q) 0 e dist(p, q) = 0 se e solo se p = q. (Simmetria) dist(p, q) = dist(q, p) (Disuguaglianza triangolare) dist(p, q) dist(p, r) + dist(r, q) Esempi di spazi metrici sono: R (se x, y R, si definisce dist(x, y) = x y ), il piano R 2, lo spazio R 3 (e più in generale ogni R n ), la superficie di una sfera S immersa in R 3 (come si può definire una distanza su S?), il piano complesso C eccetera. Se (a n ), n N, è una successione in uno spazio metrico X, si dice che (a n ) tende a L X se dist(a n, L) 0, cioè se: ε > 0 n 0 N n N n > n 0 = dist(a n, L) < ε Pag. 2
3 L unicità del limite di una successione vale in qualunque spazio metrico: Teorema (Unicità del limite in uno spazio metrico) Una successione in uno spazio metrico (X, dist) ha al più un limite. Dimostrazione. Supponiamo che la successione (a n ) nello spazio metrico X converga a L X e a L X, cioè supponiamo che si abbia, al tempo stesso: dist(a n, L ) 0 e dist(a n, L ) 0 Per la proprietà triangolare, si ha, qualunque sia n: 0 dist(l, L ) dist(l, a n ) + dist(a n, L ) (1.2) Poiché, per n +, dist(l, a n ) 0 e dist(l, a n ) 0, anche la successione (costante) dist(l, L ) tende a zero, e questo è possibile se, e solo se, dist(l, L ) = 0, cioè se, e solo se, L = L. Pag. 3
4 1.2 Successioni monotòne limitate Teorema 1.2 (Successioni monotòne limitate). Ogni successione in R che sia crescente a 1 < a 2 < a 3 < < a n < a n+1 < (1.3) e (superiormente) limitata è convergente. superiore dell insieme dei suoi termini. Precisamente, converge all estremo Se invece una successione è decrescente e limitata, convergerà all estremo inferiore dell insieme dei suoi termini. Dimostrazione. Sia (a n ), n N, una successione crescente e limitata. Chiamiamo A = {a n, n N} l insieme dei suoi elementi. Per ipotesi l insieme A è (non vuoto e) limitato. Pertanto (qui si usa la completezza dei reali) A ha un estremo superiore. Poniamo L = sup A. Ricordiamo che, per definizione, l estremo superiore L di A è la minima limitazione superiore di A, cioè l unico numero L R che soddisfa queste due proprietà: 1. L è una limitazione superiore per A, cioè: a n L per ogni n N 2. Nessun numero L < L è una limitazione superiore per A, cioè: Per ogni L < L esiste un a k A per il quale L < a k. Dimostriamo che a n converge a L. Sia ε > 0 arbitrario. Siccome L ε < L, il numero L ε non è una limitazione superiore dell insieme A = {a n, n N}. Dunque esiste un intero k per il quale L ε < a k. Poiché la successione è crescente, per tutti gli n > k si ha a k < a n e quindi L ε < a n, definitivamente (cioè, per tutti gli n maggiori di k). Ma per ogni n si ha a n L. Riassumendo, si ha L ε < a n L per tutti gli n > k. Per la stessa definizione di limite di una successione, si conclude allora che lim n + a n = L. Osservazione. Si dimostra che in un campo ordinato K, la proprietà delle successioni monotòne limitate ( Ogni successione monotòna limitata converge in K ) è equivalente alla proprietà dell estremo superiore ( Ogni sottoinsieme di K non vuoto e superiormente limitato ha una minima limitazione superiore ). Pag. 4
5 1.3 Permanenza del segno Teorema 1.3 (Permanenza del segno). Se (a n ), n N, è una successione convergente in R al numero L > 0 (L < 0), allora i termini della successione sono definitivamente 1 positivi (negativi). Dimostrazione. Vediamo il caso L > 0. (Il caso L < 0 si tratta in modo del tutto simile). Fissiamo ε = L 3. (Per la nostra dimostrazione, va bene fissare un qualunque ε che soddisfi L ε > 0.) Per definizione di limite, fissato tale ε = L 3, esiste un numero naturale n 0 tale che, per ogni n N soddisfacente n > n 0, si ha: 2 L ε < a n < L + ε ossia 3 L < a n < 4 3 L Dunque, per ogni n > n 0, vale la disuguaglianza a n > 2 3 L > 0, e quindi gli a n sono definitivamente positivi.. Osservazione. Il teorema di permanenza del segno vale anche per i limiti di funzioni: in breve, se lim x x0 f(x) = L > 0, allora esiste un intorno U di x 0 tale che f(x) > 0 per ogni x U dom(f). La dimostrazione è del tutto analoga a quella vista sopra. 1 L espressione: I termini della successione sono definitivamente positivi significa: Esiste un intero positivo n 0, tale che a n è positivo per ogni n > n 0. Pag. 5
6 1.4 Radici n-esime Teorema 1.4 (Radici n-esime di un numero complesso). Sia z = r(cos ϑ+i sin ϑ) un numero complesso non nullo e sia n un intero positivo. Esistono esattamente n numeri complessi che elevati alla potenza n-esima danno come risultato z. Tali numeri sono: ( ϑ + 2kπ z k = n r [ cos ( ϑ + 2kπ n ) + i sin n )], k = 0, 1,..., n 1 (1.4) Ciascuno di tali numeri z 0,..., z n 1 si chiama una radice n-esima di z. Quindi il teorema dice che ogni numero complesso (non nullo) ha esattamente n radici n-esime. (Nel caso z = 0, le n radici n-esime sono coincidenti.) Dimostrazione. Un numero complesso w = w (cos α + i sin α) (1.5) è una radice n-esima di z se w n = z, ossia (per la formula di De Moivre) se w n (cos nα + i sin nα) = r(cos ϑ + i sin ϑ) (1.6) Ora due numeri complessi, scritti in forma polare, sono uguali se e solo se hanno i moduli uguali, e gli argomenti uguali a meno di multipli interi di 2π: w n = r, nα = ϑ + 2kπ, k Z Ma si vede facilmente che si ottengono n radici distinte soltanto per gli n valori k = 0, 1,..., (n 1), mentre dando a k un qualunque altro valore, si riottiene una delle radici z 0,..., z n 1. Quindi tutte le n radici n-esime distinte hanno modulo e argomento rispettivamente dati da n r, ϑ + 2kπ n k = 0, 1,..., n 1 Osservazione. Si noti che le radici n-esime si trovano tutte sulla circonferenza di centro l origine e raggio n r e sono equidistanziate tra loro, cioè sono i vertici di un poligono regolare di n lati. Pag. 6
7 1.5 Continuità della funzione composta Teorema 1.5 (Composizione di funzioni continue). Se X f g Y e Y Z sono funzioni continue (X, Y, Z sottoinsiemi di R, oppure, più in generale, spazi metrici), allora anche la funzione composta X g f Z è continua. X f Y g f g Z Dimostrazione Sia x 0 X, poniamo f(x 0 ) = y 0, e sia W un qualunque intorno X Y Z f g x f(u) V 0 f(x0 ) = y 0 g(y 0 ) = g(f(x 0 )) U V g(v ) W W di g(f(x 0 )) = g(y 0 ). Per la continuità di g in y 0, esiste un intorno V di y 0 tale che g(v ) W. Del resto, poiché f è continua in x 0, esiste un intorno U di x 0 per il quale f(u) V. Poiché da f(u) V segue g(f(u)) g(v ), si ha (g f)(u) = g(f(u)) g(v ) W Pag. 7
8 Questo prova la continuità della funzione composta in x 0. Poiché x 0 è un punto arbitario di X, abbiamo dimostrato la continuità della funzione composta g f. Pag. 8
9 1.6 Teorema degli Zeri f Teorema 1.6 (Teorema degli Zeri). Siano I R un intervallo e I R una funzione continua. Siano a, b due punti appartenenti a I, con a < b. Supponiamo che i valori f(a) e f(b) abbiano segni opposti (f(a) < 0 e f(b) > 0, o viceversa). Allora esiste almeno un punto α (a, b) in cui si ha f(α) = 0. Dimostrazione La dimostrazione del Teorema degli Zeri è costruttiva, cioè presenta un algoritmo (detto metodo di bisezione o metodo dicotomico) per mezzo del quale è possibile trovare un punto in cui f si annulla. Per fissare le idee supponiamo f(a) < 0 e f(b) > 0 e consideriamo il punto medio c = a + b 2 dell intervallo [a, b]. Possono presentarsi due casi. Se f(c) = 0 il problema è risolto (abbiamo trovato uno zero di f). Se invece f(c) 0, scegliamo tra i due intervalli [a, c] e [c, b] quello in cui la funzione f assume valori discordi agli estremi. Tenuto conto delle nostre scelte iniziali (f(a) < 0 e f(b) > 0), si tratta di scegliere l intervallo in cui la funzione assume valore negativo nell estremo di sinistra e valore positivo nell estremo di destra. Quindi se f(c) 0, scegliamo l intervallo I 1 = [i 1, j 1 ] nel modo seguente : [a, c] se f(c) > 0 I 1 = [i 1, j 1 ] = (1.7) [c, b] se f(c) < 0 Operiamo ora sull intervallo I 1 = [i 1, j 1 ] nello stesso modo in cui abbiamo operato sull intervallo [a, b]. Precisamente: sia c 1 il punto medio di [i 1, j 1 ]. Se f(c 1 ) = 0 il problema è risolto (c 1 è uno zero di f). Altrimenti scegliamo tra i due intervalli [i 1, c 1 ] e [c 1, j 1 ] quello in cui la funzione assume valore negativo nell estremo di sinistra e positivo nell estremo di destra. Iterando questo procedimento, si possono avere due casi: 1. Esiste un intero positivo k tale che la funzione si annulla nel punto medio c k dell intervallo [i k, j k ]. In questo caso abbiamo trovato un punto c k nel quale la funzione f si annulla, e la tesi del teorema è dimostrata. 2. La funzione non si annulla in nessun punto medio c k. In questo caso otteniamo una successione infinita di intervalli compatti inscatolati con le due seguenti proprietà: [i 1, j 1 ] [i 2, j 2 ] [i 3, j 3 ] [i n, j n ] (a) nell estremo di sinistra di ogni intervallo la funzione assume valore negativo, mentre nell estremo di destra assume valore positivo, cioè per ogni k (0 k n) abbiamo f(i k ) < 0 e f(j k ) > 0. (b) gli intervalli hanno ampiezza j k i k = b a 2 k Abbiamo dunque costruito una successione di intervalli compatti inscatolati le cui ampiezze tendono a zero. Per il teorema sugli intervalli inscatolati (conseguenza della completezza di R) esiste un unico numero reale α che appartiene a tutti gli intervallini [i n, j n ], per ogni n N. A tale numero α convergono le due successioni i n e j n : lim i n = α = n + lim n + j n Pag. 9
10 Poiché f è continua in x = α ( f commuta con lim, nel senso che f lim = lim f ), abbiamo ( ) ( ) lim f(i n) = f lim i n = f(α) e lim f(j n) = f lim j n = f(α) n + n + n + n + Ma poiché f(i n ) < 0 (per ogni n), risulta f(α) = lim f(i n) 0 n + (perché il limite di una successione di termini f(i n ) < 0 è certamente 0). Analogamente, poiché f(j n ) > 0 per ogni n, si deve avere f(α) = lim f(j n) 0 n + Poichè le due ultime disuguaglianze devono valere contemporaneamente, abbiamo f(α) = 0 e quindi α è uno zero di f. Pag. 10
11 1.7 Teorema dei Valori Intermedi Teorema 1.7 (Teorema dei Valori Intermedi. Una funzione continua trasforma f connessi in connessi). Sia I un intervallo di R e sia I R una funzione continua. Se a e b appartengono a I, la funzione f assume ogni valore compreso tra f(a) e f(b). Detto altrimenti, l immagine J = f(i) di f è un intervallo. In breve: Le funzioni continue da R a R trasformano intervalli in intervalli. Dimostrazione Siano a = f(a) e b = f(b) due punti di f(i); supponiamo a < b. Sia w un numero tale che a < w < b. Dobbiamo dimostrare che w f(i). Consideriamo la funzione g(x) = f(x) w, x [a, b] Tale funzione è ovviamente continua sull intervallo [a, b] e si ha: g(a) = f(a) w = a w < 0 g(b) = f(b) w = b w > 0 (1.8) Dunque la funzione g soddisfa le ipotesi del Teorema degli Zeri (1.6) sull intervallo [a, b]. Allora esiste un punto c (a, b) per il quale g(c) = f(c) w = 0, ossia f(c) = w, come si voleva dimostrare. Commento. Definiamo la seguente proprietà, detta di Darboux: f Proprietà (di Darboux). Una funzione I R, I intervallo di R, soddisfa la proprietà di Darboux se per ogni x 1, 2 I, f assume sull intervallo [x 1, x 2 ] ogni valore compreso tra f(x 1 ) e f(x 2 ). Il teorema dei Valori Intermedi 1.7 si può allora enunciare dicendo che le funzioni continue su un intervallo soddisfano la proprietà di Darboux. Non è però vero il viceversa. Un controesempio è fornito dalla funzione seguente: { sin 1 f(x) = x x 0 (1.9) 0 x = 0 Si vede facilmente che questa funzione soddisfa la proprietà di Darboux. Ma f non è continua su R, perché in x 0 = 0 presenta una discontinuità non eliminabile. Pag. 11
12 1.8 Derivabilità implica continuità Teorema 1.8 (Derivabilità implica continuità). Se f è derivabile in x 0, allora è continua in x 0. Dimostrazione. Partiamo dall identità (valida per x x 0 ) Allora 2 : lim f(x) = f(x 0 )+ x x 0 ( f(x) = f(x 0 ) + f(x) f(x 0) x x 0 (x x 0 ) f(x) f(x 0 ) lim x x 0 x x 0 ) ( ) lim (x x 0 ) x x 0 = f(x 0 )+f (x 0 ) 0 = f(x 0 ) Questo prova che f è continua in x 0. Un altra dimostrazione è la seguente. Poiché f è differenziabile in x 0, si scrive Passando al limite: f(x 0 + h) = f(x 0 ) + f (x 0 ) h + o(h) (per h 0) lim f(x [ 0 + h) = lim f(x0 ) + f (x 0 )h + o(h) ] h 0 h 0 = f(x 0 ) + lim h 0 f (x 0 )h + lim h 0 o(h) = f(x 0 ) + lim f (x 0 )h + lim h o(h) h 0 h 0 h = f(x 0 ) = f(x 0 ) 2 Si ricordi che se esistono i limiti di g 1(x) e g 2(x) per x x 0, allora il limite della somma g 1(x) + g 2(x) è la somma dei limiti. Si noti che, a secondo membro, f(x 0) è una costante e quindi lim x x0 f(x 0) = f(x 0) Pag. 12
13 1.9 Teorema di Fermat Teorema 1.9 (Fermat). Sia D f R una funzione a valori reali definita su un insieme D R. Supponiamo che: 1. x 0 sia un punto di massimo (o di minimo) locale per f; 2. x 0 sia interno a D; 3. f sia derivabile in x 0. Allora x 0 è un punto stazionario di f, cioè f (x 0 ) = 0. Dimostrazione. Per fissare le idee, supponiamo che x 0 sia un punto di massimo locale per f. Poiché, per ipotesi, x 0 è al tempo stesso un punto interno al dominio D di f e un punto di massimo locale, esiste un intorno sufficientemente piccolo I di x 0 con le due proprietà seguenti 3 : (perché x 0 è interno a D) e I D (1.10) x I f(x) f(x 0 ) 0 (1.11) (perché x 0 è punto di massimo locale). Per ogni x I, x x 0, si ha allora se x > x 0 e f(x) f(x 0 ) x x 0 0 (1.12) f(x) f(x 0 ) x x 0 0 (1.13) si ricava 4 rispettivamente f (x 0 ) 0 e f (x 0 ) 0. Di conseguenza f (x 0 ) = 0. Osservazione. Si noti che nel teorema dimostrato è essenziale l ipotesi che x 0 sia interno a D. (Non basta che il punto x 0 appartenga a D). Ad esempio, la funzione f(x) = x nell intervallo D = [0, 1] ha un punto di massimo locale in x 0 = 1, anche se la derivata (sinistra) di f in x 0 non è nulla (è uguale a 1). Naturalmente questo non contaddice il teorema di Fermat. Semplicemente non sono soddisfatte le ipotesi di tale teorema, perché il punto x 0 = 1 non è interno a D = [0, 1]. 3 Sappiamo che esiste un intorno U di x 0 che soddisfa la condizione U D e esiste un intorno V di x 0 su cui vale f(x) f(x 0). Allora sull intersezione I = U V (che è ancora un intorno di x 0) sono soddisfatte entrambe le condizioni. 4 Qui si usa il teorema di Permanenza del Segno: Sia g una funzione definita su un intorno U di un punto x 0 (con la possibile eccezione del punto x 0). Supponiamo che, per ogni x U \x 0, si abbia g(x) 0 e supponiamo che esista (finito) il limite lim x x0 g(x) = L. Allora si ha L 0. Pag. 13
14 1.10 Teorema del Valore Medio (di Lagrange) f Teorema 1.10 (del Valore Medio, o di Lagrange). Sia [a, b] R una funzione continua sull intervallo compatto [a, b] e derivabile sull intervallo aperto (a, b). Allora esiste un punto γ (a, b) per il quale si ha f(b) f(a) = f (γ)(b a) (1.14) Dimostrazione. Si consideri la funzione g(x) = f(x) f(a) f(b) f(a) (x a) (1.15) b a definita sull intervallo [a, b]. Tale funzione è continua su [a, b], derivabile su (a, b) e assume lo stesso valore agli estremi: g(a) = g(b) = 0 Quindi g soddisfa le ipotesi del teorema di Rolle. Per tale teorema, esiste un punto γ in (a, b) in cui g (γ) = 0. La derivata di g(x) è Quindi si ha che equivale a g (x) = f (x) 0 = g (γ) = f (γ) f(b) f(a) b a f(b) f(a) b a f(b) f(a) = f (γ)(b a) Osservazione. Il teorema di Lagrange ha la seguente interpretazione geometrica. Si noti che il numero f(b) f(a) b a è il coefficiente angolare della retta (secante) che passa per (a, f(a)) e (b, f(b)), di equazione y = f(a) + f(b) f(a) (x a) (1.16) b a Quindi il teorema afferma che esiste almeno un punto (γ, f(γ)) appartenente al grafico della funzione f in cui la retta tangente (il cui coefficiente angolare è f (γ)) è parallela alla retta secante che unisce i due punti estremi (a, f(a)) e (b, f(b)). Si noti che la funzione ausiliaria (1.15) è la differenza tra l ordinata del punto (x, f(x)) sul grafico di f e l ordinata del punto di coordinate (x, f(a) + f(b) f(a) b a (x a)) sulla retta secante. Pag. 14
15 1.11 Funzioni derivabili strettamente monotòne f Teorema 1.11 (Funzioni derivabili strettamente monotòne). Sia I R una funzione derivabile su un intervallo aperto I di R. Se f (x) > 0 (oppure < 0) in ogni punto x I, allora f è strettamente crescente (strettamente decrescente) su I. Dimostrazione. Dimostriamo il teorema per il caso di funzioni con derivata positiva in ogni punto. (L altro caso si tratta in modo analogo). Siano x 1, x 2 due punti di I, con x 1 < x 2. Per il teorema di Lagrange esiste un punto c, compreso tra x 1 e x 2, per il quale si ha: f(x 1 ) f(x 2 ) = f (c)(x 1 x 2 ) Poiché per ipotesi f (c) > 0 e x 1 x 2 < 0, si deve avere f(x 1 ) f(x 2 ) < 0. Abbiamo allora dimostrato che, per ogni x 1, x 2 I, x 1 < x 2 = f(x 1 ) < f(x 2 ) Dunque f è strettamente crescente su I. Osservazione. Il teorema non si inverte: se una funzione è strettamente crescente su un intervallo I ed è derivabile in I, allora si avrà senz altro f (x) 0 per ogni x I, ma in qualche punto la derivata potrebbe annullarsi. Ad esempio, la funzione f(x) = x 3, x R, è strettamente crescente su R, ma f (0) = 0. Osservazione. L implicazione f > 0 = f strettamente crescente non vale se il dominio di f non è un intervallo. Ad esempio, la funzione f(x) = 1/x, definita su D = (, 0) (0, + ) (che non è un intervallo) ha derivata positiva su D, ma f non è strettamente crescente sul suo dominio D. Ovviamente f è crescente sulla semiretta (, 0) ed è crescente sulla semiretta (0, + ), ma non è crescente sul suo dominio D = (, 0) (0, + ) (che non è un intervallo). Pag. 15
16 1.12 Funzioni con derivata nulla su un intervallo Teorema 1.12 (Funzioni con derivata nulla su un intervallo). Una funzione definita su un intervallo aperto I = (a, b) e con derivata nulla in ogni punto di tale intervallo è costante. Dimostrazione. Prendiamo due punti qualunque x 1, x 2 in (a, b), x 1 < x 2. Per il teorema di Lagrange applicato all intervallo [x 1, x 2 ] esiste un punto c, compreso tra x 1 e x 2, per il quale si ha: f(x 2 ) f(x 1 ) = f (c)(x 2 x 1 ) = 0 (x 2 x 1 ) = 0 Ne segue f(x 1 ) = f(x 2 ). Quindi f è costante. Osservazione. Si noti che in questo teorema è essenziale l ipotesi che il dominio della funzione sia un intervallo (un sottoinsieme connesso di R). Esempio 1. La funzione f(x) = R \ {0} f R { 1 se x (, 0) 1 se x (0, + ) ha derivata nulla in ogni punto del suo dominio (, 0) (0, + ), ma non è costante. (Si noti che (, 0) (0, + ) non è un intervallo di R, cioè non è connesso). Esempio 2. La funzione R \ {0} f R f(x) = arctan x + arctan 1 x ha derivata nulla in ogni punto del suo dominio (come si verifica facilmente calcolando la derivata), ma non è costante. Precisamente, arctan x + arctan 1 x = π/2 per x > 0 e arctan x + arctan 1 x = π/2 per x < 0 Pag. 16
17 1.13 Teorema di de l Hospital Teorema 1.13 (de L Hospital. Caso 0 0.). Siano f e g due funzioni continue sull intervallo [x 0, b] (x 0 R) e derivabili in (x 0, b). Supponiamo che valgano le seguenti condizioni: 1. f(x 0 ) = g(x 0 ) = g (x) 0 per ogni x (x 0, b). 3. Esiste (finito o infinito) il limite Allora esiste anche il limite lim x x + 0 lim x x + 0 lim x x + 0 f (x) g (x) = L (1.17) f(x) g(x) ed è uguale al precedente: f(x) g(x) = L (1.18) Dimostrazione. (Per il caso L finito). Premettiamo un osservazione. Sia x un qualunque punto in (x 0, b). Allora si può scrivere f(x) g(x) = f (γ) g (γ) per un opportuno γ compreso tra x 0 e x, cioè soddisfacente: x 0 < γ < x. Per dimostrarlo, applichiamo il teorema di Cauchy alla coppia di funzioni f,g sull intervallo [x 0, x]. Poiché f(x 0 ) = g(x 0 ) = 0, per il teorema di Cauchy si ha f(x) g(x) = f(x) f(x 0) = f (γ) g(x) g(x 0 g (γ) per un opportuno γ soddisfacente x 0 < γ < x, come si voleva dimostrare. A questo punto possiamo concludere, in modo un po sbrigativo ma sostanzialmente corretto, nel modo seguente. Quando x tende a x 0, il punto γ, compreso tra x e x 0, deve tendere a x 0. Quindi, poiché f(x) g(x) = f (γ) g (γ) f (x) f(x) e lim x x + g = L, anche il limite lim deve esistere, e deve essere uguale a (x) 0 x x + g(x) 0 L. Commento. Se vogliamo essere più rigorosi, possiamo arrivare alla tesi usando la ε-δ definizione di limite. Prendiamo allora un arbitrario ε > 0. f (x) Poiché, per ipotesi, lim x x + g = L, esiste un δ > 0 tale che (x) 0 t (x 0, x 0 + δ) f (t) g (t) L < ε (1.19) Pag. 17
18 Ora prendiamo un qualunque x in (x 0, x 0 + δ). Per quanto abbiamo visto sopra, f(x) g(x) = f (γ) g (γ) per un opportuno γ soddisfacente x 0 < γ < x < x 0 +δ. Siccome tale γ è compreso tra x 0 e x 0 + δ, per la 1.19 si ha f (γ) g (γ) L < ε e quindi f(x) g(x) L = f (γ) g (γ) L < ε Questo prova, per definizione di limite, che anche lim x x + 0 f(x) g(x) = L (1.20) Osservazione. Ovviamente il teorema di de L Hospital vale anche per i limiti da sinistra (x x 0 ) e quindi per il limite (ordinario) per x x 0. Pag. 18
19 1.14 Formula di Taylor con il resto di Peano Teorema 1.14 (Formula di Taylor locale, con il resto di Peano). Sia f una funzione con derivate di ogni ordine su un intervallo aperto I dell asse reale. Fissiamo un punto x 0 in I e un intero positivo n. Definiamo il resto R n (x) come la differenza tra f(x) e il polinomio di Taylor di f di ordine n nel punto x 0 : f(x) = f(x 0 )+f (x 0 )(x x 0 )+ f (x 0 ) (x x 0 ) ! n! f (n) (x 0 )(x x 0 ) n +R n (x) Allora il resto R n (x) è o((x x 0 ) n ) per x x 0, cioè lim x x0 R n(x) (x x 0 ) n = 0. Dimostrazione. Per semplicità, vediamo il caso n = 2. (Il caso generale si dimostra nello stesso modo). Dobbiamo allora dimostrare che f(x) f(x 0 ) f (x 0 )(x x 0 ) f (x 0 ) (x x 0 ) lim 2! x x 0 (x x 0 ) 2 = 0 (1.21) Si controlla facilmente che sono soddisfatte le condizioni per potere usare la regola di de L Hospital. (Infatti, numeratore e denominatore sono derivabili in tutto un intorno di x 0, sono nulli in x 0, e la derivata del denominatore è diversa da zero per x x 0 ) Il rapporto tra le derivate del numeratore e del denominatore è dato da f (x) f (x 0 ) f (x 0 )(x x 0 ) 2(x x 0 ) Applichiamo ancora una volta la regola di de L Hospital, e otteniamo: f (x) f (x 0 ) 2 Poiché la funzione f (x) è continua (se una funzione f ha derivate di ogni ordine, tutte le derivate devono essere continue), si ha lim x x0 f (x) = f (x 0 ), e quindi f (x) f (x 0 ) lim x x 0 2 (Nel caso di n arbitrario, iterando n volte la regola di de l Hospital, si arriva a f lim (n) (x) f (n) (x 0 ) x x0 n!, che vale zero, perché f (n) è continua in x 0.) Dunque, per il teorema di de L Hospital, anche il limite iniziale (1.21) esiste e vale 0, come volevamo dimostrare. Commento. Abbiamo dimostrato il teorema di Taylor (locale) 1.14 nell ipotesi che f sia infinitamente derivabile. Non è difficile dimostrare che la stessa tesi vale anche in ipotesi meno restrittive. Vale infatti il seguente Teorema [Formula di Taylor locale] Supponiamo che f sia derivabile n volte in un punto x 0 (n intero positivo). Poniamo f(x) = f(x 0 )+f (x 0 )(x x 0 )+ f (x 0 ) (x x 0 ) ! n! f (n) (x 0 )(x x 0 ) n +R n (x) Allora, il resto R n (x) è o((x x 0 ) n ) per x x 0. Pag. 19
20 1.15 Teorema della Media Integrale Teorema 1.15 (Teorema della Media Integrale). Sia f R[a, b]. Siano m = inf f M = sup f (1.22) l estremo inferiore e l estremo superiore di f su [a, b]. Allora m 1 b a b a f(x) dx M (1.23) Se inoltre f è continua, esiste un punto c in [a, b] per il quale vale l uguaglianza: 1 b a b a f(x) dx = f(c) (1.24) Dimostrazione. Da m f(x) M (per ogni x [a, b]) segue, per la proprietà di monotonia dell integrale, ossia b a m dx m(b a) b a b a f(x) dx b a M dx (1.25) f(x) dx M(b a) (1.26) (in quanto b a m dx = m(b a) e b a M dx = M(b a)). Di qui segue subito la tesi (1.23). Per dimostrare (1.24), supponiamo f continua su [a, b]. Per le disuguaglianze (1.23), il numero 1 b f(x) dx (1.27) b a a è compreso tra l estremo inferiore m e l estremo superiore M di f in [a, b]. Poiché f è continua sull intervallo [a, b], assume tutti i valori compresi tra il suo estremo inferiore e il suo estremo superiore (Teorema dei Valori Intermedi). Quindi esiste un punto c tra a e b per il quale vale (1.24). Pag. 20
21 1.16 Teorema Fondamentale del Calcolo Integrale. Formula di Newton Leibniz Teorema 1.16 (Teorema Fondamentale del Calcolo Integrale. Caso f continua.). f Sia [a, b] R una funzione continua. Allora valgono i due fatti seguenti. 1 (Derivata della funzione integrale) Poniamo F (x) = x a f(t) dt, x [a, b] (1.28) (F si chiama funzione integrale di f, con punto iniziale a). Allora F è una antiderivata (o primitiva) di f, ossia F è derivabile e F (x) = f(x) per ogni x in [a, b]: ( d x ) f(t) dt = f(x) (1.29) dx a 2 (Formula di Newton Leibniz) Se G è una qualunque antiderivata (o primitiva) di f su [a, b] (ossia G è una funzione differenziabile su [a, b] tale che G (x) = f(x) per ogni x [a, b]), allora b Dimostrazione 1. (Derivata della funzione integrale) Fissiamo un punto x in [a, b]. Allora a f(t) dt = G(b) G(a) (1.30) x x+h F (x + h) F (x) = 1 [ x+h ] f(t) dt f(t) dt = 1 f(t) dt = f(c) h h a a h x (1.31) dove c è un opportuno punto tra x e x + h. La (1.31) segue dal Teorema della Media Integrale, applicato all intervallo di estremi x e x + h. Quando h tende a zero, il punto c, compreso tra x e x + h, tende a x. Poiché f è continua, f(c) tende a f(x) e quindi Dunque F (x) = f(x). F (x + h) F (x) lim = f(x) (1.32) h 0 h 2. (Formula di Newton Leibniz) Sia G(x) una qualunque primitiva di f(x) su [a, b]. Poiché G (x) = f(x) = F (x) le due funzioni G(x) e F (x) = x a f(t) dt hanno la stessa derivata sull intervallo [a, b]. Quindi differiscono per una costante: G(x) = x a f(t) dt + c (1.33) Pag. 21
22 Ponendo in questa uguaglianza prima x = b e poi x = a e sottraendo, si ottiene la tesi: G(b) G(a) = = [ b a b a ] f(t) dt + c [ a a ] f(t) dt + c (1.34) f(t) dt (1.35) Pag. 22
23 1.17 Integrazione per parti Teorema 1.17 (Integrazione per parti). Siano I F R, I G R due funzioni di classe C 1 sullo stesso intervallo I, e siano f, g le rispettive derivate. Allora vale la seguente formula di integrazione per parti per l integrale indefinito: F g = F G fg (1.36) Dimostrazione. Per la Regola di Leibniz, (F G) = fg + F g, (1.37) da cui ricaviamo F g = (F G) fg. Dunque una primitiva di F g è data da una primitiva di (F G) meno una primitiva di fg: F g = F G fg (1.38) (perché, per definizione, una primitiva di (F G) è F G). Osservazione. Si ricordi che l integrale indefinito f dove f è una funzione definita su un intervallo I di R non denota una singola funzione, ma l insieme di tutte le funzioni (dette primitive di f) definite su I la cui derivata è f. Per un ben noto teorema 5, se F è una particolare di tali primitive, l insieme di funzioni denotato f è costituito dalle funzioni F + c, dove c è una costante reale arbitraria: f = F + c c R 5 Il teorema dice: Siano I un intervallo di R, g e h due funzioni derivabili su I. Se g = h, allora g e h differiscono per una costante. Pag. 23
24 1.18 Integrabilità di 1/x a in un intorno di + Teorema 1.18 (Integrabilità di 1/x a in un intorno di + ). L integrale generalizzato { + 1 è divergente a + se a 1 1 x a dx (1.39) è convergente se a > 1 Dimostrazione Se a = 1, abbiamo x dx = t lim 1 t + 1 x dx = e quindi l integrale x dx è divergente. Se a 1, si ha lim (ln t ln 1) = + (1.40) t + Ora Riassumendo: t 1 lim t + 1 x a dx = 1 [x 1 a] t 1 a = a (t1 a 1) (1.41) 1 1 a (t1 a 1) = + se a < 1 1 a 1 se a > x a dx { è divergente a + se a 1 è convergente se a > 1 (1.42) Pag. 24
25 1.19 Struttura dello spazio delle soluzioni di un equazione lineare Notazioni. Partiamo da un equazione lineare non omogenea y + a(x) y = f(x) (1.43) dove a(x) e f(x) sono due funzioni (assegnate) continue su uno stesso intervallo I di R. Chiamiamo D l operatore differenziale 6 che manda una qualunque funzione y C 1 (I) in Dy = y + a(x) y Si vede senza difficoltà che l operatore D è lineare, cioè soddisfa: D(y 1 + y 2 ) = Dy 1 + Dy 2 D(λy) = λdy per ogni y, y 1, y 2 C 1 (I) e per ogni λ R. Lo spazio Ker D = {y C 1 (I) Dy = 0}, (1.44) che si chiama nucleo di D, è lo spazio vettoriale delle soluzioni dell equazione omogenea y + a(x) y = 0 (1.45) Lo spazio Ker D contiene la funzione nulla, perché ovviamente la funzione identicamente nulla soddisfa l equazione omogenea. Teorema 1.19 (Struttura dello spazio delle soluzioni di un equazione lineare). Consideriamo le due equazioni: y + a(x) y = f(x) Equazione lineare non-omogenea (1.46) y + a(x) y = 0 Equazione lineare omogenea associata (1.47) dove a(x) e f(x) sono due funzioni continue su uno stesso intervallo I di R. Sia y p una soluzione particolare (che pensiamo fissata una volta per tutte) dell equazione non omogenea (1.46) e chiamiamo S lo spazio delle soluzioni dell equazione lineare non omogenea (1.46). Allora S = y p + Ker D (1.48) In modo più esplicito: (a) Ogni soluzione y S si scrive come y = y p + y 0, con y 0 Ker D. (b) Ogni funzione del tipo y p + y 0, con y 0 Ker D, appartiene a S. Dimostrazione Dimostriamo le due implicazioni (a) e (b). 6 Si può vedere, ad esempio, D come un operatore il cui dominio è C 1 (I) e il cui codominio è C 0 (I). Infatti, se y è in C 1 (I), la funzione Dy = y + a(x) y è continua. Pag. 25
26 (a) Se y S, allora la funzione y si scrive come y = y p + y 0, con y 0 Ker D. L ipotesi y S può essere riscritta come D(y) = f(x); e l ipotesi che y p sia una soluzione particolare, si può scrivere come: D(y p ) = f(x). Dunque, per la linearità di D, D(y y p ) = D(y) D(y p ) = f(x) f(x) = 0 L uguaglianza D(y y p ) = 0 dice che y y p appartiene a Ker D. Poniamo y y p = y 0. Allora y = y p + y 0, con y 0 Ker D. Dunque abbiamo dimostrato l inclusione: S y p + Ker D. (b) Se y = y p + y 0, con y 0 Ker D, allora y S. Per ipotesi, y = y p + y 0, con D(y 0 ) = 0 e D(y p ) = f(x). Per la linearità dell operatore D, D(y) = D(y 0 + y p ) = D(y 0 ) + D(y p ) = 0 + f(x) = f(x) Abbiamo allora dimostrato che D(y) = f(x), ossia che y = y 0 +y p appartiene allo spazio delle soluzioni S. Dunque, abbiamo dimostrato l inclusione: y p +Ker D S. Concludiamo allora che è vera la tesi: S = y p + Ker D Pag. 26
27 1.20 Proiezione di un vettore lungo un altro Teorema 1.20 (Proiezione di un vettore lungo un altro). Sia b R 3 un vettore non nullo. Ogni vettore a R 3 si scrive in modo unico come a = P b (a) + a (1.49) con P b (a) parallelo a b (cioè, multiplo di b) e a ortogonale a b. Si ha: ( ) a b P b (a) = b (1.50) b b Definizione Il vettore P b (a) si chiama proiezione ortogonale di a lungo b. Dimostrazione Si deve avere P b a = tb, per un opportuno scalare t R. Il vettore a P b a = a tb è ortogonale a b se e solo se ossia (per bilinearità) se e solo se (a tb) (b) = 0 a b t(b b) = 0 (1.51) Questa è un equazione di primo grado in t. Poiché b b 0 (perché b 0), l equazione (1.51) ha un unica soluzione t = a b b b Dunque, la proiezione ortogonale di a lungo b è ( ) a b P b a = b (1.52) b b Osservazione Se u = 1, la formula che dà la proiezione ortogonale si semplifica nel modo seguente: P u a = (a u) u (Vale solo se u = 1). Pag. 27
28 1.21 Derivata di un vettore di lunghezza costante Teorema 1.21 (Derivata di un vettore di lunghezza costante). Se la lunghezza di un vettore v(t) in R 3 (o R 2 ) è costante (al variare di t in un intervallo I di R), allora il vettore derivato v (t) è ortogonale a v(t). Dimostrazione Poiché v(t) 2 = v(t) v(t) è costante, la sua derivata (che si calcola con la Regola di Leibniz) è nulla: 0 = (v(t) v(t)) = v (t) v(t) + v(t) v (t) = 2v (t) v(t) Ne segue che v (t) è ortogonale a v(t). Osservazione (Una interpretazione cinematica.) Supponiamo che v(t) R 2 (t R) abbia lunghezza costante. Se pensiamo a v(t) come a un vettore spiccato dall origine O di R 2, tale vettore, avendo lunghezza costante, descrive il moto di un punto P = P (t) che si muove sulla circonferenza di centro O e raggio uguale alla lunghezza di v(t). v (t) P = P (t) O v(t) Il vettore v (t) si interpreta allora come il vettore velocità istantanea all istante t. Pertanto v (t) è tangente alla traiettoria (la circonferenza) e quindi è ortogonale al raggio v(t). (Il fatto che v(t) abbia lunghezza costante non implica che v (t) abbia lunghezza costante; ossia, il moto è circolare, ma non necessariamente uniforme). Pag. 28
29 1.22 Equivalenza di due definizioni di curvatura α (s) α (s + s) ϑ α (s) Q = α(s + s) s P = α(s) Figure 1: ϑ è l angolo (positivo) tra i due vettori tangenti unitari α (s + s) e α (s), tangenti alla curva α rispettivamente nei punti Q = α(s + s) e P = α(s). Poiché il parametro è la lunghezza d arco (misurata a partire da un punto qualunque sulla curva), la distanza, misurata sulla curva, tra P e Q è data da s. Il rapporto ϑ/ s dà una misura di quanto la curva α si discosta dalla direzione tangente nel punto α(s) lungo il tratto lungo s. Il limite κ(s) = lim s 0 ϑ/ s è, per definizione, la curvatura nel punto P = α(s). La curvatura κ(s) misura la rapidità con la quale la curva si discosta dalla direzione tangente. α Teorema 1.22 (Equivalenza di due definizioni di curvatura). Sia I R 3 una curva di classe 7 C 2 e regolare 8, parametrizzata mediante la lunghezza d arco. Fissiamo un punto P = α(s) sulla curva e sia Q = α(s + s) un punto sulla curva vicino a P. Chiamiamo ϑ(> 0) l angolo fra i vettori tangenti in P e Q. Definiamo la curvatura κ(s), s I, come: ϑ κ(s) = lim s 0 s (1.53) Allora κ(s) è uguale al modulo del vettore accelerazione α (s): κ(s) = α (s) (1.54) Nota. Poiché, per definizione, T(s) = α (s), e quindi α (s) = T (s), l uguaglianza (1.54) si può scrivere anche: κ(s) = T (s) (1.55) 7 α Una curva parametrizzata I R 3, α(t) = (x(t), y(t), z(t)) si dice di classe C 2 se le sue componenti x(t), y(t), z(t) sono funzioni di classe C 2, cioè derivabili due volte con derivata seconda continua. 8 α Una curva parametrizzata I R 3 si dice regolare se il suo vettore tangente α (t) è diverso dal vettore nullo, per ogni t I. Pag. 29
30 Dimostrazione Poiché i vettori tangenti α (s) e α (s + s) sono unitari (cioè di lunghezza uno) e formano un angolo ϑ, si ha come si vede dalla figura qui sotto: α (s + s) α (s) = 2 sin ϑ 2 (1.56) α (s + s) α (s) = 2 sin ϑ 2 α (s) ϑ 2 α (s + s) Figure 2: Il lato del triangolo isoscele è lungo 1 e l angolo al vertice è ϑ. Quindi la base è 2 sin ϑ 2. Ma la base è la differenza vettoriale tra i lati; quindi la sua lunghezza è α (s + s) α (s). Dunque α (s + s) α (s) = 2 sin ϑ 2. Dunque, α (s + s) α (s) s = = 2 sin ϑ 2 s sin ϑ 2 ϑ 2 ϑ s Si noti che quando s 0, anche ϑ 0. Allora, quando s 0, il primo membro tende a α (s), mentre il secondo membro tende 9 a κ(s). Dunque, abbiamo dimostrato che κ(s) = α (s) (1.57) 9 sin Si noti che lim ϑ 2 ϑ ϑ 0 ϑ = 1 e lim s 0 = κ(s) per definizione. s 2 Pag. 30
31 1.23 Decomposizione dell accelerazione Ricordiamo alcune nozioni sulle parametrizzazioni di una curva. α Sia I R 3 una curva regolare (cioè soddisfacente: α (t) 0 per ogni t I). Fissato t 0 I, si chiama lunghezza d arco (a partire da t 0 ) la funzione ϕ, denotata più semplicemente s, così definita: I t ϕ J, t ϕ(t) = s(t) = α (τ) dτ (1.58) t 0 dove J = ϕ(i). L interpretazione è semplice: s(t) è la lunghezza (con segno) dell arco di curva dal valore t 0 al valore t del parametro, ossia è la distanza, misurata sulla curva, dal punto α(t 0 ) al punto α(t). Se t > t 0, s(t) > 0; se t < t 0, s(t) < 0. La funzione ϕ è invertibile. Infatti, è suriettiva (perché, per definizione, il suo codominio coincide con la sua immagine: J = ϕ(i)) ed è iniettiva, in quanto è strettamente crescente, perché ϕ (t) = α (t) > 0. In generale, il parametro sull intervallo iniziale I si denota t, il parametro sull intervallo J si chiama s ( parametro lunghezza d arco ) e le due funzioni I J e J ϕ 1 I (l una inversa dell altra) si denotano, rispettivamente, s = s(t) e t = t(s). Si noti che, per la regola di derivazione della funzione inversa (qui è utile la notazione di Leibniz), ϕ dt ds = ( 1 ds dt ) = 1 α (t(s)) (1.59) Si consideri ora curva ˆα = α ϕ 1 : J ˆα R 3, s ˆα(s) = α(ϕ 1 (s)) = α(t(s)) (1.60) La curva ˆα si chiama riparametrizzazione alla lunghezza d arco (o con lunghezza unitaria) della curva α. Il seguente diagramma aiuta a chiarire la situazione. I α R 3 ϕ 1 ϕ ˆα = α ϕ 1 J Questa curva ˆα ha velocità scalare unitaria. Infatti, usando la regola della derivata della funzione composta, otteniamo: d ds ˆα(s) = d ds α(t(s)) [ ] = dα(t) dt dt ds = α (t(s)) 1 α (t(s)) = 1 (1.61) t=t(s) Pag. 31
32 α Teorema 1.23 (Decomposizione dell accelerazione lungo T e N). Sia I R 3 una curva regolare e di classe C 2, parametrizzata con un parametro arbitrario. Allora l accelerazione α (t) si decompone nel modo seguente: α (t) = dv dt T + v2 κn (1.62) dove v(t) = α (t) è la velocità scalare e κ è la curvatura. Dimostrazione Se ˆα è la riparametrizzazione di α alla lunghezza d arco (a partire da un qualunque valore iniziale t 0 I), possiamo vedere α come funzione composta: α = ˆα ϕ, dove ϕ(t) = s(t) = t t 0 α (τ) dτ è la funzione lunghezza d arco (si veda il paragrafo precedente): α(t) = ˆα(ϕ(t)) = ˆα(s(t)) (1.63) Possiamo allora calcolare le derivate successive di α(t) usando la regola di derivazione delle funzioni composte. Per la derivata prima di α(t), abbiamo: dα dt = dˆα(s(t)) dt = ds dˆα(s) dt ds = vt(s) dove v = v(t) = ds/dt = α (t) è la velocità scalare La derivata seconda di α(t) (cioè l accelerazione α (t)) è allora data da: α (t) = d ( ) dα = d dt dt dt (vt(s)) = dv dt(s) ds T(s) + v dt ds dt = dv dt T(s) + v2 κn(s) perché ds dt = v e (per definizione di κ e di N) dt(s) ds = κn. Osservazione Se denotiamo ρ = 1/κ il raggio di curvatura nel punto α(t) (nell ipotesi κ 0), la (1.62) si può scrivere: α (t) = dv dt T + v2 κn = dv dt T + v2 ρ N (1.64) Pag. 32
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