Ut pictura. Modi ecfrastici nel secondo 900. Prof. Tommaso Pomilio. Dispense integrative

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1 Questioni di letteratura italiana contemporanea A.A. 2018/2019 Ut pictura. Modi ecfrastici nel secondo 900 Prof. Tommaso Pomilio Dispense integrative materiali di/su: Emilio Villa; Edoardo Sanguineti; Toti Scialoja; Giovanni Testori; Italo Calvino; Giorgio Manganelli; Luigi Malerba; Nanni Balestrini appendici: sulla figurazione novissima, con tre casi di uso attivo di materiale verbale dal côté degli artisti visivi nel crogiolo delle neoavanguardie (Biasi; Novelli; Baruchello); sulla nebulosa della poesia concreta/totale, nel nome di Adriano Spatola; sulla prospettiva iconotestuale, nelle nuove babeli del Millennio n.b. [precisazioni circa la bibliografia] : di Michele Cometa, La scrittura delle immagini, va approfondito il cap. 1, Descrizioni, pp ; di Riccardo Donati, Nella palpebra interna, vanno approfonditi almeno i cap. 1 (Lo sguardo-evento), 2 (Lo sguardo-avvento), e le pagine dedicate a Edoardo Sanguineti nel cap.3 (Lo sguardo-esperimento).

2 Emilio Villa da: Attributi dell'arte odierna 1947/1967 nuova edizione ampliata a c. di A.Tagliaferri (contributi di A.Cortellessa e C.Subrizi) Firenze, Le Lettere - collana Fuori Formato, 2008 Nostra dimessa cosmogonia, elegiaca esterrefatta composita, epos per istantanee, tragedie quotidiane, miniatura rapsodica delle grandi formazioni del tempo, avvenute senza traccia o eventuali, il grande sangue, i tracciati del mondo senza requie, la legge che detta lo scrimolo ai frantumi di una visione da mettere su, insieme come materia e come sorpresa, la divagazione profetica delle righe che han modellato le forme degli arcipelaghi e il congegno delle penisole, e lo scheletro delle trote nelle acque dell Adda. Nella memoria delle palafitte c è molto che può diventare materia di una breve e costernata superficie di pittura, ma pittura per modo di dire; e, invece, di quella qualunque altra azione compiuta per rivelare sensi specifici e non confutabili: Burri Alberto coltiva come in vitro, anzi come in lino, queste contrattili anatomie di organismi inespressi, incerti tra una parvenza di materiali biologici fuori uso e un ideale di fulminei universi tra il gigantesco e il minimissimo: una ambiguità spalancata, un desiderio di stringere ricordi di cose che devono chiarirsi; lamentosa cosmogonia supposta con la semplice innocenza di 44 Alberto Burri

3 materiali usuali, degli stracci rifiutati dal rione, delle vernici scadenti, delle paste amorfe tra deperimento e cristallizzazione, dei legnami scartati e destinati all acqua o al fuoco, degli asfalti, delle mucillagini: un modo di rifiuti popolari può farsi analogo e congeniale alle immaginazioni più imponenti: in un punto qualunque del mondo un occhio, vivo e disinteressato come quello che accende la vista di Alberto Burri, può sorprendere e trar fuori lo scatto originato da grembi superiori, dove spira esatto il senso di una nostra epopea laica e popolare; sulla via di scoprire un altro senso della contemplazione e di offrire alla contemplazione nuovi oggetti da essa medesima supposti o desiderati, non siamo forse ancora in una condizione presocratica; ma su questa via siamo, e Burri corre facilmente in testa: i quadri della sua pittura sono da considerare già come paradigmi maturi. Il pittore, tra incanto e artificio solenne, cancella i colori per condurre i profili della tensione e della costernazione, per illuminare alcune voci, risonanze carpite tra le filiture della meccanica mentale e del suo naturale funzionamento; soli colori il bianco e il nero, rappresentazione della vita e della morte, del giorno e della notte, della volontà e dell abbandono. Sarà l ultimo grande sforzo la dialettica del non colore questa specie di insonnia caparbia arcaica futura, come la pietra, come il colore dell abisso e dell invisibile, che la pittura di Burri esegue per via allegorica, in una risoluzione allegorica, con il sacco la iuta il nylon le tele la porporina. Io ricordo la grande invenzione di Burri; l opaco, l opacità ardita dopo tutto, pescata nel fondo degli altri colori, e formata in concreazioni molto espressive, l esistenza del mondo allo stato puro, fatta quasi eleganza, leggerezza pensata all'interno della materia, prima dell'unità e prima delle separazioni: dove le filiture sui crepacci del non manifesto sono frettolosamente, ma con dignitosa abilità, chiuse da suture, opera di un medico destituito dalle sue relazioni sociali, di un medico all antica; non a caso Alberto Burri è stato un medico, ora trasformato in un chirurgo ben più virtuoso, di rara, precisa libertà; dopo aver girato miracolosamente lungo planimetrie im 45

4 percettibili di città sepolte nel bitume, o nei labirinti infantili. [1953] trovato il mitografo urbano che inventa, in questa sterile sfera che è la pittura, qualche cosa non priva di speranza, e necessaria come il pane, come il lavoro, come i miracoli, come il dramma quotidiano e domenicale, questi quadri un po imprevisti ogni volta, ogni volta se ne può dire: ecco un opera che poteva essere fatta soltanto oggi, ecco un azione che poteva essere compiuta oggi soltanto, non ieri, non domani, con una cicatrice cosi segnata del tempo soltanto oggi e chissà cosa sarà domani la loro suggestione, forse deperita, forse moltiplicata, sempre però libera dalla magra e scadente eternità museografica, l inesperta vanità delle avanguardie polimateriche (viziacci), potevano tutt al più evocare il senso di improvvisazioni magiche deteriori, o ironie, o proteste automatiche, in questi quadri invece il miracolo c è: dolcissime o astruse o preziose reminiscenze delle materie quotidiane, investite da una esaltazione concettuale e da una severità oggettiva che stupiscono, come segnale di grandi smarrimenti, e di temi mescolati sottoterra, a filo di terra, e poi rimossi, con il fresco dei bulbi e radici dagli sterri, calcina e zuccheri, miche e vermi: e in questo modo ogni porzione eseguita dal pittore suscita oggetti o racconti o poemi solidificati, che paiono essere rivelazioni, come agitare le tenebre, provocarle; come rigare il crepuscolo con un grido di cristallo, aboliti l aria, l acqua, il fuoco, la terra e tutte le idee che spontaneamente si confessino con immagini analoghe. Burri ha elaborato l assurdo o quasi mistico proponimento di evocare, o mettiamo pure di inventare, i primi principi, i sapori germinali di un organismo assai grande e non sconosciuto, ora, dico, se l esecutore di un arte cosi poca e di risorse cosi vaghe, quale è la pittura, riesce ad afferrare supposizioni cosi forti a livello mentale spontaneo, ascoltare pensieri che insorgono da profondità 46 Alberto Barri

5 non usuali, e a rendere contenuti maestosi con mezzi addirittura trasandati, consunti, acidi, questo esecutore è un poeta eccezionale, egli ha il gusto e il sentore delle materie in disuso, o senz altro deteriorate (come il gusto popolare, che è una forte e meravigliosa attrazione, per le materie dei reliquiari cattolici), ma, oltre il gusto, egli pensa, ascolta, elabora una articolata, flessibile e lucida litania, luci di conopei lividi in pomeriggi di temporale, frammenti e riverberi di tona serena bisanzio per tutti, atmosfere laiche, qualità di materie usuali e proletarie difese con amore, nobilitate e composte come da preparare per un superiore galateo, dove la tela e le bende gli avanzi di favolosi imballaggi le fodere e tendine e scatolame e il vinavil e le vernici per le case di tutti e per gli utensili e i veli e gli infiniti bianchi e i neri intensificati e i rammendi e i rattoppi conquistano un pregio solenne, un sentimento compiuto, una illuminazione, una delle allegorie più eccelenti e più concrete che sia possibile conoscere oggi; secondo me, il più elevato tentativo di rappresentare immaginazione vera, al di là della favola, al di là del lirismo e di simili abbandoni, al di là degli ingorghi di ogni genere eccitati dalla letteratura e dalle poetiche. [1953]

6 Emilio Villa o l'estensione del punto di vista critico Carla Subrizi «Designificare decolorare deplatonizzare deliricizzare i confusissimi gerghi pittorici» dice Emilio Villa nel testo scritto per Capogrossi nel Parla dei segni di Capogrossi come di «strumenti paleoitalici» che lo riportano verso i «lastroni di Monte Bego» e alla «stele di Novilara»: un «segno di grado iniziativo» (A, p. 17) per «ritrovare il praeverbium» (A, p. 18). In questo testo, non certo il primo che Villa abbia scritto per un artista odierno cioè del suo tempo, troviamo dunque enunciati alcuni dei nuclei fondamentali del suo pensiero critico e della sua azione poetica: l indagine della pittura «oltre la sterile sfera della pittura» (A, p. 46) e non della «pittura per modo di dire» (A, p. 44), la permanenza dell antico nel contemporaneo, la possibilità (in quei tempi premonitrice) di un confronto con culture, storie, tradizioni non occidentali o remote nel tempo (il segno di Capogrossi, appunto, paragonato ai lastroni del Monte Bego), la ricerca del gesto «iniziativo» o originario che per Villa significa ciò che nel linguaggio previene il formarsi della parola, della frase, della sequenzialità significante: alla ricerca, nel prelinguistico, dell arte in quanto realtà potenziale, in divenire, non ancora definita in unicità semantica. Come già aveva fatto dagli anni Trenta, poi dal 1947 nei numerosi testi pubblicati su Attributi dell arte odierna, Villa si rivela un caso esemplare nel concepire la critica come osservazione e denuncia, «appassionata e politica», nella linea dei Baudelaire, Mallarmé, Valéry e Apollinaire. Egli non soltanto segue ma affianca gli artisti e l arte del suo tempo, scegliendo di porsi non accanto al panorama complessivo delle ricerche e della sperimentazione, ma al suo interno: da artefice. Villa non intende la critica come metalinguaggio sulle opere, né come applicazione di una 449

7 teoria già fatta che rende ciechi di fronte all opera e fa parlare principi generali, validi per tutto. Proprio perché affronta l arte non da critico ma da poeta - ovvero da artista a sua volta - usa la critica come strumento di indagine sui processi creativi, in modo non diverso da quello con cui la sua parola poetica o la parola nelle traduzioni (tra tutte si ricorda quella Ò.ATAntico Testamento), esplorava le lingue antiche e moderne. La sua ricerca sulla parola non è certo, dunque, formalistica. Villa indaga, attraverso la parola, i processi mentali, con una logica di confine che si situa sulla soglia dei significati, per esplorare altri regimi del senso. Per questo non mancano, nelle pagine degli Attributi, brevi o quasi subliminali messaggi a una pratica della critica che, per Villa, «in un modo alquanto tiepido ed ovvio» (A, p. 47), procede per comparazioni, individua le somiglianze formali o apparenti e, fondandosi su questo sistema, traccia poi i percorsi, la storia, le cause e le conseguenze, cercando, «rispetto a una consuetudine umanistica», l «idea» prima del «tema» (A, p. 51), la rappresentazione piuttosto che Vazione, l atto «creazionale» (A, p. 43). Villa afferma così che la «comprensione» avviene solo su ciò «che è statisticamente rilevante», così tenendo ai margini o schiacciando totalmente «l accezione infinitesimale pura e non moltiplicata, lo scatto evidente, irripetibile e irriflesso» (A, p. 51) e tutti gli aspetti che invece, per Villa, «non fanno ancora parte dei modi di comprendere conosciuti e descritti» (A, p. 51). Quindi la sua critica diventa denuncia di una prassi che si confronta col certo, il già affermato, senza cogliere l inedito se non per ricondurlo a un denominatore già consolidato. Dice Villa: «dio solo sa come i mammuth della critica corrente siano riusciti a forza di sofismi balordi a istituire una comparazione tra Mondrian e Capogrossi. O con Klee» (A, p. 17). Nel testo su Fontana del 1937, parlando delle affermazioni di Giancarlo Vigorelli sulla (oramai) «fine» del surrealismo e poi delle perplessità su quella che era la situazione dell «astrattismo» intorno a Carlo Belli e a «KN», Villa dice di non es 450

8 sere «né d accordo, né non d accordo» e che stava a osservare «prima di ogni genere» il «barlume», il «crepaccio», l «attimo di sospensione nella vicenda dell omogeneità e della distrazione» (A, p. 114). Villa non cerca dunque l originalità a tutti i costi, né la sintonia con ciò che sempre, in ogni epoca, si presenta come una strada, una tendenza, un modello da seguire. Certo la sua scrittura non aiuta. La parola con la quale si e ci mette alla prova, a un primo approccio, sfugge alla possibilità di cogliere un processo di significazione, un articolazione del senso. La parola procede per associazioni, le frasi si interrompono, l allitterazione e il gioco di parole continui non permettono di fermarsi per cogliere un riferimento, un punto qualsiasi dal quale procedere. Ma è proprio quello che Villa vuole: impedire di fermarsi su un senso definito, lasciare aperti i possibili del senso, non favorire la presenza di punti di fuga (unici) della comprensione ma far saltare le prospettive, gli orientamenti: praticare insomma il parallelism o elem entare (come diceva Duchamp) e il «circolare» o il «ciclico» (termini che tornano negli Attributi), piuttosto che la linearità e la sequenzialità meccanicistiche dei processi. Villa aveva bisogno di usare la parola non per spiegare, interpretare e rendere «comprensibile» l arte ma come strumento per attraversarla e cercare, in una processualità da indagare, le tracce di percorsi per altre logiche e forme di coscienza e conoscenza, per attivare «strumenti di liberazione» o «luoghi della libertà» (A, p. 41). Nel testo su Matta del 49 dice che non gli «occhi fisici» ma «il desiderio di agire» danno il «chiaro» (A, p. 42), ovvero il reale, senza più apparenze che lo nascondono, restituito alla sua sostanziale «opacità» (così su Burri nel 53: A, p. 45), oltre «la costernazione del viaggio laconico delle apparenze» (su Rothko lo stesso anno: A, p. 10). Nei testi di Villa non si deve dunque tanto capire quanto cercare. Tra le pieghe della scrittura che in poche righe si sposta nel tempo e nello spazio e arriva a usare il latino, 451

9 l immagine votiva, il greco, il francese, il dialetto (come nel testo su Manzoni) l inglese, tra rimandi che continuamente rendono difficile il mantenimento di un (solo) orientamento, è possibile trovare quello che attribuisce a Burri nel 51, «il pullulio continuo della piega, dalla piaga, dalla copertura dermica» (A, p. 44), in uno slittamento di associazioni che della parola non mantengono che la radice colta nelle sue trasformazioni o, come dice a proposito di Capogrossi nel 62, il «battito vitale: non come ictus o come cadenza o ritmo o scansione, ma come proprio emersione, o pronuncia emessa» (A, p. 19). Villa si è avvicinato in maniera libera agli artisti e alle opere, libero da condizionamenti o da scuole, proprio perché in quanto poeta, vissuto egli stesso ai margini di qualsiasi sistema (anche quello della poesia) riesce a osservare, spostarsi, pensare oltre i confini prestabiliti. La critica e la scrittura che nasce dall arte, dai processi creativi, è per lui atto creativo a sua volta, mentale ma anche emotivo e fisico, vólto a registrare, momento per momento, umori, delusioni, amori e entusiasmi. Per far questo deve deviare, spostarsi, estendere le potenzialità della parola, entrare n ell arte, senza preoccuparsi di essere «d accordo» con scuole o tendenze del suo tempo. Si tratta insomma di rimanere nomadi, «deambulanti» in una città/polis «vuota», «civitas ubifaria» e «civitas unitaria» (espressioni che usa per Rothko nel 53: A, pp. 9-10). In realtà deambulare non è solo uno spostarsi nella «città» (della parola, del pensiero, dell arte) ma una ridefinizione della città a partire dalla «periferia del colore», dalle «frontiere» (A, p. 9), «lasciando evaporare i bordi» di «questi sistemi vuoti» (ancora su Rothko nel 60: A, p. 14). Il «rettangolo» di Rothko è infatti «aperto», la polvere/colore «iridescente» (A, pp ) e il viaggio, al suo interno o ai confini delle superfici che sembra tracciare, porta oltre «lo spirito della prospettiva». La «pienezza» di qualsiasi genere, «orale, oftalmica, erotica» (A, p. 11) è infatti per Villa «impotente» e i «quadri» di Rothko, ad esempio, sono soltanto 452

10 «frammenti dell impercettibile sostanza pitagorica» (A, p. 14), sono «esalazione» (A, p. 15) che invitano lo sguardo a divenire disseminato, senza centro, frammentato anch esso. Sembra che Villa indichi un processo di coscienza e conoscenza attraverso l arte e con l arte, muovendosi sulla superficie di quadri, oggetti e sculture per invitare l osservatore a compiere il medesimo processo della visione e della sensazione. Pratica critica, pratica dell arte e pratica dello sguardo sono così su uno stesso piano: procedono paralleli perché, in altro modo (uno sull altro o uno verso l altro), produrrebbero soltanto descrizione, senza coinvolgimento. Quando Villa scrive i testi per la presentazione della mostra di Formai (1947), su Matta ( 49), Pollock ( 50) e Burri ( 51), la sua prospettiva critica e storica sulla situazione dell «arte odierna» è già ampia e ha travalicato le geografie nazionali e ogni forma di provincialismo. Egli si situa oltre il dibattito tra astrazione e figurazione, oltre coloro che perseguivano la strada del surrealismo, oltre coloro che riconoscevano in Picasso la radice di quasi tutta l arte di quella prima metà del secolo e anche al di là delle nuove situazioni che, non soltanto in Europa ma in America, si stavano affermando: l informale, l action painting e l espressionismo astratto. Se si confrontano i testi di Clement Greenberg sin dal 39, poi raccolti in parte in Art and Culture (1961), di Meyer Schapiro sull arte astratta (tre testi del 37, del 57 e del 60) e poi ancora il Greenberg degli anni Quaranta e Cinquanta, strenuo sostenitore dell espressionismo astratto americano, gli «studi e note» di Argan del 55, Carmine o della Pittura (1945) e poi Segno e immagine (1960) di Cesare Brandi, oltre a molti dei saggi usciti su «Arti Visive» (di Ponente, Colla, Dorfles, Alloway nel 53, Sweeney nel 54), su «Appia» e su «EX», ovvero sulle riviste promosse dallo stesso Villa, appare chiaro come la sua posizione non si accordi con nessuna delle tendenze storiche del suo tempo. Villa non difende l astrazione né il suo contrario. Cre 453

11 de a una prospettiva internazionale, promuove la pubblicazione di estratti della rivista «Arti Visive» in inglese, invita sulla stessa rivista Alloway e Sweeney il quale, mentre nel 53 aveva promosso presso il Solomon Guggenheim Museum una mostra di artisti europei (tra i quali Burri, che l anno precedente aveva già avuto una personale a Chicago, alla Frumkin Gallery), nel 55 avrebbe curato la prima monografia proprio su Burri. A quest ultimo Villa si avvicina già nel 51 e poi nel 53, ovvero quando su questo artista era apparso un solo articolo di C. Zervos (1950), in tempi dunque ancora lontani dal futuro grande interesse da parte della critica. Villa rifiuta anche le posizioni di chi cercava nel polimaterismo («viziacci» dice Villa) le radici delle soluzioni materiche di Burri (A, p. 46). Né lo convince la lettura in chiave meramente materica e gestuale di artisti come Burri e Fontana. Già nel 51 Villa coglie l aspetto più importante dell opera di Burri nel fatto di non essere più soltanto «pittura», ma un «materiale» che conservava una «tragica reminiscenza della pittura», non tuttavia nel senso di una inquietante drammaticità ma, diremmo noi, del tragico nietzschiano che si rivela tensione originaria: dimensione alla quale Villa era da tempo rivolto. Quella di Burri è per Villa una pratica artistica non soltanto tesa alla realizzazione di forme ma processualità in atto, «atto creazionale» o anche «esistenziale», «r aptus / r actus genetico» che agisce generando, «non rappresentando ma facendo» (A, p. 43). Insomma Villa capisce subito che la fine degli anni Quaranta indicava un mutamento importante. Il colore era, in questo senso, un altro argomento usato da Villa per ripensare il significato della pittura, oltre «la pittura, così detta, dei nostri anni» (A, p. 97). Villa parla di «colori acustici» (A, p. 7), di «dialettica del non colore» (A, p. 45). Ancora Burri, nel testo del 51 e in quello poi del 53, è l artista che per Villa sperimenta il «senza colore mai», ma in «pieno alterco» con il colore (A, p. 44); sua «grande invenzione» era stata «l opaco, l opacità ardita dopo 454

12 tutto, pescata nel fondo degli altri colori» (A, p. 45). Anche in una lettera del 1982 scritta a Emilio Vedova (non presente negli Attributi ma conservata nel Fondo Emilio Villa presso la Fondazione Baruchello; la data è cancellata) Villa dice che dovrebbe dirsi «colour as calvar-y (cioè, per naturale transito fonetico)». Il testo su Matta del 49 è, da questo punto di vista, esemplare. Per Villa quelle di Matta erano «vicende creative, non da spiegare e nemmeno da figurare», a proposito delle quali era necessario dimenticare «il gusto», il «dogma neutro del logos», «gli schemi delle scialbe attitudini euclidee», i «parallelismi dialettizzati», «i fantasmi della geografia poetica e pittorica»: perché «l immagine, il segno, il suono, il rapporto e il fenomeno che li capta, non sono cose, non sono oggetti: ma sono azione. Un quadro è l agire» (A, p. 42). Già a questa data, dunque, Villa si concentra sui p ro cessipiuttosto che sulle opere, sull opera come processo, formazione piuttosto che forma. Con ciò non solo anticipando quello che l arte avrebbe iniziato a fare di lì poco (le azioni, le performance, gli happening), ma anche l attenzione per la performatività linguistica, ben prima che Austin alla fine degli anni Cinquanta introducesse la definizione di speech act. È per Matta che Villa pensa dunque il termine «pittura d azione», nel quale azione significava il captare non gli oggetti ma i fen o m e ni, gli eventi. Solo nel 52 - racconta Villa nel 61, in un successivo testo su Matta - questa stessa dicitura acquisì in America, come action painting, una fama internazionale per poi tornare «in Europa e, infine, in Italia» (A, p. 38). Ed era stato proprio Matta, ricorda Villa, il suo primo contatto con la pittura americana: un «trasalimento» mentre parlavano, nelle trattorie romane, di «metafisiche ciclotimiche e ghiandolari, di tempeste di sangue». La pittura si faceva bio-logica e non soltanto logica o surreale, né solo informale ma «autre-outre» (A, p. 37), seguendo un percorso che si sarebbe radicalizzato negli anni Cinquanta. Se da una parte, infatti, l informale sembrava superare 455

13 le divergenze tra astrattismo, realismo e figurazione, dall altra esaltava un soggettivismo gestuale e creativo contro il quale avrebbero reagito, alla fine degli anni Cinquanta, artisti come Manzoni, Castellani, Lo Savio e coloro che ripartivano dal grado zero del monocromo. Uno «zero dal nulla» (A, p. 120) che però era già stato colto da Villa in Manzoni nel 1960, o come strada per ripensare il colore ponendosi al di là di esso, o come possibilità oltre i «gerghi pittorici» (A, p. 17). Già nel 51 gli artisti del gruppo Origine si erano dichiarati al di là di un astrattismo che consideravano concluso; a loro, Villa non tardò ad affiancarsi. Il gruppo era stato fondato da Capogrossi nel insieme a Burri, Ballocco e Colla. Nel manifesto redatto in occasione della mostra Origine (Roma, Galleria dell Obelisco, 1951) si leggeva infatti che il «percorso storico» dell astrattismo era oramai «risolto e concluso» e che per non essere né «decorativo» né «manierista», doveva riproporsi il punto di partenza dell esigenza «non figurativa» dell espressione. Attraverso la «riduzione» del colore, si legge ancora nel manifesto, e i «nuclei grafici, linearismo e immagine pure», gli artisti si proponevano di radicarsi nel «momento di partenza». Dopo la mostra nasce la Fondazione Origine che dal 52 ha una propria rivista, «Arti Visive», in leggera polemica con la rivista di Ballocco «AZ». La testata è diretta da Colla, al quale dal maggio del 53 al 56 si affianca lo stesso Villa. Articolata in due serie (dal 52 al 54 e dal 54 al 58), si presenta come una rivista italiana ma aperta a quanto avveniva in Europa e in America (due sedi si stabilirono a Philadelphia e a New York e un redattore, Salvatore Meo, dal dicembre 53 risiedeva a New York). Grande spazio era riservato alle ricerche spaziali di Fontana, ai décollage di Rotella (della cui importanza Villa si era subito accorto, come ricordato dallo stesso Rotella nel 2002), ma anche alla situazione americana. Il numero 8-9 del 54 presentava al proposito testi critici, una risposta di Villa al sag 456

14 gio di Ann Salzmann su The contemporary non-figurative art scene in America, riproduzioni di Tobey, Motherwell e Rothko (su quest ultimo Villa aveva già scritto nel 53). Nel 1952 era stata aperta, nella sede romana della Fondazione Origine (in via Aurora), una mostra di opere della collezione Guggenheim: Albers, McVicher, Wolff, Rebay, Stern, Billinger tra altri. Il 3 dicembre del 1953 si era invece inaugurata a New York la mostra di J. J. Sweeney Young European Painters, mentre nel 1955, al MoMa, a cura di A. Carnduff Ritchie, era stata allestita la mostra The New Decade: 22 European Painters and Sculptors. Burri e Capogrossi erano presenti alle due mostre. M. Tapié (che Villa aveva incontrato nel 1949) aveva incluso Capogrossi nel volume-manifesto Un art autre, insieme a Dova, Sironi e Marini. Tuttavia l inserimento da parte di Tapié di questi artisti italiani, era finalizzata a dare più ampio respiro al movimento «autre» di cui era sostenitore, che tuttavia sia Burri che Capogrossi e per altre vie Fontana, avevano soltanto affiancato, essendo le loro ricerche avviate già verso una nuova sperimentazione (i concetti spaziali di Fontana, una nuova indagine del segno per Capogrossi, la sperimentazione sull oggetto trovato o gli «stracci», dice Villa, di Burri). Per altro verso, le mostre americane erano nate con l obiettivo di sostenere l astrazione emergente ovvero Vaction painting e Xespressionismo astratto, su una linea che si ricongiungeva a Picasso piuttosto che al surrealismo europeo (come insistevano critici quali Greenberg). Villa - sebbene avesse scritto, come già si è ricordato, su Burri dal 51 e su Rothko dal 53 - si situa al di fuori di questo «andamento» storico delle arti. Villa si era rivolto ad alcuni degli artisti fondamentali per le nuove ricerche degli anni Quaranta e Cinquanta, come si è visto, decisamente in anticipo, ma oltretutto l aveva fatto sottolineando aspetti che la critica non considerava. Ad esempio a proposito di Pollock già nel 50, Villa parla di «ex-tension», «perception. operation», «origine oeuvrant où vrant»; per lui quella del 457

15 pittore americano è una nuova «sintassi liberata», un «irruzione agrimensionaria dal basso», una «gestion uvulaire, gestation valvulaire, sous un accès du point-de-vue, pointd être» (A, p. 67); azione, «action de paître / action de partager / action de diviser / action de nourrir», (A, p. 68) che «despazializza» per estendere il segno al suo «supplementum» (A, p. 71). Il «supplemento» di segno che Villa così individua nella pittura-action di Pollock, è ricerca di uno spazio altro, senza confini, atopico. Non era soltanto una questione di margini o confini della superficie pittorica: l estensione è «transito», filogenesi, irruzione che spinge dal basso, «orgia» nelle «direzioni senza scelta senza riposo senza corpo». Villa si inserisce quasi all interno della superficie di Pollock, ne segue le tracce, i percorsi e sottolinea l indivisibilità del movimento, la molteplicità dei punti di vista e delle direzioni, in uno spazio dunque che, nel testo, è percorso tra i segni e non dal di fuori. L azione di cui parla Villa non è soltanto il risultato del gesto ma il movimento dinamico che dall interno costruisce quello «spazio Pollock» che Louis Marin avrebbe colto nel Di Francesco Lo Savio, nel 1961 Villa dice che «disperatamente egli sta cercando origini pullulanti, l immediato motore, la cancellazione delle urgenze di campo e delle solitudini quantitative, spaziali». Afferma inoltre che l elaborato geometrico di Lo Savio «ci riporta nella scarna secca assidua induzione (tentazione) cosmogonia, nella industre emergenza del primarium» (A, p. 135). Il tema delle origini, lo si è visto, è così al centro non solo della scrittura critica di Villa - il «primarium» e il «prelinguistico», il «creazionale» e la «genesi», P«origine» e il «divenire» come linee-guida della sua riflessione sull arte e sulla parola, ovvero sui processi di articolazione del senso - ma anche del suo lavoro con gli artisti e tra gli artisti. Sull Arte dell uomo primordiale, complemento o punto d arrivo di questa tensione, Villa si sarebbe concentrato negli anni Cinquanta e Sessanta, in particolare dopo una visita alle grotte di Lascaux del 1961 (si veda ora l i 458

16 nedito degli anni Sessanta restaurato da Aldo Tagliaferri per Abscondita nel 2005). Già Nietzsche nelle prime pagine della sua Genealogia della morale constatava tuttavia come ci fosse un «influenza frenante esercitata dal pregiudizio all interno del mondo moderno su tutti i problemi che riguardano le origini». Ma in effetti negli anni Quaranta e Cinquanta la questione era ancora nei medesimi termini. Dopo la stagione dei grandi viaggi (a partire da Gauguin), delle riviste («Documents» di Bataille del ), degli studi e ricerche (da Brancusi, a Picasso a Giacometti, da Mauss al Collège de Sociologie) sulle arti antiche, arcaiche, primordiali, Emilio Villa poneva la questione in una prospettiva attualizzata e soprattutto crìtica, che non si limitava certo a rintracciare l ispirazione da parte degli artisti e dei critici nelle arti extraeuropee o primitive ; era consapevole, Villa, come fosse necessario aprire i confini geografici, culturali, inconsci e storici dell individuo moderno: non solo dei paesi da lui abitati. Burri elaborava il «proponimento di evocare o pure di inventare i primi principi, i sapori germinali» (A, p. 46), Newman un «approccio sempre incompiuto, un atto di genesi contrario» (A, p. 23), Wols un alfabeto di «impronte evaporate», «hiéroglyphes» di «cammini sordi» o «ritmi nascosti» (A, pp ). L evaporazione, la traccia, il segno polveroso, il colore assente, la tensione verso l «inizio» che pone «sotto il controllo della creatività le forze più remote nel fondo dell abisso umano» (A, p. 49) non suggeriscono dunque soltanto metafore. Articolano invece, come Villa avrebbe fatto anche nel brevissimo testo-esergo-dedica a Duchamp, che chiama «maître des Prévivences, charnière de l Indifférence» (A, p. 7), un esercizio critico che è, prima ancora che storico e teorico, individuazione dell inedito e pratica di conoscenza sperimentale, oltre i confini e le regole del già acquisito e rassicurante. Gli Attributi dell arte odierna, in ogni loro pagina, sono la testimonianza di questo lungimirante punto di vista. 459

17 Tommaso Lisa, dall'introduzione a: Pretesti ecfrastici. Edoardo Sanguineti e alcuni artisti italiani con un'intervista inedita (a c. di T.L.) Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2004 Sa n g u in e t i e g l i a r t is t i it a l ia n i L attività di scambio tra Sanguineti e i pittori prende avvio con l inizio degli anni Cinquanta, durante la fondazione del Movimento Nucleare. Laborintus si confronta più o meno direttamente con la poetica della nuclear art torinese e con l ambiente delle cantine milanesi, sorte a imitazione delle caves di Parigi, come «[...] il Santa Tecla, locale allestito tra il 51 e il 52 nei pressi della Stazione Centrale da Enrico Baj e dal pittore nucleare Joe Colombo, dove si fermò pure Sanguineti che - stando alla testimonianza di Baj - descrisse la faccenda nel suo Capriccio Italiano»2. L obiettivo dell arte nucleare era di 2 E l i s a b e t t a B a c c a r a n i, La poesia nel labirinto. Razionalismo e istanza antiletteraria" nell opera e nella cultura di Edoardo Sanguineti, Bologna, Il Mulino, 2002, pp ; Cfr. E. Baj, Autobiografia, Milano, Rizzoli, 1983, pp

18 riportare in modo realistico il senso della catastrofe incombente, la disgregazione espressiva (secondo la funzione, esercitata anche dal modello della serie dodecafonica, della reazione nucleare a catena ), l incombente tragedia dell apocalissi contemporanea, attraverso un procedimento formale per puncta, parole, atomi. L arte nucleare esprimeva il clima delle esplorazioni stellari e delle conquiste interplanetarie unito al terrore apocalittico di un imminente fine del mondo. I voli ultraterrestri e i globi extraterrestri diventarono emblematici di un espressione aperta agli stimoli provenienti dalla scienza e dal mito (cfr. il manifesto Arte interplanetaria riportato in Nuclear Art, volume di Arturo Schwarz in edizione trilingue pubblicato da Erich Diefenbronner e stampato a Milano nel 1962, la cui versione in lingua italiana fu riveduta da Sanguineti). Al manifesto della nuclear art fece seguito il Manifesto di Napoli, definito da Baj un «aperta dichiarazione di guerra all astrattismo», che sanciva il sodalizio stabilitosi tra i pittori napoletani del Gruppo 58 e i nuclearisti milanesi, mettendo così in contatto Sanguineti col gruppo partenopeo3. Le immagini embrionali e fetali, i paesaggi informi dai quali emerge una pre-figurazione 4, pongono l elemento organico, fisiologico, come costitutivo di quest arte; e proprio questa estetica onirica e uterina, fatta di colori vividi e fosforescenti, influisce sull immaginario della seconda raccolta di poesie di Sanguineti, Erotopaegnia. [...] 3 Cfr. E. Baj, Automitobiografia, Milano, Rizzoli, 1983, pp ). Guido Biasi è il primo pittore a comparire come dedicatario di una poesia di Sanguineti: 17 palombaro e la sua amante è del 1958; seguiranno i Due Mnemoritmi del 72 e Petit tombeau nel Cfr. E. S a n g u in e ti, Per una nuova figurazione, in H Verri, 12, 1963; Cfr. anche A n g e lo T r im a r c o, Elogio della figurazione, in Aa.Vv., Sanguineti. Ideologia e linguaggio, a cura di Luigi Giordano, Salerno, Metafora Edizioni, 1991, pp

19 Le successive collaborazioni con gli artisti si svolgono sull onda lunga della sinergia creativa impostata tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Col tempo diminuiscono gli scritti critici militanti, sostituiti da testi in versi in cui Sanguineti condensa l ecfrasi nel giro breve della forma chiusa, nella ferrea norma retorica di una nuova critica pittorica. Nel periodo più recente, testimoniato da II Gatto lupesco (Milano, Feltrinelli, 2003) si fanno più frequenti gli acrostici e i testi-omaggio; l incontro tra poesia e pittura s inserisce spesso nella cornice ludica e ironica dell universo patafìsico, ma sempre con la coscienza razionale di operare criticamente, linguisticamente, in modo politico, impegnato nel formare il reale. [...]

20 Struttura del testo e tecnica intraverbale Sviluppando in modo ipertrofico l esempio del precedente Fuori catalogo , Il Gatto lupesco si configura come una raccoltacontenitore di omaggi, di nomi di amici, di luoghi, di occasioni, viaggi, trasmissioni televisive, enigmi, proverbi, filastrocche, haiku e sms. La lingua di Sanguineti, rivoluzionaria e rivoluzionata, frutto dell alienazione storica, si evolve avvicinandosi al parlare quotidiano, al contenutismo, intervallando inserzioni dotte e testi metricamente catafratti, con ima forte autoironia. Quanto più l occasione è effimera, o legata a un fatto culturalizzato, come nel caso della descrizione di un disegno, tanto più lo stile si fa metricamente complesso, il dettato concettoso e intriso di rimandi ipertestuali, di citazioni criptiche, allegoriche. Secondo Baj, Sanguineti «[...] descrive un opera d arte e al tempo stesso, come ara, la interpreta in senso quasi teatrale, giacché un po la descrive standosene fuori e un po vi entra dentro e da lì la racconta: indossa i panni degli oggetti, dei segni, delle figure, dei personaggi che abitano l opera (quadro, disegno, scultura...) e gioca a inventare connessioni, trame, storie». Per le poesie d occasione su opere d arte, alcune delle quali qui riprodotte nella prima versione dattiloscritta, con correzioni autografe, già Renato Barilli aveva parlato di ricerca intraverbale in concomitanza della rivoluzione epistemologica che avviene nel solco della tradizione iniziata da Freud e Saussure8, i quali 8 R e n a to B a r i l l i, Freità, Saussure e le attuali ricerche intraverbali, in A a.v v., L arte e la psicanalisi, a cura di Armando Verdiglione, Milano, Feltrinelli, 1979, pp

21 portano l attenzione sul flusso orale, sulla sonorità e sul gioco omofonico di somiglianze verbali quale fonte di piacere del lasciarsi andare al sistema inconscio di libere associazioni straniami. Sanguineti porta così la «furia della sintassi» ad articolarsi secondo il processo psichico deh onirismo, facendo emergere dal fondo dell inconscio motti di spirito resi attraverso giochi intraverbali. Paronomasie, anagrammi, paragrammi, omofonie, allitterazioni, scomposizioni e ricomposizioni in ordini variati, per allentare gli schemi costruiti dalla logica, sprigionano un surplus libidico di energie conoscitive per la rottura degli abituali nessi consequenziali. Come risulta evidente leggendo alcuni dei testi contenuti nel catalogo, l istantaneità del motto di spirito, del lapsus, viene ricreata programmaticamente e rivolta verso chi è in grado, attraverso opportune chiavi interpretative, di coglierne i rimandi. La pratica «intraverbale» snoda un caleidoscopio lessicale, un «mosaico sapiente-delirante di tutte le circostanze della vita, incastrate le ime accano alle altre col mastice degli esclamativi, delle parentesi, dei due punti, che le mettono in prospettiva, le collocano su piani diversi»9. In questi casi, secondo Barilli «forse proprio per effetto della più sensibile materialità delle loro parti», Sanguineti «si sente autorizzato a discendere le scale dei livelli linguistici, affrontando la fisica delle particelle», offrendo esempi di due pratiche tra le più importanti della ricerca «intraverbale», ossia quella delle «serie omofoniche» e quella della scissione delle componenti della catena linguistica. La prima tipologia sfrutta le possibilità di variazione e permutazione delle singole lettere, delle sillabe e di gruppi di fonemi in oligogrammi e Beata présents, poliacrostici e altri testi à contrainte10, 9 R. B a r i l l i, Viaggio al termine della parola. La ricerca intraverbale, Milano, Feltrinelli, 1981, p Cfr. Aa.Vv., Oplepiana. Dizionario di Letteratura Potenziale, a cura di Raffaele Aragona, Bologna, Zanichelli, 2002.

22 dove il verso si apre con una parola che viene variata sistematicamente secondo la serie di permutazioni che permettono «corrispondenze» tra gli appartenenti alla stessa casella morfologica, come nel caso de\v Alfabeto apocalittico. Nella maggior parte dei testi «le prime lettere di ciascuna parola tematica, all inizio di ogni verso, concorrono a dare in acrostico il nome e il cognome del destinatario»11. Nei più antichi testi stimolati da un «operatore» visivo o musicale, Sanguineti applica invece l altra tipologia adatta a esprimere la materialità storica e sensibile del linguaggio, ossia quella della scissione «elettrolitica» delle componenti della catena linguistica tramite l interferenza dei segni d interpunzione incaricati «sia di scindere, sia di suggerire le giuste intonazioni per l esecuzione orale»12 (cfr. Pièce en forme de cube, dedicato a Enrico Baj, o Musica Humana, dedicato a Antonio Bueno). Attraverso la meccanica linguistica della descrizione, rimpinguata dalla ricchezza lessicale, Sanguineti sovrespone l oggettualità storica e materiale, fondata su un immanenza storica, del testo quale prodotto artigianale. 11 R. B a r i l l i, Viaggio al termine della parola cit., p Ibidem.

23 dall'intervista a E.Sanguineti, in Pretesti ecfrastici S c r ittu r a e d e s c r iz io n e Circa il rapporto tra poesia e pittura, scrittura e descrizione di opere d arte, conviene subito dire che la descrizione, l ecfrasi, è un genere antico non dico come la scrittura, ma quasi. Ecco, quanto a me, interessa invece di norma non tanto il descrivere, ma il prendere occasione da, a prezzo di sconvolgimenti fortissimi, di quello che è il materiale originario. Penso ad esempio al Mauritsuhis (agosto 1986) adesso nel Gatto lupesco: la cosa nacque su committenza, per la celebrazione della ristrutturazione del museo dell Aja. Allora si rivolsero a vari intellettuali, la maggior parte erano critici d arte, storici dell arte, artisti, e pochissimi letterati, chiedendo se volessero scrivere qualcosa. Allora decisi di scegliere sette quadri e di scrivere sette poesie, per l occasione. Alcuni dei testi sono abbastanza rispettosi dell originale, altri invece ci giocano sopra. La famosa veduta di Delft di Vermeer passa attraverso il Proust della Recherche. L ultimo testo invece è ima poesia rivolta alla figlia: evidentemente il fatto di rivolgersi alla figlia non è descrivere il quadro, nel caso specifico di Pieter Claesz, ma è utilizzarlo in vista di un pretesto personale. Ma ce n è uno per esempio, il sesto, che è un quadro mitologico, che finisce per trasfigurarsi in una specie di scena di erotismo orgiastico: l episodio mitologico diventa una scena completamente stravolta. La tecnica ecffastica l ho usata molto nel Gioco dell Oca, che è costruito per molti e molti capitoli con descrizioni, spesso abbastanza puntigliose, talvolta abbastanza pretestuose, di quadri che vanno da Bosch ai fumetti, dalla pubblicità a Rauschenberg, che ha vi una parte notevole. In questo senso è un romanzo pop, perché c è proprio quest idea di lavorare su dei materiali rifabbricati in qualche modo, di fare un collage; c è un capitolo, il quarantaquattro, in cui io parto proprio da un opera di Rauschemberg costruita, come io lo chiamavo, come un

24 monumentino («Mi faccio il mio monumentino, lì dentro la mia bara, un po per me e un po per mia moglie. È un monumento a due piani. Ci incollo tutto quello che posso, lì nel monumentino, al piano sopra e al piano sotto, delle cose mie. Ci incollo le vecchie lettere che ho, i biglietti del tram, le tessere scadute, i programmi dei concerti del Conservatorio, un certificato di cittadinanza italiana del 1954, un pettine con i denti rotti, il ritratto di Jakob Meyer di Hans Holbein il Giovane, un pezzo di carta a quadretti... Poi ci metto le mie scarpe da tennis usate, lì al piano di sotto. Sembra un portascarpe, così, il mio monumentino. Poi ci incollo qualche fotografia di mia moglie, lì, ancora...», N.d.c.). il punto di partenza è ima costruzione di Rauschenberg. Allo stesso modo, all inizio del libro c è la Sistina di Mario Ceroli, esposta alla Biennale, per cui io mi ritraggo rinchiuso, qual ero davvero, in questa bara/barca/tomba. Questo della descrizione, nel complesso delle mie opere, è un rapporto che oscilla da una sorta di iperbolica fedeltà, davvero propriamente descrittiva, nel pieno prolungarsi di una tradizione molto antica, a un arbitrio assoluto, prendendo il testo come pretesto, in senso etimologico, ossia viene prima di un testo, che poi se ne va per conto suo. Ma questa tecnica del pretesto comincia già, per esempio, quando io utilizzo Jung già in Laborintus, e poi nel Capriccio italiano, dove ci sono i capitoli che partono proprio da illustrazioni alchemiche, con delle citazioni anche di scritte, che sono contenute all interno delle incisioni che Jung riproduce in Psicologia e alchimia. Allora si gioca tra associazioni, e se uno lo sa, o lo riconosce, legge in un certo modo, se non lo sa se lo gode così com è, anche ignorando la fonte o l allusione. In genere cerco di fare in modo che il testo funzioni egualmente bene, che abbia una sua relativa autonomia. Nei miei testi ci sono dei riferiementi che il lettore, se conosce l opera del pittore, naturalmente, può comprendere meglio. [...]

25 E n r ic o Ba j e l 'A l f a b e t o a p o c a l i t t i c o L Alfabeto apocalittico è del 1982, quando Baj espone, per la rassegna Grandi quadri di Baj al Palazzo della Ragione di Mantova, la sua grande installazione Apocalisse e, per tale occasione, mi chiede di scrivere qualcosa. Nasce così l Alfabeto apocalittico: scrivo 21 ottave, ima per ogni lettera dell alfabeto, per la vernice della mostra per VApocalisse. Durante la vernice io avrei letto queste ottave, che lui fece stampare, d accordo con me, su foglietti di vari colori, simili ai pianeti della fortuna, quelli coi numeri del lotto. Alla mostra, io leggevo davanti a un tavolo, e dopo che avevo terminato di leggere un ottava, un mazzetto di queste lettere veniva buttato all aria, e i foglietti li raccoglievano, mi ricordo, in particolare dei fanciullini che facevano una cernita scrupolosissima, collezionando le lettere. E così si arrivò fino alla Z, e fu una specie di happening. Allora, all inizio, c era solo il testo dell ottava; poi lui ne fece una riedizione, e cominciò a dipingere i singoli capilettera, che poi vennero usati come proiezione, perché l Alfabeto apocalittico viene musicato da Stefano Scodanibbio che è un contrabbassista. Era il secondo lavoro che facevamo, io e Scodanibbio, il quale comincia a musicarne alcune ottave partendo dalla lettera Z e andando a ritroso, come bis che facevamo dopo

26 un altra composizione che lui aveva fatto su testi miei, Postkarten, usando delle poesie degli anni Settanta, rimettendone insieme dei pezzi. Quando finivamo, dopo gli applausi - la cosa durava una mezz oretta pressappoco - ci voleva qualcosa per il bis. E così, per l appunto, scegliemmo YAlfabeto e lui riprese tutto da capo, rimusicando tutte le ottave dell alfabeto. Una volta, a Erlangen, in Germania, quando Baj espose una grande quantità di cose sue, tra le quali la famosa Apocalisse, e noi eseguimmo VAlfabeto apocalittico, presente il Baj, che forse non lo aveva mai sentito prima. Allora decise di dipingere le 21 lettere, da proiettare in diapositive, e così si chiuse il circolo. Nati per un opera pittorica, anche se molto liberamente, perché ne\yapocalisse di alfabetico non c era nulla, i testi sono diventati musica, e ritornano adesso come elementi figurativi.

27 Erminio Risso, da: Laborintus di Edoardo Sanguineti. Testo e commento Lecce, Manni, 2006 [...] Il montaggio è Foperazione capitale dal momento che non si riduce ad una tecnica di taglio e incollatura ma è un modo di costruzione che permette di mettere al vaglio della critica ogni materiale, decidendo così le relazioni testuali nella (e della) composizione. Se per chiarire Foperazione metrica, costruita su una sequenza di porzioni definite di materiale verbale, di unità, era più appropriato ed efficace il paragone musicale, per rendere bene Fidea del montaggio e l assemblaggio di tessere, altro aspetto decisivo della costruzione e sua faccia speculare, ci viene in soccorso il mondo artistico, pittorico e visivo. Sequenza metrica e montaggio di tessere costituiscono quindi dimensioni strettamente correlate -non a caso vengono fotografati attraverso paralleli con le tecniche artistiche-; nello specifico Funiverso pittorico serve a fissare il metodo operativo, rimandando, soprattutto sul versante dell informale, al dripping di Pollock, all assemblaggio di Rauschenberg e al monocromo pluritonale di Klein. Su un altro versante, giocano un ruolo importante il neofigurativo di Baj e i ritratti di Bacon71; il deformato è la forma vera che emerge sotto la superficie del trucco. Questa serie di autori, o meglio di pratiche di realizzazione del manufatto artistico, ci permette di cogliere altre dimensioni del testo; il dripping di Pollock -le ultime interpretazioni del quale hanno rilevato un caos ordinato dal principio dei frattali- può rappresentare bene a livello visivo la capacità verbale di Sanguineti di gettare parole il cui esito ultimo è un caos strutturato e non casuale. Rauschenberg rimanda alla disponibilità verso l utilizzo di qualsiasi tipo di oggetto, ad associazioni e a relazioni davvero pericolose, per arrivare al punto in cui non solo l arte è finzione ma in cui un oggetto reale, cambiando

28 la sua funzione, muta natura (ad esempio, Bed, un letto vero, trattato e messo verticalmente, diventa un'installazione, si traveste ). In Rauschenberg e in Sanguineti vi sono sia l'atteggiamento di disponibilità verso il reale sia l'estrema coscienza operativa del piano dell arte, della sua dimensione sociale, della centralità dell'uso; questa identità, non solo formale, comporta una corrispondenza quasi perfetta nel trattare e nel combinare le immagini, dal particolare privato allo spazio urbano, trattamenti e combinazioni che producono un mondo sociale travestito e così svelato72. Come Klein, anche Sanguineti riesce, all interno di una sorta di linguaggio compatto, a esprimere chiaroscuri e pluritonalità. Del resto, quello che Sanguineti scriveva del blu di Klein - s'intende, non è più un colore alla Balzac, ma è mediato, per forza, consapevolmente o no, da strideurs étranges' e da silences, come P Omega' di Rimbaud 73-, mettendo l'accento sul consapevole, vale per Sanguineti stesso e per il suo trattamento dei materiali, al di fuori di ogni logica di plurilinguismo o monolinguismo, così efficace per gli autori dei secoli passati, quanto, talvolta, inefficace per il Novecento e le avanguardie (poiché questa logica rischia di dare conto solo dei dialettismi o degli esotismi). Bacon e Baj -con Baj ci fu anche un'intensa collaborazione, oltreché un amicizia lunghissima- sono i maestri di una rappresentazione deformata dell'uomo, in grado di vedere e di rappresentare non solo ciò che appare, fisicamente, ma il suo vero stato di alienato e manipolato nella società contemporanea: anche in Sanguineti è presente, ugualmente, una sorta di corpo grottesco (che va da Bosch a Baj). E non è senza importanza neppure il tema comune dell'era atomica e l'attenzione e (per alcuni versi) anche l adesione di Sanguineti al Nuclearismo74. L'iperveloce, l'estremamente rallentato e l'asintassia radicale fanno di Laborintus, all'interno del gioco sociale di scrittura per cui ogni nuovo atto linguistico si ripercuote sui pregressi e sui futuri (diminuendone o moltiplicandone, chiarificandone o deturpandone i significati), un opera che, da un lato, si ritrova a raccogliere l'eredità del discorso sintattico di Apollinaire, sviluppando e sfruttando la distruzione del linguaggio inteso come discorso piano e logico (seguendo vie alternative ma parallele a quelle di Beckett), e, dall'altro, anticipa il cinema underground americano (il cinema iper rallentato di Warhol o di Morrisey). Se il montaggio (e quindi il cinema) è l'invenzione estetica del Novecento, l'estrema concentrazione delle immagini laborintiche e la loro velocità di sequenza sono due tecniche che, su un altro piano, verranno sfruttate all'estremo dall'odierno videoclip: e quindi ritroviamo in Laborintus la capacità di rileggere il passato per aprire al futuro, rendendo alcune tecniche più coscienti e chiare a se stesse e a chi le usa. [...] [...]

29 Edoardo Sanguineti Poesia informale? [1961] Non sono stato io a escogitare la nozione che qui si propone, nel titolo, dubitosamente: è accaduto, al contrario, che essa sia stata proposta, nei confronti del mio Opus metricum, da parti diverse e con diversa intenzione. Vivaldi, per esempio, ha scritto della mia opera come di un «collage filologico», automatico nella applicazione dei vocaboli e dei toni stilistici, con esiti da «action-poetry, se ci si consente di parlare di poesia con termini mutuati dalla critica d arte»; e ha aggiunto: «andando oltre il facile e troppo comodo schema di sperimentalismo, per l opera sin qui compiuta da Sanguineti la definizione più calzante mi sembrerebbe proprio quella di action-poetry, poesia d azione; poesia cioè che trova i suoi motivi e le sue giustificazioni nel suo farsi, nel lasciar capire al lettore i processi e le operazioni cui il poeta scrivendo ha fatto ricorso, e quindi implicitamente criticandoli». Per contro, Leonetti ha scritto in una sua analisi semantica, per limitare il suo consenso al carattere «utile e vivo» della mia direzione di lavoro rappresentata dagli Erotopaegnia, che tale consenso diviene subito dubbioso considerando il mio «precedente carico» (leggi il Laborintus), che mi «si autentica ora come informale : è difficile, - aggiunge Leonetti - che lo lasci perdere». Ebbene, le due posizioni segnano già, oggettivamente, i limiti estremi dell orizzonte problematico, che va appunto dalle preoccupazioni del primo critico, per un sospettato tradimento in corso, da parte mia, della poetica dt\eactionpoetry, alle preoccupazioni del secondo per un mio improbabile sradicamento definitivo da tale posizione di gusto (o da posizione estremamente affine: e qui chiedo scusa a chi legge se termini come informale e pittura d'azione e espressionismo astratto saranno usati qui, non dirò confusi tra loro, ma come «sospesi»; e sono e devono di fatto essere «sospesi», in confronto all impiego tecnicamente proprio di cui sono ovviamente passibili in sede rigorosa di critica d arte). Non discuterò qui il problema metodologico che la nozione, per se stessa, viene naturalmente a proporre in generale. Dirò soltanto che se, componendo il Laborintus, si stabilivano da parte mia riferimenti intenzionali a talune situazioni tecnicoespressive di altre arti (della musica, intendo dire, non meno che della pittura), e segnatamente alla situazione rappresentata dall espressionismo astratto, ciò era dovuto, se altre motivazioni non vi fossero state, anche semplicemente al fatto che, presso gli esemplari poetici contemporanei, in quegli anni , un riferimento era assai meno agevole a stabilirsi. Una crisi di linguaggio, quale io intendevo stabilire e patire nei miei versi, trovava conforto e analogia in affini esperimenti pittorici (e musicali), assai più che in esperimenti di ordine letterario: il privato richiamo ad altre situazioni artistiche era un modo di rompere, in solitudine, la solitudine stessa di poetica in cui mi trovavo praticamente gettato. E quanto alla crisi di linguaggio stabilita e patita, mi aiuta proprio quella battuta di Zanzotto, per cui si giudicava degno di punizione il mio Laborintus, qualora non fosse «sincera trascrizione di un esaurimento nervoso». Posso rispondere che effettivamente il Laborintus si salvava nell angolo indicato, ma con una non piccola correzione: e cioè che il cosiddetto «esaurimento nervoso» che io tentavo di trascrivere sinceramente era poi un oggettivo «esaurimento» storico. Con una buona dose di tracotan

30 za, potrei allora servirmi, e senza alcuna correzione adesso, delle memorabili parole di Tristano: Ora ho cambiata opinione. Ma quando scrissi cotesto libro, io aveva quella pazzia in capo, come vi dico. E n era tanto persuaso, che tutt altro mi sarei aspettato, fuorché sentirmi volgere in dubbio le osservazioni ch io faceva in quel proposito, parendomi che la coscienza d ogni lettore dovesse rendere prontissima testimonianza a ciascuna di esse. Solo immaginai che nascesse disputa dell utilità o del danno di tali osservazioni, ma non mai della verità: anzi mi credetti che le mie voci lamentevoli, per essere i mali comuni, sarebbero ripetute in cuore da ognuno che le ascoltasse. Perché quando nel Laborintus si parla, con preciso rigore, di «alienazione», si sommano insieme l ovvio significato clinico (che è ^esaurim ento» appunto, ad arte esasperato e provocantemente sottolineato), e quello, diversamente tecnico, di «Verfremdung», comprendente a sua volta sia il valore sociologicamente diagnostico del concetto marxista («Veràusserung»), sia quello derivatamente estetico («straniamento») di marca brechtiana (mirabilmente poi ripreso, a non dire di altri, da Adorno). La crisi di linguaggio, come crisi critica (come critica del linguaggio, insomma), intendeva esprimere, nell intenzione di poetica (né tocca a me, ovviamente, discutere il risultato), uno stato «oggettivo» di alienazione, che, in quanto partecipato direttamente, e, per 1 appunto, sinceramente, si metamorfosava intanto, lungi dall essere rimosso, in senso «soggettivo», come «esaurimento», offrendo le più ricche possibilità di rispecchiamento. Lo straniamento si voleva e, credo, si doveva sperimentare, in primo luogo come straniamento, non dalla poesia (anche se questo era, evidentemente, il rischio necessario da affrontarsi: ma è un rischio comune a ben altre, e ben più cautamente fondate, posizioni di poetica), ma da una poesia, storicamente concreta, da una poetica letteraria, da una idea della lirica. Una poesia autre doveva documentare e rispecchiare, presentandosi, nella cronaca polemica, come un diverso dalla poesia assolutamente intesa, lo straniamento posto in re, a parte subjecti e a parte objecti, nella dialettica storica. Quegli effetti sovrastrutturali che la crisi di un linguaggio dato dimostrava nelle altre arti, sotto la specie di una crisi del linguaggio, erano per me da ritrovarsi nei confronti di un linguaggio poetico (o meglio di una pluralità di linguaggi storicamente offerti), nella speranza, come mi avvenne di dichiarare altra volta, di «fare dell avanguardia un arte da museo»: con un espressione, devo concederlo, assai più suggestiva che perspicua. Si trattava per me di superare il formalismo e l irrazionalismo dell avanguardia (e infine la stessa avanguardia, nelle sue implicazioni ideologiche), non per mezzo di una rimozione, ma a partire dal formalismo e dall irrazionalismo stesso, esasperandone le contraddizioni sino a un limite praticamente insuperabile, rovesciandone il senso, agendo sopra gli stessi postulati di tipo anarchico, ma portandoli a un grado di storica coscienza eversiva. Il Laborintus era insomma la descrizione di uno straniamento sofferto con la coscienza dello straniamento, e anzi di uno straniamento inoculato volutamente, se possibile, in dose particolarmente massiccia, a scopo analitico-sperimentale: patetico e patologico erano termini che agivano in stretta congiunzione tra loro e con una coscienza, che, a non dire altro, conosceva, del pateti

31 co e del patologico, la congiunzione etimologica. E parlo di etimo storico, e non di semplice etimo filologico: parlo nel senso radicale (strutturale) del materialismo storico. E allora mi sembra chiaro: perché oggi si può cominciare a vedere che, negli anni 50, chi voleva gettarsi con felice ottimismo su un terreno «costruttivo», rifiutando le vie dell informale, d action-poetry (o, come è più esatto dire, anche per non perdere la meravigliosa «junctura», dell espressionismo astratto), doveva pure scambiare (è accaduto, è accaduto) per soluzione «progressiva» la regressione verso il decadentismo, scavalcando à rebours il terreno «franco» dell avanguardia europea. Come se il vero problema, in termini di aperta dialettica storica, non rosse quello che era in realtà, di attraversare l avanguardia, ma di rifuggirne più addietro, precipitando in quel formalismo acritico per cui si veniva intanto manifestando il più virtuoso orrore verbale (e questo avveniva tanto più dolorosamente, in quanto tale formalismo era patito inconsciamente), per ritrovarsi poi, alla fine del bel viaggio, a riurtare comunque nell inevitabile scoglio dell irrazionalismo. Fare dell avanguardia un arte da museo voleva dire, invece (allo stato, s intende, di poetica intenzionale, ché qui di questo si parla, come si deve), riconoscere l errore della regressione, significava gettare se stessi, subito, e a testa prima, nel labirinto del formalismo e dell irrazionalismo, nella Palus Putredinis, precisamente, dell anarchismo e dell alienazione, con la speranza, che mi ostino a non ritenere illusoria, di uscirne poi veramente, attraversato il tutto, con le mani sporche, ma con il fango, anche, lasciato davvero alle spalle. Per questo la poetica stretta dell informale era naturalmente destinata ad essere tradita, al di là del Laborintus, ma sulle mani sporche permangono, e certo permarranno, le buone macchie di melma. E non si tratta soltanto del margine insuperabile di alienazione che ci resta da patire (che non si può sperare, idealisticamente, di poter eludere per le nobili vie della ragione). E questo, ma è qualcosa di più. È coscienza del fatto che non esiste un patetico puro, ma soltanto un patetico patologicamente straniato, per noi, qui, oggi: che non è possibile essere innocenti: che la forma non si pone, in nessun caso, che a partire, per noi, dall informe, e in questo informe orizzonte che, ci piaccia o non ci piaccia, è il nostro.

32 Edoardo Sanguineti da: Per una nuova figurazione in "il verri", 1963 (3) [...] Quando Queneau, presentando Baj, scriveva: "Ce sont des secrets que Baj indique: comme tout peintre, il désigne, il ne révèle pas"; certamente egli aderiva a quell'equilibrio tra "le sérieux et l'amusement" cui bene partecipano in effetti, per indole, lo scrittore e il pittore, ma coglieva anche, oltre le proprie Intenzioni, quel "designare" che è, in ultima analisi, il carattere profondo della nuova figurazione, la quale procede, al di fuori di ogni possibile nostalgia naturalistica,' precisamente, "per,_s gni." Ad oghi modo, chi giungeva alle sale di Baj dopo aver attraversato tutta l esposizione, poteva dire di aver percorso, in un certo senso, c se non altro in allegoria, gran parte della preistoria (e si vorrebbe dire della prefigurazione) di quella figurazione nucleare che è, e sia detto infine con tutta chiarezza, la nostra nuova figurazione, assolutamente parlando. Il visitatore lasciava cosi alle proprie spalle, con le voci ultime del grande tumulto di "Cobra," gli esperimenti grondanti di ogni possibile compiaciuto pittoricismo, che stavano come eloquenti simboli dell inquieto cammino deirarte occidentale più recente, un cammino spalancato sopra gli esiti più contrastanti, e bloccato proprio nella sua stessa inquietudine. Le tavole di Baj, con I loro pezzi di meccano e di legno, "matériaux déjà usés par la vie" o nitidi e freddi documenti deirindustria ludica, scavalcavano veramente tutta la decla-

33 mozione, elegante e angosciosa, delle estreme proposte europee, rivelando finalmente, in quel limbo di implacabili colori infantili, il segreto "segnico" riscoperto alle sue naturali radici: in quel registro, appunto infantile, intorno a cui ruota da sempre, con implacabile e premiata fedeltà, l'immaginazione di Baj. Un registro, si avverta subito, che per la prima volta non appare giocato in chiave primitiva, edenica, innocente, ma puramente e immediatamente alfabetica: non si tratta di puntare ancora una volta sopra il mito delle origini perdute, contro la storia e le sue Colpe, ma di riprendere in mano, con la più matura energia, gii strumenti lessicali che fondano ogni possibile terreno iconico, per ritornare a costituire, nella piena luce della storia, e contro tutte le scritture falsificate, i grafici autentici di una vera e consapevole designazione: non si tratta, insomma, di deformare il veduto nel senso dell'incontaminato, ma di informare di significati l'abbecedario ottico delle cose che si offrono, degli oggetti del vissuto. [...]

34 E. Sanguineti, da Ecfrasi ( ) J[b edendo * to B. 1. ero il cappello (del cappellaio cappellano, in amore), del prestigiatore [prestidigitatore: (ero la coppa (e anche la maschera) del maschio in coppia): ero la torre (la torta) dei tarocchi: (la tana delle tortore: una trama tremante sopra un tetto): ero un [perfetto insetto: (una torma di tarme): ero il tuo trono (il tuo treno): (ero il tuo seno): sono una testa della terra (abitabile abile): e ti guardo con questi miei occhi [barocchi che ti bruciano: ti vedo con la fronte che si spezza, con le labbra che si [slabbrano (con la lepre, la lebbra): (con la mia lisca e la mia cresta): sono una testa antropomorfa, forma del fermo cerchio fatto circo (circa): [ti cerco: (e sono il seno): 3. sarò la porta aperta che si perde (nel giro della bocca che si becca): (e che ti tocca): faro di vena vera (e vera sfera che spera): e favo (e fiato soffiato fragolaio): la culla della colla della cellula (che dondola): tuo velo (e cielo): sarò il tuo piatto catafratto (affatto contraffatto): (casa è cosa, nel caso, dove si mangia): (utero d'uso): (corno d ariete, lancia): (e plancia): (e pancia): sarò il tuo dente incontinente (il tuo sogno, il tuo segno): (e sarò un seno): * Enrico Baj

35 Le petit tombeau per Guido Biasi 1. quel entourage? in un cielo segato, nuvole: (sono dieci le sezioni rettangolari e mentali): stazioni di passioni: il paesaggio è piastrellato a perdifiato, sfocato: (è ingolfato caramellato: è spaccato): visioni di revisioni (con retrospezioni, con previsioni): (ma mort où?): (datato SO): è il giusto giuoco (ma mort quand?) del mondo: (e manca un cielo, a questo cielo, dove salvarti in un salto): poi dico: tra filigrane e modelli (flamand?) e palinsesti (par qui?), viene un velo di vetro: (e ti vernicia, e ti fa antico): 2. non vedo bene la testa: ma vedo che una mano di biacca, che è più morta di una natura morta (e più contorta), mi ha cancellato la memoria: (e credo che il naso secco di un busto, l albedo di una sagoma acefala, la corta quadrettatura di una vuota porta, Napoleone a Ercolano, uno spiedo da necromorfa medusa, un Apollo per polaroid, un progetto ecologico (iconologico e logico), sono

36 semi di segni, e sono sogni): (un crollo è il taglio di un ritaglio teleologico): poi vedo il prisma, il punto, il rombo, il cono 3. gli occhi desertizzati (urbanizzati nei reliquiari orografici e organici) dormono qui, tra i fantasmi meccanici dei lotti lottizzati, gonfi, a strati: gli occhi macchiati (archetipi scavati in faccia ai feti fragili e botanici) fertilizzano i fanghi ai funghi cranici, succhiano in serre i venti mandorlati: gli occhi barocchi, che mi hanno guardato, sono le mie rovine rassegnate, marmi di melma, i miei mosaici veri: gli occhi in rivolta, che mi hanno sognato, sono gli uteri, i laghi, le colate di nodi e nastri, i nostri cuori neri:

37 Come nascono le mie poesie Toti Scialoja in "il verri", dicembre 1988 Certe mattine mi sveglio con una grande voglia di poesia, ovvero con una grande, una smaniosa simpatia per le parole, quasi che le parole fossero spiragli di luce, luoghi aerei della speranza. In quei momenti si direbbe che nelle parole si trovi la soluzione del male e del dolce di vivere le parole si assumono 1 enigma dolente. La parola è parola di poesia se acquista un immediata smemoratezza: smemoratezza di senso. Perché ogni parola in poesia si riappropria del suo originario enigma, fondato su una qualità fonico sillabica. Ecco allora come può nascere una mia poesia: prendiamo la parola «zanzara». Quella voglia di cui ho detto mi fa compiere alcune azioni su questa parola. La prima è la più semplice, sillabarla: zanza-ra. La parola si disfa, mi sfugge. La sillabo diversamente, mangiandomi la coda. Zanza-zara. Le cose vanno meglio. Zanza non vuol dire niente, ma Zara sì. Zanza, d altronde, somiglia moltissimo a zonzo. (Per il Tommaseo la voce zonzo deriverebbe proprio dal ronzio delle zanzare che vanno a spasso). E naturale, quindi, che la zanzara vada a zonzo per Zara. Ma perché la piccola Zara sull Adriatico e non la più zanzarosa Zanzibar sull Oceano Indiano? Andando sempre a zonzo si diventa zuzzerelloni e si finisce in un bar. Una rapida adulterazione di vocali trasforma la zanzara in zenzero, ottimo rimedio contro la nausea alcoolica. La poesia è completata: Una zanzara di Zanzibar Andava a zonzo, entrò in un bar, «Zuzzerellona!» le disse un tal «mastica zenzero se hai mal di mar.» Si tratta di una poesia che ho scritto vent anni fa. Ma allora la grande domanda: la poesia è un gioco? Un gioco che si fa a freddo, un gioco di combinazioni, quasi una scommessa matematica? Si potrebbe rispondere soltanto se sapessimo cos è un gioco, cosa una scommessa e fare le cose a freddo.

38 Tutto è gioco e non gioco: basta intendersi su questi argomenti. Al di là della domanda c è qualcosa da non dimenticare, ed è il suono delle parole. Di questo suono pensante, afferrabile e inafferrabile, è costituita la poesia. Non sono il solo a credere che la parola della poesia sia la parola detta, il significante, in termine linguistici. La parola detta, non la parola scritta, è parola della poesia. Sono portato a considerare la parola scritta quasi un artificio mnemonico, una convenzione meccanica, che alla poesia non aggiunge nulla. Poi penso a tanta visività della poesia scritta, dai Codici miniati al Coup de Dés di Mallarmé, che si vale di accorgimenti tipografici e si colloca nello spazio della pagina bianca come una sorta di architettura; penso alle esperienze della poesia visiva. Come è possibile che tale poesia esista soltanto nel dire, e non nell essere vista? E possibile che poesia detta e poesia scritta abbiano diversi destini. Incrociati? Divergenti? Non so. Si può addirittura parlare di un altra arte? Ad esempio nel teatro il testo vale nei due sensi, in quanto poesia scritta e in quanto pretesto per un apparizione sulla scena: abbiamo due arti diverse, poesia e teatro. Sulla pagina la parola di Shakespeare vale come poesia scritta, e viene pronunciata mentalmente, in silenzio, da chi legge. Quando i suoi versi vengono messi in bocca agli attori, corpi viventi, gesti viventi sul palcoscenico, nel qui e qell ora dello spettacolo, abbiamo un altro piano di poesia, un diverso significare, che è il teatro, un altra arte, con altre leggi. Che ci siano due poesie, l una scritta e l altra detta, è pensabile? E pensabile, ma è argomento mostruoso, il facsimile di una chimera. Io credo che la poesia nasca per essere detta. Se non arriva ad essere pronunciata dalla voce resta in un campo di scrittura, come la musica che ha una sua fase di realtà nel pentagramma, con i suoi intervalli, le sue crome, ma esiste soltanto quando tu la percepisci con l orecchio. Alle origini la poesia si confondeva con il canto, era accompagnata da strumenti, proprio per arricchirne la sonorità, esaltare il momento della dizione nella sua fisicità; dando valore alla sillabazione coinvolgente il corpo dell uomo, le corde vocali, i denti, la lingua, le labbra, la gola, nell atto significante di emet

39 tere suoni. Quindi poesia come musica. Ma che tipo di musica? Non certo musica strumentale. Direi piuttosto musica concettuale. Se è vero che la parola è nata come grido animale, grido del dolore, dell amore, della paura o della gioia, si tratta in realtà di un atto concettuale, perché tale grido intendeva affermare uno stato psichico, una connotazione fisica. Sono ferito a morte, urlo. Sono innamorato, lancio il mio richiamo d amore. C è quindi un elemento conoscitivo che il suono rivela, cui la parola si sottomette. La parola indica. E però, esaltata come suono in poesia, indica qualcosa che non sempre coincide con il dato iniziale. In un verso una parola che indica orrore può suonare incantevole. Non mi riferisco soltanto alla lacaniana rete dei significanti, bensò alla complicazione sillabica, per cui il suono non coincide con la parola come una mano con il guanto, ma contiene una quiddità di senso che appartiene alla sillabazione stessa, che si sparpaglia nelle sillabe, che si mimetizza nelle sillabe. Come a volte un nome udito per caso, cui non abbiamo prestato alcuna attenzione ci fa sognare quella persona tutta la notte, così nelle sillabe di una parola vi sono nozioni, suggerimenti, allusioni che sfuggono al nostro io cosciente, ma che oscuramente operano, creando risvegli e apparizioni. Una sorta di inconscio linguistico. O meglio direi che in poesia le sillabe aprono alla parola uno spazio nella coscienza, ponendosi come quantità sonore. Poesia sarà allora organizzazione sillabica che instaura un luogo, labirinto, giardino, paradiso inferno, se volete. Ho cominciato a scrivere poesia verso i dieci anni. Erano strofette comico grottesche, per lo più concentrate sugli animali. Sono stato pascoliano, crepuscolare, a diciott anni ero innamorato di Ungaretti, a venti fui ipnotizzato da Mallarmé. Ipnosi equivale a paralisi. Vissi quell esperienza come un fallimento interiore, pensavo che la poesia non fosse per me. Mallarmé mi proponeva un astrazione mentale, quasi una distillazione, conseguenza di un io essiccato, di una macerazione profonda dell animo, cui mi sentivo inadeguato. Quella forma di assolutezza corrusca la sibillina sintesi mallarmeana - non poteva che sgomen

40 tare la mia sensualità che era intrisa del riso delle cose. In realtà non feci che fraintendere Mallarmé, perché non sapevo ancora nulla della parola in poesia. Anche se sono un pittore, non ho mai smesso di scrivere: saggi, prose liriche, strofette dedicate alle persone care. Fu a Parigi, nel 61, che tornai a far versi, di poco più esperti delle poesie con animali che scrivevo da bambino. La mia prima raccolta, Amato Topino caro, è dedicata ai miei nipoti. Scrivere per l infanzia fu un modo di riavvicinarsi al gioco della poesia: lasciarsi guidare dalla parola. Ho parlato della parola «zanzara»; su questa parola che mi è cara ho scritto molte poesie. Zanzara è parola fragile, incorporea, attraversata dalla luce. Perché le parole hanno densità, colori, nervature: sono figure in loro stesse. In effetti, la parola zanzara somiglia all insetto cui fa allusione e con cui convive nella nostra mente, o meglio è l insetto che somiglia a questa bella parola. La parola è certo più straziante ed enigmatica di quel tormentino da nulla che ronzando ci teneva desti nelle notti d estate della nostra infanzia. Ho detto infanzia: ecco come la parola è concettuale, in quanto vale sempre come rimando, se pure non al proprio convenuto significato. Persino le sillabe rientrano in una sfera concettuale, sono sfaccettature di sensi, particelle baluginanti, catarifrangenti, magnetizzate dalle loro possibili aggregazioni. Può darsi che le mie poesie sulle zanzare rimandino al paese dell infanzia. Celino una condizione psichica e mentale cui non avrei potuto accedere diversamente. Dovevo raggiungerla aggirandola, accettandone l oscurità, se intendevo nominarla. Non si abita un paese, si abita una lingua, è stato detto. Il mio vero paese, la mia patria, la mia vera lingua, si trovano nell infanzia delle parole. Non parlo della sfera del fanciullino, dell infanzia come innocenza, psicologia vergine, sentimento non contaminato. Piuttosto di infanzia infera, infernale regno di apparizioni. Terrificante durata, incalcolata permanenza: il bambino vuole crescere, abbandonare l infanzia. Infanzia sfrontata, sfrontata esistenza. Sfrontata perché aliena di morte, sfrontata di morte. Infanzia senza morte, senza coscienza della morte. Ora

41 la parola della poesia ha per me questa presenza assente: il suo referente è ogni volta scavato nell assenza. Non potrei mai scrivere poesie di memoria. Giacché non è nell epifania esistenziale che si formula la parola: al contrario è la parola che accende l epifania almeno per quanto ne posso essere consapevole. L infanzia della parola è luogo mitico dove il tempo è infinito e lo spazio immisurabile: luogo in certo modo frenetico, vibrante di una gioia oscura, perché ancora tutto da scoprire. Ritrovare nella poesia l infanzia della parola è come affacciarsi a una foresta vergine, infinita di fruscii, che sono anche allarmanti, sterminati, ma mossi dalla gioia di un incipit, dell immortalità dell inizio. Ciò che io chiamo infanzia è in realtà una situazione psichica: momenti frazioni di secondo in cui ci si ritrova immersi in una spazialità e temporalità che precedono la coscienza dell Io situazione infantile della coscienza. Uno stato del mio corpo, della mia corporeità, un torpore, un girarsi sul fianco, un lampo di luce sugli occhi, minime percezioni fisiche mi precipitano in situazioni spazio temporali aliene: sono in riva al mare, su un terrazzo, rintanato in una capannuccia comunque in un altrove. Non è il tempo ritrovato di Proust, giacché non la.memoria si apre ma un anonimo stato dell essere. Lo spazio tempo che io chiamo infanzia lo percepisco come sapore intensissimo, colore intensissimo, delirante, una trafittura di gioia. In quella stilla di vita si riattinge all eternità di tempo e spazio che è propria dell infanzia. Si vivono una gioia e uno spasimo assolutamente anonimi come un piovasco improvviso o un lampo di sole tra una nuvola e l altra. Forse né gioia né spasimo, ma una dimensione che si apre sul sentimento dell essere, dell ineffabile: quell ineffabile cui Dante ha dato poesia nel Paradiso. Ora io credo che la parola della poesia si ponga in questa spazialità e temporalità di origine: la sua sonorità è frusciarne, un brusio che contiene la possibilità di ogni suono: è sonorità germinante, gremita di virtualità come un grido o gemito o canto. Mi si chiede sovente se c è rapporto fra la mia poesia e

42 la mia pittura. È possibile che l esperienza della pittura mi abbia permesso questo abbandono alla parola, fede nella parola, nel suono, indispensabili per fare poesia. La mia pittura nasce all interno delle potenzialità del colore e della pennellata, da un agire nell ignoto, giacché non vi è un immagine che precede il quadro. Così non esistono né una problematica né un racconto che precedano la poesia: la poesia si costituisce all interno della pregnanza della parola. Può trattarsi di parola che mi è cara, come appunto «zanzara», per oscuri rinvìi, ma anche di innamoramento occasionale, inatteso, e tanto più inspiegabile. Qualche anno fa sulla pagina sportiva di non so più quale giornale lessi un ricordo del giro di Francia degli anni quaranta o cinquanta. Si parlava di un Federico Bahamontes, chiamato l aquila di Toledo. Una frase m incantò: «che in salita ne ha fatti piangere tanti». Un altro corridore citato era Anglade, e poi Rivière che presso Avignon uscì di curva fratturandosi la spina dorsale in uno strapiombo. Il nome di Federico Bahamontes creò subito una eco interna, uno spazio di montagne, con il picco dell aquila. Anglade, che lo inseguiva invano, portava nel suo nome la sonorità di aquilotto (francese: aiglon). L aquila minore insegue la maggiore. Rivière invece come una riviera andava verso la pianura. Riviera: rovina; infatti precipita nel burrone. Rivière conteneva la sua rovina* nel nome, e anche la eco della parola «larva». E una larva mentre rovina; intanto Bahamontes va sui monti come un aquila, inseguito da Anglade. Tutto questo rincorrersi di parole l ho fatto diventare i settenari di La Grande Boucle, una poesia uscita di recente in Tre lievi levrieri. Federico Bahamontes l aquila di Toledo in salita ne ha fatti piangere tanti - Anglade tra gli altri. Ma è una larva Rivière nella discesa verso Avignone e in curva rovina nel burrone.

43 Ci sono poesie che nascono da versi amati: Notizie di sospiri ha preso spunto da Cavalcanti. Nelle mirabili pagine di Leopardi, Ricordi d'infanzia e di adolescenza, ho trovato ben tre poesie. Una è la semplice trascrizione di questo rapido ricordo: «... intanto la figlia del cocchiere alzandosi da cena e affacciatasi alla finestra per lavare un piattello nel tornare dice a quei dentro stanotte piove da vero. Se vedeste che tempo. Nero come un cappello e poco dopo sparisce il lume di quella finestra...» Qui c era già quasi tutto, i versi, le rime. Ecco la mia poesia, pubblicata in La mela di Amleto: La cerea ragazzetta alzandosi da cena si affaccia alla finestra e lava un suo piattello. Dice: «Stanotte piove davvero» a quelli dentro. «Se vedeste che tempo. Nero come un cappello.» U n altra riguarda sempre la figlia del cocchiere, che aveva la casa davanti al palazzo Leopardi, sulla piazzetta. Scrive Leopardi: «... nella vista di un bellissimo tempo da primavera passeggiando, nel finire di un di questi passeggi grida delle figlie del cocchiere per la m adre...» Queste grida, che mi avevano ferito, le ho collocate in una sempre leopardiana - notte di luna. Ho chiamato col suo nome Teresa, che avevo udito gridare con le sorelle. Ho usato la parola lagrime, al modo ottocentesco. Queste lagrime traversano il volto di Teresa, dato che il «traversano» contiene l anagramma del nome. E c co la poesia: Le grida delle figlie del cocchiere di notte per la madre le briglie appese a quella porta. E Teresa? Che lagrime le traversano il volto? La luna accende negri ragnateli nell orto.

44 Una poesia che considero contenuta in un unica parola è Lungo il torrente. La parola è «argine». L argine è d argilla, l argilla diventa ocra chiara. L argine risveglia la conseguente vertigine. In questo contesto semantico il cane ha le unghie che affondano nell argilla e ringhia e le farfalle sono furiose (ar - far - fur). Lungo il torrente l argine è d argilla ocra chiara tra fragore e vertigine odio chi ci separa. L unghia del cane affonda mentre ringhia e non morde farfalle vanno in tondo furiose della morte. Ho detto che ho cominciato a scrivere poesie dedicandole ai bambini. Avevo alle spalle non solo i nonsense di Carroll e di Lear ma un gusto mai cessato per la filastrocca, per il gioco verbale, l allitterazione, l anagramma, tutto un senso ludico della parola che risaliva agli ottonari del Corriere dei Piccoli, alle poesie satiriche e burlesche di Giusti e anche ad un delizioso libro per l infanzia di Fucini, Il ciuco di Melesecche. Fu Calvino, l indimenticabile Italo Calvino, a parlare di me, nella quarta di copertina di Una Vespa! Che spavento, come del primo vero esempio italiano di poesia nonsense, nella tradizione di Lear e Carroll. Ora cos è in realtà il nonsense? Né le stravaganze del Burchiello, né più tardi Lorenzo Lippi e Ludovico Leporeo coi loro bisticci allitterativi possono essere fatti rientrare nella sfera del nonsense. Il nonsense è una sorta di logica altra, che procede verso l assurdo, una cancellazione del dato cognito. Questa logica si affida ad un idea allucinatoria del linguaggio. Per questo il nonsense, come Shakespeare ci prova, non appartiene solo al genere comico, ma anche a quello tragico. E più vicino a un gesto mistico, diciamo a un gesto ridotto a tic mistico, piuttosto che alla categoria dello sberleffo o della freddura. Chi interpreta la poesia nonsense come balordaggine, buffoneria, accozzaglia di termini eterogenei va fuori strada. Il nonsense non è solo l illogico o l insensato. Legato strut

45 turalmente all infanzia della parola rispecchia una assenza che si riferisce al mondo adulto. Freud vede nel nonsense una riaffermazione dell invulnerabilità dell io. Il nonsense è la fede, dichiara Chesterton. Certo il nonsense è ilare perché evoca il traslucido, il rarefatto. La visionarietà è esilarante. E però il nonsense mette la parola alla prova del ntflla, a confronto con il proprio mentito significato, per ansia forse di nominare una zona subliminale del pensiero. Leopardi dice che dietro a ogni apparenza, se la si contempla in certe condizioni, se ne scopre un altra, cui la presente allude. A me sembra che la poesia nonsense si fondi sulla cancellazione dell apparenza che arriva per prima. Il senso del nonsense è senso non dischiuso: senso di enigma. Così il nonsense si apparenta al mito. Il mito si riferisce ad una fondazione e formula sensi originari che alla percezione convenzionale rimangono occulti. Il mito attenta all imperscrutabile, esattamente come il nonsense. Credo che i misteri iniziatici fossero costellati di riti e prove assolutamente nonsensici. M ito e nonsense rimangono tali anche quando i loro significati o allusioni vengono chiariti sotto il profilo logico. Perché l enigma non consiste nell ignorare cosa c è dietro, cosa c è sotto. L enigma è la sostanza intrinseca della forma. La parola della poesia perde la sua funzione specifica di connotazione e diviene artificio, diviene innaturale, per sempre imprevedibile. Nel mito, nel nonsense, il valore apparitivo, la tensione della parola non sfumano a soluzione trovata, come accade per le figure di un rebus incontrato su un foglio di enigmistica. Nella parola della poesia l enigma permane inalterato, per cui nessuna poesia è riducibile a una versione in prosa, né coincide con il più penetrante commento. Non necessariamente il nonsense è l assurdo. Vi è nell assurdo una sorta di ferocia, una terribilità. Le parole del nonsense sono quelle dell «apriti Sesamo». Un alone puramente fonemico le circonda di echi, riscontri, gravitazioni. La filastrocca è come una fiera, un carillon, una giostra di cavallini. Le poesie di Lear lette da bambino nel- VEnciclopedia dei ragazzi evocavano per me un mondo mi

46 croscopico, di insetti frenetici, un mondo senza ossigeno, come in vitro, frequentato da ometti-uccellini, con le ali ripiegate dietro le scapole, che saltellavano privi di peso per strani prati di pungitopo. Era tutta una percezione di trafitture e punture che mi affascinava e mi inquietava. Da un pezzo non scrivo più filastrocche, né poesie per l infanzia. Mi rimane l innamoramento per la parola spoglia, per il modo di dire. La mia poesia si fonda su un idea di linguaggio logoro, che l uso ha consumato e in certo modo ottuso. Far rinascere dal luogo comune un senso diverso, quello originario, vuol dire rinnovare il mito attraverso il rito. Il mito si è spento nel rito perché il rito è logoro. Ma nel momento in cui se ne riattiva il rito, il luogo comune, la frase fatta tornano ad essere mito, enigma. Ricordo la fontana di Pompei, dove il bordo di pietra mostra un incavo nel punto in cui i pompeiani poggiavano là mano per chinarsi a bere. Ecco, il mio tornare ai luoghi comuni equivale al gesto di rimettere la mano nell alveo, nella traccia creata da tante altre antichissime mani. Fra le poesie che predilego ce n è una, Dove il fiume fa una curva, che appunto inizia con due luoghi comuni. «D o ve il fiume fa una curva» è luogo imprecisato, tutti i fiumi fanno una curva. E così in tutti i prati del móndo «il vento piega l erba». Aver localizzato in due frasi fatte una situazione interiore è come mettere la mano nell incavo della pietra. Dove il fiume fa una curva dove il vento piega l erba masticavi un fil di salvia semiamara nella sera. Ti sfilasti in tutta calma una calza dopo l altra anche il cielo era una salsa bianca fuori e dentro bianca. La levigatezza del luogo comune decolora tutto il resto: la sera, il biancore insorgente, la salvia che diviene calza che diviene salsa, la densità bianca del cielo, la successio

47 ne dei gesti, l esterno e l interno dei corpi e delle materie. Si può dire che la poesia come mi accade adesso è ancora nonsense? Credo di sò. Nel nonsense classico quello di Carroll e di Lear assistiamo ad una fuga dal reale. Una fuga esilarante. Si spalanca una prospettiva vertiginosa. Visto in un binocolo rovesciato l evento si allontana, rimpicciolisce. L intenzione dell assurdo è esplicita: si tratta di un nitido partito preso. Per me la poesia è un labirinto di sonorità semantico concettuali che pensa per noi: forse ha la forma del nostro cervello. La poesia nasce come il colpo di mano imprevisto e fulmineo di due o tre parole che irrompono nella roccaforte dell esistere e la scoprono deserta. Il mio nonsenso quindi è atto involontario. La gravità dell atto si perde nella sua inconsapevolezza. Il nonsenso delle parole afferma semplicemente la mia non esistenza. In certo modo io non faccio altro che chiudere la porta e girare la serratura. Quel cigolio previsto. Quindi io do corpo, faccio vivere, agisco un dato per nulla sorprendente. Un dato per me abituale. La stessa materia traslucida, trasparente, è trasmigrata dai miei nonsensi per l infanzia alla poesia attuale, che spesso ha tonalità drammatiche, dolorose anche. Rimane il modo involontariamente fantasmatico e disossato coh cui vado trattando le mie ombre come cose salde; ed ogni volta mi sorprendo ad abbracciare il vuoto. Perché la coscienza contemporanea è perseguitata dal sentimento dell inesistenza ancora più che dal sentimento di colpa. Ora questa apparizione depauperata epifania del non esistere nelle mie poesie per l infanzia si verificava in una tonalità dolcemente sbalordita, svagata. La stessa apparizione, oggi operata in un tessuto fonemico diverso, assume una presenza enigmatica. E tuttavia presenza, non scansione di passi di fuga. La fuga è già avvenuta. Il vuoto è venuto alla luce. Il nonsense è involontario. Eppure si procede, con una grande voglia e nostalgia delle parole, dimenticando che la cosa non ha senso. Ma cosa saranno allora le parole, si potrebbe osservare, se non fondamentale inesistenza? Forse affidata alle parole della poesia l inesistenza diviene qualcos altro, qual

48 cosa di concreto, di agito, di tangibile. È ancora tutto da mettere in chiaro. settembre 1986

49 Giovanni Testori dalla Suite per Francis Bacon I e II (1965) Balena tumefatta annaspi tra pinne, oceani di sangue, crapule di schiavi, rappresi grumi di cloache. Flagellata si punta la schiena sui drappi d'alluminio; nell'ardente gonfiore delle maglie appare l'emulsione, fiamma di cellule, linfa di sughi inebriati ed infecondi, miniera ossidrica, mortuaria. Enorme si sconcia sui divani l ombra dell'uomo, stanza penetrata, lampada accesa ed oscurata, incrocio di binari, lingua fusa e riaddentata. Ecco: lo scheletro di Dio precipita sui lenzuoli disperati. Sul ventre sfatto, obeso cade la difesa; crollano attorno al lago le papille: muta penzola la lingua; la piaga annienta l'essere, slabbra il tessuto, frana. * Urla, Innocenzo; graffia l insulsa paternità dei secoli; batti le nocche, gli zoccoli di capra contro la lastra immobile, il cristallo che t approssima

50 e allontana; ansimando la larva episcopale riaffondi per secoli e millenni; tarme sataniche sui lustri dei velluti, denti di rospo, avori. Il dentifricio t impasta; ti sdoppia il fotogramma guance e mani. Dietro di te trema il verbo derelitto -anima dei cristiani, amore cieco, sanguinante, chi t ha deviato, in quale cisterna sei crollato? Il dominio ha stroncato le palme egiziache di viola; attorno alla sedia gestatoria pende la carcassa umana, ventre divaricato, vano. Urla: trapassa dall immemore del tempo all ardente, irrisolvibile presente; getta dal Sigillo, ancora chiuso l ancora dell unica follia nel viscere lurido, demente. * L impegno dei leucociti morde la trama dei lenzuoli; l occhio acefalo protende il bulbo dalla fronte; gettano le nari graffi e ciglia. L impregno dei lini si dibatte sulla branda; si solleva e riabbassa l ultima sezione del relitto; rode il virus accidioso la camicia,

51 divora coi denti catafratti le righe azzurre, disserra la cravatta, smangia ai polsi le tele tumefatte. Crolla la specola dal cranio; grigi mazzi di peli scostano la nuca, s'arrotano agli orecchi, ridiscendono sul collo; l'esofago si dibatte nel lago putrido di sangue; il medico fissa, abulico dal velo abnorme, asciuga il volto disossato; sul lino l effige s imprime sanguinante.

52 Marco Belpoliti, da L'occhio di Calvino, Torino, Einaudi, 1996 e 2006 Tra tutte le arti è la pittura quella che interessa maggiormente Calvino: da un breve testo, scritto in occasione della mostra delle litografie di Carlo Levi, Gli amanti (Galleria del Pincio, Roma), apparso nel 1955 su «Il Contemporaneo», sino a uno dei suoi ultimi scritti, pubblicato postumo e dedicato all'opera di Arakawa (Galleria Blu, Milano 26 novembre marzo 1986), lo scrittore ligure non ha mai smesso di "guardare" la pittura, di citare pittori, di scrivere in occasione di mostre e della pubblicazione di libri, o di recensire opere del presente e del passato. Calvino ha così dimostrato una singolare predilezione che sembra culminare nelle sale del suo museo immaginario, commentato ed esplorato nelle pagine della Taverna dei destini incrociati, con le storie di San Girolamo e di San Giorgio lette come emblemi pittorici della propria condizione, della divisione tra l'interno e l'esterno. Ma che senso ha questa lunga fedeltà? Che importanza riveste la pittura nell'opera di Calvino? Ripercorrendo i testi dello scrittore dedicati alla pittura si possono comprendere le ragioni di un'attenzione costante al mondo del visibile, allo spazio pittorico come superficie della rappresentazione e della narrazione, alla pittura come «meccanismo del pensiero». Gli scritti di Calvino non sono infatti quasi mai scritti critici sulla pittura, ma indagini, ricerche, narrazioni "intorno" alla pittura o agli artisti, messe a fuoco della propria poetica, momenti in cui lo scrittore riflette sul fare del pittore per evincerne ragionamenti, posizioni, conclusioni, dubbi, domande sulla propria attività. La superficie pittorica è lo schermo su cui proiettare se stesso e il proprio mondo narrativo. E tuttavia ogni volta che Calvino s'addentra nel mondo poetico di un pittore ne emerge con scritti che risultano illuminanti per comprendere l'opera dell'artista, i modi del suo "fare". I più pregnanti tra i testi di Calvino lo scritto sui Segni alti di Melotti, il testo sull'opera di Giulio Paolini, la sinuosa indagine del mondo di Steinberg, le Still-life alla maniera di Domenico Gnoli, la lettura della superficie pittorica di Arakawa sono riflessioni o narrazioni sullo spazio del pensare e dello scrivere, saggi d'«arredamento mentale». La mente è per Calvino un luogo immaginario, uno spazio entro cui fare agire, come in un teatro, pensieri, composti da frasi, proposizioni, parole, un luogo dove svolgere la recita astratto/concreta del pensare/scrivere. È curioso, ma non affatto strano almeno per Calvino che proprio scrivendo

53 della pittura e intorno alla pittura, egli abbia elaborato alcuni dei percorsi della propria poetica, percorsi mentali, luoghi dove allestire l'esperimento della scrittura del mondo, quell'esperimento che è arredamento della mente medesima. Lo scrittore che ritroviamo nei testi sulla pittura è il più astratto e concettuale di tutta la sua opera, ma insieme il più poetico. È lo scrittore che ha compiuto l'auspicato tragitto di prosciugamento della parola, di ricerca dell'essenzialità e dell'esattezza che consiste nel parlare di un'attività, quella pittorica, che egli non conosce se non dall'esterno, attraverso i risultati visivi, e che perciò cerca di ricostruire risalendo ai «meccanismi del pensiero» comuni a pittura e scrittura, ricercando quell'universale che unifichi ciò che nella realtà si pensa come separato: scrittura e disegno, scrittura e pittura. Se si volesse comporre un piccolo catalogo portatile degli scritti di Calvino dedicati all'arte e agli artisti, si potrebbe radunarli in tre o quattro gruppi: il primo comprenderebbe i testi che esplorano, con notevoli differenze di stile, il «meccanismo del pensiero», l'«habitat del pensiero» (Melotti, Paolini, Steinberg, De Chirico, Cremonini, Arakawa); il secondo invece riguarderebbe gli «esercizi di stile» (Adami, Magnelli, Gnoli); il terzo i testi descrittivi o narrativi, nati in occasioni di viaggi o visite a mostre, come quello dedicato a Turner o quelli raccolti in Collezione di sabbia, testi segnati più da una curiositas e dalla lettura dell'opera che non dall'esplorazione concettuale o da un intento letterario, cui s'aggiungono una serie di pezzi d'occasione sia di tipo saggistico che narrativo; infine, un gruppo di scritti legati direttamente al tema della collezione eteroclita, alla wunderkammern pittorica (Evans, Serafini). In questo catalogo provvisorio, restano a sé il dialogo con Tullio Pericoli sul «furto ad arte», discorso sulla ricreazione artistica, il testo critico che accompagna la mostra dei disegni di Matta alla Galleria l'attico (1984) e il racconto per Enrico Baj, Ricevimento a Bardbaj (1985), liberamente ispirato ai personaggi del pittore. [...] Aguzzare lo sguardo. Lo scritto di Italo Calvino che apre il volume di Giulio Paolini, Idem, pubblicato nel 1975, è uno dei suoi più densi e impegnativi sull'arte. È infatti un testo da leggersi su piani diversi, almeno tre: quello della descrizione e dell'interpretazione dell'opera dell'artista, quello della riflessione che lo scrittore compie sulla propria attività, attraverso il lavoro dell'artista, e quello della meditazione sui meccanismi del pensiero, sull'algoritmo della mente. «Tutte le volte che incontra un suo amico pittore, lo scrittore rincasa rimuginando tra sé». Che cos'è che rimugina lo scrittore? Il fatto che «le opere che espone il pittore non sono veri e propri quadri: sono momenti del rapporto tra chi fa il quadro, chi guarda il quadro e quell'oggetto materiale che è il quadro». Lo spazio che occupano le opere di Paolini, artista al cui lavoro è stata a lungo attribuita l'etichetta di «concettuale», o di «arte povera», etichette oggi in parte abbandonate, è per Calvino uno spazio mentale. Le opere infatti non sono incentrate sul rapporto tra l'io e il mondo, ma su quello «che si stabilisce indipendentemente dall'io e indipendentemente dal mondo», sono quadri che «non vogliono far pensare ad altra cosa che ai quadri».

54 «Anche allo scrittore piacerebbe fare opere cosi: scrive malinconicamente Calvino perché all'io non ci crede o se ci crede non gli piace; e perché il mondo non gli piace o se gli piace non ci crede. Però non riesce a trovare la strada». Il tono della riflessione di Calvino, solo in parte retorico, è tutto in questa dichiarazione di fallimento: lo scritto è infatti un confronto continuo tra le riuscite del pittore e gli insuccessi dello scrittore; ma è proprio procedendo attraverso questo raffronto che lo scrittore definisce il suo personale algoritmo della mente, le cifre del calcolo aritmetico della propria mente. Di opera in opera, quello di Paolini è «un unico discorso, non comunicativo né espressivo». Non c'è un dentro da esprimere, o un fuori da comunicare, eppure il discorso del pittore non pare rinunciare a una coerenza e a un «continuo svolgimento», scogli contro cui invece sembra infrangersi il tentativo dello scrittore che, come dichiara lui stesso, ama la coerenza e deve sempre trovare delle storie da raccontare. È il «mondo senza ombre» dell'artista ad attrarre l'attenzione dello scrittore, un mondo fatto solo di «enunciati affermativi». Come fare per raggiungere quella calma interiore?, si chiede sconsolato Calvino. La strada è una strada di sentieri che si biforcano, di scelte, di esclusioni, di riduzione, di scarti continui, eppure «l'occhio del pittore è sempre ironico e interrogativo». Tutte le volte che lo scrittore si siede al tavolo per scrivere, sia che usi il pennino sia che batta a macchina, «si trova con tanti peluzzi sulla punta del pennino, o col nastro della macchina per scrivere tutto sfilacciato». Quello sfilacciamento e speluzzamento è lo sfilacciarsi stesso del mondo? o è invece lo speluzzamento dell'«esperienza interiore»? Ciò che resta sulla carta il resto dello scrivere, così come l'immagina Italo Calvino «sono baffi d'inchiostro, macchioline, a e o con gli occhielli intasati, o se scrive a macchina parole inchiostrate, effe e elle che sfumano nell'ineffabile». Il mondo si scrive sul foglio mediante il mondo, anche se Calvino cerca di eludere questo destino della scrittura rivolto com'è verso la continua ricerca di un'istanza d'ordine che sia esattezza e rapidità, di un modo per sfuggire alle «vie insidiose» la «comunicazione» e l'«espressione» che affiorano «attraverso le parole». L'atto di esprimere è, per lo scrittore, «l'atto di spremere un limone»; ma invece che con il giallo frutto egli s'identifica «con una noce, una mandorla, o magari nei suoi momenti più generosi con un fico secco». «Per quel che riguarda la comunicazione», «le allergie dello scrittore sono meno categoriche». Tuttavia il pittore, invidiato per il suo modo asciutto e tranquillo, comunica; lo scrittore si metterà perciò a guardare le sue opere «cercando di tradurre ciò che esse gli comunicano in qualcosa che vorrebbe comunicare lui». Prima che interpretazione, quella che Calvino compie è dunque una traduzione, un trasferimento da comunicazione a comunicazione. Una lettura su due piani: il comunicare dell'opera del pittore e il comunicare dello scrittore. Meglio, da una comunicazione riuscita quella del pittore a una comunicazione auspicata, desiderata, voluta, il «vorrebbe» dello scrittore. I temi che lo scrittore sviluppa sono:

55 quello dello spazio mentale da cui nasce l'opera questo è infatti per Calvino il vero spazio genetico dell'opera dell'artista; il rapporto tra lo spazio mentale e l'io «il mondo spoglio e senza ombre» del pittore (l'io è un'ombra?) e, infine, l'esame del luogo mentale dell'opera, che è poi l'analisi del lavoro artistico di Paolini. La parte centrale dello scritto è perciò una ricostruzione dei principali temi e delle opere di Paolini, una ricomposizione fitta di considerazioni e commenti. Questo testo, uno dei più impegnativi che Calvino abbia mai scritto sull'opera di un artista, probabilmente in ragione di una assonanza che ha sentito con Paolini il comune algoritmo della mente, ripete il modulo del raddoppiamento che comporta lo scrivere dell'opera di un altro. L'inizio del discorso dell'artista è per Calvino «una tela grezza in cui sono tracciate due linee perpendicolari e due diagonali» la squadratura geometrica del foglio messe tra parentesi. E la parentesi contiene, nell'opera successiva, la tela: appesa in mezzo a un'altra tela: «la tela fa parte del quadro ma non è il quadro». Poi tocca al colore: il «colore prima del colore»: un barattolo sul telaio vuoto, il tutto avvolto nel cellophane. L'esplorazione di Paolini prende come oggetto l'oggetto-quadro, poi il luogo stesso della pittura: «quella fascia orizzontale che delimita il campo visuale d'una persona in piedi: mettere in evidenza questa fascia potrebbe diventare l'opera pittorica assoluta». Dalla fascia a colui che guarda, e dal fruitore all'autore: «L'autore non come soggetto attenzione! ma come elemento dell'opera». Il cerchio dell'esplorazione dell'opera medesima e dei suoi statuti s'allarga sino alla fotografia del fotografo che ha fotografato il pittore come elemento dell'opera, o invece «si fotograferà il pittore mentre trasporta la tela su cui è fotografato il pittore che trasporta la tela». In tal modo è aperto il campo alle «citazioni». Il tema delle citazioni richiama allo scrittore il rapporto con le proprie opere, rapporto pessimo. Ma il pittore continua la sua escalation: al colmo della riservatezza, a detta dello scrittore, «cancella l'opera e espone la propria firma». Questo è per Calvino il segno dell'«impersonalità assoluta», il modo per sfuggire «all'aborrita psicologia». Il pericolo è infatti «tirare in ballo l'io»: «sia pure un io cartesiano, categorico, grammaticale, anonimo». Forse la via scelta dall'artista è proprio quella giusta «per liberare l'io dalla corpulenta pesantezza dell'autobiografia individuale». Il tema dell'io, la soggettività di chi scrive o dipinge è il primo punto su cui indugia lo scritto calviniano, in una serie di supposizioni, ipotesi, controipotesi. Ritorna la fotografia, questa volta non più documento d'identificazione, come nelle stanze del Cottolengo, ma documento di disidentificazione dell'io: «Ma come si può scorporarlo, l'io, se lo si fotografa? Eppure è così, forse solo un pittore fotografo può considerarsi un pittore impersonale, presente solo nell'oggettività del suo esser pittore, privato di qualsiasi lirismo ed espressionismo». La strada per annullare l'io, quello personale, è quella di «identificarsi nell'io della pittura d'ogni tempo», l'io impersonale. L'operazione che Paolini compie con il corpo della pittura e con Lorenzo Lotto, nel Giovane che guarda Lorenzo Lotto, è un cambiamento della sintassi interna: «È il soggetto del quadro che guarda Lotto».

56 Nella lettura del gioco di sguardi dell'opera di Paolini una fotografia del celebre quadro di Lotto Calvino conclude che ciò che conta è l'immagine mentale «alla quale e solo a quella il quadro di Lotto era tenuto a corrispondere». Ma è possibile fotografare l'immagine mentale? «Il quadro nasce sulla tela risponde Calvino pennellata per pennellata, e il fantasma mentale da cui l'autore era partito è presto soverchiato, cancellato, dalla necessità che porta le forme a organizzarsi nei loro rapporti, nel farsi dell'opera». Questo è «il punto debole nella corazza del pittore» che individua lo scrittore, ma subito un dubbio lo soverchia. Ritorna perciò all'opera del pittore, l'analizza nuovamente, moltiplicando i soggetti che guardano e che sono guardati. La conclusione è: «La fotografia si è interposta tra la pittura e noi, e condiziona il nostro rapporto». Dentro la fotografia sono racchiusi in potenza tutti gli sguardi di coloro che hanno guardato e guardano l'opera, di Lotto, prima, e di Paolini, poi, compresi gli sguardi di coloro che quell'opera l'hanno fatta, o che hanno guardato perché l'opera fosse fatta il giovane che guarda Lorenzo Lotto. Nelle opere successive è la fotografia, con il suo potere moltiplicatore tutto nella fotografia, una fotografia che contenga tutto, come nell'opera metalinguistica di Antonino Paraggi del racconto L'avventura di un fotografo (1957) ad abbracciare il mondo della pittura. Questo mondo, a detta di Calvino, è per il pittore «un tutto compiuto e definitivo, un edificio a cui egli non pretende d'aggiungere nulla». Paolini privilegia il mondo della pittura, un privilegio in cui domina lo sguardo, e i momenti «in cui la trasparenza dello sguardo si direbbe nasca dalla trasparenza della mente: Vermeer, Poussin, Lotto, David». La «trasparenza dello sguardo» è «la trasparenza della mente»; in questo punto del testo «sguardo» e «mente» sono alla minima distanza; Calvino parla di uno sguardo che è mentale: questo è per lui vedere. Nell'arte di Paolini, afferma lo scrittore, «La "metafisica" del pittore e il suo "cosismo" coincidono: gli oggetti, gli strumenti del mestiere, gli atti del dipingere (a cominciare dal vedere) sono per lui gli unici assoluti». La definizione può essere identicamente applicata, pari pari, all'arte dello scrittore: l'oggetto principale della scrittura di Calvino è infatti la scrittura stessa: gli oggetti, gli strumenti dello scrivere, e l'atto dello scrivere che è prima di tutto un atto del vedere. Il piano metalinguistico della sua narrativa è già stato pienamente individuato da Calvino stesso, anche se forse non con totale consapevolezza, nel personaggio di Antonino Paraggi e nella sua ossessione fotografica; eppure si tratta sempre di un piano metalinguistico sofferto su cui incombe la possibilità di un collasso continuo, la possibilità della propria autonegazione. Riflettendo sulle opere del pittore, lo scrittore le vede «ruotare mosse da quell'armonioso meccanismo del pensiero che è la tautologia». Questa figura lo incanta, sia come gioco di specchi che come manifestazione della verità. E qui si marca la differenza tra sé e il pittore, poiché se «le forme d'inesauribile raggiungimento della verità sono due», la tautologia e l'anfibologia, lo scrittore propende per la seconda, per l'ambiguità, per il discorso interpretabile in due modi

57 diversi o per la costruzione che si rivela fallace perché fondata su premesse ambigue. Le strade sono simmetriche e contrarie: il pittore «tende a ricondurre il molteplice all'uno», lo scrittore «l'uno al molteplice». L'ossessione del pittore è «che la propria opera non sia una ma molteplice», costringendolo così a creare nuove opere che contengano le precedenti: volendo mirare all'uno è costretto a moltiplicare il molteplice. In questo modo anche il tempo entra nella sua opera, sotto forma d'intervallo, un intervallo-tempo che assume i contorni dell'autobiografia; perciò le sue opere «diventano racconto messe una dopo l'altra». Il lungo giro del pittore, e dello scrittore che ha cercato di tradurre quel mondo nel suo, è un ritorno alla tela da cui era partito, al «quadro che contiene tutti i quadri», alla «squadratura geometrica messa tra parentesi». La conclusione dello scrittore è che «la pittura è totalità a cui nulla si può aggiungere e insieme potenzialità che implica tutto il dipingibile». L'opera lascia il passo al possibile, al potenziale, al museo immaginario in cui «le fotografie di questa tela squadrata potranno riempire il catalogo d'una pinacoteca immaginaria, ripetute identiche ogni volta con il nome d'un pittore inventato, con titoli di quadri possibili e impossibili che basta aguzzare lo sguardo per vedere». Quell'atto di rendere aguzzo lo sguardo sposta il possibile dall'opera campo bianco, campo potenziale, dei possibili e degli impossibili all'occhio che guarda; l'identificazione di «cosismo» e «metafisica» conduce al privilegio dell'occhio aguzzo, appuntito, sottile, alla metafisica dell'occhio. Il limite negativo in Calvino è segnato ancora una volta dalla fisica, dalla «pluralità delle cose corpose» che provocano la «vertigine della polverizzazione e dello spaesamento» nella mente del pittore. Paolini ha infatti prodotto un'opera costituita da «molti drappi di bandiere disparate, appesi a un'unica asta»; il suo titolo è quello del «nome del filosofo che sostenne l'unicità dell'intelletto: Averroè». Nella nuda astrazione «La mente del pittore si muove leggera», ma dinanzi al mondo delle cose si apre l'abisso del molteplice. In quella direzione, per lo scrittore la strada è chiusa; per questo è meglio affidarsi allo sguardo aguzzo, e, dinanzi ai quadri tutti uguali, gli pare già di riuscire a «leggere in quei quadri potenziali tutti gli incipit d'innumerevoli volumi, la biblioteca d'apocrifi che vorrebbe scrivere». La tautologia si chiude su se stessa e il mondo di Giulio Paolini sembra allontanarsi dal mondo di Italo Calvino; l'imperturbabile serenità dell'universo del pittore è figlia del rischio controllato di una vertigine, della vertigine della propria moltiplicazione quale antidoto a quella del mondo. Lo scrittore corre invece incontro alla molteplicità, al mondo molteplice di Se una notte d'inverno un viaggiatore, che al suo interno contiene anche la vertigine tautologica. La letteratura è sempre ambigua, anfibologica. Il mondo di Paolini è abitato da oggetti che non sembrano avere alcun fine, oggetti quasi impalpabili, ombre inafferrabili; è un mondo popolato da simmetrie, da assenze e da presenze sfuggenti, è un mondo che vive nella poetica dell'istante, quello che si crea tra l'opera e chi la vede, abbaglio improvviso, riconoscimento di quel mondo impalpabile come il mondo questa è la tautologia. Non è dunque un mondo di cose,

58 bensì di pensieri, l'abbaglio è l'abbaglio dei pensieri; al contrario, in Calvino c'è la continua «fascinazione dell'oggetto». L'abbagliamento prodotto dalle opere di Paolini è appunto quello della mente, una cattura preordinata all'interno di un sistema di percorsi e di traiettorie dello sguardo che l'autore ha seminato nell'opera il disporre di Paolini è, rispetto a quello di Klee, teorico del percorso dello sguardo nel quadro, un disporre dichiarato, reso visibile; anzi, l'opera è esclusivamente l'itinerario dello sguardo. Ciò che allontana lo scrittore dal pittore è proprio questo rapporto con il mondo degli oggetti, mentre ciò che lo avvicina è il privilegio dello sguardo. Come Greimas ha mostrato nel suo scritto (Il guizzo), è l'attrazione che esercitano gli oggetti colpiti dalla luce, resi manifesti dalla luce, a produrre nello scrittore ligure una fascinazione; è come se l'occhio volesse toccare, fare l'esperienza propria del tatto. Il tatto «si situa tra gli ordini sensoriali più profondi, esprime prossemicamente l'intimità ottimale e manifesta, sul piano cognitivo, la volontà della congiunzione totale», scrive Greimas; e proprio questo è uno dei temi di fondo dell'opera narrativa di Calvino, e non solo dell'ultima, ma anche della prima: come rispondere al richiamo dell'oggetto, del mondo visibile degli oggetti e delle forme, come ritrovare sulla pagina la «fascinazione dell'oggetto». È in questo modo che si può spiegare l'insistente «modulazione sinonimica» dello scrittore, il tentativo di toccare il mondo come pluralità, molteplicità di guizzi, di manifestazioni visive. I sinonimi sono il tatto del linguaggio, il suo modo per lambire, per circondare le cose che si vedono, nominandole nella loro forma molteplice; la «modulazione sinonimica» esprime la volontà di congiunzione. L'esperienza tattile nell'opera di Calvino è desiderata, voluta, eppure mai pienamente compiuta, perché ancora lo sguardo domina sovrano, e l'estetica del vedere costringe l'occhio a fermarsi alla textura del mondo, a riconoscerla come una grana, senza tuttavia poterla esperire come tale mediante il tatto. Questo è uno dei centri tematici delle osservazioni del signor Palomar, trascrittore mentale del mondo visibile o, prima di lui, del proteiforme personaggio delle Cosmicomiche, Qfwfq, per cui l'esperienza tattile, che ha sovente per oggetto un personaggio femminile, sotto forma di prensione, di gesto aptico, è il più delle volte mancata, o raggiunta invece come tangenzialità, sfioramento, carezza, oppure come fusione, ma al prezzo della perdita della propria identità, come nel racconto Il sangue, il mare. Il disegno del mondo. Tre scrittori sono i protagonisti delle parti in cui si divide il testo dedicato al disegnatore Saul Steinberg: Cavalcanti, Michelangelo e Galileo. La definizione di «scrittori» è nello spirito stesso di questo testo, La penna in prima persona, del Cavalcanti appartiene di diritto alla letteratura in quanto poeta, «scrittore» lo è invece perché mette in versi gli arnesi dello scrivere; Michelangelo, oltre che celebre scultore e pittore, è anche lui poeta, e non solo perché autore di versi, ma perché

59 riflette sul disegno come scrittura del mondo; Galileo, come è detto più volte, e in diversi luoghi, nei saggi raccolti in Una pietra sopra, è pienamente scrittore, anzi è l'anello di congiunzione di una delle più importanti linee di forza della letteratura italiana, quella che connette Ariosto a Leopardi; inoltre la sua opera esprime una delle vocazioni profonde della nostra letteratura, quella che fa dell'opera letteraria una mappa del mondo e dello scibile (Due interviste su scienza e letteratura). Il testo di Calvino è dedicato all'opera di Saul Steinberg, disegnatore originale che ha fatto della linea la forma stessa della sua opera, un artista che, nonostante la sua grande popolarità come illustratore, e la lunga attività di artista negli Stati Uniti e in Europa, non è mai entrato in nessuna storia dell'arte. Non è un caso che l'opera di Steinberg interessi proprio uno scrittore come Calvino che viaggia lungo la frontiera che connette forme artistiche diverse, tutte legate a un'unica radice di cui cerca di descrivere la forma e di attribuirle un nome. Calvino parte da un poeta medievale, colto nell'atto di far parlare le penne, le cesoiuzze e il coltellino, per descrivere la linea della poesia moderna paradossalmente aperta e chiusa proprio da Guido Cavalcanti, che è eletto a poeta della modernità, a parente prossimo di Mallarmé, a alter ego di Steinberg, proprio per aver portato in primo piano l'arte di scrivere come consapevolezza dell'atto materiale. In comune i due artisti hanno la penna quale soggetto dell'azione grafica: disegnare e scrivere sono modi diversi di una identica attività, quella che si svolge mediante il segno grafico. L'atto materiale della scrittura-disegno è la vera sostanza del mondo, sostanza che si manifesta nello «svolazzo», nell'«arabesco», nel «filo di scrittura fitta fitta febbrile nevrotica». Il mondo è una linea: «spezzata, contorta, discontinua». Calvino individua nella linea di Steinberg non solo un'attività di secondo grado disegnare il disegno che si disegna ma la forma stessa del mondo come labirinto: il «ghirigori», l'intreccio bizzarro di linee che finisce per chiudersi su se stesso imprigionando in tal modo l'uomo. Il carattere labirintico del disegno dell'artista americano, il suo aspetto di descrizione di un mondo eteroclito in cui ci si smarrisce, è forse l'aspetto più appariscente dell'intera opera disegnativa dell'artista, come ha visto anche un altro scrittore e lettore dei segni, Roland Barthes, che ha messo in rilievo sia l'aspetto piatto dell'enumerazione del disegno di Steinberg, sia il modo di manifestarsi di un mondo che «non ha bisogno di me: All except you». Mettendo in luce la natura metalinguistica del disegno di Steinberg, un disegno che parla di se stesso, anche del «se stesso» che disegna, Calvino evidenzia la possibilità che l'uomo ha in quel disegno di essere ancora «padrone di se stesso», pur non sfuggendo alla propria condizione di prigioniero, costruendosi o decostruendosi «segmento per segmento», sino alla scappatoia che è quella di «suicidarsi con due tratti di penna incrociati, per scoprire che la morte cancellatura è fatta della stessa sostanza della vita-disegno, un movimento della penna sul foglio»: il disegno è la vera finzione.

60 Quello di Steinberg è un universo non a una ma a "n" dimensioni: esistono «tanti universi paralleli incompatibili tra loro», frutto di un continuo variare di tecniche e modi del disegno che producono figure lineari e filiformi, oppure figure ornate, o ancora mondi senza spessore da cui si distacca un mondo tutto volume, universi contornati, ombreggiati. Nell'arte di Steinberg, la logica del rovesciamento degli opposti sembra la regola aurea dell'ordine: il motivo dei cerchi concentrici tracciati con il compasso è «preso da una frenetica bramosia amorosa per una spirale tracciata a mano libera», e viceversa. Il testo dello scrittore ripercorre i disegni dell'artista americano, seguendo la pullulante morfologia degli stili diversi, i «multiformi innumerevoli modi d'usare penne e matite e pennelli», sino alla riapparizione delle penne isbigottite di Cavalcanti, che «tornano a testimoniare in prima persona l'avvenuta trasfigurazione dell'artista nella pratica della sua arte»: cioè la metamorfosi dell'artista medesimo a opera della sua arte. In questo modo si chiude il capitolo del poeta della leggerezza, protagonista della parte centrale dell'omonima lezione americana, ma anche filosofo averroista del privilegio dell'intelletto (Cavalcanti e la sua canzone), e si apre quello introdotto da Michelangelo, dove lo scrittore ligure cerca di dare una definizione dell'arte e del suo processo formativo. Il brano che Calvino cita all'inizio della seconda parte è tratto dai Dialoghi romani di Francisco de Holanda che fa parlare Michelangelo. Questi sostiene di pensare e immaginare che esista una sola arte e scienza, e che il nome di quest'arte sia «il disegnare o il dipingere», da cui tutte le altre arti deriverebbero, poiché tutto quello che l'uomo fa è un disegno del mondo, sia che si tratti della creazione di nuove forme o figure, sia che indossi abiti, o costruisca, o coltivi i campi «fare pitture e segni lavorando la terra» o combatta, o, infine, muoia. Calvino fa notare come queste parole sconvolgano «il rapporto tra mondo e arte», poiché non è il mondo a costituire l'«oggetto rappresentabile dall'arte», o l'arte una «rappresentazione del mondo», ma «il mondo vissuto è visto come opera d'arte e l'arte propriamente detta come arte al secondo grado o semplicemente come parte dell'operazione complessiva». Il fare dell'uomo è figurazione, cioè «creazione visuale», «spettacolo». Questo è per Calvino l'annuncio di una «nuova antropologia per cui ogni attività e produzione dell'uomo vale in quanto comunicazione visiva nei suoi aspetti linguistici ed estetici». In nessuno scritto Calvino è stato così esplicito nel dichiarare l'importanza del visivo, nel sostenere una nuova antropologia fondata sull'attività visiva, di cui la comunicazione linguistica e quella estetica sono, appunto, solo «aspetti». Il mondo è disegnato da ogni attività umana, ogni fare dell'uomo è disegnarne la superficie, la forma visibile. [...] Nella Penna in prima persona, Calvino conclude la sua riflessione sulla frase di Michelangelo chiedendosi che ruolo possa avere l'arte nel nuovo rapporto che l'uomo ha stabilito con il mondo. Il compito che lo scrittore affida all'arte è complesso: prima di tutto quello di essere «riflessione sulle forme», cioè elaborazione di un'estetica

61 attraverso il suo stesso fare, ma anche «ipotesi di formalizzazioni visive d'un mondo virtuale», ovvero elaborazione di un'epistemologia del vedere che ha come oggetto un mondo ancora in potenza; e «riflessione sul mondo dato come oggetto visuale», cioè filosofia del visibile, e insieme «critica dell'esposizione permanente del mondo in cui siamo coinvolti nel triplo ruolo di espositori, d'esposti e di pubblico», ovvero critica dell'epoca dell'immagine del mondo. In questa serie di compiti dell'arte, compiti che ne definiscono lo statuto, quelli che potremmo definire "concettuali", legati cioè all'aspetto noetico, sembrano prevalere sui compiti eminentemente produttivi; il fare dell'arte è un pensare, e il disegno ne è la forma sensibile. Questa è solo in parte una novità nella riflessione di Calvino sull'arte. Infatti in una delle precedenti considerazioni, compresa in Cibernetica e fantasmi (1967), un testo dedicato all'importanza del processo combinatorio in letteratura, egli si era soffermato, anche sulla scorta di Gombrich, sul procedimento comune che affianca l'arte alla poesia, quello fondato sul piacere infantile del gioco combinatorio, sui significati oggettivi che scaturiscono «indipendentemente dalla personalità dello scrittore». La forma è per Calvino il risultato di un'attività noetica, anche se il suo materialismo lo spinge a verificarne sempre la tenuta pratica, la resa tangibile sulla pagina. A conclusione della parte dedicata a Michelangelo, Calvino ritorna all'arte di Steinberg, affermando che tutte le definizioni date a proposito dell'arte valgono anche per l'artista americano. Il suo disegno infatti da un lato supera la divisione tra sé e il mondo, catturando anche il disegnatore nel disegno; dall'altro è «un diario di viaggio» in cui «il mondo figurante e il mondo figurato» sono aggrediti con «implacabile ironia», per cui ogni «contraddizione dei materiali plastici della nostra esperienza quotidiana è esasperata sino all'assurdo». Quello che ci aspetta nella tavola di Steinberg è dunque il mondo come catalogo, come somma di passato e presente, come ornamento, incisione, schizzo a punta di penna, è la città descritta attraverso l'accumulo di materiali e tecniche diverse, come angoscia «per quel che ci aspetta». Nell'ultima parte del testo dedicato al disegnatore americano, entra in scena Galileo Galilei, inventore di metafore fantasiose e rigoroso ragionatore scientifico. Allo scienziato-scrittore Calvino ha dedicato una costante attenzione, dalla fine degli anni Sessanta sino alle Lezioni americane, in lui dichiarava di ammirare e ricercare come un nutrimento tre cose: la precisione del linguaggio, l'immaginazione scientificopoetica, la costruzione di congetture, aspetti che segnano la costante programmatica delle Cosmicomiche. Il Galileo che invece interessa a Calvino in questa occasione è l'inventore di metafore, lo stesso Galileo che ritorna nella lezione sulla Rapidità, produttore di metafore sulla scrittura del mondo, in modo analogo al disegnatore americano. Ma Steinberg non è solo il disegnatore-scrittore della linea retta, è soprattutto il calligrafo dei nodi e dei groppi, l'autore dei ghirigori e dei labirinti di segni. L'immagine del ghirigoro, almeno nell'aspetto calligrafico del segno bizzarro e dello scarabocchio, sembra attirare lo scrittore ligure, mentre per un altro, quello labirintico, l'aspetto avvolgente e patetico del segno lo respinge. Steinberg come

62 Galileo, ma anche il suo contrario. Non a caso, l'autore che agli occhi di Calvino impersona nella letteratura italiana il garbuglio, il groviglio, il gomitolo dei ghirigori, «l'inestricabile complessità», «la presenza simultanea degli elementi più eterogenei», è proprio Gadda, che per buona parte della sua vita egli ha sentito come proprio simmetrico e opposto: Calvino e Gadda, la linea retta e il groviglio ma anche Galileo e Gadda, numi tutelari, opposti e complementari, simmetrici e antitetici. Racconto di un disegno. Il crollo del tempo, il secondo scritto di Calvino per Saul Steinberg, o forse addirittura il primo, comparve nello stesso anno del precedente, il 1977, sulla rivista «Il Caffè». È un testo molto diverso dall'altro per il suo andamento marcatamente narrativo, e in questo sembra anticipare i successivi scritti dedicati ad altri artisti: Peverelli, Del Pezzo, Adami, Magnelli e soprattutto quello per Domenico Gnoli, il culmine dei suoi «esercizi di stile». Si tratta di un racconto dedicato a una serie di disegni dell'artista che dovevano essere esposti in una mostra, ma che poi non vi figurarono. Nella nota redazionale, che precede il testo, viene riportata una frase in cui Calvino spiega di aver raccontato quel che Steinberg ha disegnato; ma il racconto non è poi accompagnato dai disegni che lo hanno ispirato; tuttavia, come precisa la nota redazionale, il testo aveva un'autonomia tale da poter essere pubblicato separatamente. Questa nota pone inconsapevolmente un problema: che rapporto intrattiene il testo narrativo di uno scrittore con l'opera di un artista per cui è stato scritto? Dare una risposta è difficile, e forse neppure molto utile, poiché essa può variare da scrittore a scrittore. Roland Barthes, ad esempio, che è sempre stato sensibile a questo tema, sia come scrittore che come critico, all'inizio di un suo testo composto sia di parole che d'immagini, L'impero dei segni, scrive che «il testo non "commenta" le immagini» e che «le immagini non "illustrano"» il testo ma che «testo e immagine, nel loro intreccio, vogliono assicurare la circolazione, lo scambio di questi significati». Tra testo e immagine è possibile una circolazione del senso. Ma quale relazione esiste tra il racconto di Calvino e i disegni di Steinberg? Leggendolo si riesce a intendere che lo scrittore racconta «quel che Steinberg ha disegnato»? Si può provare a dare una risposta a questi interrogativi tenendo conto proprio di questo racconto "senza figure" in realtà il numero del «Caffè» comprende diversi disegni di Steinberg, che s'inframmezzano al testo, si tratta di illustrazioni già pubblicate sulle pagine della rivista insieme a un testo di Aldo Buzzi. L'importanza delle "figure" per la poetica di Calvino è stata sottolineata più volte; lo ha fatto l'autore stesso proprio nell'atto di ripubblicare le Cosmicomiche, presso l'editore Garzanti nel 1984 (nel risvolto di copertina di questo libro di racconti, in cui ogni singolo racconto è preceduto da un inserto testuale di tipo scientifico o filosofico, lo scrittore si sente in dovere di indicare le fonti della propria fantasia

63 figurale: i comics di Popeye, la pittura di Matta, le incisioni di Grandville, di cui una, tratta da Un autre monde, compare proprio sulla copertina per sua esplicita scelta). Le immagini i disegni di Steinberg, come le sculture di Del Pezzo, o le favole per Valerio Adami, e più ancora le Still-life alla maniera di Domenico Gnoli svolgono la funzione di elemento generativo, propulsore, donano all'immaginazione dello scrittore lo scatto necessario, producono il guizzo che rende discontinua la sua fantasia. Se nella storia della letteratura e dell'editoria sono stati più spesso gli artisti a "illustrare" l'opera degli scrittori o dei poeti (in particolare nel periodo simbolista in Francia, o durante i diversi momenti delle avanguardie artistiche e letterarie), in questo caso il problema si pone in modo rovesciato: uno scrittore "illustra" un disegnatore. Non è un caso isolato, perché è accaduto che i poeti affiancassero le loro opere a quelle di pittori o incisori, ma certamente Calvino presenta delle particolarità che riguardano il carattere della sua prosa e della sua continua sperimentazione letteraria. Negli anni che seguono la pubblicazione delle Città invisibili e del Castello dei destini incrociati, la sua prosa si orienta verso quello che si può definire l'esercizio di stile, nel significato che ha dato Giorgio Manganelli al termine «esercizio», presentando l'edizione postuma di Sotto il sole giaguaro: «con questa parola intendo la difficile sfida di una invenzione strutturale, formale, tematica che attraversava in modo indiretto, trasversale, la tensione narrativa; così che la narrazione veniva colta e adoperata nell'ambito di una invenzione mentale, geometrica, un arduo incontro di astrazione e tangibilità». Le radici di questi «esercizi» sono da ricercare nell'inclinazione al «saggismo» di una parte della tradizione letteraria italiana, quella indicata da Calvino stesso nella linea Galileo-Leopardi, del Leopardi delle Operette morali, e dello Zibaldone, del poeta che inserisce Galileo nella sua Crestomazia della prosa italiana, come fa notare Calvino nelle Due interviste su scienza e letteratura. E insieme a questa c'è l'influenza esercitata dalla «prosa d'arte» novecentesca nella formazione letteraria di Calvino, e in particolare quella rappresentata da Emilio Cecchi, figura su cui lo scrittore ligure è tornato in un paio di occasioni negli ultimi anni della sua vita (Cecchi e i pesci-drago, 1984 e nell'introduzione alla ristampa del volume di Cecchi, Messico, 1985). [...] Il crollo del tempo, [...] dedicato al disegno di Steinberg, è una narrazione. Il racconto in prima persona si sviluppa attraverso la descrizione di un paesaggio, in cui Calvino cerca il motivo che lega ogni segno all'altro, ogni oggetto o profilo o cosa, a tutto il resto. Il tema è quello del tempo, un tempo andato in pezzi, sbriciolato: «sparpagliato senz'ordine sulla superficie accidentata dello spazio». La topologia del tempo si sviluppa attraverso il paesaggio, con gli oggetti del tempo dispersi sul terreno: cartelli del «prima» e del «dopo». Le ore in cima alla collina, e il cane del narratore che ci scorrazza in mezzo con indifferenza. Ma le ore passavano? si chiede il narratore. Ora sono solo oggetti che le piogge trascineranno lentamente giù dalla collinetta. Come nel precedente scritto, dall'andamento più saggistico, Calvino conclude il

64 testo sul crollo del tempo con le linee di Saul Steinberg: lo spazio appare attraversato da innumerevoli linee, visive, sensitive, temporali; tutto è una «raggiera di linee». Non c'è più modo «d'isolar nessun presente in mezzo alla neve calpestata». È un'illustrazione del disegno di Steinberg? No. È un testo sul disegno di Steinberg? Neppure. È la descrizione di un paesaggio mentale, è una piccola «cosmicomica» nata dalla visione del disegno di Saul Steinberg, da un nuovo ordine del medesimo disegno: «... io non faccio che raccontare quel che Steinberg ha disegnato». La città e il pensiero. A tre anni di distanza dall'uscita delle Città invisibili, Italo Calvino pubblica uno scritto sulla città (Gli dèi della città), in cui espone succintamente il proprio «metodo» per «vedere la città». «Per vedere una città non basta tenere gli occhi aperti», ma occorre: «scartare», «semplificare», «collegare». Le tre operazioni, che Calvino compie per ottenere una visione chiara e distinta della città, hanno un sapore cartesiano. La prima, quella di «scartare tutto ciò che impedisce di vederla, tutte le idee ricevute, le immagini precostituite che continuano a ingombrare il campo visivo e la capacità di comprendere», è l'operazione che gli è propria, quella con cui lo scrittore scarta l'ovvio e ricerca immediatamente l'angolo visuale con cui la cosa sempre vista non è mai stata realmente vista. Lo scarto è lo scatto del suo punto di vista. Il «saper semplificare», antidoto antimanierista che la sua prosa contiene sempre, è il modo per padroneggiare la proliferazione del molteplice: «ridurre all'essenziale l'enorme numero di elementi che a ogni secondo la città mette sotto gli occhi di chi la guarda». Il «collegare i frammenti sparsi in un disegno analitico e insieme unitario» è la ricerca dell'unità, ma anche delle «corrispondenze»; è il modo in cui la conoscenza del mondo, che si dà in modo fenomenologico solo attraverso i particolari, viene restituita a una unità mediante l'immaginazione e il pensiero. Il rigore del «metodo calviniano» non impedisce che la materia selezionata e scartata divenga «invenzione» e «fantasia». Anzi, questo è proprio il suo punto di partenza. Poche righe oltre, il fantasioso Calvino è già alla ricerca di un'immagine, di una metafora che funzioni come generatrice di discorsi e parole, oltre che di icastiche immagini del pensiero che producono conoscenza. Dapprima è quella del «diagramma della macchina», poi quella più plastica dell'«organismo vivente nell'evoluzione della specie». Il tema della città, che è anche un modo particolare di darsi della conoscenza del reale, ritorna più volte nella sua opera e perciò anche negli scritti dedicati all'arte. Ben quattro scritti, comparsi in cataloghi e riviste tra il 1978 e il 1983, hanno infatti come oggetto la città. Si tratta di testi diversi, sia per quanto riguarda il riferimento pittorico Peverelli, Del Pezzo, De Chirico ma anche per lo stile con cui sono scritti. [...]

65 Le città del pensiero è il titolo del racconto che Calvino legge a Parigi nel 1983, in occasione della mostra di Giorgio de Chirico al Centre Pompidou, racconto pubblicato in traduzione francese nella rivista del Centre Pompidou e in Italia nel numero di luglio-agosto di «FMR». Nel corso della lettura vengono proiettate una trentina di diapositive di quadri di De Chirico riprodotti nel numero della rivista italiana, come una sorta di testo parallelo, testo visivo che lo scrittore ha evidentemente avuto presente nel momento in cui scriveva il suo racconto. Il racconto è un succedersi di quadri visivi, di spazi mentali abitati da personaggi, oggetti, edifici scaturiti dai quadri di De Chirico. È anche questo un viaggio dentro il «meccanismo del pensiero», una sorta d'ennesimo paesaggio mentale che, a differenza di quello descritto in Dall'opaco, trova la sua origine nella fantasticheria del quadro, invece che nel ricordo del paesaggio ligure. Domina la descrizione di questi spazi il vuoto e un'angoscia agorafobica che si trasforma progressivamente in claustrofobia. La particolarità dei paesaggi pittorici di De Chirico era già stata descritta da Calvino in un articolo comparso sul quotidiano «La Repubblica» (1982), in occasione della pubblicazione del volume Il paesaggio nella Storia d'italia edita da Einaudi. In quel testo (La città pensata: la misura degli spazi), ora raccolto in Collezione di sabbia, lo scrittore osservava che la dimensione del vuoto urbano è «una costante mentale italiana», attraverso cui si collegano le «città ideali» rinascimentali a quelle metafisiche di De Chirico. Gli estremi dell'immaginazione spaziale entro cui pare oscillare il pensiero sono quelli dello «spazio stretto rassicurante e il fuori smisurato e disumano», estremi che costituiscono il nucleo decisivo della poesia di Leopardi. Il racconto introduce nel paesaggio dechirichiano, segnato da una sospensione temporale, dall'indeterminatezza dell'ora e del giorno, un elemento di temporalizzazione; in modo analogo, lo spazio dilatato condiziona i pensieri del viaggiatore, lo conduce allo smarrimento del proprio tempo che diviene di colpo incerto tra il presente e il passato, tra la giovinezza e la vecchiaia. Lo spazio si offre al narratore e nel contempo si sottrae con la sua effettiva impercorribilità, la sua inaccessibilità. L'agorafobia si comunica dal paesaggio al narratore, che preferisce tenersi vicino agli edifici, proseguire lambendone gli spigoli, attraversando i portici. Il tema dello spazio è dominante nel racconto, uno spazio insieme troppo largo e troppo angusto, uno spazio in cui non solo è dato di provare il sentimento dell'infinita angoscia, ma anche, come nel verso leopardiano, il piacere di naufragare; e allo stesso tempo, insieme a questo sentimento, si genera il desiderio di uno spazio intimo, spazio della prossimità tattile e visiva, uno spazio racchiuso, e immediatamente quel «chiuso» si rovescia in claustrofobia. Il viaggiatore, come la voce narrante di Dall'opaco, racconta le dimensioni dello spazio: il verticale e l'orizzontale; prova a percorrerlo seguendo la dislocazione discreta degli oggetti verticali: torri, bandiere, fari, ciminiere; o la dimensione visiva dell'orizzontale: l'orizzontalità è un piano continuo. La percezione sensoriale dello spazio è molto forte: nel silenzio il viaggiatore cerca di cogliere la voce dei personaggi che s'intravedono continuamente sullo sfondo, sempre gli stessi.

66 «Chi è l'ospite ideale che la città attende?», si chiede, poiché la città silenziosa, immobile, disabitata attende evidentemente qualcuno. Ma chi? L'ospite ideale di questa città è il pensiero: «Questa città è fatta per accogliere il pensiero, per contenerlo e trattenerlo». La rêverie dello spazio, che è sempre rêverie dei luoghi del pensiero, in Calvino ha il carattere dell'assolutezza, del silenzio, della solitudine, del vuoto; assomiglia a quelle pareti che vanno tenute sgombre e bianche, come è scritto in Se una notte d'inverno un viaggiatore, affinché il pensiero possa circolare liberamente. Non sono gli oggetti domestici o le forme architettoniche consuete ad attrarre la sua rêverie; l'intimità è infatti sentita come un pericolo, come una perniciosa occasione di smarrimento nel denso, nel colloso, nell'impeciamento del reale. In mezzo a questi spazi interminabili, a questi spazi impraticabili per il piede umano, circola liberamente il pensiero: «Qui il pensiero trova il suo spazio, e il suo tempo, tempo sospeso, come d'invito, d'attesa». Non è il pensiero della concretezza, «il pensiero di qualcosa», ma un pensiero che «sta per affacciarsi all'orizzonte della mente». È il pensiero aurorale. La fondazione del pensiero è una fondazione topologica: «Si pensa, dunque esiste una città del pensiero», ripete il narratore con Cartesio, di cui evoca il pensiero che riempie «lo spazio di una stufa», di «una città piena di stufe», o l'immaginazione dello spazio della scrittura del filosofo di Koenisberg, Kant, che per pensare e scrivere aveva bisogno della torre su cui appoggiare lo sguardo: «Il pensiero ha bisogno di luoghi dove posarsi». Questa affermazione di rêverie dello spazio ci fa intendere che in questa città, come nelle città di Marco Polo e Kublai Kan, la descrizione dello spazio è una descrizione delle «articolazioni della mente di chi esamina» (C. Milanini). Il pensiero rimuove gli ostacoli, i condizionamenti delle emozioni e delle passioni mediante gli oggetti disposti in questo spazio. Lo spazio è dunque reso praticabile al pensiero che può procedere rapidissimo o lentissimo, a seconda dei casi. Le figure mitologiche, Edipo, i Dioscuri, o le piazze che s'incontrano, non turbano più il pensiero del viaggiatore, poiché «l'inquietudine è ormai contenuta tutta in loro, e a noi non resta che la calma assorta e melanconica». Questa città è dunque una città platonica, città delle Idee, città purificata da tutte le idee d'impurità, città dominata, come in ogni platonismo, dall'angelo della melanconia, la cui funzione è quella ordinativa, quella di «sottrarre le nostre angosce nascondendole in una collezione d'oggetti eterocliti e asimmetrici». È il demone malinconico che «illumina queste strade, non l'angoscia», afferma il viaggiatore. La luce dei quadri di De Chirico appare infatti come una luce incerta, indecifrabile; difficile dire di quale luce si tratti, se del mattino o della sera, aurora o crepuscolo, è una doppia luce. La prosa di Calvino, prosa cristallina, dell'esattezza, della precisione, della leggerezza, racchiude in realtà un nucleo di opacità; manifesta sempre un quid, un'interrogazione a vuoto, un'incertezza del suo incedere che non riesce completamente a sciogliere. Gira inutilmente a vuoto intorno a quel «non so», circonda con le sue parole un punto inaccessibile,l'ubagu, l'opaco, che non riesce mai

67 a risolvere, evoca un silenzio che non riesce completamente a riempire, nonostante il suo incessante ascolto (Un re in ascolto). [...] La mente in mente. Quale forma possiede lo spazio della mente? Qual è la topologia di quel luogo supremo entro cui lo scrittore allestisce le proprie fantasie, congetture, paradossi, racconti? «La mente prende forma di molte forme, ma non tutte le forme le stanno bene», scrive Calvino nelle prime righe del testo dedicato a Shusaku Arakawa, pubblicato in occasione della mostra del pittore nippo-americano alla Galleria Blu (Milano, 1985). E allora quale sarà la forma-che-sta-bene secondo lo scrittore? «Un quadro di Arakawa sembra fatto apposta per contenere la mente, o per esserne contenuto». La mente di cui lo scrittore parla è la sua mente «l'unica che posso avere in mente» e la mente di Arakawa «quella che ha in mente lui» ma anche la mente universale, quella di cui parla Averroè, la mente che «è unica per tutti noi, e che forse è quella a cui tutti pensiamo quando diciamo "mente", perché ciascuno di noi ha bisogno di credere che la propria mente funziona in modo universale, e inversamente non riesce a immaginare una mente universale se non attraverso la propria». Il testo di Calvino è una descrizione dei quadri dell'artista «Guardando un quadro di Arakawa cosa mi viene in mente? La mente» e insieme la descrizione della propria mente, dei modi della mente. Arakawa infatti non dipinge la mente; i suoi quadri non somigliano alla mente «nel senso che prima esiste una mente e poi viene dipinto un quadro che la rappresenta»; la mente non è un «luogo» da rappresentare, così come si rappresenta un paesaggio. È la mente, scrive Calvino «la mia mente» che «somiglia al quadro». Somigliare significa che è «simile», cioè che è «semplice»; alla lettera: «piegato una volta». La figura della somiglianza è ricorrente nel pensiero di Calvino, è una figura chiave in un universo che, come in quello abitato da Qfwfq, si presenta allo scrittore, in continua ricerca di un ordine, come un luogo di eventi fluttuanti, di cangiamenti, come un «caos sensibile» sempre sul punto di definire una sua forma stabile, leggibile e decifrabile dall'occhio umano. Somigliare significa per Calvino trovare le forme uniche, il comun denominatore di sistemi viventi, forme naturali, codici e linguaggi all'apparenza divergenti. Cercare le somiglianze, cercare di "vederle", significa trovare nella complessità le unicità che si ripetono e insieme le singolarità irripetibili. L'ammirazione che egli manifesta per il pensiero galileiano deriva dalla ricerca di questo metasistema delle somiglianze, costituito non da elementi complessi ma da elementi semplici dalla cui composizione scaturiscono le forme più diverse (Le livre de la nature chez Galilée). Anche la mente ha i suoi stoicheia, gli elementi semplici che la compongono, e come i quadri di Arakawa la mente è piena di frecce. «Dove vanno quelle frecce?» Raggiungono i confini del quadro e spariscono. Indicano una direzione del

68 movimento. «Nella mia mente i circuiti dove scorrono le idee vanno tenuti sempre sgombri perché una qualsiasi idea potrebbe bloccarli». Frecce come indicatrici di flussi di idee, della pluralità delle direzioni; ma ci sono zone dove i flussi «s'intersecano, s'accavallano, si compenetrano, o si scavalcano»: ronzio della mente in mente, «ronzio dell'attesa della linea d'attesa in attesa del suono in attesa dell'attesa». Linee, ferme o sempre in movimento, fasci di linee che creano prospettive: la mente «viene messa in grado di contenere qualsiasi cosa, indipendentemente dallo spazio che ha a disposizione». La linea, forma elementare dell'immaginazione geometrica di Calvino, «è una presenza attiva che rifiuta di "giacere" e crea distanze, dimensioni, discontinuità con la sua volontà di movimento, di azione e di comunicazione». Parole rarefatte «come quelle che risultano nella mente senza che nessuno le abbia pronunciate, parole compatte che stanno là come cose, elementi dell'arredamento mentale, parole che si fanno forti della loro autorità di portatrici autorizzate di significato, autorità che s'impone indipendentemente da qualsiasi significato». Le parole contrastano l'entropia disgregatrice, il disordine dell'universo, «continuando ad affermare il loro ordine di segno scritto». E se anche nei quadri di Arakawa come nella mente le parole si disgregano «in segni alfabetici che non significano altro che se stessi come nei tabelloni degli oculisti»; è la superficie a esercitare la sua autorità, come in ogni spazio scritto. Scrivendo lettere maiuscole sulla superficie dei suoi quadri, il pittore giapponese restituisce ai segni grafici il loro valore e rende lo spazio del quadro uno spazio di scrittura; noi guardiamo quelle lettere e segni alfabetici come si guardano gli ideogrammi della scrittura cinese. La pittura di Arakawa, grazie al grafismo delle sue maiuscole, richiama proprio il valore d'immagine che i segni alfabetici posseggono, li dispone in uno spazio il cui flusso, l'addensarsi e lo scomporsi delle parole genera quella seduzione della «somiglianza» che attrae Calvino; le lettere transitano nella mente per produrre parole e frasi secondo una logica combinatoria e un flusso comunicativo che fa della mente uno spazio in mente. La mente è per Calvino simile a un foglio su cui vanno e vengono i segni e le linee sostano e s'allontanano; è lo spazio bianco, la superficie in cui allestire, per «punti focali» e secondo un disegno rigoroso, lo spazio bidimensionale che contiene «linee, piani, volumi, colori, forme, universi». Lo spazio è qualitativo, disomogeneo, come quello praticato da Qfwfq: «qui è pili denso, là rarefatto, qua una superficie piatta, là è una stratificazione di universi». Tuttavia nei quadri di Arakawa «non ci sono linee né piani né volumi, ma solo le loro intersezioni, proiezioni, focalizzazioni, che vibrano e vorticano e traboccano fuori dal quadro». È così anche nella mente dello scrittore? Le linee, le frecce, le parole che escono dai quadro vanno in un altro quadro di Arakawa: «è sicuro che i suoi quadri comunicano tra di loro». La comunicazione, sottolinea Calvino, non si svolge solo nella continuità, ma anche nella discontinuità:

69 «questa comunicazione avviene attraverso una discontinuità, un divario, un intervallo vuoto al di là del quale niente è somigliante, il tempo e lo spazio non sono più gli stessi». La discontinuità è anche blank, come Arakawa chiama il colore della mente: «macchie di blank, di non-quadro, che interrompono il tessuto dell'universo-quadro e ci danno la sensazione che il significato e la forma di tutto il resto fluttuino attorno a queste lacune dell'esistere». Il blank non è un colore, è prima e dopo d'ogni colore, è quello che non si può cogliere perché, scrive Calvino, c'è sempre un colore che «si sovrappone al nostro sguardo». I confini del quadro-mente sono anche dentro il quadro, e i suoi bordi «non sono altrettanto decisivi, perché potrebbero spostarsi più in là, il quadro potrebbe estendersi in tutte le direzioni, diventare infinito». Il quadro è «infinitamente estensibile sebbene limitato dalle sue discontinuità interiori», così come la mente, «che nasconde abissi nelle sue pieghe». Calvino immagina la mente come un estensibile che ha dentro di sé sia la possibilità della propria estensione, come della propria implosione il blank è implosione, è il «continente infinito del non-spazio e del non-tempo». Quella dipinta da Arakawa è dunque una carta della mente? Il pittore come nuovo cartografo del pensiero figurale? La cartografia è orientamento, disposizione dei luoghi e indicazione dei percorsi probabili, del flusso delle direzioni. La carta non è il mondo, ma la sua esposizione. La carta della mente di Shusaku Arakawa, della mente che abbiamo in mente, è per Calvino un atlante stellare, una mappa della dislocazione dei mondi possibili: galassie, sistemi di stelle, pianeti, satelliti, tutti contenuti nel dettaglio della carta, un orientamento del mondo sospeso sopra la nostra testa, ma anche universo in cui noi siamo contenuti; la carta-quadro-mente è il paradosso del «noi siamo là». Il tema della mente, della mente che contiene il mondo, del mondo come mente, è il tema centrale dell'ultimo Calvino, e non solo dello scritto dedicato all'opera di Arakawa, o di quelli precedenti (Paolini, Melotti, De Chirico, Cremonini), ma anche dei testi che compongono Collezione di sabbia e Palomar. È la questione intorno a cui si arrovella lo scrittore, un rovello concettuale, ma anche esistenziale: tracciare una mappa delle mappe, raggiungere lo schema che gli consenta di continuare a praticare l'esercizio conoscitivo che nasce dal «pathos della distanza» «fondamentale componente della nostra cultura», come la definisce Calvino (La luce negli occhi). Leggere il mondo attraverso la mappa delle mappe significa per Calvino tradurre il mondo in segni, in lettere, in scrittura, significa che nessun'altra cosa s'interpone tra il soggetto e le cose, significa «toccare la struttura silicea dell'esistenza». [...]

70 La scrittura e la fotografia. Uno dei problemi centrali di tutta l'opera di Calvino è quello della "vertigine da infinito": «Alle volte cerco di concentrarmi sulla storia che vorrei scrivere e m'accorgo che quello che m'interessa è un'altra cosa, ossia, non una cosa precisa ma tutto ciò che resta escluso dalla cosa che dovrei scrivere; il rapporto tra quell'argomento determinato e tutte le sue possibili varianti e alternative, tutti gli avvenimenti che il tempo e lo spazio possono contenere. È un'ossessione divorante, distruttrice, che basta a bloccarmi. Per combatterla, cerco di limitare il campo di quel che devo dire, poi a dividerlo in campi ancor più limitati, poi a suddividerli ancora, e così via. E allora mi prende un'altra vertigine, quella del dettaglio del dettaglio del dettaglio, vengo risucchiato dall'infinitesimo, dall'infinitamente piccolo, come prima mi disperdevo nell'infinitamente vasto» (Lezioni americane). La doppia infinità l'infinitamente grande e l'infinitamente piccolo è dunque il limite verso cui si spinge sia l'ossessione fotografica di Antonino Paraggi sia l'ossessione scritturale di Italo Calvino. La fotografia quale immagine del reale «fetta temporale dello spessore di un secondo» potrebbe aspirare a raccogliere l'immagine della «mobile continuità», di tutti gli avvenimenti contenuti nel tempo e nello spazio; inoltre, grazie alla sua capacità di focalizzare i particolari, di essere composta tutta di particolari, di essere essa stessa un particolare della realtà, la fotografia potrebbe contenere in potenza tutta l'immagine di quel reale che essa ritrae; come nel paradosso perseguito in diverse opere cinematografiche: ingrandendo una fotografia si pensa di trovare tutto il reale che è contenuto nell'immagine di quella porzione di realtà. La fotografia va perciò considerata come la vera metafora della scrittura, così come Calvino la considera: la scrittura capace di esaurire il mondo e che, come la fotografia, ha nell'occhio il suo principale organo descrittivo e conoscitivo. In Palomar i singoli racconti del libro sono come «istantanee, in cui non solo lo sguardo ma tutto il sensorio si comporta come una macchina fotografica, isolando e fissando, a scatti» (N. Merola). È questa una consuetudine visiva di gran parte dell'opera narrativa di Calvino che in Palomar, opera interamente dedicata alla riflessionedescrizione, diviene così palese da far pensare «a un album di istantanee scrutinate con la lente d'ingrandimento» (A. Battistini).

71 La fotografia, come la scrittura, è una cattiva infinità, a cui solo un Dio potrebbe restituire il suo senso, interrompendo la catena infinita dei rinvii, quel Dio di Giordano Bruno che, secondo lo scrittore, giustifica la stessa affermazione di Flaubert: «Le bon Dieu est dans le détail». La stessa ammirazione che Calvino nutre verso Borges, ammirazione nei confronti d'una scrittura che possiede la capacità di «concentrazione di significati nella brevità dei suoi testi», è della medesima natura della sua ossessione fotografica: entusiasmo per la capacità di contenere nello spazio del racconto, sulla minima superficie del foglio o della fotografia, perché la fotografia è scrittura della luce il tempo plurimo. Calvino rilegge in una sua conversazione dedicata a Borges (I gomitoli di Jorge Luis, 1984) il racconto Il giardino dei sentieri che si biforcano come un racconto di spionaggio che contiene un altro racconto dalla suspense logicometafisica e d'ambiente cinese, ma anche come «un saggio sull'idea di tempo». Procedendo nella direzione della letteratura, ritroviamo lo stesso problema che s'incontra tra le righe dell'avventura di un fotografo, il problema dell'inesauribile che si nasconde sulla superficie dell'immagine-mondo, del mondo come immagine. Calvino è interessato alla fotografia perché la fotografia gli sembra imparentata con la scrittura, più di quanto lo sia il cinema, quel cinema di cui Calvino adolescente si è nutrito, sia sul piano del piacere dello spettacolo che su quello dei temi e delle forme narrative, ma verso cui non sembra avere in seguito lo stesso interesse concettuale. Forse è in questo senso che va interpretata un'osservazione di Guido Fink, che rileva: «Le immagini sono reti, scriveva Canetti nel Frutto del fuoco: quel che vi appare è la pesca che rimane, mentre qualcosa scivola via. Si potrebbe concludere che quel che interessa Calvino, al contrario, è solo quello che scivola via, il modo in cui avviene questo scivolamento, questa lenta sparizione: il procedimento contrario rispetto alla persistenza sulla retina, cui si deve l'esistenza del film». Sparizione e apparizione sono i due modi di darsi dell'immagine, ma anche della scrittura: sparizione e apparizione del segno. Il problema di Calvino fotografoscrittore non è dunque solo quello di ciò che resta fuori dallo sguardo-scrittura («ciò che resta escluso dalla cosa che dovrei scrivere»), ma anche quello di ciò che sparisce del mondo scrutinato-scrutato attraverso la macchina fotografica o il cannocchiale o il «nero strumento» evidente metafora della scrittura. Nel momento in cui appare la scrittura sul foglio o l'immagine sulla carta fotosensibile, nel momento in cui sembra prodursi il mondo scritto, a Calvino resta il problema dell'altro mondo, il mondo non scritto, mediante l'infinitezza dei particolari che la penna ha radunato sul foglio, o la luce ha impresso sulla carta fotografica. L'ossessione di quel qualcosa-che-scivola-via è l'ossessione della scrittura di Calvino, scrittura della permanenza, della rete che vuole catturare il mondo, che vuole grigliare tutto il reale e che invece non può fare a meno di prendere atto che, ogni volta che si scrive, «qualcosa scivola via». La presenza della scrittura implica un'assenza, così come nella fotografia di Bice, la sua immagine fotografica, l'immagine della sua maschera, implica l'assenza di Bice: scrivere è scrivere quell'assenza, come fotografare è fotografare un'assenza; ma è proprio da questa

72 assenza che nasce una presenza: la presenza della scrittura. Tuttavia scrittura e fotografia differiscono, il loro statuto ontologico è diverso. Come ricorda Calvino nel suo articolo sulla morte di Roland Barthes, la fotografia ha un fondamento «chimico»: è «traccia di raggi luminosi emanati da qualcosa che c'è, che è li. (E questa è la fondamentale differenza tra la fotografia e il linguaggio, il quale può parlare di ciò che non c'è). Qualcosa, nella foto che noi stiamo guardando, c'è stato e non c'è più: è questo che Barthes chiama tempo écrasé della fotografia». [...] Un occhio sui rami [ ] Ringraziando François Wahl, nel dicembre del 1960, per un articolo dedicato alla logica della visione, lo scrittore ligure dichiara che il punto di partenza del suo lavoro è proprio l'immagine e conclude: «l'unica cosa che vorrei insegnare è un modo di guardare, cioè di essere in mezzo al mondo. In fondo la letteratura non può insegnare altro» (I libri degli altri). Naturalmente la frase può essere interpretata in molti modi, ma la consapevolezza della valenza visiva del proprio lavoro indotta o spontanea che sia c'è già tutta. Tuttavia, cosa significhi essere uno scrittore che guarda, non è del tutto chiaro, dal momento che tutti gli scrittori sono, chi più chi meno, "visivi". Allora, per completare quel blasone di cui si diceva, forse bisognerebbe aggiungere altri tocchi di pennello e dipingere ai piedi dell' albero-conl'occhio-sospeso-sui-rami-che-guarda-attraverso-una-cornice altri oggetti che alludono, in modo più o meno diretto, alla particolare visività di Italo Calvino. Il primo oggetto sarà un libro. La lettura, come spiega Calvino stesso in molti dei suoi scritti è un'attività primaria. L'opera, scrive in Cibernetica e fantasmi, «continua a nascere, a essere giudicata, a essere distrutta o continuamente rinnovata al contatto dell'occhio che legge». Il lettore, pronostica negli anni Sessanta Calvino, prenderà il posto dell'autore, anticipando così l'idea generativa di Se una notte d'inverno un viaggiatore. Ma non si tratta solo di questo. Secondo Calvino esistono due differenti processi immaginativi: «quello che parte dalla parola e arriva all'immagine visiva e quello che parte dall'immagine visiva e arriva all'espressione verbale» (Lezioni americane). Il primo dei due è quello che compiono i lettori, coloro che sanno leggere, che dall'immagine delle lettere, compitate su di una pagina, passano alle immagini nell'immaginazione stessa: persone, cose, paesaggi, situazioni, tutte evocate dalla parola scritta: essi "vedono" ciò che è scritto. Il secondo processo visivo, che Calvino stesso nelle Lezioni americane dichiara di aver coltivato da bambino, guardando i comics sulle pagine del «Corrierino dei piccoli», lo possiamo ritrovare nella descrizione di quadri e opere d'arte, collezioni d'oggetti eterocliti e paesaggi. Ma c'è qualcosa di più. Calvino si è dichiarato seguace di Lucrezio, del filosofo naturale e poeta che vedeva il mondo composto come un testo costituito di stoicheia «elementi», ma anche «segni alfabetici», stando al significato greco della parola che l'occhio legge grazie alla loro emissione corpuscolare; questa è la ragione dell'analogia tra il mondo e il libro che Calvino istituisce nel corso della vita e che lo

73 porterà, almeno in una fase (accanto al Lucrezio dei segni elementari leggibili c'è infatti il poeta della dissoluzione della compattezza del mondo descritto nelle Lezioni americane, poiché la catastrofe è sempre lì lì per accadere, e il vuoto è, come il pieno, una "sostanza" del mondo), a trovare nella pagina scritta il luogo di risoluzione di tutte le antinomie e contraddizioni, a cercare un metodo, «una grammatica generale di ciò che esiste». È questo il motivo che negli anni Sessanta lo avvicina allo strutturalismo il mondo è un universo di segni e il linguaggio è un «materiale», secondo la lezione di Roland Barthes, da lui interpretato come uno strumento capace di unificare nella nozione di «testo» il mondo naturale e il mondo umano, i codici chimico-fisici e i processi mentali, «il comportamento di Ivan lo scemo del villaggio con quello dell'investitore economico» (La letteratura come proiezione del desiderio, 1969). Questo è un aspetto del materialismo di Calvino, cui occorrerebbe ritornare ogni volta per capire molte delle sue mosse. Galileo, l'altro filosofo naturale e scrittore, che Calvino considera in sommo grado, è anche lui, grazie al doppio strumento ottico del cannocchiale e del ragionamento, un lettore del grande Libro della Natura. Nella interpretazione di Calvino, lo scienziato stabilisce una stretta analogia tra mondo e alfabeto secondo una comune logica combinatoria: «Galileo intende dunque un sistema combinatorio in grado di render conto di tutta la molteplicità dell'universo» (Le livre de la nature chez Galilée, 1985); anche se poi, in un altro articolo, precisa che per Galileo l'universo non è immediatamente leggibile, ma per «intendere la lingua» in cui è scritto bisogna ricorrere alla matematica, da Calvino paragonata alla filologia. Il secondo oggetto da porre accanto al libro sarà una penna, oggetto che torna a più riprese nelle pagine di Calvino, fin dal Cavaliere inesistente. La scrittura, l'atto materiale dello scrivere, l'incisione del foglio, il tentativo di trasformare il foglio nel mondo e il mondo in un foglio, è uno dei temi più ricorrenti nella sua opera. La penna sta dunque per l'atto della scrittura, concepito come un atto del tutto analogo al disegno e che rende visibile il mondo mediante le parole o i tratti, i colori o le lettere dell'alfabeto («L'arte non ripete le cose visibili, ma rende visibile», afferma Klee, artista prediletto da Calvino, nella sua conferenza sulla creazione); così spiega lo scrittore in numerose occasioni, scrivendo di Saul Steinberg o commentando, avvolto dallo scafandro mentale del signor Palomar, un dialogo di un pittore-scrittore contemporaneo di Michelangelo che fa parlare il grande artista sul problema della «forma delle cose». La penna introduce un altro importante tema del Calvino visivo, quello del discreto e del continuo, che per altro lega l'atto della lettura a quello della scrittura. La lettura è un atto continuo che trasforma il discreto della scrittura tipografica (le lettere sono atomi, particelle, minuti granelli di sabbia, scrive Calvino) in una continuità; al contrario, la scrittura dell'uomo è continua, è analoga al disegno che si traccia sul foglio, come ricorda suor Teodora nel Cavaliere inesistente. Per inseguire i suoi personaggi, per "vederli", la suora-narratrice è infatti costretta a passare al disegno; la letteratura è in Calvino strettamente legata allo spazio, alla visibilità delle cose nello spazio, come sperimentano i personaggi delle Cosmicomiche. Per lui raccontare è vedere, è rendere scrivibile e dunque leggibile il mondo, è trovare un

74 principio d'ordine (la scrittura come principio ordinatore del disordine entropico dell'universo). Il terzo oggetto, da aggiungere al libro e alla penna, sarà una mappa, oggetto importante nella poetica calviniana della conoscenza e della visione: la mappa è un oggetto visivo, è il grafo che lo scrittore maneggia per uscire dal labirinto dell'indistinto, dallo spazio confuso e magmatico dove l'esistenza stessa sembra scivolare verso l'indifferenziato, l'informe. Rendere visibile lo spazio, questo è lo scopo della lettura/scrittura (la scrittura e la lettura sono l'ascissa e l'ordinata del suo sistema alfanumerico di decifrazione della realtà). Tuttavia, la mappa non è solo un oggetto visivo, ma principalmente uno strumento di orientamento che gli consente di percorrere lo spazio in molte direzioni. Ben prima della lezione sulla Molteplicità, dedicata alla letteratura come enciclopedia, lo scrittore ha individuato, sulla scorta della teoria dei sistemi, l'immagine-metafora della rete. La stessa mappa è fondata su un reticolo di coordinate; e una rete è anche la scacchiera su cui Marco Polo e Kublai Kan conducono il loro dialogo-scambio, su cui s'impernia il racconto del mondo visibile percorso in lungo e in largo dal messaggero dell'imperatore della Cina. L'immagine della rete trapassa in quella della nuvola, immagine della conoscenza incerta, dai margini e dalle forme continuamente cangianti, proposta dell'epistemologia poststrutturalista di Michel Serres, Ilya Prigogine, René Thom, cui Calvino si riferisce negli anni Ottanta, nella ricerca di un modello mentale che possa servire a rappresentare il mondo visibile ma anche invisibile (la metafora dell'invisibile, che ritorna nel titolo del suo celebre libro, va unita a quella delle tracce, tema proprio della filosofia degli anni Sessanta, tentativo di estendere la conoscenza oltre le forme immobili, di catturare ciò che è inesorabilmente collegato alla temporalità irreversibile, alla freccia del tempo, ma anche a ciò che resta nel grande «magazzino dei materiali accumulati dall'umanità» sotto forma di residuo, scarto, frammento e su cui si posa per descrivere più che spiegare «lo sguardo dell'archeologo»). Tutte queste figure (la mappa, la rete, la nuvola, e persino la traccia) sono centrali nella poetica del visibile di Calvino e andrebbero rilette in rapporto al suo percorso etico e politico che lo ha portato dall'idea vittoriniana di progetto, dall'adesione e dall'impegno nel Partito comunista, al disincanto e al distacco, a una perdita progressiva di fiducia nella possibilità di progettazione del mondo e dunque della sua trasformazione nei termini proposti da una marxiana «filosofia della prassi». Questioni queste che si riverberano in modo evidente anche sull'idea di letteratura che Calvino ha via via sviluppato a partire dagli anni Cinquanta dal Midollo del leone fino alle Lezioni americane e che lo ha indotto, di conseguenza, ad accentuare le ragioni della propria vocazione visiva. A questo punto è forse necessario dire in modo più esplicito cosa significa per Calvino vedere, spiegare perché sul blasone di questo scrittore si è pensato di dipingere l'occhio appeso ai rami descritto da Wittgenstein nelle sue Osservazioni filosofiche (l'immagine torna in almeno un paio di luoghi della sua opera). Ecco allora la recensione che Calvino ha scritto per un libro dedicato all'occhio e alla visione,

75 raccolta col titolo di La luce negli occhi in Collezione di sabbia. A un certo punto dell'articolo, lo scrittore sottolinea come la retina sia una porzione periferica della corteccia cerebrale: «Insomma il cervello comincia dall'occhio». La visione, forse non c'è neppure bisogno di sottolinearlo, è un atto mentale; per lo scrittore ligure questa è una questione centrale: la mente umana vede solo attraverso modelli, analogie, immagini simboliche e «la conoscenza fuori da qualsiasi codice non esiste». Questo mentalismo, che è la radice dell'ipervisualismo di Calvino, è evidente anche in quello che è uno dei suoi più importanti scritti sull'arte, La squadratura, dedicato a Giulio Paolini, dove lo sguardo è del tutto mentale, ma ancor di più nel testo scritto in occasione della mostra del pittore nippo-americano Arakawa, dove Calvino descrive «la mente che ha in mente». [...] L'ipervisualismo di Calvino porta alle estreme conseguenze questa vocazione visiva della letteratura contemporanea, la organizza secondo forme e modi propri, ma con una particolarità: sarà per via della sua consapevolezza intellettuale o per la sua particolare inclinazione all'esercizio, fatto sta che lo scrittore ligure è ben conscio dei pregi ma anche dei limiti della poetica dello sguardo e del suo visualismo. [ ] La sua natura manierista lo porta a dubitare di ogni cosa, a cogliere anche il rovescio della medaglia, a congetturare la possibilità che anche l'opposto sia vero o verosimile. I saperi dello sguardo non sono più saperi della certezza, come scopre il signor Palomar, ma dell'incerto, e per quanto ci si sforzi di costruire la propria conoscenza del mondo sulla certezza dell'occhio, moltissime sono le cose che ci ingannano (lo specchio è una delle più forti metafore conoscitive presenti nell'opera di Calvino; esso ci fornisce la consapevolezza di noi stessi, ma al tempo stesso ci inganna). Del resto, egli sottolinea, noi non potremo mai conoscere con certezza lo spazio dietro le nostre spalle, il campo posteriore, per il semplice motivo che i nostri occhi sono posti anteriormente: «L'uomo ha sempre sofferto della mancanza d'un occhio sulla nuca, e il suo atteggiamento conoscitivo non può essere mai sicuro di cosa c'è alle sue spalle, cioè non può mai verificare se il mondo continua tra i punti estremi che riesce a vedere storcendo le pupille in fuori a destra e a sinistra. Se non è immobilizzato può girare il collo e tutta la persona e avere una conferma che il mondo è ancora li, ma questa sarà la anche conferma che ciò che egli ha di fronte è sempre il suo campo visivo, il quale si estende per l'ampiezza di tot gradi e non di più, mentre alle sue spalle c'è sempre un arco complementare in cui in quel momento il mondo potrebbe non esserci» (Eugenio Montale: «Forse un mattino andando»). Resta dunque un ultimo oggetto di cui non si è ancora detto nulla: la cornice. Nel brano delle Osservazioni filosofiche di Wittgenstein che ho ricordato all'inizio, la cornice è intermedia tra una finestra, attraverso cui l'occhio guarda il mondo, e un anello che coincide perfettamente con l'occhio, e, avvicinandosi al bulbo oculare, si trasforma, via via, in arco sopraccigliare, in naso, fino a generare il volto stesso dell'osservatore (Wittgenstein considera il problema dell'io che guarda). La cornice di cui si parla è la «finestra albertiana» attraverso cui si può guardare il mondo, è il prospettografo che il disegnatore, raffigurato da Dürer nella sua incisione Il disegnatore della donna coricata collocata da Calvino sulla copertina della prima

76 edizione di Palomar, usa per disegnare il suo soggetto: una donna seminuda sdraiata su un tavolo, che è poi il piano prospettico stesso. Osservare e descrivere attraverso la finestra-cornice è una delle attività compiute dal signor Palomar che, come un disegnatore, cercherà di riportare mediante il suo occhio-penna un'onda o un prato sul foglio, dopo averli scrupolosamente divisi in quadrati. La cornice pone il problema dei confini delle cose, ma anche dei discorsi, dei contorni di ciò che si dice; per usare la formula di uno dei metadialoghi di Gregory Bateson: «non si possono conoscere i contorni dei discorsi fin che si è nel mezzo della conversazione» (Verso un'ecologia della mente). La cornice separa il quadro dal mondo, ne è il confine, sia verso l'esterno sia verso l'interno: di qua il quadro, di là il mondo. In tutta l'opera di Calvino è presente il problema del rapporto tra ciò che è dentro la pagina e ciò che è al di là di essa: i limiti della scrittura sono i limiti del mondo? oppure: i limiti del mondo sono i limiti della scrittura? E che rapporto esiste tra il mondo, che noi possiamo cogliere coi nostri sensi, e soprattutto attraverso la vista, e il mondo che s'incide sulla pagina, il quale si rende visibile e leggibile attraverso la scrittura? [ ] Ma la cornice non è solo un oggetto, un telaio che inquadra, uno strumento ottico per trascrivere ciò che si vede, è anche una parte accessoria che serve a collegare tra loro i vari episodi di un'opera che possiede un'ispirazione unitaria. Ci si potrebbe soffermare sull'uso continuo che Calvino fa della cornice per collegare i suoi testi: da Marcovaldo alle Cosmicomiche, dai diversi libri di racconti a Se una notte d'inverno un viaggiatore, per arrivare fino a Palomar, lo scrittore usa la cornice in modi differenti: il personaggio-cornice, la storia-cornice, l'indice-cornice, il tema-cornice, la meta-cornice, la cripto-cornice, ecc. La questione della cornice riguarda sia l'aspetto visivo (la cornice rende visibile la separazione tra l'opera e il mondo) che quello strettamente letterario: la cornice come legamento, come struttura che connette le singole parti di un'opera, fino all'opera-cornice che è Se una notte d'inverno un viaggiatore, dove il rapporto tra il dentro e il fuori, tra mondo scritto e mondo non scritto è complesso e problematico a differenti livelli di realtà. [...]

77 La squadratura 1 Italo Calvino Tutte le volte che incontra un suo amico pittore, lo scrittore rincasa rimuginando tra sé. Le opere che espone il pittore non sono dei veri e propri quadri: sono momenti del rapporto tra chi fa il quadro, chi guarda il quadro e quell oggetto materiale che è il quadro. Lo spazio che occupano queste opere è soprattutto uno spazio mentale, eppure esse ostentano le materie prime di cui sono composte, tela, legno, carta, colori di produzione industriale, articoli che si comprano nei negozi di forniture per pittori; prendono posto nello spazio visibile, occupano lo spazio che altrimenti sarebbe occupato da un quadro, e non vogliono far pensare ad altra cosa che ai quadri. Non è il rapporto dell io col mondo che queste opere cercano di fissare: è un rapporto che si stabilisce indipendentemente dall io e indipendentemente dal mondo. Anche allo scrittore piacerebbe fare delle opere così: perché all io non ci crede o se ci crede non gli piace; e perché il mondo non gli piace o se gli piace non ci crede. Però non riesce a trovare la strada. Da un opera all altra il pittore continua un unico discorso, non comunicativo né espressivo, perché non pretende di comunicare qualcosa che è fuori né di esprimere qualcosa che ha dentro, ma comunque un discorso coerente e in continuo svolgimento. Lo scrittore guarda il mondo del pittore, spoglio e senza ombre, fatto solo di enunciati affermativi, e si domanda come potrà mai raggiungere tanta calma interiore. Certo, per arrivare a quel punto molto è stato escluso, ma è il solo modo per tenersi alle cose di cui si può essere sicuri, che sono pochissime, e per poterle guardare con fiducia e simpatia, almeno per un momento. Senza fermarsi a contemplarle, però: l occhio del pittore è sempre ironico e interrogativo, e le sue tranquille affermazioni non sono altro che domande formulate con discrezione, dopo le quali non resta che aspettare risposte che forse non verranno e nuove domande che verranno certamente. Questo è l atteggiamento che pure lo scrittore vorrebbe avere ogni volta che si siede alla scrivania, ma appena comincia a scrivere si trova con tanti peluzzi sulla punta del pennino, o col nastro della macchina per scrivere tutto sfilacciato: peluzzi e sfilacciature che vorrebbero corrispondere al modo particolare in cui il mondo si va sfilacciando e speluzzando, o in cui l esperienza interiore si sfrangia e spelacchia, mentre di fatto sulla carta quello che resta se scrive a penna sono baffi d inchiostro, macchioline, a e o con gli occhielli intasati, o se scrive a macchina parole male inchiostrate, effe e elle che sfumano nell ineffabile. Per queste vie insidiose la comunicazione e l espressione continuano ad affiorare attraverso le parole. Allo scrittore, quella che dà più fastidio è l espressione: Le materie prime del quadro Il pittore e lo scrittore

78 226 ITALO CALVINO Fig. 73. Giulio Paolini, Disegno geometrico, 1960, tempera e inchiostro su tela, 40 x 60 cm, Torino, collezione Anna Paolini Piva. La griglia topologica è uomo di carattere riservato, ed esprimere qualcosa di se stesso non gli pare una bella cosa da fare, soprattutto in pubblico. Lo stesso verbo esprimere ricorda sgradevolmente la secrezione, o, nel migliore dei casi, l atto di spremere un limone. Se lo scrittore dovesse identificarsi con un frutto preferirebbe una specie non spremibile, una noce, una mandorla, o magari nei suoi momenti più generosi un fico secco. Per quel che riguarda la comunicazione, invece le allergie dello scrittore sono meno categoriche. In fondo comunicare non è che gli dispiaccia, tutto sta a intendersi sul che cosa e sul come. Anche il pittore, a ben vedere, comunica: tanto è vero che lo scrittore guarda le opere del pittore cercando di tradurre ciò che esse gli comunicano in qualcosa che vorrebbe comunicare lui. Il pittore ha cominciato il suo discorso quindici anni fa con una tela grezza in cui sono tracciate due linee perpendicolari e due diagonali: la squadratura geometrica del foglio, il disegno preliminare di qualsiasi disegno : ma siccome gli sembrava che quelle linee occupassero il quadro con troppa presunzione, quasi credendosi più importanti della tela su cui erano tracciate, le ha messe tra parentesi: parentesi appena accennate, perché non si credano d essere chissà cosa neppure loro (fig. 73). Un anno dopo, ha cercato di mettere tra parentesi la tela, appendendola in mezzo a un telaio più grande in modo che restasse uno spazio vuoto tutt intorno. Voleva risultasse chiaro che la tela fa parte del quadro ma non è il quadro. Poi si è proposto di fissare il momento in cui il colore entra a far parte del quadro, il momento del colore prima del colore: quando è ancora nel barattolo, dunque. E ha provato a posare un barattolo su un telaio vuoto, involgendo tutto col cellophane. Ma certo era una mossa rischiosa, che portava dritto al simbolismo, cioè quel determinato colore, anzi quel determinato barattolo, sarebbe stato

79 LA SQUADRATURA 227 tentato di credersi il colore. Una soluzione equanime e armoniosa fu trovata dopo un anno: presentare un campionario di cartoni colorati (tav. XVI, XVII). Silenziosi suggerimenti raggiungevano intanto l occhio del pittore: la carta quadrettata per esempio invita a tracciare altre quadrettature o linee rette a matita o a inchiostro di china, che s alternino o si sovrappongano a quelle stampate, o tagli che rivelino quello che c è sotto, per esempio una superficie di masonite. Il rovescio del quadro invece suggerisce quel che c è dietro al retro, per esempio il muro (fig. 74). Basta appoggiare una tela nuda a piè di un muro, un po inclinata, e fermarsi a guardarla, per renderci conto di come siamo irriconoscenti noi che abbiamo occhi soltanto per ciò che è portato, la pittura, e non per ciò che ha il compito di portare: la tela, il suo telaio, il muro che li regge, il suolo su cui poggia il muro. I quadri di solito s appendono all altezza degli occhi di chi li deve guardare. Non bisogna dimenticare dunque che il vero luogo della pittura è quella fascia orizzontale che delimita il campo visuale d una persona in piedi: mettere in evidenza questa fascia potrebbe diventare l opera pittorica assoluta (figg. 75, 76). Ma quest uomo in piedi a ben vedere non è altri che il signore col soprabito indosso che incontriamo nelle gallerie d arte, con lo sguardo rivolto alle pareti. Se il fine ultimo dell arte è questo, tanto vale che l opera assoluta riproduca quel signore a grandezza naturale ripetuto tante volte di faccia e di schiena. Il rovescio del quadro Fig. 74. Giulio Paolini, Senza titolo, 1962, tre tele preparate montate al verso una dentro l altra, 50 x 60 cm, Parigi, collezione Anne e Wolfgang Titze.

80 228 ITALO CALVINO Fig. 75. Giulio Paolini, Orizzontale (prospetto), 1963, inchiostro e collage su carta, prospetto, 50 x 70 cm, courtesy Archivio Giulio Paolini. Fig. 76. Giulio Paolini, Ipotesi per una mostra, 1963, progetto, courtesy Archivio Giulio Paolini. Orizzonte un po limitato, a cui il pittore è riuscito a sottrarsi concentrandosi sul rapporto del quadro con uno sguardo particolare, quello di chi ha fatto il quadro, l autore, cioè se stesso, visto magari attraverso il telaio, mentre guarda una tela che non c è (fig. 77). L autore non come soggetto attenzione! ma come elemento dell opera. Non il pittore che dipinge, o che, peggio ancora, dipinge se stesso, ma fotografato mentre solleva la tela, prende a proprio carico il suo peso, si fa supporto lui stesso. Fotografato: e perché non ci siano dubbi che la fotografia è solo strumento, si fotograferà anche il foto-

81 LA SQUADRATURA 229 Fig. 77. Giulio Paolini, Delfo, 1965, fotografia su tela emulsionata, 180 x 95 cm, Minneapolis, Collezione Walker Art Center. Fig. 78. Giulio Paolini, D867, 1967, fotografia su tela emulsionata, 80 x 90 cm, Londra, Collezione Alex Sainsbury.

82 230 ITALO CALVINO Fig. 79. Giulio Paolini, Io (frammento di una lettera), 1969, frammento dattiloscritto applicato su supporto adesivo di gomma, cm 1.5 ø, Casale Monferrato, collezione Gino Viliani. Il quadro e lo sguardo dell osservatore grafo. Oppure si fotograferà il pittore mentre trasporta la tela su cui è fotografato il pittore che trasporta la tela (fig. 78). Molte opere del pittore sono fatte di citazioni di sue opere anteriori. Si può parlare della propria storia senza compiacersene, senza intenerirsi? Lo scrittore ha dei pessimi rapporti con la propria storia e non vorrebbe mai voltarsi indietro a contemplarla. Del pittore apprezza soprattutto la riservatezza. Non c è nulla di più intimo della propria firma. Si vede chiaramente che al pittore esporre un opera con la propria firma provoca un certo disagio. Come liberarsene? Cancellando la firma? No, per colmo di pudore, cancella l opera ed espone solo la firma. Lo scrittore ammira molto gli sforzi del pittore per arrivare a un impersonalità assoluta, per sfuggire all aborrita psicologia, ma comincia a innervosirsi quando vede che la via verso l impersonalità riporta il pittore a tirare in ballo l io, sia pure un io cartesiano, categorico, grammaticale, anonimo (fig. 79). E se proprio questa fosse la via per liberare l io dalla corpulenta pesantezza dell autobiografia individuale? (Si fa per dire: tanto il pittore quanto lo scrittore sono magrissimi). Ma come si può scorporarlo, l io, se lo si fotografa? Eppure è così, forse solo un pittore fotografato può considerarsi un pittore impersonale, presente solo nell oggettività del suo esser pittore, privato di qualsiasi lirismo ed espres-

83 LA SQUADRATURA 231 Fig. 80. Giulio Paolini, Giovane che guarda Lorenzo Lotto, 1967, fotografia su tela emulsionata, 30 x 24 cm, Laupheim, collezione FER. sionismo. Annullare l io individuale per identificarsi con l io della pittura d ogni tempo, l io collettivo dei grandi pittori del passato, la potenzialità stessa della pittura: questa è la grande modestia e la grande ambizione del pittore. Una volta ha e- sposto la riproduzione fotografica d un ritratto di Lorenzo Lotto, intitolandola Giovane che guarda Lorenzo Lotto (fig. 80). L immagine è la stessa ma la sintassi interna cambia. È il soggetto del quadro che guarda Lotto: cioè l osservatore attuale del quadro vede quel che vedeva Lotto, no: si sente guardato dagli stessi occhi che fissavano Lotto. Gli occhi del quadro o gli occhi del modello? Il titolo avverte che nel punto in cui oggi si trova chi guarda il quadro, si trovava Lorenzo Lotto di fronte a quel giovane. Lo scrittore a questo punto crede d aver scoperto una contraddizione nel procedimento mentale del pittore: quel titolo implicherebbe che Lotto dipingendo stesse davvero guardando un giovane con la scriminatura tra i capelli, gli occhi dalla tonda pupilla, il collo a tronco di colonna? Ma come possiamo sapere se questo giovane esisteva veramente fuori dal quadro, e somigliava davvero all immagine del quadro? In base a quale vieta teoria della mimesi artistica possiamo garantire che l armoniosa compostezza del ritratto di Lotto corrisponda a un esperienza del mondo esterno? Magari Lotto a- La variazione della sintassi interna

84 232 ITALO CALVINO Fig. 81. Giulio Paolini, Nel mezzo del dipinto Flora sparge i fiori, mentre Narciso si specchia in un anfora d acqua tenuta dalla ninfa Eco, 1968, fotografia su tela emulsionata, filo di nylon, 150 x 128 cm, courtesy Archivio Giulio Paolini. Lo sguardo in macchina veva davanti a sé un giovane spettinato, strabico, col collo torto, e per controbilanciare la sgradevolezza di quell immagine era spinto a comporne un altra antitetica. O non aveva davanti nessun giovane, né simile né dissimile, poco conta la presenza o assenza d un modello; quello che conta è l immagine mentale alla quale e solo a quella il quadro di Lotto era tenuto a corrispondere. O forse anche questo è troppo dire: in che misura il quadro rappresenti, anzi fotografi l immagine mentale preesistente, il fantasma, non potrà mai essere definito: il quadro nasce sulla tela, pennellata per pennellata, e il fantasma mentale da cui l autore era partito è presto soverchiato, cancellato, dalla necessità che porta le forme a organizzarsi nei loro rapporti, nel farsi dell opera. Dopo un momento di soddisfazione per aver trovato un punto debole nella corazza del pittore, lo scrittore comincia ad avvertire qualcosa di troppo facile nel suo ragionamento, a non essere sicuro d aver colpito il segno. L operazione del pittore è basata sulla riproduzione fotografica, ha al centro l obiettivo della macchina, e il quadro di Lotto si presta più di qualsiasi altro perché il giovane pare fotografato guardando l obiettivo, cosicché l osservatore della riproduzione s identifica prima con l obiettivo fotografico, poi con l osservatore del quadro al museo, poi con Lotto in contemplazione del proprio quadro finito, poi con Lotto in contemplazione d un fantasma della propria mente che vorrebbe riprodurre in un quadro, poi con Lotto in contemplazione d un giovane in carne e ossa, poi col nostro pittore di oggi che stu-

85 LA SQUADRATURA 233 Fig. 82. Giulio Paolini, Autoritratto, 1968, fotografia su tela emulsionata, filo di nylon, 98 x 74 cm, Bari, Collezione Angelo Baldassarre. dia come fare a trasformare in un opera sua un quadro di Lotto senza aggiungergli e senza togliergli niente, eccetera. E tutti questi osservatori, tutti questi Lotto, tutti questi autori si sentono fissati dalle pupille della fotografia, del quadro, del fantasma, del giovane. La fotografia si è interposta tra la pittura e noi, e condiziona il nostro rapporto. Ecco che il pittore, un anno dopo, prende un altro quadro tra i suoi prediletti e ne riproduce un particolare raddoppiato, di modo che una Flora danzante (di Poussin) porga il quadro di se stessa (fig. 81). (Accanto, un Narciso che si specchia conferma il motivo della doppia immagine). Flora non fa certo parte del mondo empirico allo stesso modo in cui poteva farne parte il presunto giovane che posava per Lotto; è un altro mondo, il mondo della pittura, che abitano tanto il giovane quanto Flora; è da quell al di là che rispondono i loro sguardi ai nostri sguardi. Ingres ha fatto una copia dell autoritratto di Raffaello. A sovrapporre le fotografie dell originale e della copia risulta una leggera sfasatura dei contorni, un tremolio dell immagine. L estrema invenzione è il sovrapporsi, il riconoscersi nel gesto della pittura che è uno e non può che ripetersi? Tutto il lavoro del nostro pittore parte dal presupposto che la pittura sia un tutto compiuto e definitivo, un edificio a cui egli non pretende d aggiungere nulla. In un epoca in cui è facile fare gli iconoclasti, egli si contraddistingue per il rispetto che porta alla pittura, per la fedeltà al mestiere di pit- Fotografie della pittura

86 234 ITALO CALVINO La pittura come storia L incanto della tautologia Le opere come racconto e autobiografia tore nei suoi più umili elementi, per la modestia e insieme per la sicurezza con cui allinea nuove opere nel margine strettissimo che resta a un attività creativa ridotta all analisi di se stessa. La pittura per lui equivale alla storia della pittura, e in questa storia egli privilegia alcuni momenti in cui la trasparenza dello sguardo si direbbe nasca dalla trasparenza della mente: Vermeer, Poussin (fig. 82), Lotto, David, citati in una sua dichiarazione esplicita, e il ventaglio si può allargare ancora, desumendo i nomi dai destinatari dei suoi omaggi: Angelico, Raffaello (fig. 83), Bronzino, Velázquez, Watteau, fino a Cézanne e a Rousseau, fino a Picabia e Duchamp. Una volta egli ha esposto, ingrandita su un pannello, la pagina 174 d un manuale d arte moderna, con la successione cronologica delle varie scuole. L evocazione del manuale espande su tutta l opera del pittore una candida luce pedagogica. Riproduzioni di classici, particolari di quadri illustri, materiali e strumenti e luoghi del mestiere, schemi e diagrammi, non potrebbero essere tante illustrazioni d un manuale d avviamento alla pittura? Ma lo spazio in cui ogni oggetto è isolato promuove questo materiale didattico a principio e fine dell operare artistico. La metafisica del pittore e il suo cosismo coincidono: gli oggetti, gli strumenti del mestiere, gli atti del dipingere (a cominciare dal vedere) sono per lui gli unici assoluti. In un epoca in cui l arte è continuamente tentata d implicare qualcos altro oppure il tutto, a lui un quadro fa venire in mente solo la tela, il telaio, il cavalletto, eccetera; e viceversa. Riflettendo alle produzioni del pittore, lo scrittore le vede ruotare mosse da quell armonioso meccanismo del pensiero che è la tautologia. La tautologia può essere intesa come un gioco di specchi o come la manifestazione più incontrovertibile della verità: nell un caso e nell altro ha il potere d incantare; basta entrarci e non si vuole più uscirne. (O per meglio dire, le forme d inesauribile raggiungimento della verità sono due: la tautologia e l anfibologia: così pensa lo scrittore, che propende per la seconda). Il pittore tende a ricondurre il molteplice all uno, (lo scrittore, forse, il contrario). Uno degli emblemi che il pittore si è dato (ci sono momenti in cui si lascia visitare dal demone del simbolico) consiste in molti drappi di bandiere disparate, appesi a un unica asta. L ha intitolato col nome del filosofo che sostenne l unicità dell intelletto: Averroè. La mente del pittore si muove leggera nella nuda astrazione, ma se si dirige sulla pluralità delle cose corpose viene presa dalla vertigine della polverizzazione e dello sparpagliamento. In un libro stampato in 50 esemplari ha trascritto, spaziate sul bianco della pagina, tutte le lettere dei nomi contenuti nel suo taccuino; è la sua immagine dell infinito. Apoteosi d Omero è il titolo d un quadro di Ingres dove i personaggi famosi sono raccolti attorno al poeta in una classica gerarchia; lo stesso titolo lui ha dato a un azione scenica in cui ha disposto tanti leggii con fotografie d attori che interpretano personaggi famosi, tutti sullo stesso piano. Anche il fatto che la propria opera non sia una ma molteplice preoccupa il pittore, lo obbliga a fare nuove opere che contengano le precedenti, le unifichino e insieme le confermino come distinte. Attraverso l intervallo tra un opera e l altra il tempo entra nell opera del pittore, il tempo a cui è difficile dare una forma che non sia quella d un autobiografia. Allora le date indicano una direzione e un rapporto di conseguenza, e anche un distacco pau-

87 LA SQUADRATURA 235 Fig. 83. Giulio Paolini, L invenzione di Ingres, 1968, fotografia su tela emulsionata, 42 x 32 cm, Torino, collezione Christian Stein. sato nei moti della mente. Le sue opere diventano racconto, messe una dopo l altra, raccontano la storia di lui che pensa e realizza quest opera dopo quell altra e prima d un altra ancora; una storia che un critico ha seguito fase per fase fino a tre anni fa in un libro che costituisce un elemento complementare

88 236 ITALO CALVINO alla serie delle opere, quasi il loro tessuto connettivo continuo. Del resto questo tessuto si basa soprattutto sulle dichiaraizioni del pittore, sul discorso continuo con cui egli colma la discontinuità tra un opera e l altra. Dopo un lungo giro il pittore torna alla tela da cui era partito, la squadratura geometrica messa tra parentesi, il quadro che contiene tutti i quadri. La pittura è totalità a cui nulla si può aggiungere e insieme potenzialità che implica tutto il dipingibile. Le fotografie di questa tela squadrata potranno riempire il catalogo d una pinacoteca immaginaria, ripetute identiche ogni volta col nome d un pittore inventato, con titoli di quadri possibili o impossibili che basta aguzzare lo sguardo per vedere. Lo scrittore guardandole già riesce a leggere gli incipit d innumerevoli volumi, la biblioteca d apocrifi che vorrebbe scrivere. 1 Da: Italo Calvino, La squadratura, in Giulio Paolini, Idem, Torino, Einaudi, 1975, pp. VII-XV.

89 Giorgio Manganelli dai Salons [articoli apparsi nel 1986 sulla rivista FMR] Milano, Adelphi, 2000 Nel 1986 l editore Franco Maria Ricci sottopose allo sguardo di Giorgio Manganelli immagini disparate: tabacchiere e stemmi come celebri quadri e affreschi, vetri preziosi e fotografie, disegni e frammenti di templi. Immobile al suo tavolo di scrittore, Manganelli elaborava prosa sulla base di queste immagini, scriveva cronache di visite immaginarie come un nuovo Diderot che ci offra resoconti di sempre rinnovati Salons. E il risultato fu una variazione trascendentale di quello stile avvolgente e onnipervasivo di cui Manganelli era maestro. Possiamo essere certi che quanto quello stile gli ha dettato non si sovrapporrà ad alcunché sia già stato detto dagli storici dell arte o dai cultori delle varie materie. E possiamo essere certi che le sue parole si annideranno a lungo nella nostra memoria. E quando leggeremo che certi gessi rivelano «la tristezza della neve mentale» sapremo subito a chi dobbiamo questa composizione verbale.

90 L ALBERATURA DELL ALBA Tutto potrebbe cominciare con l alberatura di un veliero, le vele ripiegate; cordami, alberi, triangoli: un segno sottile, esatto, meticoloso; una cattura filiforme del mondo. Non sarà un inizio cronologico, ma la scelta di uno spazio mentale, un luogo assoluto che tollera una descrizione solo secondo le regole del disegno, una minuta catalogazione di linee. Ma, s è detto, alberatura di un veliero. E dunque, in primo luogo, una sede del vento. Certo, è possibile che il vento sospenda la sua aggressione; e tuttavia quelle linee sottili indicano una destinazione prediletta del vento, una presenza che in ogni caso sarà rammentata costantemente; dunque, l alberatura allude al vento, e forse altrove sarà il vento ad alludere all alberatura. In secondo luogo, dovunque vi è traccia di una fuga e di una memoria delle vele. L alberatura pare indicare una sorta di bizzarra 17

91 povertà, una aspra severità della mente, forse solo una preziosa nudità di linee. L alberatura non allude, ma discorre di vele colme di vento, e che tuttavia esistono solo come fantasmi della memoria e progetti della fantasia; la nave è fantasiosa e immobile. Questo periglioso incontro della staticità e della velocità, del silenzio e della raffica, del «qui» e dell itinerario danno alla nave una mista natura di cosa concreta e fittizia, non è già più oggetto, non tollera didascalia, eccola proporsi come stupore dell invenzione. Infine, il veliero polimorfo giace sull acqua; e non occorre dire fino a che punto sia, l acqua, presenza magica, luminosa, forma informe, instabile e mobile. L acqua distrae dalla macchinazione della nave, chiama a sé con la sua pervasiva estrosità, la sua solidità e imprevedibile voglia di avventura; e poi, nell acqua non c è conclusione, non «infine»; giacché l acqua rimanda alla enigmatica volubilità del cielo. Il cielo non è un luogo: è una preziosa invenzione della mente, una inesistenza che custodisce in guise fisiche e metafisiche tutto ciò che è esistente. Il cielo è contraddistinto da alcune presenze eterogenee: nuvole lussuose, transiti maliziosi e fastosi di dee, estasi di santi e sante; aureole e pittoresche lascivie. Il cielo non ha una ideologia attendibile; la sua lussuosa inesistenza lo fa luogo aperto a innumere incursioni che provengono da ogni dove: precipizio, palazzo, reggia, pinnacolo, empireo, inferi, il cielo aspira a esser riconosciuto e frequentato come scena, teatro, palcoscenico del mondo; come tale, ospita tutte le maschere del divino, e talune di queste sono 18

92 Carlo Bevilacqua, Danzatrici con nastri e strumenti musicali (particolare)

93 complici di altre ideologicamente incompatibili. Ciò è, naturalmente, molto spettacolare e più che lievemente immorale; ma dove governano divinità inesistenti come cielo e acqua, una drammatica e impossibile letizia investe tutte le forme. Infatti, nulla è quieto, nulla è certo di sé, in questi segni che invadono il mondo come minuscoli, irrequieti e stranamente matematici folletti. Se la morte di una santa affettuosamente cita un amoroso incontro ariostesco, ci è anche consentito trovare l allusione del vento e l irrequietezza del cielo in una veste femminile e femminea, e infine dobbiamo ammettere che solo l irrequietezza viene colta da questi moti di una mano innumerevole, una mano fantasmatica che percorre l innocenza vertiginosa del cielo e del mare. Un carro degli dèi, il giustapporsi di volti instabili e simili, un campestre indugio, una frenesia di gondole, e la squisitezza di un edificio disegnato e scomposto, tutto allude a una sublime, inconclusa turbolenza, un brivido innumerevole di forme che sono insieme ombre e riflessi. Supponiamo tuttavia che vi sia un momento prezioso quanto invadente, fatuo e fragile, in cui il vento voglia sostare, l acqua farsi specchio, e il veliero rinunciare alla smania dell itinerario. Vi sarà dunque la celebrazione di una immobilità che parrebbe incompatibile con la turbolenza. Ma non è così. La sosta del vento è pensosa e astratta, lo specchio dell acqua è affollato di immagini impossibili, il veliero gusta le delizie ambigue della depressione. La tentata e frustrata immobilità genera una minuta smania di linee, quasi una lacrimazione degli oggetti, un lutto che pa 19

94 re dedicato alla sublimazione della turbolenza in cerimonia. Ecco, la cerimonia: può essere che la turbolenza divenga intollerabile, insieme per letizia e per dolorosità; e dunque esplorerà gli esiti del rito, per placarsi e consolarsi: potrà tentare la pia, musicale grazia di una lamentazione, la ritmica scansione di una danza. La inquieta esattezza della mano è indifferente, non conosce se non la letizia dell affanno, e la pensosa concentrazione della gioia; insomma, non v è psicologia; qui, dove gli dèi frequentano i martiri, non oseremo distinguere con precisione didascalica lutto e danza. La febbre inconsumabile del cielo felice si affida alla breve, labile conclusione di una carta, governata da una mano innumerevole. 20

95 Federico Francucci «GUARDARE UN QUADRO» MANGANELLI DESCRITTORE DI FIGURE Un altro Manganelli? Federico Francucci in: in: M.Basora M.Basora e M. e M.Marinoni, Marinoni (a «Sorpresi c. di), a scrivere di «Sorpresi immagini». a scrivere Critica di d'arte immagini». di letterati Critica tra d'arte Otto e di Novecento, letterati tra Pavia Otto e 2016 Novecento Questo è un saggio dedicato almeno in prima battuta e con le precisazioni che si vedranno agli scritti di Giorgio Manganelli intorno alle arti figurative e plastiche. Confesso che al momento di redigerlo più di un dubbio mi fa esitare: è davvero necessario? È di qualche utilità [...] conoscitiva, cioè, al di là della comprensibile ma non sempre vitale tendenza documentaria a ricostruire e catalogare tutto, a riempire tutte le zone bianche della mappa, non tanto postulare l'esistenza, già certa, di un'altra identità culturale e scrittoria di Manganelli, quanto accordarle esistenza autonoma? Fermo restando lo scrittore (edito e inedito, di prosa, di teatro e di versi: per la verità non tutto agli stessi livelli), e dopo l'anglista, il saggista, il viaggiatore, l'epistolografo, il corsivista, il musicologo, il consulente editoriale, l'autore per i media radiotelevisivi (dove si produceva anche nelle vesti di speaker, attore, ospite), aggiungere all'enorme fortuna editoriale e critica postuma di Manganelli l'angolo della critica d'arte, finora molto meno indagato e intensivamente sfruttato degli altri, potrà avere qualche ripercussione sull'immagine di una personalità culturale che sembra impossibile da modificare, tanto ogni nuovo fronte che si apre sembra confermarla nella sua fisionomia «inconfondibile», e quindi unica e sempre uguale a se stessa in tutte le trasformazioni? 1 E questa voce, una volta studiata, 1 «Inconfondibile» è l aggettivo che usa Graziella Pulce nel suo Giorgio Manganelli. Figure e sistema, Firenze, Le Monnier, 2004, a oggi il profilo monografico più organico nel presentare l intera attività dell autore. Da affiancare a questo lavoro è, sempre ad opera di Pulce, Giorgio Manganelli, Bibliografia ( ), con una cronologia della vita e delle opere e un regesto delle collaborazioni radiofoniche, Roma, Artemide, Per un aggiornamento recente sulla ormai nutritissima bibliografia manganelliana si può vedere l articolo di Andrea Cortellessa nel dossier, curato dallo stesso critico, dedicato allo scrittore dalla rivista «alfabeta2» il 16 maggio 2015 (lo si può leggere online all indirizzo Per i problemi legati all immagine pubblica di Manganelli mi permetto di rinviare a un mio contributo 62

96 all'affondo nella carne della prosa, il saggio vorrebbe mantenere una sorta di distanza o di visione dall'alto e da lontano, che consenta di fare parziale astrazione dei tratti più caratterizzanti di questo scrivere, per dimostrare come il suo orientamento teorico risulti ben ambientato e allineato in una cornice fornita di indici storico-culturali precisi, e piuttosto differenti da quelli spesso addotti per commentarlo o interpretarlo o spiegarlo, legati alla numerosa e molto differenziata famiglia della psicologia analitica, o in alternativa, ma meno spesso e in modo a mio avviso più convincente, alle teorizzazioni sul Neutro elaborate in Francia circa a metà del Novecento, compendiabili nel nome di Blanchot. In questo senso brandisco dunque il rasoio di Ockham: è epistemologicamente molto meno impegnativo e improbabile, oltre che molto più saggio dal punto di vista empirico e operativo, attestarsi non sull'unicità incomparabile, ma piuttosto sulla parziale comparabilità di Manganelli con tendenze della cultura che finora raramente gli sono state accostate. Insisterò in particolar modo sulla modalità di sguardo che Manganelli indirizza verso l'opera di cui deve scrivere, e su come una delle prime conseguenze di tale sguardo sia un effetto di evidenza illusoria e paradossale conferita alle immagini, che va a discapito dell'integrità, per non dire dell'esistenza, dell'opera stessa. Il contatto con l'opera è un attraversamento, sviluppato attraverso una catena di descrizioni; Manganelli vede e descrive ciò che il suo sguardo fa scorrere, o ciò che vi si imprime. I pezzi critici dedicati all'arte sono eminentemente ecfrastici. Ma il punto interessante, e anche problematico, è cosa Manganelli veda, e dove lo veda; e di converso, come è fin troppo ovvio, cosa non veda, e lasci fuori, del tutto fuori, dalla sua considerazione. Per mostrare in atto questa dinamica di visione e cecità prenderò in esame, alla fine del saggio, un breve pezzo, mai raccolto, dedicato alla pittura di un amico, figura artisticamente bicipite di cui Manganelli ha investigato anche il versante poetico (ed è proprio in virtù di quest'attenzione non episodica che l'ho scelto, qualità di Manganelli è cosa lontanissima dalle mie intenzioni; ma le frasi appena riportate sono un buon esempio della tendenza a proiettarlo in blocco, senza gradazioni o sfumature possibili, nell Empireo. I suoi pezzi sull arte sono tutti superbi; nessuno scrittore sapeva leggere come lui: questi sono, evidentemente, già racconti mitologici, che con la critica hanno poco a che spartire. 64

97 volendo evitare l'approdo su satelliti troppo remoti e scarsamente rappresentativi dell'universo-manganelli, in costante espansione); mi riferisco a Toti Scialoja. I Pitocchi non esistono Una doverosa per quanto breve ricognizione preliminare impone due fatti, che dispongo in ordine di rilevanza crescente rispetto all'obiettivo del saggio. In primo luogo, Manganelli si è interessato d'arte fin da giovane, e ha continuato ad interessarsene fino ai suoi ultimi anni. La biblioteca dell'autore conservata al Centro manoscritti di Pavia lo testimonia apertamente, con la sua sezione di libri d'arte che conta un migliaio di titoli in varie lingue (italiano, inglese, francese, tedesco, spagnolo) spazianti dall'arte preistorica a quella contemporanea e da oriente a occidente. E i segni di lettura di Manganelli possono condurre a qualche precisazione: se la critica d'arte di Praz, per esempio, poteva rientrare già negli anni Quaranta nell'orizzonte di un giovane italiano colto, leggere Panofsky in inglese verso la fine degli anni Cinquanta era se non mi sbaglio cosa, per un non specialista, tutt'altro che banale 3. Ma in secondo luogo, e questo conta di più, Manganelli ha anche scritto d'arte, a partire dagli anni della formazione fino a poco prima di morire. Già nei quaderni di appunti critici redatti tra 1948 e 1956, tuttora in buona parte inediti, troviamo due paragrafi di notevole importanza centrati sulla pittura: sull'epocale mostra milanese curata da Longhi nel 1951 su Caravaggio e caravaggeschi il primo; sul Domenichino e il Dossi guardati ancora con Caravaggio come termine polemico di riferimento il secondo, datato E se, con un salto in 3 Il libro di Praz che ho tra le mani, estratto dallo scaffale pavese, è Motivi e figure, Torino, Einaudi, 1945; di Panofsky Manganelli leggeva sicuramente Meaning in the Visual Arts, New York, Doubleday, Entrambi i volumi presentano sottolineature e altri segni di lettura autografi. Di Panofsky sono presenti anche, in inglese, gli Studies in Iconology in un edizione del 1962 (New York, Torchbooks), e Renaissance and Renascences in Western Art in un edizione del 1966 (ancora per Torchbooks). 4 Attribuisco importanza a questi due appunti perché riguardano questioni che Manganelli andava dibattendo persino furiosamente tra sé e sé in quegli anni decisivi: il problema della concretezza, del tipo e del quoziente di realtà dell arte; il problema del rapporti tra le retoriche interne alle opere e il loro inserimento nei panorami storicoculturali e umani. L appunto su Caravaggio si legge sul fascicolo 25 di «Riga», a cura di 65

98 avanti, fermiamo l'attenzione sull'iniziativa quasi pedagogica che a partire dal 1960 portò Manganelli e Cesare Garboli a pubblicare su «Il Giorno» cento brevi schede su altrettanti capolavori, possiamo registrare che i soli tre titoli d'arte del lotto sono tutti affidati alla penna di Manganelli. Non sono in possesso di alcun elemento per giustificare questo fatto, né ho informazioni sui criteri che hanno portato alla selezione delle opere, ma occorre intanto rimarcare che un fine connoisseur come Garboli abbia lasciato a Manganelli tutto lo spazio riservato alle arti. Nei tre brevissimi testi, istantanee critiche più che recensioni, si può già osservare qualcosa di interessante. Sono dedicati a Pittori italiani del Rinascimento di Berenson, Viatico per cinque secoli di pittura veneziana di Longhi, e Rinascimento e Barocco di Wölfflin; non si può non notare una forte differenza di tono tra le prime due schede e la terza. Scrivendo di Berenson e Longhi, Manganelli affila la sua prosa in formule cesellate e personali, definendo Berenson un «santo medievale» dalle qualità «taumaturgiche», «sottilissimo intenditore di forme pittoriche» e insieme «terrestre moralista», con le «sue pagine svelte ed acri, ricche di amor sensuoso degli oggetti»; e lodando la «prosa preziosa, cantante, nervosa» di Longhi, «attenta alla linea, al colore, all'aura del quadro»; mentre una molto minore congenialità si riscontra nei confronti di Wölfflin, a cui è riservato un trattamento, anche verbale, decisamente più scolastico («per il Wölfflin la storia degli stili è storia della visione del mondo»; Manganelli evita affermazioni così generiche, così "da manuale", per gli altri due) 5. Il progetto wölffliniano di usare la visibilità come cristallizzazione sintomatica, nella forma, del modo di pensare e sentire di un'epoca intera suonava forse sospetto, già all'inizio degli anni Sessanta, per Manganelli; mentre è evidente che gli altri due maestri, l'italiano e il lituano-statunitense, permettono al nostro scrittore (all'epoca ancora inedito) di attraversare l'arte figurativa registrando valori e reti di rapporti interni, autogeni, collocabili soltanto «nella storia, nell'infinito discorso, colloquio e litigio delle vicende pittoriche» Marco Belpoliti e Andrea Cortellessa, Milano, Marcos y Marcos, 2005; l altro se non sbaglio è ancora inedito. 5 Cito da Cesare Garboli, Giorgio Manganelli, Cento libri per due secoli di letteratura, prefazione di Paolo Murialdi, Milano, Archinto, Le schede su Berenson, Wölfflin e Longhi si trovano rispettivamente alle pp. 94, 95 e

99 (come si trova scritto ancora a proposito di Longhi). Se storia si dà, è una storia interna della disciplina; e il conoscitore dovrà dar mostra di «amore per la sensazione significante», «prontezza sensoriale nel riconoscere la tattilità delle strutture pittoriche», «sensibilità a cogliere la ricchezza dinamica delle immagini» (le virtù di Berenson secondo Manganelli). Il gergo da esperto si combina alla dichiarazione d'indipendenza del territorio artistico: per decifrare gli eventi che vi accadono bisogna dominare un codice (ed esserne dominati), dato che essi si svolgono unicamente iuxta propria principia 6. È ovvio che Manganelli deve sottostare, nella stesura di pezzi così brevi, a limiti intrinseci pesantissimi, e che non su di essi potrebbe basarsi un eventuale giudizio di valore. Resta però che il vincolo a una brevità telegrafica mette allo scoperto tendenze altrove più sfuggenti, perché inserite nelle scatole magiche della prosa manganelliana dove gli enti compaiono e scompaiono a piacere; cerchiamo dunque di metterle in luce e di verificarne la sorte nello scrittore a venire. E notiamo, allora, che se la temperatura dello scrivere, l'alta elaborazione stilistica qui notata in Berenson e Longhi rimarrà fattore determinante se non prevalente nella "critica d'arte" di Manganelli, egli userà molto meno, e in maniera diversa, quel parler peinture su cui ho stretto l'obiettivo poc'anzi. Manganelli non vorrà mai figurare come uno specialista o un intenditore di pittura, sottolineando anzi spesso, in maniera tipica sua, la propria estraneità all'ambiente e al linguaggio dei critici professionisti. E, così facendo, rientrerà alla perfezione in una tipologia di osservatore che giusto i critici hanno tante volte assunto nei loro studi: quella del dilettante di gusto le cui intuizioni, perché non ingessate da un sapere istituzionale, possono valere molto più di quelle di titolati accademici. Diciamo anzi senza esitazione che i grandi critici d'arte della modernità hanno sempre voluto mantenere attivo, in sé, quel polo del libero gusto squisitamente educato, perché continuasse a portare il flusso della viva percezione nel chiuso dell'altro polo, quello dell'aula e della biblioteca (basta sfogliare proprio Longhi e Berenson, o se è per questo anche il "culturalista" Panofsky, per togliersi ogni dubbio in proposito). Da questo punto di vista, allora, l'originalità di Manganelli starà soprattutto 6 Sul punto si possono vedere le considerazioni, purtroppo di non tramontata attualità, svolte negli anni Settanta da John Berger in Questione di sguardi. Sette inviti al vedere tra storia dell arte e quotidianità, Milano, Il Saggiatore,

100 in una questione di accento, e non di sostanza; calcando il tratto sulla libertà del fruitore non-legato, egli ne farà un vagabondo, uno straccione, un derelitto, un reietto della società, un anarchico senza una sistematica teoria anarchica a garantirlo. È in questi panni che si presenta al lettore nei suoi interventi sulle arti; così come, si sa, in quelli sulla letteratura 7. L'esempio che scelgo per dimostrarlo ci porta a un libro importante come l'antologia privata, autoritratto pressoché funebre licenziato da Manganelli nel 1989 (riproposto da Quodlibet nel 2015). In questo penultimo saluto l'autore ha voluto includere tre scritti dedicati all'arte; segno ulteriore che egli stesso desiderava attestare questa parte della sua identità e attività, registrandola qui sotto la rubrica degli «extravaganti» 8. Le tre recensioni sono dedicate a un artista contemporaneo come Melotti e a due autori classici, sia pure di diversa fama, o di fama diffusa in cerchie diverse, come Bernini e il Pitocchetto; e su quanto Manganelli scrive riguardo a quest'ultimo mi fermo un po'. Il pittore lombardo, al secolo Giacomo Ceruti, deve il soprannome al grande favore accordato, come soggetti della sua pittura, ai pitocchi: «poveri, anche deformi, accattoni, donne e uomini intenti a lavori men che umili», scrive Manganelli. E continua: 7 Non è casuale che Manganelli recensisca, sul fascicolo quarto del 1969 di «Mondo operaio», un libro come Arte e anarchia di Edgar Wind (dimostrando di aver letto anche, del medesimo autore, i Misteri pagani del Rinascimento), apparso l anno prima in traduzione italiana presso Adelphi. Il pezzo non è stato mai riproposto, e varrebbe la pena di farlo. Per quanto riguarda la critica letteraria un caso esemplare è l articolo sulla Storia della letteratura italiana di De Sanctis (raccolto in Laboriose inezie, Milano, Garzanti, 1987), che termina proprio con la comunicazione, fatta da un noi di cui l autore si sente parte, a un De Sanctis visto come «sindaco», che il gruppo degli irregolari abbandonerà la città, ormai divenuta troppo per bene. «Signor sindaco, noi ce ne andiamo». 8 Naturalmente l etichetta va intesa innanzitutto come bibliografica, dato che l antologia è organizzata secondo le opere da cui avvengono i prelievi, distinte per generi: narrativa, critica letteraria, critica d arte (con un solo ripescaggio dai Salons, volume di cui parleremo tra poco; ma intanto notiamo che Manganelli predilige, del se stesso critico d arte, la produzione giornalistica a quella inquadrata in contesti editoriali prestigiosi), corsivi, pezzi di società (dal Lunario dell orfano sannita), transitando poi per le scritture liminari e più periferiche (i risvolti), e infine avventurandosi n el mare magnum dei pezzi non raccolti: gli extravaganti appunto. 68

101 In grazie di codesto soggetto si è notato nel Ceruti un amore per la realtà è definizione ormai classica e una affettuosa partecipazione al mondo dei poveri. Ho letto della sua cristiana sollecitudine per gli umili, gli sventurati; una pittura fatta di amore. Che bello non essere di professione critico d'arte, ma andar vagabondando ad adocchiare tele e disegni, e dir sciocchezze, come viene viene. Confesso che nel Pitocchetto niente mi interessa di meno del suo supposto amore per i poveri. [ ] Ai miei occhi i poveri, i pitocchi del Ceruti, sono un registro retorico, una scelta di linguaggio, e quella scelta, se devo essere chiaro, nasce non già da amore cristiano, ma da assoluta indifferenza morale, da una splendida e torva passione pittorica 9. In queste righe del 1987 la retorica di Manganelli è collaudatissima, e il protocollo di assegnare in maniera sfrontata, pur se ormai prevedibile, al negativo valore assiologico positivo può essere agito a occhi chiusi. Così, la refutazione di un presunto realismo quasi creaturale del pittore passa attraverso le occhiate nemmeno gli sguardi del non-critico vagabondo e cianciante. Ma il sottotesto è chiarissimo: è proprio l'«adocchiare» di costui il vero, il giusto vedere, di contro all'ottusa superficialità degli specialisti. Le sciocchezze di questo fool, perché tale è, seppur non esplicitamente così nominato, il vagabondo visitatore di mostre, vanno ascoltate con molta attenzione: sono più vere della verità. Manganelli prosegue: Al Ceruti servivano i pitocchi, perché erano loro i guardiani dei colori affranti, macerati, i potenti, i sovrani della decomposizione, del disfacimento, del deciduo, dell'intristito; ed ecco fiorire, come splendide piaghe, i bigi, i marroni, certi grigi consunti, che sono tutti non già indizi di amore per la povertà, ma di amore alla ricchezza dei colori che grazie alla oculata coltivazione della miseria sono catturabili e adoperabili. Il Ceruti ha assoluto bisogno dei poveri, perché grazie a costoro attinge alla superba esibizione di un controllo dell'immagine, e dei suoi fantasmi che sarebbe altrimenti impossibile 10. Anziché un avvicinamento empatico, quello del Ceruti nei confronti della miserabile condizione dei pitocchi è un uso astrattivo: quella realtà gli serve da materia-guida per ottenere il controllo dei mezzi propriamente, esclusivamente pittorici come il colore e l'immagine: il pittore è stato trasformato in un indifferente vampiro che 9 Cito da Giorgio Manganelli, Antologia privata, Milano, Rizzoli, 1989, pp Ivi, p

102 succhia colore dalle cose. Siamo rimasti allora, contrariamente a quanto ho affermato sopra, a una considerazione tutta interna all'arte, all'art pour l'art? La restituzione verbale del catalogo di colori non dice questo, forse? Non esattamente, perché se Manganelli chiude, con protervia sin troppo esibita per non suonare sospetta, ogni accesso del mondo nell'opera che non sia formale (il mondo è mero materiale che l'artista manipola come ingrediente bruto per le sue alchimie), è per aprire un varco dall'altra parte, per così dire. Infatti, come abbiamo appena letto, l'immagine ha i suoi «fantasmi», che sono quasi dei doppi impalpabili che la abitano o la attraversano. Per stringere finalmente un po' l'argomentazione, si può dire che l'adocchiare manganelliano sia uno sguardo resosi capace di intravedere, divinare, i fantasmi nelle immagini: uno sguardo spettrosensibile. Il genere del discorso con cui i risultati di un simile sguardo vengono verbalizzati è la descrizione. La critica d'arte di Manganelli, qualunque sia volta per volta il suo oggetto, è una descrizione di ciò che non è propriamente visibile, o per lo meno non da tutti, nelle immagini viste: pseudopresenze evanescenti fermate e formate nelle parole che le raccontano 11. Ma questi fantasmi, dove sono? Un'ultima citazione dalle pagine sul Pitocchetto, prima di passare altrove: C'è un Incontro di due poveri in un bosco che mi pare una meraviglia: e soprattutto mi irretisce e adesca sulla destra una sorta di feto di fantasma, forse una bambina, forse una vecchia, dunque assolutamente, non un ritratto, ma solo una allusione, appunto un fantasma. In quella figura c'è un qualcosa che mi pare un gesto coinvolgente, un segno che deve eccitare la fantasia in modo affatto indeterminato. E tuttavia intensissimo, come una sorta di spavento che perdura senza che in nessun modo venga a definirsi l'immagine che genera spavento Con qualche aggiustamento, quanto Manganelli scrive in apertura del pezzo su Gianfranco Baruchello (1965) può essere esteso a programma di molta della sua critica d arte: «guardare un quadro di Baruchello mi dà un piacere, un eccitazione che non è puramente, forse non in primo luogo, visiva. La direi una sensazione cunicolare: include l esperienza di un labirinto di emozioni periferiche, di insidie svagate e casuali, di suggerimenti e accenni elusivi». Il saggio è stato raccolto nel già citato fascicolo di «Riga», da cui traggo il frammento (p. 535). 12 Giorgio Manganelli, Antologia privata, cit., p

103 Non solo il riferimento al quadro è dato in maniera volutamente vaga, ma ciò che in esso si valuta essenziale non è il suo soggetto, né i suoi protagonisti. Ciò che va descritto sta in un angolo, defilato, e non ha alcuna importanza la sua apparenza antropomorfa (bambina? vecchia? o forse insieme vecchia e bambina, il che trasferirebbe il senso dell'immagine sul piano del Simbolo: l'anima ), conta la sua appartenenza essenziale, infatti dichiarata prima di ogni altra cosa: «una sorta di feto di fantasma». Negli angoli, negli interstizi, nei cunicoli, lì stanno le entità descritte da Manganelli. Oppure, come accade di frequente, le immagini principali dell'opera sono passate come ai raggi x (non li ha definiti una volta Pascoli «Lux ign ota», raggio misterioso?), e percepite/descritte come interamente costituite da cunicoli, anfratti, incavi, protuberanze indecifrabili. Nel Sarcofago nuziale 13, testo del quale ora mi manca lo spazio per parlare, come pure meriterebbe, agli intagliatori del sarcofago viene ingiunto, a un tratto, di «scavare senza traforare», affinché la pietra ospiti, rimanendo intatta, infiniti strati di immagini e di storie ad esse collegate. L'ecfrasi manganelliana funziona in modo simile; l'immagine è lì, ma sono descritti i fantasmi che ne essudano. La pertinenza diretta di descrizione e opera è, quasi sempre, molto bassa. Nell'articolo, questo sì superbo, sull'estasi di Santa Teresa, quasi interamente costituito dalla descrizione del gruppo scultoreo, Manganelli giungerà alla più aperta dichiarazione, a mia conoscenza, di tale rapporto disgiuntivo ma non oppositivo tra la descrizione e il suo oggetto; ciò che il critico guarda, in quella chiesa romana di via Venti Settembre, è una «statua non più statua» 14. Le pagine su Santa Teresa vanno ricordate anche perché aiutano a definire un altro aspetto importante dell'ecfrasi manganelliana, ossia la sua virtus mitogenetica, creatrice di racconti. È ovvio che la scrittura produca un'enfatizzazione del fattore tempo, a discapito della percezione dell'opera come un insieme di elementi compresenti; Manganelli sfrutta con particolare intensità e costanza tale potenza temporalizzante, e i suoi fantasmi, o le sue «figure» (è il modo in cui chiama le immagini - spettro nelle pagine su Bernini), sono sempre coinvolte in una vicenda. Se ne vede la traccia, appena accennata, anche nel passo citato sul Pitocchetto, dove il «feto di fantasma» (qualunque cosa sia, e forse non 13 Lo si legge in Id., La notte, a cura di Salvatore Silvano Nigro, Milano, Adelphi, «Tento una prima descrizione della statua non più statua», ivi, p

104 è una cosa: si noti come sia regolarmente associato a locuzioni i quasi come, gli una sorta di che ne allontanano la piena dicibilità, calcando la mano sull'approssimazione di ogni atto definitorio) compie un movimento, un gesto, produce un segno. Registriamo sempre descrizioni di eventi, e non di stati; l'incertezza a questo punto, tutta manganelliana, coglie l'interprete quando deve decidere se derubricarli a eventoidi, o al contrario promuoverli a Vicende oscure e fondamentali 15. Il desiderio del testo è che entrambe le ipotesi siano affermate contemporaneamente. Descrizioni di che? Se ora passeggiamo per un breve tratto nei Salons, dove sono raccolti i testi scritti per una rubrica di «FMR» nel 1986, le coordinate dello scrivere d'arte manganelliano appena abbozzate si confermano e si precisano 16. Per cominciare: Manganelli non gerarchizza, anzi tratta esattamente alla stessa maniera, i generi artistici; non distingue da questo rispetto arti maggiori, arti minori e pratiche dallo statuto artistico incerto come la fotografia; non separa nettamente arte e artigianato, né si pone limiti di tempo e di spazio. L'arte cinese di mille anni or sono sta accanto a Degas; ventagli, tabacchiere e orologi convivono con tavole anatomiche, codici illustrati, monete, necropoli, caricature 15 Si sarà già osservato che un identico modus operandi si ritrova nel Manganelli prosatore in proprio; nel Sarcofago nuziale l ossimorico cenotafio dovrà albergare, insieme alla coppia, tutte le possibili storie, anche reciprocamente incompatibili, di cui essa potrebbe essere stata protagonista; e addirittura certe parti del Nuovo commento si possono leggere come descrizioni dei divenire che hanno portato all instaurazione dei segni interpuntivi nel Testo misterioso, e dei divenire che interesserebbero/interesseranno tali segni. 16 Uscito in prima edizione per i tipi di Franco Maria Ricci nel 1987, il volume è stato riproposto da Adelphi nel Non sarebbe difficile dimostrare, con la strumentazione sociologica di Bourdieu, che tipo di capitale sociale questo oggetto di lusso (parlo della prima edizione) fosse destinato ad accumulare: esso provvedeva, nell assetto materiale e nei dati paratestuali, a collocare Manganelli in un margine del campo letterario (o letterario -artistico) presentato come più importante del centro stesso; anzi come vero seppur paradossale centro. La veste potentemente esoterica (alla lettera: destinata a pochi iniziati e ottimati) e la giunzione dei testi, tramite il titolo, all asse Diderot-Baudelaire, posizionavano Manganelli nel ristretto gruppo degli outsiders fondatori della critica d arte moderna; quelle figure a cui era toccata l istituzionalizzazione della loro stessa non istituzionalità. 72

105 satiriche, quadri noti solo a pochi specialisti e "capolavori" riconosciuti, enormemente circolanti in riproduzione. Per proseguire: a quasi tutte queste immagini (e qui è doverosa la sottolineatura: Manganelli lavora guardando i cataloghi, ossia le riproduzioni: il suo vagabondaggio adocchiante è tutto mentale, e legato ai progressi tecnici di stampa e fotografia nella modernità avanzata) lo scrittore si accosta nello stesso modo, ossia proponendone quelle descrizioni decettive, di precisione allucinatoria, di cui si è detto sopra. Dove si discosta da questa tecnica, Manganelli non lo fa certo per riavvicinarsi all'opera (che funziona sempre come una suggestione), ma anzi per allontanarsene sempre di più, in divagazioni la cui pertinenza va rintracciata su un piano diverso da quello dell'esattezza catalogatoria. C'è almeno un caso in cui questa propensione al capriccio (quasi in senso musicale) arriva a un punto tale di apparente arbitrio che nulla, assolutamente nulla di dichiarato collega il testo all'immagine che nel volume gli si accompagna; dire che il saggio intitolato La recita di esistere riguarda il particolare riprodotto del quadro di Boccioni I costruttori, che vi è interfoliato, sarebbe davvero un azzardo. Il quadro e l'autore non sono mai citati, né si parla mai di pittura. Si parla invece di che cos'è scrivere, specialmente quando scrivendo ci si interroga sullo scrivere; scrivere diventa allora un'attività che rappresenta se stessa già nel momento in cui si produce, e tale autorappresentazione la esime da ogni riferimento esterno a sé. Non si scrive forse leggiamo poggiati su una superficie circoscritta e isolata come la scrivania? La scrivania non è dunque una specie di quadro, o cornice, all'interno della quale chi scrive traccia segni? D'altra parte, scrive Manganelli, ogni attività, oltre a produrre modifiche sull'ambiente circostante, è anche rappresentazione: quando fa il pane il fornaio recita la parte del fornaio; quando costruisce un muro il muratore recita la parte del muratore. Nel ritaglio della tela di Boccioni si vedono due muratori, in immagine. La verità delle immagini è la scrittura, perché se è difficilissimo eliminare dalle prime quel residuo di referenza, di somiglianza con le cose, che pure è loro estraneo in sostanza, l'autoreferenzialità della seconda è molto più palese. E via dicendo: secondo lo schema di un tour de force paralogico e pseudoargomentativo (e anche magico-apotropaico) che Manganelli ha ripetuto così tante volte da far credere che gli desse un valore performativo per così dire puntuale, e non durativo. Le mie formule 73

106 fanno ciò che dicono, ma ciò che fanno ha consistenza solo finché lo dicono: occorre dunque ripetere e variare in continuazione. L'immagine di Boccioni allora, in questo caso, viene forzata, facendo leva probabilmente sulla sua immobile severità ieratica, a divenire emblema della stessa natura dell'immagine secondo Manganelli: un processo di ablazione e annessione che elimina del tutto le intenzioni formative del produttore originario dell'immagine, e le rimpiazza in blocco con l'invadente (anche in senso bellico) interpretazione del produttore del testo. Non esiste qui alcuna trattativa ermeneutica, nessuna fusione (o scontro) tra orizzonti; Manganelli prende ciò che trova e ne fa ciò che vuole, tirannicamente; ma proprio come i tiranni delle sue "narrazioni" (da Un re a Encomio del tiranno) finisce per trovarsi fra le mani sempre lo stesso nulla; e per aver bisogno ogni volta di nuove immagini provenienti da fuori, al solo scopo di annichilirle e rigenerarle ogni volta con la sua furia fredda, in una versione assimilata. Se provo a disporre lo scrivere d'immagini manganelliano lungo una prospettiva o in qualche schema più largo che aiuti a interpretarlo, mi vengono in mente due possibilità. Da una parte, facendo astrazione dal processo rielaborativo e creativo individuale, mi pare che apporti sostanziosi vengano dalla formazione personale dell'autore. L'esposizione precoce alla cultura romantico-decadente e estetizzante anglosassone e francese penso soprattutto a Pater, ma anche a Baudelaire e Poe avrà senz'altro contato qualcosa nel determinare una sensibilità che fa del mondo una distesa di immagini da descrivere en artiste, e che quindi affievolisce la distinzione tra opera d'arte e oggetto funzionale o entità non prodotta da mano d'uomo; basti pensare, per fare solo un esempio, a come nei Ritratti immaginari Pater tratti la natura generandola, per così dire, nello stile di questo o quel pittore 17. L'altrettanto precoce interesse per il barocco, inteso in senso più tipologico che storico, avrà mostrato a Manganelli una cultura che faceva immagine degli stessi elementi materiali della scrittura (alfabeti figurati, tecnopaegnia, e tutte le altre bizzarrie grafico-iconiche). Questa genealogia è personale e idiosincratica. D'altra parte, però, non si può non rilevare che la rotta di Manganelli su questo mare è perfettamente compatibile con un sentire 17 Walter Pater, Ritratti immaginari, Milano, Adelphi,

107 diffuso negli ambienti culturali più avanzati della sua epoca (risparmiamo all'autore il breve e a lui sgraditissimo sintagma "spirito del tempo"). Infatti la coesistenza in arcipelaghi non gerarchizzati di arti e artigianati diversi, di tempi e luoghi lontani, di tecniche antiche e modernissime, è uno dei segni di riconoscimento di quella fine della storia dell'arte come grande narrazione che individuarono pressoché simultaneamente come evento già in fieri da tempo, al passaggio tra anni Settanta e Ottanta, Arthur Danto e Hans Belting 18. E ciò che poteva esserci sembrato più peculiare, più distintivo di Manganelli, vale a dire la descrizione di immagini che corrispondono e non corrispondono a ciò che si vede nelle opere d'arte prese come riferimento, immagini che vi insistono e vi sussistono senza esistervi, avrebbe forse detto il Deleuze di Logica del senso, si rivela, ad allungare appena lo sguardo verso l'orizzonte, una pratica diffusissima nella letteratura del Novecento, che ha costruito tanti dei suoi risultati più alti proprio su un'ecfrastica perturbante e perturbata, che fonde i margini tra la sua versione mimetica (descrizione di un 'immagine che esiste e che ha un supporto materiale) e la sua versione nozionale (descrizione di un'immagine che inaugura l'esistenza mondana di quell'immagine). Per fare un esempio diverso da quelli forniti da Michele Cometa nell'appassionante libro, compendio e rilancio di un ramo di studi fiorentissimo, da cui sto traendo i dati 19, basti pensare a uno dei più bei romanzi di Claude Simon, La battaglia di Farsalo (1969) 20, dove il lettore deve fare i conti non soltanto con lo slittamento tra ecfrasi di opere che hanno un'esistenza pubblica indipendente dalla descrizione e opere che non ne hanno, ma anche con l'estrema difficoltà di individuare il punto di giuntura tra le immagini dei due diversi statuti. Per finire, l'iconopatia di Manganelli, il suo soffrire le «figure» come si accusano i colpi, è perfettamente situabile su una linea di timore, attrazione/ripulsa, 18 Cfr. Arthur C. Danto, Dopo la fine dell arte. L arte contemporanea e il confine della storia, Milano, Mondadori, 2008; e Hans Belting, La fine della storia dell arte e la libertà dell arte, Torino, Einaudi, Michele Cometa, La scrittura delle immagini. Letteratura e cultura visuale, Milano, Cortina, Claude Simon, La battaglia di Farsalo, Torino, Einaudi,

108 tentativo di propiziazione nei confronti delle immagini che, per restare nel Novecento, trova il suo nume tutelare in Aby Warburg 21. Solo a condizione di riconoscere queste continuità e appartenenze, dalle quali germinano le peculiarità e le idiosincrasie, un profilo culturale verosimile di Manganelli può essere ricostruito. Descrizione di una battaglia: uno Scialoja troppo manganellizzato Toti Scialoja passò quasi tutta l'estate del 1985 a Gibellina, invitato dal Comune a tenere un laboratorio di pittura al Museo Civico: un riconoscimento istituzionale molto importante della sua attività da parte della città-museo forse più singolare d'europa. Nel corso del soggiorno l'artista realizzò più di novanta opere, su tela e su cartone, e la ricerca compiuta in questo periodo inaugurò la sua maniera ultima, che si andò precisando e consolidando nel quindicennio scarso che ancora gli restava da vivere. Gli studiosi sono abbastanza concordi nell'attribuire alla trionfante e feroce estate siciliana, e all'incredibile aura di quei luoghi, un ruolo decisivo nei processi di allargamento, potenziamento, riconquista del colore e del gesto monumentale messi in atto o ritrovati da Scialoja, che abbandona la cupezza di neri, grigi e marroni e la densità quasi congestionata di segni di suggestione goyesca praticati all'inizio degli anni Ottanta (cifre che pure avevano segnato un rilancio e un'uscita dalla crisi degli anni Settanta) per lanciarsi nell'ultimo grande volo. Si tratta insomma di uno snodo fondamentale nella sua carriera. Quando, due anni più tardi, le romane Edizioni della Cometa realizzarono un volume che rendesse accessibile a un pubblico meno ristretto i risultati di quell'esperienza, a stendere un intervento di accompagnamento fu chiamato Manganelli (forse proprio da Scialoja, ma non ho elementi per confermarlo). Lo scrittore inviò due pagine, che uscirono col titolo (redazionale?) La scoperta di un itinerario 22. Devo 21 Si vedano almeno, a questo proposito, Georges Didi-Huberman, L immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria del fantasmi e la storia dell arte, Torino, Bollati Boringhieri, 2006, e Horst Bredekamp, Immagini che ci guardano. Teoria dell atto iconico, Milano, Cortina, Scialoja a Gibellina, testi di Giorgio Manganelli e Giuseppe Appella, Roma, Edizioni della Cometa, Forse non è del tutto privo d interesse notare che il saggio di Appella, di carattere più canonico e classicamente storico-artistico, sbriga tutti i compiti di informazione al lettore e di contestualizzazione; affrancando Manganelli da tali mansioni servili e lasciandogli mano libera. Ciò suggerisce che lo scrittore venisse 76

109 limitarmi a riportarne i primi tre paragrafi, per chiudere con alcune brevi annotazioni di commento. La pittura di Toti Scialoja, questa pittura che ci propone, con la quale ci aggredisce e irretisce, nasce dalla fulminea scoperta di un itinerario, un percorso, un movimento che potrebbe essere processione, corteo, trionfo, funerale; il dissolvimento non totale della figura, lascia trasparire un itinerario che allude alla musica, una scansione di neumi, a un balenare di fuochi, un esclamare di esplosioni. Dunque, la proposta iniziale di questa pittura pare essenzialmente un dispiegamento orizzontale, un muoversi di frammenti dinamici lungo una strada, un percorso, un labirinto esploso. Ma questo movimento di schegge dinamiche allude ad una estrema inquietudine ritmica, una disarticolazione violenta, ambigua, talora recitata con straordinaria invenzione gestuale. Inquietudine ritmica: talora il movimento è lento, vischioso, impedito dalla propria oscurità cromatica; figure si muovono come gradi di tenebre; l'ombra si accosta e insegue, nell'impossibile inseguimento pittorico, l'ulteriore ombra. Una grandezza funerea governa il sommesso, affranto dispiegarsi delle bandiere cromatiche, una monotonia eroica tiene salda ogni apparizione, è la carne buia degli iterati ectoplasmi. Ma se una luce irosa e spettacolare invade la scena, ecco di fronte a noi il dispiegamento dei fantasmi, la folla delle ombre si presenta come l'inizio di un groviglio splendidamente rancoroso, zone di irriducibile buio sanguinano sopra un fluttuante lenzuolo di luce, un sudario sordido ed eroico; dovunque le ombre offrono vene livide a un dissanguamento sapiente. Ma supponiamo che il sangue sia tale e tanto da potersi coagulare in immagine; il dissanguamento consuma le ombre, esigue si disfanno in una instabile garza, mentre il sangue fa grande gloria di grumo, sventola come bandiera, è torvo ed araldico, portatore di una ferocia di cui la capziosa pietà dell'ombra non aveva cognizione ed esperienza. L'uccisione delle ombre disperde il gregge, la carovana, l'infernale mandria; il sangue è un altro dio, qualcosa che attraversa l'itinerario orizzontale, e propone una nuova lacerazione. Si noti il deittico («questa pittura», che corregge/mette a fuoco il precedente, più generico, «la pittura») del primo periodo: a cosa dà evidenza quest'atto linguistico di ostensione? Manganelli, in tutto il pezzo, non cita neanche un titolo; le sottolineature del cromatismo, che troviamo nel prosieguo, fanno pensare che si riferisca principalmente a quel gruppo di quadri imperniati sul contrasto tra rosso e nero, forse una dozzina sul centinaio scarso totale 23. Un simile rudimentale interpellato, in casi come questo, non nelle vesti di esperto d arte, ma come persona che scrivesse con l arte, più ancora che su di essa. Garantito alla pubblicazione il profilo specialistico, la si corredava di una divagazione geniale: divisione del lavoro chiarissima. 23 Per notizie più dettagliate e alcune immagini si rimanda a Toti Scialoja. Opere , a cura di Rolf Lauter e Marco Vallora, Milano, Skira, 2006; al periodo di Gibellina 77

110 conteggio è possibile, ovviamente, solo disponendo della documentazione fotografica inclusa nel volume (e assestandos i su un regime largamente ipotetico); il giorno in cui questo scritto dovesse esserne estratto per finire nel "libro d'arte" manganelliano (chiamiamolo così), l'aggancio documentario salterebbe, salvo che ne fosse preservata traccia nelle note d'apparato. Anche in tal caso, però, risulterebbero soverchianti, rispetto ai segnali del colloquio con una zona precisa della pittura di Scialoja, quelli del soliloquio di Manganelli con se stesso. Ne è esempio lampante, a mio avviso, la maniera in cui si specifica quell'itinerario che viene rinvenuto in Scialoja, inizialmente espanso in un tricolon di rilevanza molto più retorico-performativa che semantica («itinerario»-«percorso»- «movimento»: è un rallentamento, una gestione del meccanismo d'attesa; anche se va notata la parziale sconcordanza del terzo fattore, in cui l'elemento intenzionale è molto più incerto rispetto ai due precedenti) e poi precisato in un quartetto di termini dei quali non sfuggirà l'appartenenza all'ambito del rituale e cerimoniale: «processione», «corteo», «trionfo», «funerale». L'itinerario, insomma, non è libero: deve obbedire a un codice quale che sia, che ne predetermini la forma e ne stabilisca il punto di arrivo. Si fatica nel legare quanto affermato in questo abbrivio a Scialoja, o per lo meno ai quadri in questione (una maggiore pertinenza si può vedere semmai con la fase delle "quantità cromatiche", quelle sì scandite, geometriche e cerimoniali; ma Goya prima e la Sicilia poi aiutarono Scialoja ad abbandonare tale schema tecnico-ideativo); è invece molto più semplice registrare quanto queste dichiarazioni siano aderenti alla poetica e alla scrittura di Manganelli stesso, i cui libri, e specialmente quelli degli anni Ottanta, sono proprio degli itinerari rituali (basta aprire Amore per trovarvi cortei, processioni, funerali, matrimoni, tutti oscuramente allegorici). Col secondo paragrafo l'ecfrasi, già avviata in precedenza, conquista tutta la scena; ed abbiamo un esemplare molto interessante di descrizione di un quadro non figurativo (o meglio, come si dice giustamente, non del tutto astratto). Da rilevare come dinamizzazione e non accorda invece spazio il più recente, e preziosissimo, 100 Scialoja. Azione e pensiero, a cura di Claudio Crescentini, Tiziana D Acchille, Federica Pirani, Gabriele Simongini, Antonio Tarasco, Roma, De Luca Editori d Arte,

111 staticizzazione (per usare le categorie di Cometa) siano prodotte insieme da questo descrivere, articolate sull'immagine di «impossibile inseguimento»; qui come nell'articolo "sui" Costruttori di Boccioni (e come quasi ovunque in Manganelli) tutto è ritratto in continuo movimento, ma tale movimento è anche immobile, perché recitatorappresentato; e forse è proprio dall'attrito di questo ossimoro che l'immagine viene scossa, strattonata, per condurre a visibilità gli spettri che la abitano (o forse è l'attrito che li produce, chissà). Linee, grumi e colori vengono infatti interpretati da Manganelli per farne scaturire immagini dall'incerto statuto ontologico; non ci stupisce, a questo punto, che il nome scelto per esse sia «fantasmi» (o «ectoplasmi», o «ombre»). Se il fantasma dà figura al polo del nero, il campo del rosso esprime, come suo termine definitorio, quello di «sangue». I quadri di Scialoja sono il supporto, letteralmente il soggetto, su cui Manganelli poggia per spiccare il salto che lo conduce nel mezzo di una battaglia mentale tra fantasmi e sangue, tra nero e rosso, ossia tra nigredo e rubedo, in senso alchemico e psichico. Il percorso tratteggiato da Manganelli è quello dell'individuazione, della conquista del Sé. La maniera in cui fa dei quadri siciliani di Scialoja una tappa di tale ricerca è senz'altro affascinante e di alto profilo intellettuale. Ma del «grande gesto automatico» 24 che il pittore romano si sforza di attingere, nuovamente dopo tanti anni, in queste sue opere, cosa rimane nella lettura datane dall'amico scrittore? Una pittura che esprime la traccia della drammatica, convulsa reciproca apertura di soggetto e mondo, che sente la carne del mondo come conflitto e transitoria composizione di forze, una pittura in cui il segno soggettivo è forza tra le forze, non ha solo da perdere a essere inquadrata nel frame di una vicenda universale, archetipica, a repertorio fisso di immagini? 24 Toti Scialoja, Giornale di pittura, Roma, Editori Runiti, 1991, p

112 Luigi Malerba "nota Luigi anagrafica" Malerba (pr "Nota anagrafica" (prefatoria a "Le pietre volanti", Milano, Rizzoli, 1992) Questo libro è nato da una inquietudine e da una gita nella campagna toscana. Le invenzioni narrative hanno origini spesso remote e oscure, ma può anche succedere che Videa di un libro scaturisca da una occasione riferibile a un tempo e a un luogo ben definiti e stabilmente registrati nella memoria. Questo libro e nato davanti a un quadro di Fabrizio Clerici, anzi a due quadri paralleli e complementari, Corpus hermeticum e Un istante dopo. L immagine centrale di questi due quadri l ho descritta in una pagina sotto un titolo diverso e didascalico: Le pietre volanti L inquietudine trasmessa da quella immagine ha avuto la sua conferma e duplicazione durante un lungo e divagante colloquio con Fautore dei due quadri, avvenuto nell'autunno del 1989 nella sua casa di campagna nei pressi di Siena. Mentre attraversavo in automobile Varida distesa delle crete per raggiungere la collina verde di lecci e cipressi sulla quale sarge l antica canonica, divenuta fabbrica di mitologie profane da quando Fabrizio Clerici l ha eletta a sua seconda dimora, mi domandavo che cosa potesse unire le mie personali immaginazioni a quelle pietre che volano nei cieli del futuro e a quel mondo di antichissimi reperti archeologici che uno dei grandi Maestri del Novecento sta componendo ormai da molti anni sulle sue tele e sui suoi preziosi taccuini. Le parole dei pittori sono spesso pavere e scontrose rispetto alla loro pittura. Nelle parole di Fabrizio Clerici

113 colsi invece lussureggianti prospettive e risonanze, già pronti soggetti da dipingere o da raccontare che a tratti sembravano sovrapporsi ai personali turbamenti che sono sempre all origine dei miei libri. La ricerca di strutture nel caos, come era stata definita dal compianto comune amico Gustav René Hocke l indagine pittorica di Clerici e, in altra occasione, quella letteraria alla quale mi dedico da anni, mi era parso un punto di contatto fra noi, forse un po generico ma in quella occasione non privo di qualche sorprendente simmetria. Ho registrato le divagazioni e digressioni di quel giorno nel mio Palazzo della Memoria, in una stanza segreta che ho deciso di lasciare chiusa con tutti i sigilli fintanto che non mi fossi liberato con la scrittura dalla inquietudine di cui ho parlato all inizio di questa nota anagrafica. Dopo avere dichiarato il mio debito con l amico pittore, devo ora ammettere di avere tradito in questo libro le suggestioni sia di immagini che di parole che mi hanno indotto a scriverlo. Chiunque legga questa storia informa di romanzo deve dunque sapere che i fatti raccontati non hanno nessun riferimento con fatti e persone della vita e dell opera di Fabrizio Clerici. Che il protagonista sia un pittore è una scelta che appartiene soltanto alla finzione letteraria. Che si rivolga al lettore in prima persona é un artificio che ho usato molte volte nei miei libri e che anche in questo caso mi ha permesso di procedere secondo necessitò, narrative che, di pagina in pagina, mi hanno portato su strade assai lontane dalla suggestione iniziale. L.M.

114 Marcello Carlino Per Le pietre volanti di Luigi Malerba: la pittura di Ovidio Romer dentro una finzione di eretismi narcissici [saggio ancora inedito] Nelle Pietre volanti di Luigi Malerba, Ovidio Romer non manca di metterci sull avviso, chiaramente. Il memoriale che va consegnando ad un suo quaderno, e che non per nulla definisce romanzo, ricade sotto la giurisdizione della finzione. E lo si prenda per tale allora, non mancando di rilevare, però, che si tratta di una finzione fintissima, che più finta non si può; una finzione che non maschera affatto, anzi, di essere finzione, provvista di quelle cuciture grosse, di quelle sprezzature, di quel carico di espedienti ad effetto che sono propri di una finzione. Questo memoriale/romanzo, che pure dovrebbe servire a Romer per ricomporre i frammenti del suo vissuto e per ritrovarsi rintracciandovi un senso unitario («queste pagine sono il tentativo di conservare la mia unità, di combattere la dissipazione che il tempo e le varie congiunture impongono»), accumula romanzesco su romanzesco e trabocca di motivi da repertorio la cui verosimiglianza è assai difficilmente ammissibile. Cosa dire della distruzione di quartieri newyorkesi e dell intera Lione, distruzione dapprincipio evocata e alla quale poi, nel prosieguo della narrazione, non si fa più cenno né si fa cenno alle sue premesse e alle sue eventuali conseguenze tanto che il lettore è autorizzato ad assegnarla alla logica di un récit fantascientifico, ma abortito, interrotto, rimasto solo incoativo, che disegna unicamente una quinta di scena da tenere in magazzino e da piazzare semmai, alla bisogna, come mero riempitivo? E cosa dire della morte del fratello Oscar, che è dichiarata agli atti ma che non accade mai sia rimuginata da Ovidio Romer, che pure ammette di poterne avere la responsabilità, lui che confessa di aver attentato alla vita della cognata con la stessa insidiosa trappola che a distanza di poco tempo avrebbe provocato la morte di Oscar? E cosa dell amour fou con la giovane egiziana, che conosce travolgenti performances sessuali, un amour fou che si conduce tra misticherie riflesse nei conversari a sfondo interconfessionale e misticherie mimate in posizioni erotiche di preghiera su di una ribalta che ha l atmosfera religiosa (molto dannunziana) di un eremo lontano dal mondo? E come giudicare le agnizioni non imprevedibili però e le sparizioni con fughe in ogni capo del mondo e i rovesci della fortuna e le morti finte e il fantasma del padre, un revenant che si materializza di tanto in tanto, prima ingombrante poi forse esorcizzato? Insomma Ovidio Romer, nelle Pietre volanti, sembra accordare il suo memoriale, costruito per strati sovrapposti di finzione, sul modello di un romanzo di successo, come da mercato, con in vetrina finanche alcuni motivi e alcuni temi che sono caratteristici, e tipizzanti, del romanzo d appendice: una spruzzatina, niente di più, di

115 fantascienza distopica; piccole tranches di una ambigua storia amorosa e di ambigue pulsioni erotiche; interni di famiglia da crepuscolo borghese; tradimenti e abbandoni; qualche cenno di turbe come da psicologia corrente, corriva. Per il che è corretto, e utile, formulare altre domande, stavolta non retoriche. Qual è la ragione di questa misura e di questo indirizzo della narrazione memorialistica di Romer? Si intende riverberare luce su di una condizione postuma nella quale tutto è irrevocabilmente passato e il passato fa mostra di tornare a ripetersi in identiche situazioni e in eventi già visti e finti, in stereotipi che sempre hanno riconosciuta cittadinanza nella finzione? Si intendono delineare i tratti di una personalità anaffettiva e pure visionaria, che non calcola i confini tra la realtà e ciò che la sua mente falotica va fantasticando o arbitrariamente costruendo secondo una traballante teoria del possibile? L io narrante ha una forte personalità narcissica (tanto finge presentandosi), è un borderline, non del tutto a riparo da quella che oggi si suole definire sofferenza psichica: in questa chiave è da interpretare la scrittura delle Pietre volanti, una chiave di cui, per la verità, si è fatto poco uso nella critica sul romanzo malerbiano del 1992, che ha perseverato nel prendere integralmente tale e quale, e fededegno, il racconto di Romer, mai dubitando della sua coerenza e della sua attendibilità, mai soffermandosi sulla natura dei suoi commerci con la finzione e con la menzogna? Con la conseguenza che il polisenso del testo è passato in cavalleria, drasticamente ridotto, sacrificato al dio dell univoco? Ecco, è altamente probabile che un altra prospettiva debba essere calcolata. A Ovidio Romer, che è pittore di fama, è fatto dire che tiene un secondo quaderno nel quale ha programmato di descrivere, nel rispetto di un ordine da catalogo filologicamente inappuntabile, l intera sua produzione artistica che, poche esclusioni a parte, merita di essere conservata. Produzione artistica che è finzione, ma finzione a maggior rilascio di vita («i quadri che ho dipinto sono la mia vera biografia»), finzione di impegno testimoniale forte sulla quale più è dato concentrarsi, sulla cui durata più si investe. Del secondo quaderno narrando narrando non si ravvisa traccia né dal memoriale di Romer si ricava notizia che l impresa della catalogazione e del commentario sia stata poi avviata a compimento. E tuttavia nel memoriale/romanzo le note relative alle diverse stagioni e ai diversi periodi, ai vari cicli pittorici dagli inizi alla maturità spuntano periodicamente con buona frequenza e totalizzano un numero cospicuo di occorrenze. Cosicché è d obbligo a questo punto una terza serie di domande. Si può asserire che di quel secondo quaderno programmato facciano le veci, qui ed ora, alcune emergenze di autoanalisi della pittura che punteggiano il primo quaderno, che è il memoriale/romanzo? E si può ipotizzare a rimorchio che il racconto in prima persona delle Pietre volanti sia una finzione fintissima (ripeto: esibita per tale e farcita di possibili inverosimili da mitomania narcissica e pure carica di effettacci da romanzo d appendice): finzione fintissima che contiene una finzione seconda, finzione questa, epperò, dalla postura meno menzognera e dalle caratteristiche più rilevanti e vere, costituita dalla pittura di Romer in descrizione? E si può inferire che Le pietre volanti è un romanzo che consta di un racconto primo sopra un racconto secondo e che questo racconto secondo (mostrato come in una mise en abîme) è il

116 racconto-clou da scoprire sotto gli strati sedimentari del primo, che agisce con funzione di apripista? Si può concludere che si ribalta in primo piano, sul proscenio delle Pietre volanti, meritando un ruolo da protagonista vera, l ecfrasi della pittura del pittore di genio che risponde al nome di Ovidio Romer? Se una rete congetturale siffatta risulta plausibile, e si giudica di buona tenuta, la posizione e il profilo del romanzo malerbiano del 1992 sono da ridefinire radicalmente. Ciò considerando, inoltre, che la pittura di Romer è, last but not least, la pittura di Fabrizio Clerici. Al riguardo, la premessa di Luigi Malerba è impegnativa e davvero non sembra lasciar adito a dubbi. Vi si precisa che Romer non va confuso con Fabrizio Clerici; e lo si ritenga ovvio, perché la sua vicenda umana è talmente finta e fintamente carica di eccessi, da non poter convenire alle misure di un personaggio preso dal vero, un personaggio pubblico per altro, celebre e prestigioso, come il pittore milanese. Nella stessa premessa, tuttavia, il grande interesse manifestato per la poetica di Clerici, quella esplicita e quella implicita, e l apprezzamento forte per la sua pittura costituiscono una sottoscrizione che si direbbe fideiussoria l ammissione cioè di un area ideologico-artistica condivisa in corresponsabilità e quindi un anticipazione in vista della lettura del testo che gli interpreti debbono poter inscrivere a bilancio. Valga allora la proprietà transitiva: il senso profondo delle Pietre volanti insiste sopra un ecfrasi della pittura di Ovidio che molteplici indizi inducono a ritenere in più punti coincidente con la pittura di Fabrizio Clerici. Che è come dire: insiste sopra un ecfrasi per frammenti della pittura di Fabrizio Clerici. Ma perché la scelta di un ecfrasi siffatta? Perché, quanto al curriculum di Romer, non tenersi a mostre anodine o a sperimentazioni artistiche senza segni di riconoscimento espliciti, e perché interpellare, viceversa, un artista della statura di Clerici, citando fin dalla premessa l Opus hermeticum e Un istante dopo e poi disseminando di stilemi e di motivi clericiani le tele descritte lungo il memoriale/romanzo, per non tacere della menzione con lode e dichiarazione di titolarità e tributo al maestro del Sonno romano affacciatosi in corso d opera? La risposta possibile, a mio avviso, è una sola. Romer descrive la sua pittura, che collima (al limite del plagio) con la pittura di Clerici, che a sua volta interpreta (se ne rende portavoce) tratti essenziali della scrittura narrativa e delle idee di romanzo che Malerba ha maturato e che esprime in quel torno di tempo. In questa particolare prospettiva è ragionevole pensare, a mio parere, che Le pietre volanti contengano un metaromanzo che ne marca risolutamente il profilo, un metaromanzo a suo modo, di genere dirazzante, che si mostra incastonato in un romanzo fintissimo. Proprio perché il castone è un romanzo fintissimo, il metaromanzo ha possibilità di essere sbalzato in rilievo e trova espressione; un metaromanzo che ha bisogno di oggettivazione quale quella che è ottenuta dalla riconoscibilità piena della pittura di Fabrizio Clerici, condivisa da Romer e assunta in una interlocuzione intensamente partecipe nella prefazione di Malerba. È asserito, frattanto, che alle fondamenta, e in origine, sta la giunzione di due elementi discontinui, tendenzialmente confliggenti.

117 Romer ha esordito proprio così nel suo tirocinio svolto presso l Accademia di Belle Arti: «Disegnai il corpo della ragazza che stava in posa seduta su uno sgabello. Era voltata verso destra rispetto ai ragazzi che dovevano tracciarne l immagine a carboncino, ma io esegui il mio disegno con il corpo voltato verso sinistra, come visto allo specchio [ ] Tracciai la testa di un uccello anche quello voltato a sinistra». Dunque un corpo nudo di donna che culmina in una testa di rapace, un combinato disposto di contrasti figurali. Il docente di pittura ipotizza che suggestioni di provenienza da Grandville siano state recepite nella gestione mistilinea e metamorfica della figura della modella della scuola di nudo. Ma Romer, che rifiuta questa filiazione, si guarda bene dal dire che una ritrattistica siffattamente impostata era particolarmente cara a Savinio, antico sodale di Clerici, il Clerici che è molto sollecitato da una logica di strutturazione che accosta e cortocircuita differenze. I trofei che concrescono livello dopo livello su pluristrati eterogenei sono, nella loro pittura, di Savinio e di Clerici dico, oggetti-faro e indizi ed emblemi che li accomunano. Romer, il quale si attesta su di una linea di figurazione che da Savinio giunge fino a Clerici, riflette nella sua prima ecfrasi un immagine che può ben sintetizzare, per metaforica condensazione, la stessa macrostruttura delle Pietre volanti. Su di una base che è romanzesca epperò rovesciata rispetto alla sua posa convenzionalmente concordata e normata (e dunque vista nello specchio di una finzione compatta e sovrabbondante, alla stessa maniera che, quasi fosse riflessa in uno specchio, è disegnata la ragazza dell Accademia), su di una base che ha subito la torsione della finzione e appare pertanto distratta dalla immediatezza lineare della rappresentazione memorialistica, si innesta un metaromanzo dall assetto più problematico e dalla prospettiva più acutamente analitica: ha ricevuto un mandato analogo il rapace che svetta avvitato sul tronco della modella della scuola di nudo (si rammenti che i rapaci Savinio amava frequentarli). Dunque, una giustapposizione per contrasti e un montaggio ad incastro segnano la scelta narrativa di Malerba; ed essa non appare dissimile dalla nota particolare che distingue lo stile di Clerici. È per Malerba il modo di trattenere, ri-arrangiato, un paradigma compositivo che ha goduto di particolare favore nell area dello sperimentalismo italiano. D altra parte, per quest ultimo aspetto, non è davvero ininfluente che Clerici e per lui Romer siano debitori a De Chirico (che Clerici giudica il più grande pittore italiano del Novecento e che ha più volte pubblicamente eletto ad antesignano della sua pittura). Come i verbali delle opere nelle poussées del metaromanzo puntualmente documentano, tra Clerici e il suo vicario, lungo le pagine delle Pietre volanti, carte geografiche e statue, paesaggi senza presenze umane rintracciabili e oggetti sospesi in un tempo fermato e in uno spazio privo di coordinate di localizzazione trovano attentissima udienza e solleciti riscontri. Il loro è lo stesso marchio di fabbrica della pittura metafisica, nel cui segno, per altro, l arte di Romer/Clerici pronuncia le sue rinunzie: alla geometrizzazione spinta e alla storia, che stanno per l astrattismo e per il realismo (intercettato in riferimento alla scuola romana).

118 Ebbene, la pittura metafisica si spende in una temperie primonovecentesca di postavanguardia; è una temperie simile a quella misurata dal romanzo malerbiano del 1992: il suo recupero di più solide forme narrative, contro assolutizzazioni astratte (e pur tuttavia senza cedimento alcuno a seduzioni patetico-realistiche di ritorno: acciò le gromme spesse della finzione), è perfettamente in linea con la difesa della figura che epperò mutata di statuto e sottratta al pathos della soggettività è rivendicata da De Chirico e dai suoi compagni di strada (tra i quali si schiera Clerici, con grande autoconsapevolezza). In una età di passaggio, spentisi da un pezzo i fuochi della neoavanguardia e in atto vari riposizionamenti, proprio mentre nel generale grigiore da globalizzazione mercantile il dibattito delle idee un po si muove conoscendo brevi suggestive occasioni di rilancio, la rimozione del personaggio-uomo, le pause e le ellissi nelle sequenze temporali, i doppi giochi del racconto e i suoi svisamenti, il riflesso metalinguistico dell impianto sono salvacondotti per abitare, ma con una mise d altro taglio, la tradizione letteraria ovvero sono modi per uscirne ma in punta di piedi. Clerici è un neo-metafisico; e della neo-metafisica alla maniera di Clerici, erede della pittura metafisica di primo Novecento, si può ammettere sia sostanziata, in una versione intersemiotica, la narrativa di Malerba all altezza delle Pietre volanti. E a questo punto è bene dare udienza ad un elenco di voci che ricapitolano convergenze, sintonie possibili: che dicono delle sinergie presenti negli spunti metanarrativi di ribadimento e di analisi delle procedure in corso nel romanzo del 1992 e di quelle presenti negli spunti metanarrativi di inquadramento delle logiche di racconto che lo scrittore parmense ha deliberato per questa sua stagione. I reperti archeologici sono ritrovamenti, invenzioni, finzioni del passato in cui si mantiene inscritta una previsione del futuro il cui profilo rimbalza per allusioni mostrandosi mentre è per passare. In Clerici e, in un certo modo, in Malerba: nelle Pietre volanti si dà un archeologia che abbraccia passato e futuro e li lega ad una stessa sorte e li tratteggia come sotto uno sguardo comunque postumo: perciò Lione e New York distrutte in tutto o in parte, perciò Luxor che espone un combinato di pietre già pensato dal pittore Romer, perciò in Egitto residuali retrogusti alla Indiana Jones nella ripetizione della finzione, perciò il castello rifatto come un reperto archeologico nell eremo umbro. L archeologia si sporge, inverandoli, su processi di mineralizzazione, di pietrificazione; e se la pietrificazione insorge da allegoria della condizione dell esistenza, una buona archeologia non ricompone in una fittizia unità, ma lascia scomposti, in solitudine gli elementi. E infatti Romer, citando la sua pittura cosi da renderla un viatico per l ideologia letteraria di Malerba nell ultimo quindicennio del Novecento, descrive Un istante dopo e tace dell Opus hermeticum (questo e quello dati già in premessa come capolavori di Clerici): l Opus hermeticum è alchemica conciliazione degli opposti, unità miticamente ritrovata e fattasi corona, Un istante dopo è frammentazione di rocce ed è sospensione di pietre sul mondo colonizzato dall uomo ed ora fattosi deserto lunare, è frammentazione come destino da mostrare subito un istante dopo. Questa archeologia (che rivà ad epoche lontane per storie da raccontare) è tanto della stagione di fine millennio di Luigi Malerba.

119 In questa archeologia, inoltre, gli oggetti si presentano irrelati, nella forma di enigmi. È già stato così nella pittura metafisica, torna ad essere così in una neo-metafisica alla Clerici. Sbucano da qui per Le pietre volanti gli animali pietrificati, gli scorpioni, i mosconi con le ali vitree dei quadri di Romer che sono alonati di silenzio, che corrispondono ad altrettanti punti di domanda; si materializzano, ancora come pietre, gli occhi stretti tra le chele dell insetto della specie degli aracnidi, occhi che, pietrificandosi, alienano la loro capacità di identificazione e rinnovano domande. Ecco, nel memoriale/romanzo è questa possibilità attributiva e di regolare postulazione semantica a risultare derubata ad oggetti segnici quale la distruzione di Lione, o quale il progetto di assassinio dalla moglie di Oscar, o quale la liaison dangereuse con la guida egiziana. Sono oggetti e sono irrelati. Nella loro profferta si rinviene l irruzione dell altro, ovvero lo scarto dalla norma (se ne parla nelle Pietre volanti citando Spitzer), che è necessario per segnare l esserci qui ed ora della composizione; e si rintraccia al tempo stesso la legge della ripetizione, che fa la norma. Scarto e norma sono accostati in una dialettica inesorabile, così come una inscansabile dialettica, quanto alle pietre, lega la riproducibilità da evidenza cosale della pittura/scrittura concentrata su oggetti (per quanto fugace, un cenno è fatto da Romer alla riproducibilità tecnica che garantisce la trasmissibilità e la durata della memoria) alla consunzione che frammenti di pietra rilevano antonomasticamente come testimonianza tangibile di un processo di radicale disanimazione, di riduzione all inanimato. Questa dialettica degli oggetti è tale da contravvenire al mito. Che Romer in ciò correggendo il suo Clerici provi ripulsa per Boecklin con il quale Clerici si è intrattenuto nelle variazioni sul tema dell Isola dei morti ha questa motivazione profonda: pittura cimiteriale sì (così nella definizione della madre di Ovidio, pittura cimiteriale con foreste pietrificate che inscrivono per il presente e per il futuro una cosificazione avvenuta, una natura trasformata in cosa), ma tale da non lasciare adito a vie di fuga, a trascendenti al di là. Un idea di specie analoga percorre la gestione del sogno nell opera di Malerba in questo torno di tempo. Il sogno è un film a sé e, come sequenza a sé di immagini, è improprio caricarlo di significati provenienti da altri luoghi o ad altri luoghi diretti, di promesse altrimenti pronunciate. Non appare casuale che, sulla stessa banda di frequenza, sia Sonno e non Sogno romano il titolo di un opera tra le più rimarchevoli e celebri di Clerici (l errore che nel dialogo tra Romer e Vittorio si commette rammentandola, errore subito dopo corretto, vale a tutti gli effetti da sottolineatura ancora più marcata della denominazione data dall autore e della sua decisiva segnalazione di senso). Gli oggetti marmorizzati e irrelati vi sono altrettanti miti dormienti, messi in sonno, sottratti al mito del sogno. Senza mito, dunque. Si può affermare, in conclusione, che calzi a Malerba la definizione che Romer dà di se stesso pittore e che i critici danno di Clerici? Un neo-metafisico come pittura comanda, un post-surrealista, un neo-manierista? Probabilmente sì. D altra parte, quanto al manierismo, nel campo dell arte, grosso modo negli stessi anni della genesi delle Pietre volanti, va discutendosi con maggiore

120 o minore rigore e appropriatezza di una nuova maniera. Né va dimenticato che Hocke è tra gli intellettuali a lui vicini con cui Malerba più intensamente dialoga. Neo-manierismo, sì forse. Ma con la profondità, con la perplessità, con la discontinuità fattasi significato con cui il manierismo che è stato ci interroga. Specchiandosi nella malinconia della sua foresta pietrificata. Chiudendo vie d uscita. Senza mito.

121 su NANNI BALESTRINI Il poeta Nanni Balestrini è bello. Ha gli occhi socchiusi (sono ancora oggi come allora socchiusi) lievemente strizzati come di fronte a urieccessiva luminosità. Dalle palpebre filtrano circolari raggi azzurri che si allungano tra le ciglia. I capelli biondi e lisci sono spruzzati d oro. La bocca è atteggiata a un perenne immobile sorriso, anzi un accenno di sorriso. II volto soave, esprime un sentimento di tenero distacco, di gentile supremazia. I lineamenti sono composti, armonici. Una fredda mobilità anima i gesti misurati che non rivelano nulla. Un velo protegge questo nulla, la decisione del nulla, l ironia del nulla. Ogni tanto il velo si solleva e qualcosa di molto ingegnoso, complesso, stratificato e multiplo traspare. Si può intravedere, m a solo intravedere, tutta l attenzione. La furiosa, capillare attenzione di cui è dotato. Possiede una lente nascosta nelle pieghe, nel drappeggio. Una lente di ingrandimento. La muove da sempre, recondito. La sposta languidamente, in ispirato sonnambulismo, su molteplici FORME. La punta su eventi minimi e grandi. Il tempo e la storia non fanno parte del gioco. Giosetta Fioroni, Ritratto di un poeta Giosetta [quasi Fioroni, un'ecfrasi] Ritratto di un poeta

122 Andrea Cortellessa 1.Poesia espansa la poesia toma a guardare il mondo a sentirsi parte di esso toma a ridiventare salutarmente incerta di sé bastarda ibrida la poesia si nutre di ciò che è altro da sé ne vedremo delle belle Nella Notizia che accompagna una scelta di Collage degli anni 60, cui ha dato il titolo Qualcosapertutti, dice Balestrine «All inizio degli anni 60 scrivevo poesie in cui facevo un uso abbondante di citazioni, anche di titoli di giornali, e mi è venuto così spontaneo di ritagliarli, combinarli, incollarli su dei grandi fogli. Un operazione che mi permetteva di uscire dalla soffocante pagina del libro, non a caso chiamata gabbia, con la sua banale linearità tipografica che permette un unica direzione di lettura»56. Ancora una volta, dunque, la liberazione delle parole (e in questo caso, in effetti, delle singole lettere) si pone quale figura di un altra liberazione. È significativo però che, in questa più re- 35. Edoardo Sanguineti, Come agisce Balestrini [1963], in Id., Ideologia e linguaggio [1961], 1965', nuova edizione a cura di Erminio Risso, Feltrinelli, Milano 2001, p Nanni Balestrini, Notizia, in ld., Qualcosapertutti. Collage degli anni '60, prefazione di Bruno Corà, Il Canneto, Genova 2010, p

123 cente parte della produzione di Balestrini, non solo s infittiscano le collaborazioni, da sempre numerose, con artisti di altre discipline; ma che, proprio mentre lui sempre più si dedica alla produzione visiva in senso pieno (non solo, cioè, alla pittura-di-parole dei Cronogrammi già in Come si agisce: I, pp. 473 segg.), è appunto in connessione con tre grandi maestri del secondo Novecento, maestri rispettivamente dell arte visiva, della musica e del cinema, che Caosmogonia raggiunga vertici straordinari, tanto per elaborazione formale an sich che per intensità metapoetica: nel già incontrato trittico di poemetti-hommage composto da Tre studi per un ritratto di F.B. (su-per-con Francis Bacon), Empty Cage (che usa allo stesso modo John Cage) e Fino all ultimo (protagonista stavolta, Jean-Luc Godard). Usando come suo consueto il metodo del cut-up, Balestrini - che altrove frammenta e ricombina direttamente le immagini degli artisti, come nella serie di collage dal titolo Maestri del colore - mixa e ricombina le parole di questi tre spiriti-guida: scritti e interviste (come quella splendida che a Bacon fece David Sylvester) i cui frammenti vengono così sconnessi, appunto, ma anche riconnessi. In particolare acquista un senso più evidentemente metapoetico che sia un maestro del montaggio, Godard, a parlare di questo principio compositivo, il montaggio appunto, come di ima «resurrezione» (p. 293); e che sia quell ilare terrorista musicale, per cui passa John Cage, a dirci di «costruire cioè riunire ciò che esiste allo stato disperso» (p. 287), e di «abitare il mondo intero non frammenti separati del mondo» (p. 284). Perché la sua lezione, come da sempre quella di Balestrini, è che «il significato è l uso» (così suonali explicit, ap. 288). Sin dal principio, ancora ima volta, la parola di Balestrini consuona in eco alle altre forme d espressione, con particolare intensità alle immagini artistiche: connotato primo della Signorina Richmond è infatti, si legge in coda alla sua prima Ballata, «la bellezza dei colori delle sue piume» (II, p. 34). Questo vale, anzi, da prima delprincipio. Spesso è stata ricordata - da lui per primo, nella breve premessa alla loro raccolta a posteriori, la già ricordata Osservazioni sul volo degli uccelli: I, p la circostanza per cui le prime prove poetiche mature di Balestrini, composte fra il 1954 e il 56, siano uscite (proprio come quelle, 23

124 qualche anno prima, di Sanguineti) non su riviste letterarie bensì su quelle dell avanguardia artistica: «Mac Espace» di Gillo Dorfles, «Il Gesto» di Enrico Baj, Sergio Dangelo e Piero Manzoni, «Azimuth» di Enrico Castellani e dello stesso Manzoni. Su questa stagione remota, sì, ma non poi tanto da dover sfumare in mitobibliografia, Pier Luigi Ferro ha fatto chiarezza con invidiabile acribia37. Nella stessa occasione altresì producendo un paio di ulteriori e ben più rari documenti risalenti a quel medesimo, privatissimo Big Bang di Balestrine tanto l ancora acerba (e infatti esclusa dalla silloge dell 88) osservazione uscita nella primavera del 54 sulla semi-goliardica rivista ambrosiana «La Parrucca», che ha per titolo Verde-Azzurro, che l ancora più precoce «poesia da adolescente», dell infatti diciottenne Nanni, che il maestro Luciano Anceschi suo docente al liceo «Vittorio Veneto», dieci anni (e tanta acqua in fretta passata sotto i ponti) dopo, ricorderà stampata su «uno strano e complicato libro policromo»38 dal titolo II figlio della cenere, avevano infatti quale proprio pressoché unico motivo d interesse, sin dalle prime evidenze paratestuali (titolo e impaginazione), il riferimento cromatico. Da allora in poi, dai Cronogrammi di Come si agisce alle ekphrasis di Ma noi facciamone un altra, dalle frammentazioni-ibridazioni a la Baruchello delle Ballate all «orologeria infallibile ma disorientante», la vera e propria «filosofìa della composizione» che è il capolavoro Blackout, sino all operapoesia e agli hommages di Caosmogonia che abbiamo appena visitato, Balestrini non ha mai cessato di essere un «artista totale della parola», come lo ha definito Tommaso Ottonieri39. Se anzi è difficile negare che siano stati i poeti Novissimi, e in ge 37. Cfr. Pier Luigi Ferro, Osservazioni sul volo del primo Balestrini, nel cit. Materiali immagini parole per Nanni Balestrini di «Resine». 38. Luciano Anceschi, Pretesti, «il verri», n. 9,1963, p. 55; poi in Id Il modello della poesia, Scheiwiller, Milano 1966, pp (cit- M, P- 4 9>con *n nota ri descrizione del raro opuscolo stampato «su cartoncino opaco tipo pergamena, color antracite col titolo in caratteri dorati», nel 1952 o nel 53, dalla Tipografia delle Missioni Estere di Mirino). 39. Questa e le precedenti due citazioni in Tommaso Ottonieri, IV Tempi per Nanni, nel cit. Materiali immagini parole per Nanni Balestrini di «Resine» (e nell Antologia della critica del secondo volume delle «Poesie complete»: II, pp ). 24

125 nerale gli autori della Neoavanguardia, coloro che con maggiore decisione abbiano interpretato, nel nostro Novecento, quella che con una certa dose d inerzia proseguiamo a definire letteratura, più semplicemente, quale arte del linguaggio, proprio Balestrini va indicato, fra loro, come l interprete più conseguente e radicale di questo artistic tum40. Al di là delle proprie intenzioni, non appare un caso che il critico coevo della Neoavanguardia che le si è sempre mostrato più fieramente avverso, Cesare Garboli, abbia intitolato il suo primo libro, nel 1969,1» stanza separata. Non era tanto il suo caso, in verità41, ma tanta, troppa parte del secondo Novecento letterario italiano, turbata dai sommovimenti in corso appena oltre Chiasso, ha finito per trincerarsi nella stanza separata delle tradizioni più gelosamente coltivate, delle dizioni più collaudate, dei circuiti più risaputi: con tale atteggiamento passivo e timoroso contribuendo non poco alla crescente emarginazione che negli ultimi decenni la letteratura ha subito nel contesto sociale e mediale42. Tutf al contrario, nel medesimo giro di anni, gli autori della Neoavanguardia hanno vissuto con la massima naturalezza la loro, senza neppure troppi modemistici proclami, come uiiexpanded Poetry. 40. Preferisco questa dizione più comprensiva rispetto a quella, ormai vulgata, di pictorial tum (si vedano i saggi compresi fra il 1996 e il 2008 compresi in W.J.T. Mitchell, Pictorial Tum. Saggi di cultura visuale, a cura di Michele Cometa e Valeria Cammarata, Cortina, Milano 2017). 41. Nella Prefazione alla riedizione che di questo libro è stata promossa da Alfonso Berardinelli, presso Scheiwiller nel 2009 (alle pp ), spiega Giuseppe Leonelli - raccogliendo confidenze dell autore - che quel titolo evocativo derivava in verità «da ima suggestione di ricordi familiari. La stanza separata non era la sua, ma quella di una sorella che, nella grande casa patema, se ne stava volentieri da sola [...]. La sua stanza, discosta dalle altre, tutte in fila, era ubicata presso la cucina, in un luogo quasi servile ; ma in quella stanza, l unica, scandì Garboli con una certa solennità, c era il pianoforte». In effetti nel cerchio degli autori in quel libro trattati - da Gadda a Nabokov, da Penna a Pasolini - non mancano autori separati dalla letteratura, ancorché ipercanonici, come Puccini, Guttuso e Fellini. 42. Si veda il capitolo conclusivo di Guido Mazzoni, Sulla poesia moderna, Bologna, il Mulino, 2005; e da ultimo, dello stesso autore, Sulla storia sociale della poesia contemporanea in Italia, in «Ticontre. Teoria testo traduzione», V ili, 2017 (e in «Le parole e le cose», 11 dicembre 2017: 25

126 Così mi pare il caso di parafrasare il titolo celebre di un opera decisiva che risale appunto al 1970, Expanded Cinema di Gene Youngblood45: non solo il cinema è «espanso» in quanto sul suo corpus iconico s innestano, ormai da decenni, tutte le nuove tecnologie che in un modo o nell altro facciano ricorso alle immagini in movimento; ma per l intima connessione che il suo linguaggio ha sempre operato fra le arti dell immagine, del suono e della parola. Di queste tradizioni il cinema si è nutrito e viceversa, al tempo stesso, in esse si è espanso: sia per la sintassi che dal suo linguaggio è stata mutuata nelle altre arti (basti pensare a come il principio del montaggio, appunto, abbia informato di sé la letteratura del Novecento)44, sia per le immagini, in senso lato, che alle altre arti ha ceduto: non solo le sue figurazioni fatte proprie dall immaginario collettivo, ma i miti, i personaggi, le situazioni, le atmosfere che, provenienti dal cinema, questo nostro immaginario sempre più infettano 45. Oggi il cinema, inteso come arte paradossalmente (con quanto si è detto) separata, vive una crisi, se possibile, ancora più grave di quella della letteratura. Ma preso come agente attivo di metamorfosi linguistica e come sorgente d immaginario, invece, ci appare più vivo che mai. Lo stesso, e forse in misura ancora più radicale, si può dire della poesia. Oggi la poesia espansa è quella che, anziché barricarsi nelle sue stanze separate, al chiuso ovattato della sempiterna cameretta, esce a nutrirsi di altri immaginari, altri concetti, altre tradizioni; e, al contempo, estende i propri confini nei territori dell im 43. Cfr. Gene Youngblood, Expanded Cinema [1970], edizione italiana a cura di Pier Luigi Capucci e Simonetta Fadda, con un glossario di Francesco Monico, CLUEB, Bologna 2or3_ 44. Vari gli interventi in tal senso di Edoardo Sanguineti: si veda per esempio II secolo del montaggio, in La poesia italiana del Novecento. Modi e tecniche, atti del convegno di Venezia, aprile 2002, a cura di Marco A. Bazzocchi e Fausto Curi, Pendragon, Bologna Cfr., per due modelli interpretativi, assai distanti nel tempo, del medesimo fenomeno, Edgar Morin, Il cinema 0 l uomo immaginario. Saggio di antropologia sociologica [1956], traduzione di Gennaro Esposito, introduzioni di Chiara Simonigh e Francesco Casetti, Cortina, Milano 2016; e Slavoj 2 téek, Che cos'è l immaginario [1997], a cura di Marco Senaldi, traduzione sua e di Gabriele Illarietti, il Saggiatore, Milano

127 magine, della performance, dell installazione. Per esempio nelle forme oggi definite iconotestuali: ibridazioni che ci mostrano come immagine e scrittura non debbano per forza ridursi l una a illustrazione, o didascalia, dell altra: ma possano concorrere a produrre senso secondo un principio di insubordinazione46. Un autentico gioiello compositivo quale Blackout, 1980 (II, pp. 325 segg.), va indicato, in tal senso, come episodio pionieristico e insieme verticale. Dicevo che questa dimensione i poeti della Neoavanguardia l hanno praticata con naturalezza, senza troppi proclami né manifesti. Si deve al fatto che dai poeti della prima avanguardia l avevano ereditata, in effetti, quale seconda natura. Già i primi vagiti del Balestrini poeta, nel Figlio della cenere, si presentavano - ricordava Anceschi - «sotto la protezione di spaziosi versi di Apollinaire» (quelli in epigrafe, ha verificato Ferro, della Jolie Rousse, 1918)47; altri dei Novissimi hanno per tempo guardato al Pound che in Hugh Selwyn Mauberley, 1920, asseriva come «l età chiedesse [...] un cinema di prosa» Rinvio a Tennis neurale. Tra letteratura e fotografia, in Arte in Italia dopo la fotografia: , catalogo della mostra a cura di Maria Vittoria Marini Garelli e Maria Antonella Fusco, Roma, Galleria nazionale d arte moderna e contemporanea, 21 dicembre marzo 2012, Electa, Milano Cfr. Pier Luigi Ferro, Osservazioni sul volo del primo Balestrini, cit., p «L età chiedeva uriimmagine / Della sua smorfia convulsa, / Qualcosa per scena moderna, / Non una grazia attica, comunque; [...]/ L età chiedeva" uno stampo d argilla, / Pronto da sera a mattina, / Un cinema di prosa, no, no certo, / Alabastro o scultura di rima» (la traduzione italiana, di Giovanni Giudici, uscì nel 1959 sul numero 3 del «verri» e in volume, All Insegna del Pesce d Oro, lo stesso anno; è stata poi compresa in Ezra Pound, Opere scelte, a cura di Mary de Rachelwitz, introduzione di Aldo Tagliaferri, Mondadori, Milano 1970, p. 181). Edoardo Sanguineti nel già cit. Tra liberty e crepuscolarismo, p. 101, citava questo testo di Pound come sintomo epocale dell «angosciosa tensione frustrata verso il sublime» connotata dallo stigma del «rovesciamento»; e ancora nel 1983, nel polemico sonetto Son sepulchre, scriveva: «abrenunziò al grande stile, disposto / a qualsivoglia prose kinema in atto: / morì così nel suo presente, a patto / di allontanare da sé, decomposto, //il brodo del poetese» (in Id., Bisbidis [1987], e ora in Id., Il gatto lupesco. Poesie ( ), Feltrinelli, Milano 2002, p. 212). Da segnalare pure come Sulla «Parrucca», già incontrata cripto-cellula dei Novissimi a venire, il giovane Alfredo Giuliani avesse pubblicato fra l altro (sul ninnerò 3 del maggio 1955) un saggio dal significativo titolo Ezra Pound e i colori della tavolozza (cfr. Pier Luigi Ferro, Osservazioni sul volo del primo Balestrini, cit., p. 530). 27

128 Appunto alle sperimentazioni della prima avanguardia guardava Balestrini quando nel 61 accompagnava Tape Mark 1 con una breve nota che delle «applicazioni dei calcolatori elettronici alle scienze morali e alla letteratura» (cui YAlmanacco Bompiani era quell anno dedicato) tracciava la seguente genealogia. Che ai nostri occhi è pure un documento pionieristico, e quanto mai vivace, dell Expanded Poetry: Letteratura e arte hanno nell ultimo cinquantennio costantemente prestato una attenzione vivissima ai fondamenti dei propri processi immaginativi e costruttivi, individuabili e riassumibili nelle successive fasi di decomposizione dei materiali precostituiti, e di ricomposizione in un risultato creativo. In direzioni e con intenti diversi si sono avute le ricerche combinatorie del Livre di Mallarmé, di Raymond Roussel, di Arp, Joyce e Pound, delle varianti di Ungaretti, di Leiris e di Queneau, dei narratori del nouveau romani, degli americani Burroughs e Corso, di Heissenbiittel e altri tedeschi, dei nostri Sanguineti, Vivaldi e Porta. Simili ricerche hanno anche profondamente contrassegnato larghe zone della pittura (Klee, Dubuffet...), della scultura e deli architettura e, ancora più intrinsecamente, sono presenti in tutta la musica dopo Schoenberg49. La menzione di Hans (o Jean) Arp ha particolare rilievo poiché dell alfiere alsaziano (e dunque bilingue) di Dada Balestrini, in quello stesso 61, aveva tradotto e presentato sul «verri» una propria scelta di poesie, sottolineandone la «rivolta etica al mondo borghese che sotto un apparente benessere cela i più tragici destini»50. Qualcosa di molto attuale, insomma, la cui eco Balestrini ravvisava infatti nella più recente poesia tedesca di autori come Giinter Grass, Ingeborg Bachmann, Hans-Magnus Enzensberger e Paul Celan: cioè di quel Gruppo 47 ai cui protocolli di lavoro guarderà quando si tratterà, di lì a poco, di dare 49. Tape Mark 1, a cura di Nanni Balestrini, in Almanacco letterario Bompiani 1962, cit., p Nanni Balestrini, Poesie di Hans Arp, «il verri», n. 2, aprile 1961, p. 33. L inserto è stato di recente riproposto alle pp di Jean Arp, catalogo della mostra di Roma, Museo Nazionale Romano alle Terme di Diocleziano, 30 settembre gennaio 20x7, a cura di Alberto Fiz, Electa, Milano 2016 (nello stesso volume, nella seconda parte del mio contributo Caduto in sogno sulla Luna dedicata alla fortuna italiana di Arp poeta, sviluppo più nel dettaglio questa parte del mio ragionamento). 28

129 forma al Gruppo 63 (ma già nel 57, in uno dei suoi primi contributi alla rivista in cui Anceschi lo aveva chiamato pressoché «adolescente» a fare il segretario di redazione, l Antologia di poeti tedeschi d oggi da lui curata - dove figurano tra l altro alcune delle primissime versioni italiane dell allora 37enne Celan -, aveva fatto menzione dell «esempio di Hans Arp, uno dei fondatori del dadaismo»)5'. L importanza di questo cortocircuito fra la prima e la seconda avanguardia è stata riconosciuta a posteriori, in due contributi del 2003, da Alfredo Giuliani. Ripercorrendo i primi passi dell amico co Novissimo, sottolineava Giuliani l importanza del modello per lui allora rappresentato da Arp, «da noi universalmente noto come pittore e scultore, ma quasi ignorato come autore di poesie»52. Proprio su questo carattere equilingue - non solo tedesco e francese, dunque, ma poetico e visivo - è il caso ora di insistere. Lo aveva fatto lo stesso Balestrini nel 61, paragonando «l uso della scrittura automatica» da parte di Arp «all esecuzione dei suoi collages, in cui lasciava che forme ritagliate trovassero spontaneamente un ordine casuale, o dei futuri papiers dechirés»53. Significativo pure che elencasse, fra «i poeti che hanno prodotto opere significative nell ambito del primo dadaismo», oltre ai precedenti rappresentati da Klee e dai Klänge di Kandinskij, autori parimenti equilingui come Francis Picabia e Kurt Schwitters. E proprio Schwitters è il secondo link evocato da Giuliani in quel Presentando ima nuova edizione dei Novissimi, il loro curatore rievocava un episodio un po mitobiografico, ma la cui importanza non si può sottovalutare: durante la preparazione dell antologia uscita fanno seguente, nell estate del 60 insieme a «Nanni (Balestrini) e Leo (Antonio Porta)», Giuliani si reca in visita alla Biennale di Venezia. Qui i tre rimangono folgorati dai collage ivi esposti, appunto, di 51. Nanni Balestrini, Antologia di poeti tedeschi d oggi, «U verri», n. 4, aprile 1957, p. 66 (è il medesimo fascicolo sul quale esordisce come poeta, sulla rivista, con De Cultu Virginis e il già citato Apologo dell evaso). 52. Alfredo Giuliani, Balestrini. Parole in rivolta, «la Repubblica», 5 dicembre 2003 (e anche nell Antologia della critica delle «Poesie complete»: II, p. 466). 53- Nanni Balestrini, Poesie di Hans Arp, cit., p Vi facevo cenno già nella postfazione al primo volume delle «Poesie complete»: tl senso appeso, cit., pp

130 Schwitters: «il quadro che non riuscivamo a toglierci dalla testa aveva incollata, pressappoco al centro, ima vera ruota di carro scheggiata e rotta», e su quella mota rotta, seduti in un caffè aspettando che fuori smetta di piovere, i tre poeti improvvisano un componimento per dar voce, ricorda Giuliani più di quaranf anni dopo, ai «rompimenti» della loro generazione. «Bella parola», quel rompimenti: «con due facce: ciò che ci rompe, ci stufa; ciò che andiamo rompendo, ci va di rompere. Slittamento spontaneo dall emozione ruota rotta al sentimento del progetto in corso»55(quello dei Novissimi appunto). E che lo stimolo rappresentato da Schwitters fosse in gran parte dovuto proprio al suo lavoro fra parola e immagine56, lo conferma la sua presenza, cinque anni dopo, nella nota a uri antologia di Poesie visive in cui fra i patrocinatori della «fuga dal libro» della «poesia moderna», e del «concetto di strutturazione visiva del poema», dopo Mallarmé e Marinetti Balestrini ricorda le «realizzazioni di Schwitters»57. d all'introduzione a Nanni Balestrini, Caosm ogonia e altro. Poesie com pete vo lum e terzo ( ) Rom a, DeriveApprodi, Alfredo Giuliani, Prefazione all antologia a sua cura, I Novissimi. Poesie per gli anni 60, Torino, Einaudi, 20036, pp. VI-VII. 56. Si veda il numero monografico su Kurt Schwitters, a cura di Elio Grazioli, di «Riga», 29, marcos y marcos, Milano Il collage cui fa riferimento Giuliani è Konstruktion Jur Edle Frauen, datato 1919 e conservato al Los Angeles County Museum of Art (cfr. Federico Milone, «Una nave pirata» 0 «L isola dei corsari». Novissimi percorsi nel fondo Alfredo Giuliani, in Novissimi (e dintorni ) tra due sponde, numero monografico di «Autografo», XXI, 50, 2013, pp ). 57. Nanni Balestrini in Poesie visive, a cura di Lamberto Pignotti, Sampietro, Bologna 1965 (cit. in Antonio Loreto, Dialettica di Nanni Balestrini, cit., pp ). Gli autori presenti in quella silloge, insieme a Balestrini, erano Danilo Giorgi, Luca (al secolo Luigi Castellani) e il giovane Achille Bonito Oliva. 30

131 2. E xpanded P o etry [...] Dalla fine degli anni Ottanta10 è con questo termine, iconotesto, che è invalso designare di recente anche nella letteratura critica del nostro paese 1 una classe di opere nelle quali sono compresenti testi e immagini, come nella tradizione del libro illustrato che caratterizza la 10 Secondo una tradizione inaugurata da Michael Nehrlich e proseguita da Alain Montandon in Francia [cfr. Iconotextes, atti del convegno di Clermont-Ferrand, marzo 1988, a cura di Alain Montandon (Paris: Ophrys, 1990)] e da Peter Wagner negli Stati Uniti [cfr. il suo studio Reading Iconotexts. From Swift to the French Revolution (London: Reaktion Books, 1995) e Icons-texts-iconotexts. Essays on Ekphrasis andintermediality, a cura dello stesso Wagner (Berlin-New York: de Gruyter, 1996)]. Ricostruisce utilmente il dibattito Michele Vangi, Letteratura e fotografia. Roland Barthes-Rolf Dieter Brinkmann-Julio Cortàzar-W.G. Sebald (Pasian di Prato: Campanotto, 2005),

132 stampa a caratteri mobili sin dai suoi albori, ma senza il ruolo subordinato di un codice all altro: l immagine non è illustrazione che commenta il testo, il testo non è didascalia che spiega l immagine. 12 Nell iconotesto si riscontra un complesso rapporto d interdipendenza, ma non nella modalità della fusione dei due sistemi semiotici (37). Al contrario vi è esaltata ed evidenziata la loro differenza nelle modalità del conflitto, dell interferenza e della dissonanza: che come insegna W. J. T. Mitchell mette in campo sulla scena della pagina quello che è, spesso, un vero e proprio conflitto.13 Nella tradizione delle avanguardie si pensi a due opere esemplari, ancorché fra loro assai distanti, come Nadja di André Breton (1928), e L A B C della guerra di Bertolt Brecht (1955). Questa produzione si può ricondurre alla grande tradizione dei libri illustrati (e per esempio si potrà sottolineare, nel romanzo convulsivo di Breton, una ripresa della teoria manieristica degli emblemi e delle immagini agenti );14 ma rispetto a quella segna altresì una decisiva soluzione di continuità: proprio per l insubordinazione fra i due codici impiegati insieme. Restata a lungo carsica e minore, la tradizione iconotestuale è riemersa in piena luce nella letteratura degli anni Novanta grazie all opera straordinaria di W. G. Sebald, che quella tradizione riassume con mirabile sottigliezza: da Vertigini (1990) ad Austerlitz (2001) forse non c è corpus letterario che così rapidamente e capillarmente, a livello mondiale, si sia imposto a modello di una e ormai più generazioni di autori. Esercitando al contempo, si capisce, uno stimolo decisivo all apertura del campo di ricerche in cui s inserisce, buon ultimo, questo mio contributo. Se torniamo alla scena italiana, e risaliamo a un altezza ben precedente al successo di Sebald, un vero e proprio architesto 15 sarà dato considerare proprio un opera di Balestrini quello che a mio modo di vedere è anche il suo assoluto capolavoro, Blackout del 1980 come episodio, di questa tradizione, da noi pionieristico e insieme verticale.16 Quello che fa Blackout è forzare non solo il linguaggio della poesia a uscire da se stesso per accedere al territorio 12 Michele Vangi, Letteratura e fotografia, Nell interpretazione del nesso parola-immagine, all interno di una bibliografia ormai sconfinata, seguo appunto la lezione di William J.T. Mitchell, nei testi degli anni Novanta e seguenti confluiti in Pictorial Turn. Saggi di cultura visuale, a cura di Michele Cometa e Valeria Cammarata (Milano: Cortina, 2017). Una prima edizione di questa silloge, curata dal solo Cometa, era già apparsa in Italia col medesimo titolo presso l editore :duepunti di Palermo nel Rinvio per il momento a Bruges-la-Morte, Nadja, Vertigo. Psicologia di tre città, in Dal nulla al sogno. Dada e Surrealismo dalla Collezione del Museo Boijmans Van Beuningen, catalogo della mostra di Alba, Fondazione Ferrero, dal 27 ottobre 2018 al 28 febbraio 2019, a cura di Marco Vallora (Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2018), Mi riferisco alla nozione introdotta da Gérard Genette in Introduzione a ll architesto [1980], tr. di Armando Marchi (Parma: Pratiche, 1981). La nozione viene poi ulteriormente discussa e sviluppata, dallo stesso Genette, nel suo saggio forse in assoluto più importante e influente, Palinsesti. La letteratura al secondo grado [1982], tr. Raffaella Novità (Torino: Einaudi, 1997). 16 Pubblicato da Feltrinelli nel 1980 come secondo numero della collana Scritture letture, Blackout è stato ripubblicato due volte dall editore romano DeriveApprodi: nel 2001 insieme a La violenza illustrata, del 1976 (con una Guida alla lettura di Gian Paolo Renello) e nel 2009 insieme a Ipocalisse e all altro lavoro verbovisivo Vivere a Milano, del 1976 (in collaborazione col fotografo Aldo Bonasia). Un altro lavoro verbovisivo del 1972, Non capiterà mai più, era accompagnato da dodici Cronogrammi dello stesso Balestrini ed era stato pubblicato per la prima volta nel 2008 in Sconnessioni, antologia personale curata da Gualberto Alvino per l editore Fermenti di Roma), prima di confluire nel secondo volume delle Poesie complete: Le avventure della signorina Richmond e Blackout, (in questo stesso volume, alle pp , figura Non capiterà mai più, e alle pp Vivere a Milano, senza però le foto di Bonasia 3

133 dell immagine, ma anche come, più in generale, l intera opera del suo autore successiva al 68 quello della letteratura a farsi storiografìa del presente; o, altrimenti detto come la critica recente ha ripetuto tante volte, da ultimo con Daniele Giglioli, epica (Fig. 1). Nella generazione più recente di quella che è invalso definire poesia di ricerca, questa tensione alla narratività in senso molto lato e anzi espanso, è il caso di dire è compresente alla ricerca iconotestuale. Si può anzi forse sostenere, come proverò a fare nelle pagine seguenti, che i due vettori di ricerca si intersechino in quanto dipendano l uno dall altro. L interazione di parole e immagini, che altrove in molti casi di superficiale insebaldamento si trovano associate in modo piatto (secondo quella modalità didascalica che nel gergo dei montatori televisivi viene - quando mi accorsi che sotto laluce non riuscivo a dormire cominciai a leggere in continuazione fino al mattino i secondini del turno di notte mi gridarono dentro di togliere la coperta dalla finestra dopo una settimana mi restava solo un dormiveglia apatico con punte di sonno di pochi minuti i riflettori da 500 watt fissati a circa 5 metri di distanza erano volti direttamente alle finestre delle celle là <ierano degli elettrotecnici che installavano di fronte alla mia cella due riflettori supplementari i riflettori da 500 watt fìssati a circa 5 metri di distanza erano volti direttamente alle finestre delle celle di giorno il sonno che poi subentrava era disturbato sistematicamente dalla routine carceraria a partire dalle sei in punto dalla notte del 1 agosto tre riflettori illuminavano a giorno la mia cella Fig. 1. Nanni Balestrini, Blackout (1980). edizione della Violenza illustrata (Roma: DeriveApprodi, 2011), 2, Cfr. Daniele Giglioli, Balestrini, o dell epica pura, in La ricerca infinita di Nanni Balestrini, il verri LXII/66 (febbraio 2018): Sullo stesso numero de il verri, in un intervista che gli ho fatto su Vogliamo tutto (il secondo suo romanzo, pubblicato nel 1971), Balestrini ha ricordato come il primo critico a parlare di epica, a proposito della sua produzione narrativa, sia stato Mario Spinella (in una recensione di Vogliamo tutto apparsa su Rinascita il 26 novembre 1971 e ora compresa in Scritture dal secondo Novecento. Intendenti su Rinascita, a cura di Andrea Gialloreto (Novate Milanese: Prospero, 2018), 78-82, per aggiungere: entra in scena quello che potremmo definire un personaggio collettivo, raccontato attraverso le sue azioni che sono in primo luogo azioni collettive, che lo accomunano a molti altri e non esprimono la sua specifica individualità, ma la condizione che lo accomuna agli altri. Anche quelle dell epica propriamente detta sono storie di gruppi sociali dove a un certo punto tutti lottano insieme contro un nemico: la narrazione si focalizza non sulla soggettività ma sulle gesta. Rispetto alla destrutturazione totale di Tristano, in Vogliamo tutto c è mia storia e c è un linguaggio che non è quello dell autore [...] quella che è la vera voce dei protagonisti della storia acquista mia sua forma grazie al mio mestiere di scrittore, o trascrittore se vuoi, il cui compito è quello di operare sul linguaggio. Con questa operazione intendevo trasformare il cursus della narrazione tradizionale. Un altro riferimento al modo epico si può cogliere nell ispirazione brechtiana di Balestrini (esplicita nel titolo della seconda raccolta poetica organica. M a noi facciamone un altra del 1968); al riguardo afferma oggi: tutto il discorso di Brecht nasce nel periodo rivoluzionario del primo dopoguerra tedesco, dopo la Prima guerra mondiale, dal movimento che poi è stato soffocato. Anche in questo caso, secondo me Brecht non avrebbe potuto scrivere tutte le cose che ha scritto se intomo a lui non ci fosse stata mia grande partecipazione collettiva, un grande afflato comune. Uno scrittore si trova in mezzo alla storia, esposto all aria dei tempi, e a mi certo punto può essere naturalmente spinto a parteciparvi. Non può inventarsi tutto dal nulla nella sua testa, Andrea Cortellessa, Balestrini Uno, Due e Tre: letteratura, politica. Vogliamo tutto ( ), il verri LXII/66 (febbraio 2018): 27-8,30. 4

134 definita casa-casa, albero-albero), e che invece in quelli che vorrei presentare rappresenta bene il principio di insubordinazione fra parola e immagine, è un fattore di tensione ermeneutica (proprio come nella tradizione Breton-Sebald) e, insieme, un fattore di connettività macrotestuale. In senso lato, dunque, gli iconotesti poetici o, come vorrei definirli, gli iconopoemi contemporanei sono sempre, altresì, dei testi anche-narrativi. Ma, di converso, è vero altresì il contrario: almeno se è vero che come insiste a dire una delle più agguerrite studiose dell iconotestualità, Liliane Louvel è di natura intrinsecamente ritmica l unione, in essa, di parole e immagini: il testo sarà come ritmato dall apparizione dell immagine [...] la quale, se isolata, lo può perturbare come una sincope occasionale; ma, se invece si produce con ricorsività, può imprimere il proprio ritmo al testo, come sovrapponendogli una griglia visuale, conferendogli un armonia. 18 Sintomatico che un testo di Balestrini come Blackout si ponga a cavallo fra la sua produzione specificamente poetica e quella narrativa (dall autore ascritta, come si è visto, all epica). Così come è eloquente la matrice poetica del primo iconotesto narrativo della storia letteraria, che convenzionalmente si fa datare al 1892 di Bruges-la-Morte, primo romanzo del poeta simbolista belga Georges Rodenbach. Altrettanto lo è l opera prima di Sebald, Secondo natura, pubblicata nel 1988, un testo in versi; ma questo poema naturalistico ed empedocleo, di matrice squisitamente romantica, è anche l unico libro di Sebald che non includa neppure un immagine. È solo con l adesione alla tradizione iconotestuale che i suoi testi acquistano propriamente una dimensione narrativa (e, come diventa evidente nell unico vero e proprio testo di fiction che è anche il suo testamento, Austerlitz, nonché nel libro saggistico Luftkrieg und Literatur, pubblicato in Italia col titolo Storia naturale della distruzione, anche storico-epica). [ ] da: Expanded Poetry. Otto iconopoemi in "Californialtalian Studie s", 8 (1), 2018 di Andrea Cortei lessa v. anche: Na nni Balestrini, l'opera al nero e a coloni," in doppiozero (11 febbraio 2017 ), w w w.doppiozero.com /m ateriali/nanni-8alestrini -lopera-al-nero-e-colori 18 Liliane Louvel, Texte/Image. Images à lire, textes à voir (Rennes: Presses Universitaires de Rennes, 2002), 233 (traduzione mia). 5

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136 da: Nanni Balestrini. Con gli occhi del linguaggio, Milano, Mudima, 2006 (mostra 16 maggio - 6 giugno 2006) Nanni Balestrini, una filosofia del montaggio Tommaso Ottonieri in: Nanni Balestrini. Con gli occhi del linguaggio, Milano, Mudima, 2006 «Basta uno sguardo ma non c era altra scelta»: da qualunque degli innumerevoli accessi accada di entrare dentro le steli di parole di Nanni Balestrini (clichés di magnesio... inkjet su tela... mixed m edia... o, anche, più antichi e cartacei collages) queste aperte, straordinariamente, trappole palindrome in cui sgretolandosi vanno a sagomarsi i paesaggi verbali, rivelati da un infallibile sguardo di Poésure e di Peintrie da ciascuno dei frattali microvortici linguistici da cui l occhio- sia stato nello stesso atto catturato e respinto (tipogrammi e spirali da vergare per ogni senso, alla lettera, per ogni verso) - da qualsiasi apertura si sia stati assorbiti nella galleria del vento di questa verbovisione, è come se ci si ritrovasse in un campo aperto; senza protezioni; macinare della pura turbolenza, all altitudine stessa, vertiginosa, della Storia nel suo farsi. Quasi che si fosse sospinti, voglio dire, in uno spazio dove linee di fuga, fulminee e inderogabili, violentemente astratte, stiano lì di taglio a interrompere a deviare quel flusso così pervasivo e compatto di pratiche rettoriche, in cui si forma, si trasmette, il Dominio: quel territorio della lingua, cioè del linguaggio dominante, in cui questo (il Dominio) di continuo si (ri)produce nella maschera della Verità. (E a cui solo si può rispondere per via moltiplicativa: dal linguaggio, riportandosi a i linguaggi; dal totalitarismo del logos, alla totalità, plurima e insolubile, frattale e piena, delle identità e delle parole). Perché l arte, appunto, totale/frattale, che è di Balestrini, punta sempre, da sempre, proiettile o lama, su questa materia amorfa e insieme pesantissima (piombo e pietra lapidea: tipo-lito-grafia), in cui ogni pratica di potere si ordisce in quanto pratica-di-linguaggio. Quello che la sua forza centrifuga mette a fuoco, in ciclo, attraverso una fisica microscopica (ed evidenziatissima pure) di tagli scomposizioni riciclaggi ricombinamenti, è appunto il vuoto che si occulta al centro d ogni verità comunicata dal Dominio. Che vi si annida, per via di quella rete di mediazioni non solo tipografiche, che in età fordista usavamo dire l industria culturale. M a anche: il vuoto che si produce nella centrifuga del ricombinamento, rivelando il senso del linguaggio per invertirlo criticamente, e politicamente rovesciarlo, de-integrandolo, disintegrandolo, e fino a sospenderlo come nella più 39

137 controversa delle pratiche zen (o forse, in uno zen della controversia), questo vuoto può diventare un pieno. Totalità di eventi in conflitto, esplosione di crisi in grado di liberare spazio critico al linguaggio (che resta non meno informe neutro vuoto - dunque combinabile strumentalmente - per questo): e infine - unico corridoio ancora disponibile forse - il buco nero di un caos linguistico-sociale, salto gravitazionale in un alveo caotico: tragico cioè rigenerante. «Tutti contro, la crisi dilaga». (Utopia e Apocalissi, due movimenti di una medesima dialettica, in Nanni). Cubo Poesia, scenografia per il 16 festival Time in T Jazz, Berchidda 2003 È perciò che a questa «poésie-action» (continuo a citare da titoli, flash, illuminazioni, presenti nei suoi vari assemblaggi e s/montaggi) - a questo agire per «combinaisons déroutantes» di parole frasi concetti già normalmente consumati, e prodotti, dalle fasce di pubblico implicitamente (o meno) partecipi del dominio - è intrinseca, esemplarmente, l'illustrazione delle energie della Violenza. E questo poiein, è critica trascendentale, in movimento, in atto: se il linguaggio è appropriabile e amorfo, assolutamente «La poésie est autonome»; il motto, a fondo (credo) etimologico, che trovate inscritto, a chiare lettere di caos, nel pieno vortice di una tavola, è il più adatto a render conto di quest ars che valorizza la parola di poésure come la pratica capace non solo (secondo la sua lettera) di inventare da sé le proprie leggi e ad esse sole soggiacere - ma anche, di decostruire il segno del dominio: di disattivare la coazione eteronoma, che fa di tutto per cablarci a sé in veste di Linguaggio. E ciò infine che in questi lavori è distruzione, scomposizione, violenza, non è che chiave ejzen_tejnianamente per la costituzione di una immagine nuova e autonoma, a tutti gli effetti: capacità utopica di costruire un altra profondità del reale. Tutto questo il conflitto - è la filosofia (im)purissima del Montaggio. 40

138 Wer das hier list, collages, Berlin Storkwinkel, 1988 Quale sarà, allora, l etica densa, capace di strutturare un estetica ricombinante, come questa che Nanni dovè fondare d anticipo sui nostri tempi? - e fondò, dico, straniando i materiali linguistici per riportarne in luce il Caos, il seme del Conflitto. Se sono erette, queste muraglie di parole - ribòboli di segno visivo che esplodono nelfimmanenza insostenibile del loro Suono, a decrittarvisi, - se questa «architettura delle linee di Fuga» si protende dalle fenditure d un presente tanto impraticabile da non poter evitare di praticarlo ancora e sempre, questo, sarà sì per aggirare (notava Virilio) il «muro delle parole»: ma sarà, anche, perché è su quella pratica, sul conflitto dei linguaggi (e, sul confliggere col Linguaggio), che continua a convergere l infinità delle nostre Fughe. 41

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140 Nanni Balestrini La scrittura nasce come atto visivo, è il linguaggio che s imprime nella pietra, nell argilla, nel marmo, che dalle stele, dagli obelischi, dalle lapidi dell antichità impone sentenze immutabili, e oggi ricopre le metropoli con le effìmere lusinghe della pubblicità e con la violenza dei graffiti sovversivi. E la scrittura pubblica, che anticipa quella privata, e invia all occhio delle moltitudini i suoi messaggi indiscutibili, che non attendono risposte ma assenso o indifferenza. In questo senso la letteratura e l arte congiuntamente hanno da sempre operato sulla materialità della parola, sul suo farsi figura e oggetto, sulla frantumazione di ogni lettura lineare. Forme di comunicazione visiva che hanno attraversato un momento radicale con le grandi avanguardie del secolo scorso, dissolvendo definitivamente il significato del segno verbale nel suo significante ottico. La colonna, avulsa dalla sua funzionalità architettonica per erigersi come monumento urbano, s impone con la sua verticalità e la sua vertebralità infinita, su cui i segni possono scorrere senza limiti verso i cieli, ritmando il movimento circolare dello spettatore. Strappati dalla cronaca quotidiana, i lacerti della stampa disegnano inedite costellazioni mentali e invitano il pubblico volonteroso a misurarsi con la sua capacità di interpretare le ragioni della sua miserabile irrimediabile passività. Colonne Verbali II, 2003 Progetto Alphaville 59

141 NANNI BALESTRINI POESIE PRATICHE GIULIO EINAUDI EDITORE con gli occhi del linguaggio non la riproduzione dietro la pagina un vuoto incolmabile non mima niente nel paesaggio verbale l arte dell impazienza sovrappone un altra immagine mentre passiamo bruciando

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143 Appendici

144 quinta-dimensione, la luce; accoglie una eredità della Metafisica, non più intesa come metafisica dell'immagine ma come metafisica della forma. Marcolino Gandini guarda, è vero, alla geometria iperbolica di Louis e Noland, ma punta apertamente sulla qualità: cerca uno spazio esterno, una evasione dall'intimismo, restando in equilibrio tra segnaletica e interiorità. Achille Pace con i suoi percorsi di fili su fondo nero propone un filo-d'arianna dopo il labirinto informale, configura un rapporto oscurità-visione (teorizzato a lungo da Husserl): una serie di racconti sommessi di tono perfino favolistico. Le incisioni «bianche» di Giorgio Bompadre sono una sfida alla percezione, anche se c'è la proposta di integrare il mondo quotidiano (vedi l'affiorare di segnali, lettere, timbri, dischi). Sergio Romiti arriva a uno spazio tremolante e zigzagante, in un raffinamento progressivo dei suoi mezzi: Maurizio una apologia Fagiolo delle Dell'Arco, piccole Rapporto cose, una sulle strati- arti negli grafia del silenzio, con una voce anni sommessa sessanta che ritrova le «myricae» del nostro in: ID., Rapporto 60, Roma, Bulzoni, 1966 mondo affrettato. Guido Strazza si rivela attento alle tracce più lievi. Antonio Sanfilippo ricostruisce a punti e linee l'alfabeto-morse dello spazio. Bruno Caraceni sperimenta strutture di fili e mappe fantascientifiche, con uno sconfinato amore per il bianco. Antonino Virduzzo arriva a una ossessionealchimia-metafisica del «punto», ma anche con angosciose premonizioni atomiche. La pittura di Angelo Savelli (che è anche scultura, anche architettura) torna a un mondo antico, «quando le cattedrali erano bianche». LA FIGURAZIONE Si imposta negli anni Sessanta un nuovo rapporto con la realtà. Il New- «NOVISSIMA» Dada, con Rauschenberg, Johns e altri, è una ri-disposizione delle cose del mondo, non secondo i canoni europei ma al lume delle conquiste dell 'action painting. Pop-art (termine coniato nel '61) indica un rapporto più stretto tra l artista e i mass-media, una prospettiva sociale: Dine segna il trapasso, e poi vengono Oldenburg e Lichtenstein, Warhol e Segai e Rosenquist, ecc. Per accettare i termini di Calvesi, è il momento del réportage che viene dopo il momento della ricognizione. Il Nouveau Réalisme francese (Arman, Christo, Raysse, Spoerri, ecc.) ci appare come una corrente allegra e tenue dopo l'assalto della pop-art, che certo è meno raffinata, meno «francese», più clamorosa, più pragmatista. Il nuovo «primitivismo» americano si spegne in Francia nelpeterna divagazione surrealista. Ricordiamo anche le proposte inglesi impregnate di baconismo (Kitaj, Blake, Hockney, ecc.) o di uno humour secolare (Tilson). Ci sembra ormai chiaro che nei migliori non c'è un'assunzione bruta dei mass-media ma uno studio, perfino molto approfondito, sui dati della percezione, sulle tecniche visive. Basti l'esempio di Lichtenstein. Quando tutti si affannavano a spiegare il rapporto a senso unico con i fumetti, Calvesi (1963) rinveniva una integrazione estetica nell'ambito della civiltà dell immagine, proprio 4 20

145 come i gruppi gestaltici cercano un integrazione estetica -nell ambito della civiltà tecnico-industriale. E poi spiegava il réportage di Lichtenstein come una serie di immagini «transattive» valendosi della psicologia della visione. La posizione «apocalittica» di Argan e Dorfles nei confronti della pop-art (accettata al massimo come sintomo sociologico) va presa con prudenza: non dobbiamo dimenticare l elaborazione di infiniti strumenti linguistici, il rapido svecchiamento formale, la messa a fuoco d una iconografia XX secolo. È chiaro che, in Italia, l odierna figurazione «novissima» vuole opporsi nettamente a quella malfamata «nuova figurazione» che sta diventando (come scriveva profeticamente Argan) un secondo «Novecento». Molti artisti guardano al simbolo, all oggetto, alla realtà, innovando gli schemi eidetici e iconologici. Per il livello linguistico, molte di queste ricerche si apparentano, in letteratura, alle proposte del «gruppo 63» e dei poeti «novissimi» (pensiamo alla poesia collage di Balestrini, alla poesia racconto di Giuliani, alla poesia romanzo di Pagliarani, alla poesia fisica di Porta, alla poesia fiume di Sanguiê neti). Anzi si adattano molto bene a questi pittori i «caratteri tipici» del poeta moderno distinti da Alfredo Giuliani: la discontinuità del processo immaginativo, l asintattismo, la violenza operata sui segni, la compresenza di vari ordini di discorso, la scomposizione e ricomposizione della struttura sintattica, la frase sospesa o interrotta dal premere di altre frasi, l asprezza o l atonalismo del metro, e così via. Questi pittori cercano un arte che, come quella dei «novissimi», sia fedele al mondo oggettivo e intanto pronta a registrare quanto avviene «dentro»: dalla cronaca si va alla confessione, dalla ricognizione all ironia. Si vuole in certo modo rinnovare la visione del mondo, strutturare una mitologia che non sia soltanto personale ed egoistica. Il rapporto col mondo non è diretto ma c è la mediazione dei mass-media (il film, il segnale, il fumetto, la pubblicità); anche l approccio al quadro avviene attraverso tecniche indirette (la proiezione, l inserto, il ricalco). I nuovi strumenti dei pittori USA sono appunto strumenti: sta all artista accettarli criticamente, evitare che diventino rapidamente il «fine» della propria espressione. Rinnovata è l idea di spazio: irreale, sognante, ultrasonico. Un fanta-spazio che non sta allo spazio tradizionale come la fantascienza sta alla scienza, ma propone una alternativa possibile, una serie di metamorfosi. Il rapporto con la realtà. Ci sembra che sia stato chiarito da Zevi quando parla di Rauschenberg: «Cessa l arte della denuncia e quella dell ironia. L artista non persegue più un ideale astratto e mitico, un sopramondo si riconosce nella realtà, e quindi riesce ad operarvi, a comunicare, ad esistere». Come esempio dell «uomo post-istorico» di cui parla Mumford potremmo prendere Pistoletto, un artista che scrive: «Un arte che esprime sentimenti personali non esiste. Mi interessa di più capire ciò che vedo al mattino appena mi alzo... le cose che sono io, la realtà intorno a me, anziché continuare il sogno che ho 21

146 fatto di notte». Il rapporto con l'opera. L arti-sta, tuffandosi nel mondo della vita, gode nel sentirsi mass-man e nel travestirsi da operaio specializzato. Può atteggiarsi a falegname o a tappezziere, o a operatore cinematografico, può camuffarsi da cartellonista o semplicemente da collezionista. Un rapporto tecnico. Anche in musica assistiamo come reazione alla musica programmata (il «povero costruttivismo», scrive Castaldi) a nuove proposte di inserti dada, e nasce un contatto perfino con il teatro, la mimica, il gesto. La musica verbalizzata di Chiari, la musica collage di Castaldi, la musica del caso di Bussotti. Per questa prospettiva «novissima» in arte si possono fare i nomi di Rotella, Perilli, Novelli (per la generazione più anziana), Adami, Aricò, Del Pezzo, Angeli, Festa, Schifano (per la generazione intermedia), Pistoletto, Ceroli, Pascali, Tacchi, Mondino, ecc. (per la generazione giovane). «Novissimi» non significa «giovanissimi», se pensiamo alla cooperazione di giovani e anziani nel «gruppo 63» e al caso inquietante di C.E. Gadda che proprio negli anni Sessanta diventa padre putativo dello sperimentalismo. Si impone anche una precisa scelta stilistica, un indirizzo «di genere»: Schifano sceglie il réportage, Angeli sceglie la moralistica, Adami sceglie il dramma psicanalitco, Pistoletto la tragedia, Del Pezzo il film muto, proprio come Ceroli sceglie la precisione geometrica del balletto, Tacchi la commedia di costume, Baj la comica finale, Mondino il gioco, e così via. Un vero precursore della «nuova oggettività» è Mimmo Rotella: dal 54 datano i suoi manifesti lacerati («Strappare i manifesti dai muri è l unica rivalsa, l unica protesta contro una società che ha perduto il gusto dei mutamenti e delle trasformazioni strabilianti»). È singolare come questa tecnica abbia potuto permettere a Rotella di inquadrarsi in due movimenti così diversi come l Informale prima (quando i manifesti erano usati come materia pura) e la nuova oggettività poi (quando del manifesto torna in primo piano l immagine). Cioè, dalla poetica del «muro» (implicata al massimo con l Informale e l esistenzialismo) è approdato alla poetica del miraggio (ovvero del «rispecchiamento»). La strada cittadina è la sua casa, le immagini più vulgate la sua tematica, e Rotella torna a raccontarci a modo suo una storia che tutti sappiamo (o crediamo di sapere). Oggi Rotella ha compiuto un nuovo scatto: i suoi riporti fotografici su tela isolano una parte netta e decisa del muro cittadino (e poi di immagini stampate): ormai non c è più neanche il suo intervento, c è solo la «scelta» e l appropriazione, il tentativo di ritrovare una impossibile integrità. Achille Perilli (tra i promotori del gruppo «Forma» nel 47) trova la sua via alla fine degli anni Cinquanta: le scene della memoria, del sogno, della cronaca perfino, si inquadrano (ordinatamente?) in zone che ricordano le strips dei fumetti. C è un rapporto tra zone disegnate e zone colorate, un sottile equilibrio tra struttura e capriccio: il «segno» che sembra informale è profonda 22

147 mente nuovo perché diventa un personaggio. La struttura è recuperata in un mezzo larghissimo di comunicazione: il contenuto è quello di sempre, amore e morte. Il gioco di Perilli può diventare dramma, ma affiora sempre una corrosiva ironia, soprattutto nel colore imprevedibile. Gastone Novelli va alle basi di un nuovo linguaggio. Non cerca l immagine ma il segno, non la parola ma la lettera, auspica un ritorno al nucleo originario della vita. Si sforza di sapere tutto per dimenticare subito tutto: una «docta ignorantia» per ritrovare una impossibile spontaneità. I suoi quadri sono una difficile operazione di equilibrio: tra vita e gioco, tra cielo e terra, tra temps perdu e tempo ritrovato, tra parola e immagine, tra classicità e romanticismo, tra autobiografia intimistica e società^ Nel 1960, in una collettiva alla «Salita» si trovavano uniti tre pittori: Angeli, Festa, Schifano. Esemplare della «figurazione novissima» è l esperienza di Mario Schifano. Agli inizi sperimenta il «campo fotografico» nella serie di silenziosi riquadri monocromi. Poi il «reportage» e la messa a fuoco: gli smalti lentamente sgocciolano scaricando della sua baldanza l immagine vulgata. Oggi incastra geometria e natura, per rendere commensurabile la lontananza siderea di colline e nuvole. Schifano chiama Cieli pieni di cultura molti di questi paesaggi e altri (identici) Paesaggi anemici. Rimettere in gioco anni di cultura, dice Schifano, coinvolgere nel quadro Dada-Futurismo-De Stijl, e alla fine accorgersi che tutto è illusione: è illusione la natura ma anche quel controaltare che credevamo di aver trovato nella cultura. Franco Angeli dipinge i simboli politici: svastica, lupa, dollaro, aquila, chiavi papali. L immagine vuole presentarsi pura ma il simbolo la carica di allusioni, ma poi si spegne ogni allusione metafisica, si traduce in sarcasmo quel che sembrava compiacimento. I simboli del potere dipinti a forti tinte sono poi velati da una tela colorata che solo in parte lascia trasparire l immagine: un equivalente della vernice arricchita dalla patina del tempo. Un quadro di Angeli è volutamente un quadro antico, un quadro «patinato», proprio per cacciare il più lontano possibile il mondo del terrore. Angeli è la voce della coscienza per una umanità che dimentica facilmente, è il moralista di questo tempo che, tutto sommato, non riesce a fare a meno della morale. Tano Festa, negli spazi dilatati e negli accostamenti imprevisti, è in rapporto con la Metafisica. I suoi inizi sono nell orbita del costruttivismo e di Dada (pensiamo a Duchamp). Poi rempie di figure gli spazi che si rivelano quel che veramente erano: fotogrammi. E le figure che vengono in un secondo tempo sono, come è logico, della cronaca e della storia (le foto femminili, le opere di Michelangiolo o Van Eyck) perché il primo passo per un regista è il documentario. Gli ultimi quadri sono veri film a soggetto. [...] E veniamo a Milano. Giuseppe Romagnoni era giunto a una interessante «pittura di racconto» attraverso la tecnica del foto-montaggio e dell associazione di idee. Il quadro si ingorga di personaggi e di azioni: forse Romagnoni 23

148 Tre artisti, nelle spirali della parola

149 I L OZIO rubrica di Tommaso Ottonieri in "Carta cantieri sociali", VI, 45 (9-15 dicembre 2004) Parigi 1960 Quando le parole si mescolano alle immagini. Guido Biasi e il suo diario scritto a una sola persona è una testimonianza ma anche un Manifesto e soprattutto una teca di infiniti sportelli aperti per guardare il mondo e p e r t i fotoantropici, mnemoteche, memorie ecologiche, astri fetali, pitture cardiache, museologie, genitali reliquie... Il mondo oggettuale [visivo ma scrittorio in modo parallelo e indissolubile] di Guido Biasi ribolle di un profondo, v i scerale richiamo all organico: un appello a una matrice irriducibilmente «ombelicale» [termine organo immagine su cui sembra ruotare per intero il suo lisergico universo], una matrice materico-astratta [fino a una pulsazione minerale] riposta alla base di qualsiasi atto culturale. Non a caso, il punto di partenza della teoria e prassi dell artista, napoletano a Parigi, scomparso nel 1983 sulla soglia dei cinquanta, potrebbe intendersi il Manifesto per una Pittura Organica [1957], stilato ai tempi della sua adesione al mirabolante Movimento di Pittura Nucleare, prima ancora di fondare, a Napoli, assieme a Del Pezzo, D i Bello, Fergola, Luca e, soprattutto, al suo «gemello» Mario Persico [tanto prossimo e nel tratto, a quei tempi, quasi indistiguibile dalui, quanto distante nel carattere, più progettuale e introverso], il «Gruppo 5 8», che parlando da un Sud problematico e consapevole [Documento Sud e Linea Sud, le riviste che gravitavano su quel movimento] si dimostrò già capace [soprattutto nelle arti visive] di cogliere gran parte di quelle ragioni e umori da cui sarebbe scaturita la temperie neoavanguardista. GUIDO BIASI P nfazuw e dì M vi «Persico edizioni murra M a r ia M a r t in i G u id o b ia s i. Lunga lettera da Parigi, [edizioni Morra fondazmorra@virgillo.it] Pubblicato opportunamente in anastatica, presentato dallo stesso Persico, e seguita da uno scritto di Stelio Maria Martini [che fu protagonista invece dal coté poetico - anzi, «verbovisivo» - della nuova avanguardianapoletana], emerge adesso, come dauna«mnemoteca» [scrupolosamente] datata, il «reperto fotoantropico» [memoria geologica di una scrittura] della «Lunga lettera da Parigi» che il 3 0 giugno 1960 Biasi inviò al suo amico [Persico], dopo aver abbandonato l ombelico napoletano per l ombelico stesso della modernità, Parigi [ancora] capitale del X X secolo: un vorticoso affastellarsi di osservazioni, schizzi, aforismi, versi di poesia visiva [o linee ondose estemporanee di poesia puramente verbale]; praticamente, un libro-oggetto, «scritto in un solo esemplare nu- \ merato da 1 a 1 e contrassegnato da ^ un autografo dell autore» [ma il libro stesso, è completamente autografo], e consegnato alla memoria segreta di un unico lettore in qualità * di «rivelazione» ancora «chiusa a chiave nella cassetta», rappresentata nel collage della penultima pagina: atto finale di un dispendio [diciamo, con Bataille, di una «dépense»], di un sottrarsi alle ragioni dell apparire e del mercato, ma - più che per celarsi - per metterne in crisi le logiche; e viene in mente allora, di Biasi, l atto artistico «scandaloso» dell anno precedente, quando, anteriormente a un suo dipinto, aveva applicato uno sportel- X. lo chiuso da un lucchetto... ^ 1 Questo libro, diario scritto «a» lina seconda persona, un diario a distanza pronunziato allo specchio di un altro da sé [Persico, dunque, destinatario-dedicatario] acuicisi senta legato da un filo così intimo, da invocare ad ogni tratto ma sempre segretamente, mai rivolgendogli apertamente la parola, è una teca ad infiniti sportelli semiaperti: più verbale che visiva [anzi visionaria nella sua verbalità invadente], è un reliquiario di parole-cose, di organiche mineralità, cornucopia dell impossibile-eterogeneo, domicilio mobile per gli ultimi ectoplasmi marcescenti d una Parigi ancora surrealista [su tutto, la presenza interloquente di Breton], non ancora ridisegnata dalla spugna della Nouvelle Vague. Gesto estremo, pubblico/segreto, d un rinvenire «la verità dell inconscio» [scrisse altrove], là dove questo riesca a «trovare la chiave di un architettura etica senza illusioni e senza.balbettii», posta tra «l io più privato» e la sua eredità genetica e culturale: «quella regione remota dell ancestrale così cara all immaginazione dell artista d oggi».

150 [su Biasi v. anche: ] <2j*iAoV\a*x PARIS ojul' ojw\à&<9' U t a t o B v ^ e e ' ff l«. f^ Ä ^ io u tä - AO ^jj'éz' S ii, la kzäkkjq*lxß~s ÀiS&"Ç ô ^ Ù J i t f o î»,, T _ ç f l l ) T ( e R j

151 U l o A ^ J S W D l/td crvu9 An^e avìì w ^ cù-/4^c/ d i jrva^vtfe^o. S i tfe«uuo ^\ V, d i AaO^IoL <AaÎÎA * vvw<l Â2 im t«. (vwavvvmo. S i VöcUuä 4, A i S* v/ evw W attfcruó du }v*/diÿ,a. fi«. vuaacxu ^ A cajejua^6 -& ^ (jri^ißlt^' «A'?aJW a. f^a- iß ^OA-cUto/O iuäßü. oujlÿ<h. ( a V ^» <y>i(vt mma.ßivo^tä, /voci \[&jíjá1j AuaoJIìaW ó oli, ^ 4*, t cje, «^JtAA d i ; «jjieaa^ dl?j&. ißäoaiiivix/, JluMA- yovuk. Í/. v/ùolg/c Vfùdft'- (\ (/Ù?a/& t*ha - ß iu ^ ^ * iß ba$ti& o /oe \/<rfol AufiüíV 8>ew^uft. SL. -Vii. VWCAt- Qtax. ß, ^viclemwäou <jai<5fí<\.. ( vu^wa. d i bdtté&o cda m jo^ l aaí /m X/ils M l ' <xce> U A., yvo / AA ^iuauä. d i &m*«xwaa- ou ^enao, fùëfrva. JUk^wA- ttfca. e>ovv\ä iz L vuaavo A g âam**vma, &\*cuaa c-w W/JrpS-fc»-' ifcdem^/ic-ö & iß- oxbo^a. 'vuefifixs. /ifcw*. 4tí\/iCÍA. cd. UM*'*#- /frjv/- /vò/ua&. UK Sím/AA' á T <fyrvolr A. A tfi Atoo 4&u k C > d i AuX<^icíZ} <rug>*jk.o\ \<y~ ou&ltav tooo^t cjufl- jv»a/táu - ((9U, WaAA. d 'a c ^ u & au cx.íj1&&&kx 0V0bt/ h j L v JlcwteunAe yveacav ww5 Jfo, \ fx \ b iy &*- d A of^aaaicm ^ d/ù/utfud&u, ^o, IsOsAod&ÿo. < M k t u t W i ÿ i A ^ ía & ft dex immldud., i/ A V ^tu ic a (jo'wua. d i d (rf)g i> JU ÿ io tfè ftij, <$ ah M À»ie Ìù. wai: j m m! L ä. w ^ e i d a & dw ÿi_ ts U U x J x... T u fe ^UíMx) U ^ ^ ítu A ^,A ^ W X fl yw&waml. U A Ot 1 A0 cdtf. UM* AÿW s A cdfo famaátf. 1 ' 0CcX 4 a I ojois&o JjtfSLe^ m íacu/w ^a/. LIm. ÍUc^wvdo oßea. imäami^ama/ 0* W. Ç K ^ ( ^ a o túxk vkei/vu. : >am iaogftcco^o cau yv: vtt^e,, öupuaao, /vleä < r& i i > *UÂ- (oíma^éa/ívuoi^ ^ tvflootd o fio. ^o-cßo. ruj\aje^(/ Íe- ifi J*\ j0 Au/tÿv'ôL# \JoJbyUi, U AACCo^o -C'oecAvtO AjvÁAtó oucooarx ^ im jdtó -vu 02a ^ VttiA AMütr^o d>i fvitttvuv, c W ^Ä Um O A ^W o^o -USvVÖ, <A^Ô, im b i^ id jto jftaáoüô<»/u<í,, Um ^ A ^ ffo ío «Ai /Vdfiiv/A' AA^Coß^o X KO (AM ^OUtU?^ i/m ' WUaImA-^ AvwaÍ^Á^A^ > MM HVtfl^S- dá A^AAaA^UV- ^itm-cáaa ß - U*fwßßflL 44< m)* a J&- fc-ow eußßa., ImA Í/WA. AM^ÍaA- UuSoßti^AA v/laotó, MAjÓíÁíx, ^udoue d 1 UM. CeO^O, AtlvÖ^lwA UHMÍ U <xßfa, to W t U JU «S. Í^m Í ów ^ ^ J ^ ^ ^ A^CA^rUVMVti.

152 vuju í\aju(^txsl >vskjóomb cw ^mjííjisl $Ui& n W e i

153 9 wdu»*«a'v'' ix- f J jjs ^ tap S t í ^ < i grf^ O H.e Aealw)^ «* *! & '$ * * O ^ o u> gov^

154 Stelio Maria Martini Il cuore a soqquadro [postfazione] Guido Biasi ( ) fu il compagno di studi e l amico geniale e fattivo di Mario Persico, quello che nello scambio e nella partecipazione delle idee e delle esperienze sapeva arrivare per primo alle soluzioni più brillanti, ed anche estreme. Le loro scritture di quegli anni mostrano con pari evidenza le rispondenze del sodalizio ma, mentre gli scritti di Guido ne rivelano l estroversione e sembrano sempre pretendere a una compiutezza pubblicistica, quelli di Mario conservano il carattere di appunti e riflessioni intorno alle proprie invenzioni e ai modi del loro venire in essere. Guido, sotto il nom de piume di Marcello Andriani (ed anche di Gaston Fidèle, per il quale s inventò anche un traduttore), venne subito pubblicando i suoi poemi su Documento-sud, dove i suoi interventi in prosa si presentavano come dialoghi didattici, invettive e brevi scritti storico-critici. Gli scritti di Mario invece apparivano sempre quello che erano, e cioè considerazioni, anche provvisorie (v. il titolo Primo appunto per una ibridazione visiva), intorno alle idee ed ai progetti di lavoro, e per lo più restavano inediti, e quanto alle sue sperimentazioni poetiche, ricordo di essere stato io stesso, qualche tempo dopo, a estorcergli, per così dire, testi che per la prima (ed unica, come mi pare) volta comparvero su Linea-sud. Il loro lavoro di pittori, finché Guido rimase a Napoli, andò come di pari passo: presto essi si orientarono in direzione di un loro neofigurativismo che reagiva all astrattismo, al concretismo, all informale e, in qualche modo, allo stesso nucleare, con il quale ebbero presto contatti diretti. Almeno agli inizi, i due lavoravano intorno a un loro peculiare interesse per forme organiche e antropomorfe, che finivano per mostrare la figura umana come figura di un mutante. Guido insisteva sul tema dell origine, quasi una regressione allo stato fetale, che venne caricandosi di suggestioni addirittura minerali, senza escludere la presenza di astri favolosi, mentre Mario ideava le sue mutazioni più ampiamente, fino a comprendere cause di natura sociale o fantascientifica (p. es. perdita di gravità), raggiungendo a volte accenni geometrici. Ma Guido spaziava volentieri nel mestiere e sapeva permettersi perfino la vignetta umoristica, come Mario non fece mai, perché il suo tratto era minuzioso ed elaborato, non stilizzato, e pur accogliendo umori ed humour, era pur sempre il contrario della facilità stilizzante di quello di Guido. La cui vocazione lo spingeva a mirare a teatri più ampi, ed egli assai per tempo potè maturare il proposito di trasferirsi un giorno a Parigi, come poi fece alla fine degli anni cinquanta. Di là prese vita il fitto scambio epistolare con l Italia, con Napoli, con il vecchio compagno di studi, e in questo quadro venne in essere, via via che correva l ordinaria corrispondenza, il più corposo diario di questa Lunga lettera di cui Mario subito pubblicò alcuni paragrafi su Documento-sud n 5, fascicolo che comparve nell autunno Documento-sud aveva preso a uscire con regolarità quasi bimestrale nel 1959, a sèguito di un progetto di Luca che Guido realizzò immediatamente anche in vista del proprio trasferimento a Parigi, dove la rivista avrebbe

155 contribuito a preparargli il terreno, come del resto avvenne già limitatamente ai primi due numeri, dopo i quali Guido partì, e d allora Mario Persico assunse la redazione della rivista (nei fascicoli indicata semplicemente come impaginazione ) che, per il n 3, sostenne con Lucio Del Pezzo. Guido venne preparando la Lunga lettera mentre proseguiva la sua collaborazione con Documento-sud, fino all ultimo numero (genn. 61) e la Lettera prese corpo a più riprese, più o meno calcolabili in base al numero dei paragrafi, disegni, foto, collages che la costituiscono, con quella sua grafia sempre da bella copia, per cui della Lettera, se mai esistè un progetto certo non fu mai preparata una minuta, essendo una stesura unica e di prima mano, praticamente un libro-oggetto, dunque. La presente riproduzione a stampa mi esime da qualsiasi menzione del contenuto oltre il semplice ricordo di Guido, ravvivato dalla lettera stessa. Il ricordo delle sue simpatie come delle sue idiosincrasie, dei suoi modi, delle sue curiosità, della sua bravura, delle sue mitizzazioni (genuine o artefatte che fossero), i paradossi, gli aforismi, il fantasticare (ingenuo o cólto). Un Guido che ancora veniva abbondantemente esprimendosi sulle pagine di Documento-sud, anzi, che veniva ancora esprimendo il mondo culturale e fantastico che s era portato a Parigi da Napoli, perché è proprio ciò che non deve passare in secondo piano. Riprendendoli da Documento-sud, riporterò qui alcuni dei suoi aforismi, il senso e la misura dei quali si troveranno oscillanti dal puro compiacimento del bisticcio e del calembour ( mente demente non mente, oppure la lucidità è la maniera più meravigliosa di essere ubriachi ), all entusiasmo romanticheggiante: l arte veramente educativa è maleducata o, più enfaticamente: la poesia è l arte di essere distratti nel più incantevole dei modi e presenti nella più disincantata delle maniere. Il suo autobiografismo si direbbe di natura poetica: la famiglia è un fiume mortificato in un canale in muratura, mentre la sua insofferenza d artista lo spinge ad affermare che la saggistica è l arte di dire cose inutili intomo a cose utili. Ma forse la terra è ruvida e noi siamo i fiammiferi oppure un quadro è un cuore a soqquadro non si direbbero semplici trovate ma parti integranti di un suo intimo credo, ben al di là del nudo concettino. In questa Lettera si legge anche : la parola che più mi riesce insopportabile tra tutte: MODERNO. Si tratta di una frase che Guido aveva preso da qualche tempo a ripetere, e converrebbe riflettere sulla valenza solo apparentemente paradossale di essa. Paradossale perché, a rigore, Guido stesso era sicuramente un pittore moderno e pertanto la frase va intesa nel senso della ricordata opposizione nei confronti del vulgato clima di modernità allora vigente, quello del design neoplastico, industriale, postfuturista, contro il quale moveva il carattere magico-espressivo rivendicato dal loro neofigurativismo. Il quale però rientrava, via surrealismo, di pieno diritto nell avanguardia, termine proprio (v. il titolo dello scritto dello stesso Bias/: Il ponte dell avanguardia Napoli-Milano-Parigi-Bruxelles, in Doc.-sud, n 4) allora orgogliosamente assunto, e usato ancora senza il prefisso neo. E dunque, anche sulla scorta delle Invettive che Guido veniva pubblicando su ciascun fascicolo della rivistina napoletana, l opposizione era proprio quella tra i tipi di modernismo appena ricordati e la (neo)avanguardia. Alla quale infatti appartiene tutta la produzione di Guido di quegli anni, per me (ma non solo) culminante in quel suo quadro del 1959 dal titolo La finestra di Marianna (v. Documento-sud, n 2), al quale egli aveva applicato uno sportello chiuso da

156 un lucchetto, cosa che aveva stupito ed entusiasmato i suoi amici. Un tale espediente extrapittorico, infatti, rappresentava un punto d arrivo impensato, tra molti altri possibili, un suo modo clamoroso e ironico per preservare un segreto, forse una bugia, certo una parte recondita del suo cuore in quel soqquadro che era il quadro stesso nel suo insieme. E questo era Guido, che sempre mostrava di saper liberamente giocare con la propria arte, cioè con i propri sentimenti. Il mio breve ricordo ha per argomento proprio l irripetibilità di una stagione unica. Per come ci si presenta, la Lunga lettera è quella di un Biasi che, almeno nei confronti del destinatario, si sente ancora tenuto all imprevedibilità dell invenzione e dei mezzi per realizzarla. Nei pensieri, nei collages, nei disegni e nella stessa grafia è pur sempre riconoscibile il Biasi delle pitture cardiache, dei poemi mirabolanti, delle invettive, degli aforismi; sono ancora riconoscibili le sue adorazioni, le sue repulsioni, gli stilemi dei suoi contributi a Documento-sud, contributi direttamente provenienti da quel suo intravedere l avvento di una stagione nuova, in verità nulla più che un aspettazione, come recita quel (suo) Manifesto del Gruppo 58: Gli incanti non bastano più a soddisfare la nostra coscienza e probabilmente neanche i nostri sensi desiderano più alcuna droga. Troppi sogni ci hanno devastato. La possibilità di nuove aperture può nascere dalla nostra stessa natura, la più intima, primitiva delle nostre diecimila nature, che tenta di ricreare il gesto più spontaneo e più puro. Non vogliamo negare la verità dell inconscio, ma essa deve smettere di raggomitolarsi e di mordere la propria coda per trovare finalmente la chiave di un architettura etica senza illusioni e senza balbettìi, che permetta l incontro fra l io più privato e quella regione remota dell ancestrale così cara all immaginazione dell artista d oggi, di una natura mitica, dentro e fuori di noi dove, calpestate le ceneri di una disperazione romantica, continuare il nostro fantastico viaggio verso zone più ridenti e felici.

157 Gastone Novelli Pittura procedente da segni Redatto nell'aprile 1964 con il titolo Linguaggio magico, il testo viene pubblicato nel novembre dello stesso anno con un nuovo titolo nel primo num ero di Grammatica. Qui Novelli espone per la prima volta alcuni dei principi fondanti della sua poetica, dalla distinzione tra linguaggio «accadem ico» e linguaggio «magico» alla relazione tra immagine e parola. Data aprile 1964 Pubblicato su Grammatica n. 1 Avvalendosi di un determinato vocabolario (insieme di strumenti) si può portare un universo alla comunicazione. In primo luogo è necessario catalogare gli strumenti (alfabeti, segni, frammenti) di cui si dispone e poi si procede alla organizzazione di questi in una struttura, in un insieme grammaticale, analizzabile e preciso. Naturalmente alcuni strumenti sono adatti ad essere usati in questa struttura ed altri no, qui è necessaria l operazione di «scelta». I segni sono concreti quanto le immagini (le lettere quanto le parole), ma hanno un loro potere referenziale per cui, anche essendo essenzialmente relativi soltanto a se stessi, possono fare le veci di qualche cosa d altro. Per questo motivo mi interessa procedere dai segni e dalle lettere, e non dalle immagini o dalle parole. I segni, le lettere, i frammenti, i campioni di materiali, organizzati, formano un universo. Tutti gli universi sono possibili e costituiti da materiale in gran parte noto, ma si differenziano per la struttura, per il sistema in cui questo materiale è contenuto. Un universo diventa significante, e i suoi segni permutabili, cioè suscettibili di stabilire rapporti con altri, a condizione che il sistema che lo regge sia costituito in modo tale che la modificazione di uno solo dei suoi elementi interessi automaticamente tutti gli altri. Ogni universo è un possibile linguaggio; e qui intendo «linguaggio magico» e non «linguaggio accademico» (universitario), la differenza è che mentre il secondo utilizza (procede da) sistemi precedentemente esistenti per arrivare al proprio, il linguaggio magico elabora un sistema 152

158 strutturato utilizzando residui e frammenti, «testimoni fossili della storia di un individuo o della società», in modo del tutto astorico. Mi sembra importante stabilire che, secondo me, il momento principale, nella fattura di un opera, è l esecuzione, non l occasione o la destinazione dell opera stessa, la quale, per questo motivo, risulta extra temporale e non legata a nessuna circostanza. (Credo che il limite della Pop Art sia proprio il suo aspetto eventico, il procedere cioè dall occasione, mentre quello della Gestaltung è la preoccupazione della «destinazione dell opera», della sua integrazione in un preciso momento della «civiltà», e, su questa strada, nel nostro tempo, si rischia di operare al livello della scienza liceale.) Il mio dare importanza soprattutto al sistema potrà essere giudicato arbitrario e egoistico, fine a se stesso, ma io credo che proprio queste siano le caratteristiche di qualsiasi linguaggio che sia abbastanza definitivo nella forma ed esteso nel tempo da meritare questo nome. La posizione, l aspetto di un opera, quali che siano le circostanze storiche in cui essa si viene a trovare, sono definitivi: l opera esiste in tutte le sue possibilità e in tutti i momenti in rapporto al linguaggio cui appartiene. Il lavoro artistico si può paragonare ad un «gioco» che ha le sue regole precise ma permette infinite partite, ed ogni singola partita è comprensibile solo attraverso la conoscenza delle regole del gioco cui appartiene. Un punto può essere fatto in molti diversi modi, a seconda della sua probabile funzione nel sistema: tondo (luna), prolungato (sole, luce), a virgola o ripetuto in modo irregolare con prolunghe in diverse direzioni (erba, vegetazione) ecc... Un segno può essere organico (curve sessuali, grovigli vegetali, cerchio deformato), inorganico (segmenti, angoli acuti, fulmine); le lettere dell alfabeto possono tornare ad essere strumenti referenziali (Rimbaud e le vocali-colore) se usate nella loro forma originaria di segno-suono, in cui il segno è allusivo ma libero e il suono convenzionale, a questo proposito voglio citare un pezzo del testo di Claude Simon sulla mia pittura: «sappiamo che verso la fine della sua vita Joyce aveva immaginata

159 una tipografia su misura, non potendo credere che lo stesso segno della lettera S, per esempio, potesse servire per scrivere Serpente, Sacrestano, Sirena ecc... tutti sanno a che punto l immagine sonora e grafica di una parola finisce (o comincia) per essere tutt uno con l oggetto che designa...». La «calligrafia» può quindi fornire alle parole più larghi e diversi significati. Una serie di numeri dà una direzione di lettura al quadro, con pause obbligate e differenti a seconda della sua regolarità, o di certi salti che contraddicono la scala numerica abituale; le frasi e le parole costringono invece ad una lettura continua del quadro con direzione e durata forzata a seconda delle ondulazioni, delle cancellature, delle deformazioni. Le forme geometriche, i simboli più diffusi, hanno dei significati precisi, come anche alcuni colori, e possono essere usati in funzione di contraddizione in determinati sistemi di relazione (essere - divenire, esterno - interno ecc.). Altre volte il colore è una scala faticosamente prolungata, oppure natura, fisico (opposto a metafisico), che ha rapporto col corpo (medius, medium), inter mediario. Il bianco è il colore per eccellenza (coprire un corpo, una città, un mondo di bianco e scrostarne delle piccole parti significative), esistono una quantità di bianchi: aspro e assorbente (gesso), morbido ma respingente, che costringe cioè ad una lettura di superficie (calce), sordo (fondo di sabbia imbiancato a biacca), viscido (olio) e così via. Una tempera bianca data a copritura con un giusto spessore costringe ad una lettura in profondità. Per prima cosa tracciare, incidere (come gli Etruschi il campo) il paesaggio dell uomo, il mare, la serie delle onde, vibrazioni, la foresta delle parole. Come il geroglifico che accompagna la colonna, certe volte in cima, altre volte in fondo, spesso al centro. Il blocco delle lettere o la grande parte destra a scacchi è «quello che sorge e fa sorgere», mette in piedi, innalza costruisce, abborda e anche getta l ancora. E poi: Epigrafe (al fondo della tela): sentenza che ironizza il pensiero dominante dell opera; Leggenda: iscrizione circolare nel senso buono, da sinistra a destra (acquista diverse velocità); Proclamazione; Operazione: nascere, valore operativo, alzarsi (onor) ecc...

160 «Fa» viene dal centro del corpo, Madbyama, secondo [il] Gitalamkara, venendo dalla radice dell ombelico, è profondo e un poco acuto per sua natura. Il soffio, venendo dall ombelico, colpisce il petto. Queste regole sono relative al corpo della «mia pittura», che non è fatta di semplici gesticolazioni, né si basa su sistemi che le sono estranei, ma è chiusa in una struttura sua, autonoma. Un opera, in quanto esiste nell ambito di una concreta ricerca linguistica, e in quanto parte di un universo definitivo, è sempre «fruibile» anche se non serve ad una determinata società in un determinato momento. Sono convinto che la pratica continua del proprio universo sia, per un artista, la cosa più importante, che finisca con l impegnare l esistenza stessa, e che, in questo modo di essere, si manifesti la «funzione», se proprio lo volete, verso un numero infinito di interlocutori non identificabili.

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162 NOVELLI E IL PROBLEMA DEL LINGUAGGIO di Claude Simon Scampato all infèrno kafkiano di Mathausen, questo fallimento demenziale e derisorio (e senza dubbio logico) della civiltà e della cultura occidentali, Novelli abbandona il nostro mondo, si imbarin "il verri", febbraio 1963 Se una pittura di Novelli, con la sua spessa materia cremosa, le sottili modulazioni di toni e le scoppiettanti coloriture, viene in un infima frazione di secondo interamente afferrata, colta (o meglio: ci afferra, ci coglie), essa può per contro essere «conosciuta» soltanto dopo una lunga investigazione, un lungo inventario nel corso del quale l occhio deve percorrere l intera superficie, alla scoperta degli elementi che vi sono raccolti e che compongono il quadro. La sua pittura «racconta», come ad esempio quella di Jeronimus Bosch, ma con la differenza che in Novelli non c è mai nulla di aneddotico, che nulla viene mai imitato ma piuttosto significato. Da una parte l incerto magma delle nostre sensazioni, delle nostre emozioni, dall altra le parole, i suoni o i colori. Dall incontro dei primi con i secondi, dal loro adeguarsi o dal loro non adeguarsi, dal loro conflitto e dalle loro inter-reazioni, deriva una risultante attraverso la quale l uomo si definisce: il linguaggio, irreducibile compromesso fra l innominabile e il nominato, l informe e il formulato. Oggi» poiché la nostra epoca e gli avvenimenti che hanno sconvolto il mondo hanno rimesso in questione l intero ordine sociale e le nozioni stabilite, questo problema ci viene imposto più insistentemente che mai. Non a caso certamente sono apparse, poco dopo la guerra, opere dai titoli significativi quali Le degré zéro de l écriture di Roland Barthes e L innommable di Samuel Beckett, mentre negli stessi anni veniva elaborandosi la pittura di Dubuffet, di Bissier, di Novelli.

163 Claude Simon ca per il Brasile. Presa dimora a San Paolo (vale a dire ancora urbanizzato, abitante di una città, di un universo strutturato e organizzato), comincia a dipingere grandi superfici sulle quali distribuisce semplici macchie colorate, approssimativamente rettangolari o quadrate, che si giustappongono o si accavallano. L equilibrio, i rapporti di colore tra queste forme, sono di una raffinatezza estrema, come se chi le aveva inventate volesse rifugiarsi deliberatamente in un estetismo di rifiuto, e solamente prendendo conoscenza della sua opera successiva si comprende che al di là di queste elaborazioni egli tendeva ad una prima esplorazione della realtà pittorica. In realtà, ad un certo momento queste ricerche cromatiche e lineari (vi fu un breve periodo, senza colori, in cui soltanto un grafismo nero anima le tele) cessano, lasciando il posto a pitture di fattura e di spirito totalmente diversi, come se Novelli fosse bruscamente passato da un polo all altro: i colori, gli à-plats geometrici e nettamente delimitati, vengono sostituiti dai grigi, dai bianchi calcinati, spessi, in cui si distinguono macchie incerte, forme cancellate a metà. Muri in cui la calce si sbriciola, in cui graffiti, geroglifici elementari, iscrizioni, scarabocchi, si confondono in un disordine anarchico, si sovrappongono, si cancellano. Sulle pareti verticali delle abitazioni, solide, toccabili e indubitabili, vengono a inserirsi balbettamenti, fantasmi, sogni. «Dopo la guerra», dice con pudore Novelli (non dice dopo l inferno, il nulla, la morte di Dio e dell uomo, il «degré zéro» di tutto, l universo delle baracche e dell assassinio), «bisognava, era necessario ricomporre un estetica, ricostruire una civiltà». E come ripartire da zero, se non fondandosi, quale supporto, su materiali elementari, i soli certi, i più poveri, i meno equivoci o ricusabili: il gesso, la terra, la sabbia... Fino al 59 egli insiste nel ricominciare la pittura dall inizio Facendo seguito alle pitture che si potrebbero chiamare «schematiche» del periodo precedente, costruisce ora «oggetti» pittorici, tanto concreti, carnali si potrebbe dire, quanto le opere precedenti erano depurate e smaterializzate. «Si trattava», aggiunge,» di cose esteticamente belle ma prive di un sufficiente apporto intellettuale». Era necessario andare oltre. Dopo l esplorazione dei due poli estremi della pittura, dopo la tesi e l antitesi, era venuto il m o mento di tentare la sintesi. Dipinge allora il quadro intitolato Première salle de Musée. Si tratta sempre di un «muro», una modulazione, in una spessa e sontuosa materia, di grigi e di bianchi, ma sul quale appaiono ora, come frammenti di manifesti strappati, testi e macchie inquadrati da una larga banda nera, come una collezione di cose (o meglio di frammenti di cose) amate, incollate e distribuite sulla superficie intonacata. E un anno più tardi (nel 1960) giunge la Seconde salle de Musée.

164 Novelli e il problema del linguaggio Se si tenta di analizzare questa importante pittura, si nota che è composta di una parte destra simile alla Première salle de Musée, dipinta in «non colore» (se ci è permesso di usare questa espressione, poiché le raffinatezze e le variazioni di questi grigi e di questi bianchi costituiscono anch essi «colore» ), mentre la parte sinistra del quadro è riempita come da una scacchiera o ammattonato dai colori vivi (rosa elettrico, nero, rosa-rossetto per labbra, verde oliva, verde smeraldo, giallo limone, blu reale, lilla), nei comparti della quale si vede apparire una sorta di alfabeto, di repertorio di forme, frammenti o elementi di corpi per lo più femminili (busti, seni, cosce); di questi «segni» alcuni sono molto riconoscibili, molto leggibili, altri sono come «derivati» da forme ossessive, assumendo quell aspetto invertebrato e per così dire di lumaca degli organi sessuali, come una specie di m o stri autonomi, di animali favolosi od onirici. Altri comparti sono completamente occupati da un solo colore, altri contengono una lettera, altri la stessa lettera più volte ripetuta, altri un finale di frase, altri dei segni puntiformi, come quelli impressi sulle diverse facce dei dadi da gioco, e il 5 (un quadrato con un punto ad ogni angolo e un punto centrale) evoca curiosamente un viso. Osservandola a lungo, si scopre che questa scacchiera costituisce come una «spiegazione», un commentario variopinto e ordinato della parte destra del quadro in cui, nella grisaille e disordinatamente, cancellato a metà, dispersi sotto l intonaco e le ripassature, compaiono lembi di forme e di iscrizioni poco distinte. E naturalmente questa «spiegazione» è essa stessa incomprensibile. Non esiste la chiave per leggere e farsi strada in questo meraviglioso ed abbagliante labirinto di segni da cui non si può uscire. In realtà, alle prese con le difficoltà dell espressione, quelle stesse del linguaggio, Novelli le affronta in tutta la loro ambiguità. Ingannevole, illusorio, magnifico, imperfetto e perfettissimo nel medesimo tempo, limitante e universale, sfuggente al suo inventore per vivere un esistenza propria, per inventare e creare a sua volta, fino a comandare e fecondare con la propria magia chi credeva di servirsene come strumento: il linguaggio. «La Genesi della scrittura è una felice parabola dell arte» ha scritto Will Grohmann a proposito di Klee. La scrittura, il linguaggio, Novelli si ostina a coglierli nella loro essenza. Che differenza vi è all origine fra il disegno (vale a dire il segno grafico) col quale si rappresenta un oggetto e la scrittura, la combinazione di segni che compongono la parola che evocherà il medesimo oggetto? Il geroglifico, la lettera d alfabeto, la parola, la frase, 1 suoni. Sappiamo che verso la fine della sua vita Joyce aveva immaginato una tipografia su misura, non potendo ammettere che lo stesso disegno della lettera S, per esempio, potesse essere usato per scrivere Serpente, Sacrestano, Sirena o Stracotto. Tutti sanno che nominare è già'possedere, oppure che nominare un oggetto già posseduto accresce il sentimento del possesso, e (sanno) a che punto l immagine sonora e grafica di una parola finisce (o comin-

165 Claude Simon cia) per essere tutt uno con l oggetto che designa. Lo sanno bene i censori pudichì che raccomandano per esempio di parlare del «petto» di una donna, e non dei «seni», parola in cui la s iniziale ha già un fruscio come di seta, la e bianca evoca la trasparenza della pelle sotto la quale corre la traslucida rete di vene azzurre, la n sinuosa sembra disegnare il dolce altalenare, la i rosso-rosa si erge come il capezzolo. Di qui l inventario del mondo sensibile (colori, forme, suoni) disposto (tentativo sconvolto d ordine e di possesso) nelle abbaglianti scacchiere, «comparti» simili a quelli in cui il tipografo conserva i suoi caratteri, oppure «case», «dimore» come si dice in astrologia. «All inizio era il Verbo». Uscito, o meglio scampato dal nulla, Novelli visse una straordinaria avventura. In realtà non gli bastava avere abbandonato l Europa, dovette fuggire persino le città, fuggire ogni specie di civiltà. Diventò allora cercatore di diamanti nel Mato Grosso. Abbandonato alle soglie della stagione delle piogge dalla guida indiana, è costretto a passare sei mesi in quel delirio vegetale con un compagno malato, dormendo sotto l incessante diluvio tropicale, catturando con le mani, dopo ore di appostamenti sott acqua, immobile, respirando attraverso una canna cava, i pesci necessari al nutrimento. Si ritrovava ancora una volta come a Mathausen (con la differenza che là si trattava di un inizio e non di una fine), ad uno dei «degrés zéro» della civiltà. Parlava col compagno malato? Certamente poco. Un mattino, al risveglio, la loro tenda si trova circondata da frecce conficcate in terra. Nient altro. Non un rumore, un grido. Questo per un mese e mezzo durante il quale ogni giorno Novelli, in segno di amicizia, collocava pezzetti di pesce sulle frecce. Ma niente ancora. «Poiché», dice,» laggiù come a Mathausen, se avete un aspetto forte vi uccidono, perché vi temono, e se sembrate deboli e inoffensivi vi uccidono ugualmente, per rubare o anche soltanto per il piacere di farlo». Nell alternativa bisogna pertanto (è una questione di vita o di morte) trovare assolutamente il punto di equilibrio, che si sposta continuamente, la posizione ambigua, impossibile a definirsi. Nulla è fisso, nulla può essere esplicitato, fermato una volta per tutte, come vorrebbe credere l uomo nel suo forsennato desiderio di sicurezza. Non vi sono soluzioni. «Il risultato, la conclusione», dice ancora Novelli,» è sempre una cosa stupida e mal fatta. Ciò che conta è la radice». ' Gli indiani, che finisce per conoscere, si esprimevano mediante la sola lunga modulazione della stessa vocale. Su alcune sue tele, lunghe file di A (la prima lettera, il primo suono, il primo grido) si allineano, ondeggiano, ora diventano piccole, ora si ingrandiscono. E come la loro altezza, l ordine e l allineamento, il loro colore subisce, da una lettera all altra, infimi mutamenti, infime modulazioni, passando dal giallo arancio al giallo limone, poi al giallo verde, poi al verde, e di lì a poco, attraverso le linee, si distinguono forme indecise che abbozzano, fantasmi di carne e di

166 Novelli e il problema del linguaggio sogno elaborati dalla memoria nel, col e attraverso il linguaggio. Assistiamo, credo, ad una delle più sorprendenti e ricche ricerche pittoriche e grafiche. Disegnare l innominabile e nello stesso tempo sapere che è un illusione, che esso non si lascia mai immobilizzare, rinchiudere, congelare. Tentare, essendo perfettamente coscienti della vanità del tentativo, del fallimento, tentare di imprigionare in queste scacchiere i cui colori splendenti ricordano le piume degli uccelli tropicali con cui gli indiani confezionano i loro costumi, tentare dunque di captare il mondo attraverso questa collezione di segni, questo alfabeto di «cose amate», che in una parte della Seconde salle de Musée sono ancora alla fase informe, inarticolata... Senza posa, irrimediabilmente e inesorabilmente, la vita sfugge al nostro desiderio di conoscenza, di possesso. Ne potremo afferrare soltanto effimeri lembi, dei frammenti. Forme, parole che si disgregano, si sminuzzano, poi si ricompongono di nuovo secondo il capriccio delle loro proprie leggi, mostri fatti di numerose mammelle, di oggetti isolati dalla memoria o dall emozione, che si raggruppano secondo nuove strutture le cui leggi non sono più anatomiche od organiche, ma oniriche (e qui si pensa alle» Vénus mollement assemblées» di Valéry): là è tutta la magia del Verbo, del linguaggio. Il possibile è impossibile, e l impossibile è possibile. Il risibile e confortevole desiderio di ordine fa naufragio mentre trionfa. L alfabeto così accuratamente ordinato, classificato, si sparpaglia nell immensità dello spazio. Qui le parallele si incontrano prima dell infinito, o, se si preferisce, l infinito fa intrusione entro le dimensioni della tela. Le linee della rete, la scacchiera che si voleva rigida, le sue rette ondeggiano, si spezzano, si allargano, si avvicinano, ripartono in nuove direzioni, come quelle di un lastricato che adorni il fondo di una piscina. Lo spazio qui non è «imitato» dagli artifici del «trompe l oeil», come quelli usati dai pittori che amano la prospettiva, ma sulla superficie a due dimensioni, intangibili, della tela, ci viene rappresentata l idea stessa dello spazio. Da una provincia all altra, dall informale al formale, dall innominabile al nominato, dal «Nacht und Nebel» alle sfolgoranti code degli uccelli schiamazzanti, non v è corrispondenza alcuna. Il linguaggio non è che folgorazione, breve sfolgorio, briciole captate. Il mondo splendido,, appena afferrato, si sottrae, sfugge, si riforma, senza posa ricominciato, senza posa pronto a ricominciare. È. il perpetuo sfolgorio, la perpetua sorpresa, il perpetuo rimettere in discussione, il perpetuo miraggio, il perpetuo combattimento, di cui la consapevolezza di ciò ch esso ha di vano costituisce per l uomo che tuttavia lo ingaggia il più bel titolo di grandezza. [ T r a d u z i o n e d i S. B a j i n ì]

167 /JovcL am<(! T E R S/\ GLI LI H/V/ C -'T F ". ' V l f ù r t S O G Ï J h 1 ^ \ L J ) Ü L f \ f \ j / j J K j / / y, / f P p M a t t e l p f V o r t Z M ^ f y q u a m ^ o HAI SCIATO 17\ nt I IV i p e l tvtt i UÂPRE L e n t

168 Paolo Fabbri da: Gianfranco Baruchello. Flussi, pieghe, pensieri in bocca, Milano, Skira, Gianfranco Baruchello: Non sono mai stimolato da immagini, sono stimolato da parole e da idee. Umberto Eco: Questo è assolutamente falso. Invece è proprio così. Le opere di Baruchello raffigurano entità (piccole figure) e grandezze (vaste tele) non mimetiche, più pensate e immaginate che non viste. Cervellità non retiniche, direbbe Marcel Duchamp; in-ottiche e dispettive, aggiungerebbe Jean-François Lyotard per il quale danno poco da guardare e molto da pensare: come tutti i postmoderni. La sua non sarebbe un iconologia ma un icastica: le immagini plastiche della parola (Duchamp). Non dipinge in trompe-l oeil, ma per tromper l esprit. Questi quadri a parole, su tela o su alluminio, figurano quindi un pensiero che si forma in bocca: ciò che viene in mente si articola all espressione sonora per prendere senso e trasformarsi in significato. Il concetto diventa contenuto cioè semantica e da allora la mente può dire la verità o mentire. I termini del linguaggio dalle parole agli insiemi significanti più complessi diventano shifter del pensiero: i loro giochi regolati creano le condizioni sperimentali della emergenza singolare del pensare. [ ] Quando parliamo proiettiamo figure e la prima è quella del nostro corpo. Per un grande specialista della voce e dell orecchio, Alfred Tomatis: il suono fluisce dalla bocca come il fiotto che straborda da un bacino troppo pieno. Inonda tutto il corpo su cui si estende. Ogni onda sillabica si versa e ricade su di noi ( ). Il corpo ne sa notare la progressione su tutta la superficie grazie alla sensibilità cutanea, il cui controllo funziona come una tastiera sensibile alle pressioni acustiche. E conclude: l immagine del nostro corpo riflesso del nostro verbo viene proiettata nello spazio proprio perché l immagine del nostro verbo sgorga dall immagine del nostro corpo. La parola è autoritratto. [ ] le parole dipingono e cantano, al limite del cammino che tracciano, dividendosi e componendosi, dice Deleuze di Antonin Artaud. E aggiungerei, pensando a Baruchello, sovrapponendosi e cancellandosi. Infatti, ci sono modi anche per far balbettare la lingua e la pittura, per aprirle a nuovi esperimenti in cui le figure di parola intrecciano rime e ritmi con le figure di pensiero. Duchamp diceva di trattare i suoi titoli come un colore invisibile delle sue opere. [ ] Gli ampi spazi di Baruchello sono disseminati di Formule. Piccole forme, le figure minime e semiminime d una ideo-grammatologia. Pittogrammi (quasi) concreti e narrativi, ideogrammi astratti e (quasi) codificati che sembrano pedine di giochi da inventare; giochi d azzardo che cambiano le loro regole nel corso delle partite. Il figurinista non ci nasconde nulla del senso possibile di queste note, iscrizioni, spunti, minute, appunti, diagrammi, schizzi, enunciati. Li hanno chiamati metonimie e micro-modelli, macro-semi o micro-racconti (Lyotard), figure libere o obbligatorie di referenza o di inferenza, operatori di costruzione, di aggiunta o detrazione, logotipi o figuranti (comparse) di una impresa esistenziale, pezze onorevoli di una araldica personale, miti in miniatura (il mito

169 è una figurina dilatata). Sono tentato di chiamarli Baruglifici, come Raymond Queneau chiamava Miroglifici i segni di Miró, in attesa di uno Champollion dall acribia maggiore della mia nello scoprire le differenze che li fanno somigliare: la dissimilazione e la solidarietà che ne farebbero l equivalente di una scrittura. Vorrei il tempo di cercare le relazioni di interdipendenza tra le costanti, di determinazione tra costanti e variabili, prima di rassegnarmi a considerale pure costellazioni di variabili. E mi piacerebbe trattarle come variazioni legate tra loro prima di rassegnarmi alla mera varietà stocastica; al caso, puro di ogni programmazione, manipolazione, aggiustamento. Il loro senso sembra quello dei rebus, celato nella loro evidenza, nella deliberata casualità di ricorrenza e collocazione e nella ripetizione fino al nonsense. Lyotard, l analisi più attenta di Duchamp e Baruchello, ha offerto una scorciatoia che è anche una traversia. Suggerisce di trattare le Formule come un repertorio di monogrammi, un popolo minuto di segni intensivi. Né schemi né simboli, questi dispositivi kantiani o ideali della sensibilità, non sarebbero frasi di lingua ma di sentimento; piccole madri di affabulazione, depositi di energia narrativa, istruzioni a concatenare. Segni di articolazione formata-vuoto tra più storie. Lyotard propone insomma di trattare i Baruglifici come sprovvisti di significato: nomi propri di persone, luoghi, tempi e cose, attanti e circostanti di piccole storie. Giusto, ma non abbastanza. Le formule di Baruchello sono ambigrammi, per l ingegnosità grafica con cui stanno al limite dei codici linguistico e visivo. Firme visive, segnature apposte sulla superficie d iscrizione per rimotivare l arbitrario dei nomi propri, dar loro una fisiognomica e trasformarli in ritratti. Come la spirale con cui Brancusi raffigurava Joyce, come i pitto-poemi che Victor Brauner chiamava, anche lui come Duchamp, il linguaggio geroglifico moderno. [ ] Eppure l immaginario di Baruchello non è un arcipelago di analogie, un mondo magico di segnature, animato da attrazioni e di repulsioni. Ogni sua Formula, costruita per montaggio e bricolage, resta isolata e sporadica, senza traduzione o metamorfosi. Come il dizionario che Duchamp voleva comporre per il suo Grand Verre: una sorta di scrittura fatta di nomi propri o di termini astratti rappresentati da segni schematici. Un alfabeto destinato a scrivere un solo quadro e intraducibile in qualunque altro linguaggio o metalinguaggio. Anche quello di Baruchello non è un alfabeto ma una batteria di giochi in cui ogni carta è un jocker. [...]

170 Dall'opus tipografico, a cui variamente Baruchello si è dedicato nella sua carriera artistica (e di cui a breve è attesa l'enciclopedia, autentica summa raccolta per Treccani), si riportano le prime pagine di Come ho dipinto certi miei quadri (1976); e brani tratti dalla prima parte di Cosa guardano le statue (2003). Una notizia sull'artista e i suoi libri è reperibile sul seguente link, dal progetto Verba Picta :

171 f>ianfranco Baruchello Come ho d ipin to ce rti m iei quadri Geiger (1976) recensione di Antonio Curcetti in "Tam Tam" n. 17/20 (1978)»Come ho dipinto certi miei quadri», ovvero della trasformazione de] libro in uno schermo o in un luogo di proiezioni, di catalogazioni, di depositi e di indicazioni. Dietro 1 ironia di Baruchello c*è la messa in crisi delle distanze e degli avvicinamenti della pittura moderna. Le immagini di queste pagine sono «immagini» rovesciabili, componibili e artificiali (come le parole) che hanno un ipotetico «riferimento» con quadri esistenti {?), ma molto più breve, interno, di costituzione. Raccolta quindi di appunti che appartengono al presente o addirittura non appartengono se non alla sfera illusoria del già vissuto, di una condizione straniante, dove le immagini e le didascalie che commentano la «creazione* dell ipotetico quadro, si caricano di senso prima che di significato, in quanto coinvolgono chi le analizza oltre il piano della comunicazione. In questa dimensione la descrizione si fa sempre più serrata e conseguente, e si potrebbe anche affermare che la scelta combinatoria di «memoria» e «ogge tto», due «an goli» tradi z ionali dell'universo della pittura, non fa che esaltare la possibilità di questi interventi. Baruchello non si colloca dentro una categoria, non si affida a una emozione naturale, preferisce «rivelare» e «rilevare». Il tempo in cui l'«ipotetico* quadro viene descritto nella sua realizzazione, è un tempo non reale, o più esattamente virtuale, e una operazione indubitale è quindi affidata ai probabili reperti che la rendono identificabile (e spiegabile) nella sua complessità. La recitazione ironica di questi «quadri» attraverso un meccanismo apparentemente «ragionato» offre l'occasione a Baruchello di realizzare un'altra acuta operazione linguistica, sottraendo una dimensione temporale, una associatività contingente all'opera, e riportandola 145

172 a una evidenza anatomicamente definita e immobile, c queste stesse anatomie descrittive vengono! offerte per verificare (immaginare) il destino dello stesso oggetto descritto («il quadro»). Certo egli impegna in questa direzione tutto il processo di selezione, raccolta, accostamento, messa in evidenza, correlazione e opposizione di ogni meccanismo. Ma la critica razionale di Haruchello è rivolta anche contro la mitologia borghese del «vedere». Egli in questo libro avverte di considerare solo quello che è già perduto; tutto il resto accade, sta accadendo. Così l'altro quadro, quello descritto, che noi non potremo mai sapere se esistente 0 inesistente, risulta un archetipo destinato a scolorire, a inabissarsi; forse perciò è «corretto» evocarlo e descriverlo, piuttosto che muoversi a scoprirlo. Queste convinzioni derivano dall'idea che per Baruchello tutto sia illustrabile, tutto sia «dimostrabile» per immagini e «minime didascalie»; ma anche che ogni immagine di questo libro appartiene a un quadro «mentale» di cui mi capita di osservare solo alcuni frammenti. C è però anche la convinzione che la «macchina * di ironia e soprattutto di auto-ironia messa in moto dall' autore in ogni pagina, per quanto uno schema cerchi di descriverla e di accerchiarla, trovi con la sua ingegnosa naturalezza la capacità di rappreseli tarsi, coinvolgendo in questa struttura ogni dichiarazione esplicativa, creando un campo di attenzióne e chiedendo una specifica tensione dialettica. Sul filo di questi probabili paradossi, Haruchello continua comunque a proporci la scarpa, 1occhio, il coltello, il m arte Ilo come «oggetti» da catalogare e custodire, figure di una mnemoteca, simboli di qualcosa che non ci può più appartenere. ( A. C a r e n t i) 146

173 O h «B B P O O T B c o m e C e r ti»? I l f i i f K r*vi* lì Ù*JLtm come Ko dipinto certi miei quadri

174 U*. T ^-*^1 V>TCc - w ^ T ^ Qt K '- ^ '^ ^ J K, - «t T U 'U - ì w VcXX V w f u > V (A ^ w t^ ^ TUm^i/Ix»V»-«^*<l*< <»-VÏ ( <- C «ÉvS y tsl-t ì u v f f ì f\m -(t^i^. Ji t w < w e U^-V^tY (SU/ w U C t4 U t * J - * o \ A ^ l u i v < \ 0 * /U m brie iv C O M C Ä 1 t iv t >,.-*-** VíÍ4 m T ; ^<t # V P a^(>*^»v^q ^V\^ fx "* C ^ v a- «! f 'U. o "U e*> c'(l o \ ta^j«\ o Vv**4>tC. QAt^Ovu Ct/v'ÍV'-v- K i-tfvo (JLi A * W'T-C-aMfwç o iu -'re. ir-*** ' 7 v * ^ U i, J c u ^ i i t v u l L :. ì ^ r *, U t v yt 'U -^V v u.* i t ~\ Lor+44 <XV< ->v'cyv\ iv%. i^*a -a i*i ^ i v ì W - r t f w o l+^a a X à x* 4 dui T e «Ü ^ a a ^ u ^ o 0 ( x * ^ ^ * ^t^m X^Xli w u «A A < W»V q c/r < * v 0 < _ C ^ W 4 ~ * ti. i«< h ^ < < I j ^ w «I f C L ^ C T V ^. V<A9i * a T (A v J j v u À <Ui itaa~o, otíl* u u < ^ T c ^ *4»^* v ««^ Jt wt. A i u w i V U A u v v q u f Lo'X*su**&yt^ c ^ v m ^ v v ^ c Z C a, o * 4 > v i C W U o salíá! <^SVo> - ^ $ -«y ía ^ tw ru a vt^ujtl t^-u«l't lo <5 vçy*/vk 6 W ü m K ; Ia. w U o/vvvoik c b v w H <ju U ^ J w í-c ô v T p ^ t ç * ">«5 iloco/iy A ~ W K \gtjl*^-^-< _ jlt. A u A V v O - tu-a. #A4-4jJ U f «*^fi t - * o ) «\ a Q ^ a í*<c<í ^t t >,, yx a v a > W V., _. _ r» * - - u a é -a -w íl : ^ j i i C d o P i/\/ k l a a * V o ^ O f c i ú e f t w A T e p f í /t«<\ ^-ä- i t bw -via *. c a k L c ^ c^ JLa. f^ c u * ^ b < lo o -p w ív t«, QM^ut--J7t< A h '-'> A W I t/wsfo C-0«v Tq 4 T*t'Jh Z *\ v- x~s>/cwo L w J L» * < -* L í tíc ira T o3 2jl e*u* l & k d L i f\a *0 ího ta*-v3 fy ^ «vololixt«* l^ w L» ic^y-m^nrf <^* y 7W<5V x -'TX C o -w c i U o t, u-*l^q l/ -At ^» a^ - T I Ä a lftcc f ^o vitc V ^C ív^. Q 6 t e a A M ^ o^ U m - aaac»i%oc<jo & bmairto»7< KcatrwCU«tfi-> Q ^ í (X a U >X L*> 'j h > X L ~ U * t (A A ^ * ^ y > *AXC # > A hvw 'CLjo <UmvCa i-im. V><7uG<^Á - ^, u lo/r<sv4 O^^XTsí Ugt^J^WvvöO 6 < w *~<su L»» lr T w K ^ o t t O rvuw O X A.. C < I c ^ r A <3U / ^ C T o i^ t > y ^ c x A u J a * * (Í-ovtc. V W < u J e ^ v V f- s L ( \a ( ca ^ o v o k i t / y i i»

175 U m T/vcXÎ-o C~0*Cfí\^ t^, -C<.*^> <^-ít {U A A * -y^t<^tl v(y c L^ f Lo Co LL t& s 6 L o * fo t * - /\AA*ya^A ^ Ía^ / T ó -^^ C ía vd / 4*^vCo ^ il áw, #-<-< T t4~o cßc - 'S-* í í w o CLcvA - V'- t u j A C l*f U ^ r t ^ t o Urv f v * * m X c < ^ ~rîé ^ c e _ ^ r ^ j v v «^ / ^ d U X ^ «> v i^ IvV t^ V^ot*^wO ^t^\ "X ^C*{fL- Afl^tíVv -rfv\ 1* v* U ** &-4 <JGt T T, o i ^? f t v 6 ^ p w i^ / w ì V t- v-o o ^W L-f/ s ^--> 6 i i*m > iv \ icj^t w 0 -*- ^ y p q ^ 1**. «^ G c r w v -y ---- < -í t ^c>w i i w * ív t e u > V ^ u * X - c C o 7 V ', * v v ^ *,t «0 /ve v ^ t ^ w < ^ c Ö A ~n~i yt^à ÿl*. C & * l»-» V o >í» W&üHMy X p> og C -qoí-«$aa. XT U C o ( t*-wt"<! p o6í U>x^á3 ic J OO, V )&*/ <*. CLX., CL*~ íp ^ V A^*0 q A ^ n.'iyaffte, «, to V â -Î X Jr^ v n *V y ** Ä l I C «{ A v w «/ &. i J k ^ b ittb > i í t o í < * w t A ^ c A r u o í f ( t w o t t c j y í? ) &CX~4A a * * * * c í $ í S **t p (jy * i r/co-'h Æ o ^ -en 111' - - < ~i - f l U Z o u A. L e lfí>r«r< P ^ I y i k o LßV*-wi^ is r ív e ^ ^ íc ' vi»**»-*«* m u T v ^ v ^ U h ^,, < tc L i C1L 4 ctcw e. í r t.

176 la* % 0-*-nrO^ - e <*~ í ö-wmo ocv\ pa^.«,a ^ ( ^ a v c > U w ^ d U -t ^ l* ^ fy C L f>? O w Jfl v ^ o -T U t- k* J-^. b v í u a' ü f o»' &l STy^ Íf f PA'**-L U*t 1* H A C.Ü L e ^ v 'u X ^ t*: 0 ^.' o [ q / t» U c ir*. <#C ^ x ^ v ax C *S^\ J L e i c m X C o I I ^ p U> W tv «*JP* 6PVlU> _ o. í o V Í o l <», u «^ M C-qX Q ) ( V w x. *- «*- Ve-*, i ^ f> U ^ 'w., # LoA. T «o v ( ç / A & t A ( V c ^ \ Q Á o u a ^ - f x ( a/, l.\. f u W f T A w e c W 4^ u ^ u 0 A/a^L<L - 0 > v O C * * ^ P o ÍJt V q -*~ 6 ö ( v W í ^ o T a a ^ a ^ ä V 6 l i u w v O H ito, V i a «I ^ «Í A 4 I ^ W v f jo - C ^ M ) t U d *W A Q u ^ A ö SrvAJo u «e è l o e * * f V ; ««o M (t* A (A \ e^t ^O V û fla A k V O ^ * 1 Ü h 5 i i ^. s g i W v o >au Tv W W i 'U -* -V Í* / o 0 f i t í l ú j ) K m & \ - t > w > 0 y <* Ô O ^I-tV Tfl ít (IiV m *,s Î V ^ û w ^ Av<4 ü í* V < v ^ í ^ l í * H \ k t c X \ fít \ U v O t> I K * >.»«^ y * ía ^ iic IÀ T ^ cu a ^ q.í> U ^ í * V o v L C *> ^ q ia s m i C**- *\ C «eo ç ^, P «* í,v%*v>u» ^ y T o» " V v iu t f I V & A, p a ^» o C n ^ J t ^ 4 ijlv p ú - r ^ t ^,»

177 O H 0V k _ lwto^v^c. ts r o Vu p «il X jc ^ cx^-ún T ía-v<^. / /k-cx, en. wc t i x icvuv«,*^ t Kv-iJi J ^ - 'C Í4. a-v't o w n d ^ < M í.< jh O e t ^,6o VÍTcTcXÉW? V/ feli.l>f1 7*A^1 &ro<j CÍ4 A j ^ íjt*a>o ^rw6vu Caa^ w ä a. T c h < ^ ^ * ^ o^ 4 U v w «X «( < ta t X>o. w tvm e>í-»-xx<u <vx»w<. L? O ^ L j ^ A A lx» jt. '<? o f v<^xc-c Appo. i^tvom A ^ * i p SJotwí l*j»á Vi. C -v ^. (SU^Í^ 7 -A"i<. L v.cxlc ts -^t^v o»x > * 7 * ^ f 4 1 jry *^~4. 4 V Ó Ía~*o 0 u^v» V *^ C yt -ia-í.c'í^o la. ú-vtvtfvwo^-jí-i-> - -** C *4j C *~ j Í 4 <^> ^ v c x - c w a vx^<-<- i>«a-e^o^c 4 k * * f /Vc^\*A*SíV / t < u» t v í U rf^s-/ fêæiëæt i o V & ç a ^ c^ o x ^ -< ^ t, Ö C t 'í«t U X C ^ 1>Yx * S x L c i, t ^ C C í Íu^-CsaS^ Ä X t t * Vv -k ^ C C í ^ 'k ^ ia /, u,o-c*«oo x^o ccnxo. >vs c^ a Á ^ o p<x/v-rci u *ax * ^ o u ^ X q l; Do o V, g x ^ \ a _ JLaX^, j C-^o^oo o V ^ C o ^ w ; X-v %v yv&. ^ T ^ s /Vv s X vwm / t w Ä ^ ii^ ^ x r r v tílv J- l3í ^ j i & *A 6 M * V Í * X ^ _ ^XC* am _ Xa ->*a -É^C AvO ü t i, o UJ> XÍ t «^ v c i m / U v «7 1 /l v 4 X í x ^ o 1 ) v i «X C h L «^ w «^ f 4a c-tfl Ä b ^ _ p Q i. áu»' (SLo^«Aj. qr b tf^ w r v - p 6 -u L im. ^   a > j^ í4 X ^ C t w v o l * ^ J L V l* ^ \ / 1^ 00^-v- X<s as<*4. fc t f r L, ' Jy^CoCt'/

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179 G.Baruchello, da Cosa guardano le statue (2003) Accettare anzitutto il possibile ruolo dello spazio come CAMPO, campo di forze, campo magnetico. E introdurre nel cosmo personale la coscienza dello spazio come un tutto pieno di etere (visione ottocentesca tutta da rivalutare). Allestirsi se possibile un paesaggio visivo e mentale, uno sfondo (il bosco?) come traguardo minimo per pensare Energia. Partire cioè dal minuscolo controllabile, sensibile alla vista, traguardare il vuoto, l apparente nulla facendo misurazioni approssimative, stabilendo rozzamente rapporti, distanze, angoli, differenze di quota. Traguardare la luce solare al tramonto attraverso l effetto-lente di un tubo di vetro soffiato. Ascoltare il vento. Affrontare la notte, il cielo gremito di luci. Pensare energia sentendosi energia. [...]

180 Per essere lo Zero dello Spazio occorre servirsi.se non si è poeti ma pittori, di una libera scelta di artifizi visivi che consentano di rimanere ancorati a qualcosa da cui ripartire ogni volta che il pensiero riprende a procedere. Un diario in immagini anche totalmente astratte, disegnate,-fotografate, registrate su pellicola o nastro magnetico, nel quale ogni momento memorabile di qualche utilità, per andare oltre, resti a disposizione dell artista. Più facilmente ogni pittore troverà nelle opere che andrà facendo, il nocciolo di quegli eventi: saprà da solo come leggervi dentro. La proposta che qui si formula potrebbe essere invece la seguente: prendere intanto a pretesto l esistenza della STATUA e in particolare dell occhio di questa per attribuire a quest ultimo la capacità tutta arbitraria e simbolica di vedere cose che il nostro occhio non può o non vuole permettersi di vedere. Chiameremo questa privatissima arma, questo artificiale zero dello spazio L O CCH IO DI PIETRA. [...]

181 ADRIANO SPATOLA NELLA POESIA CONCRETA Nel 1956 si tenne a San Paolo del Brasile l Esposizione Nazionale di Arte Concreta : fu in quella occasione che venne proposto il nome di poesia concreta. Con quella denominazione si voleva indicare la dimensione materica della nuova poesia: le parole non venivano più usate per la loro semanticità, per il loro significato, ma per i valori grafici e visivi che potevano assumere. Nei suoi sviluppi la poesia concreta arriverà a operare fin dentro la parola, smontandola e ricomponendola. Questo procedimento risulta ben evidente negli Zeroglifici di Adriano Spatola, che rappresentano una sorta di esplorazione tra le possibilità di usare i frammenti di caratteri, con sezionature verticali o orizzontali, ed eventuali sovrapposizioni di frammenti verbali o parti di parole leggibili. La poesia concreta, per la sua estrema economia espressiva, si presenta con doti particolari di accessibilità anche per chi non conosce la lingua in cui è scritta, e come movimento di carattere internazionale fu concepita dai primi promotori: Decio Pignatari ed Eugen Gomringer. A proposito del carattere internazionale della poesia concreta, lo stesso Gomringer ha scritto: Un sintomo significativo della necessità della poesia concreta si riscontra osservando che simili e analoghe forme sono emerse quasi contemporaneamente in Europa ed in America latina e che una analoga forma mentis ha trovato il suo terreno in entrambi gli ambienti. Sono perciò convinto che la poesia concreta comincia a realizzare l idea di una poesia universale comune. È forse comunque tempo di rivedere profondamente la concezione, il modo di credere nella poesia e di riesaminare la condizione di una sua funzione nella società moderna. Comune a tutti gli autori concreti è la persuasione che le strutture grammatico-sintattiche del linguaggio normale non sono più adeguate a sopportare nuovi processi di pensiero e di comunicazione e che a tali novità debbano corrispondere nuovi stili. Ciò comporta altresì un diverso rapporto tra poema concreto e lettore, il quale dovrà ricreare l atto del poeta nel farsi d una diversa struttura. La poesia concreta rappresenta un punto d arrivo nel percorso che parte da Un coup de dés di Mallarmé, perché questo testo, come ha scritto Accame, ha fatto letteralmente il vuoto davanti a sé. (a presentazione della sezione dedicata alla poesia concreta, nella mostra Alfabeto in sogno. Dal carme figurato alla poesia concreta, Reggio Emilia 2002) vedansi anche, fra i preziosi reperti dell'archivio Maurizio Spatola online:

182 PER LA CRITICA Trent anni dalla scomparsa di Adriano Spatola VERSO LA POESIA TOTALE di G iovanni Fontana alacoda3.webnode.it/verso-la-poesia-totale/ Il 23 novembre di quest'anno ricorre il trentennale della scomparsa di Adriano Spatola, poeta, teorico e critico della neoavanguardia italiana, sul quale, nonostante siano stati pubblicati diversi studi di rilievo, c è ancora molto da scoprire, specialmente per quanto riguarda la sua attività di sovvertitore di modelli linguistici ed espressivi, in particolare nel settore performativo, sonoro e visivo. Molte opportunità in tal senso sono offerte da una serie di iniziative che stanno costellando l'universo poetico. Grazie all'impegno di Bianca Maria Bonazzi, con la collaborazione di Riccardo Spatola, la quinta edizione di "Mont'Art", Arte nel Borgo di Montechiarugolo, è stata dedicata al poeta, che nel piccolo cimitero di quel borgo riposa, proprio ai piedi del castello, sede di un convegno lo scorso 23 settembre, con la partecipazione di Julien Blaine, Giuliano Della Casa, Daniele Poletti e del sottoscritto. Altri eventi, passaggi critici e memorie, si sono susseguiti a Bologna (a cura di Gian Paolo Roffi), a Modena (a cura di Carlo Alberto Sitta), a Torino (a cura dell'associazione Culturale Collezione Piero Marengo, in collaborazione con l Istituto Alvar 1 *

183 Aalto/Museo dell Architettura, Arti Applicate e Design, la rivista Lettera n. 68 del MAAAD e Laura Castagno). È particolarmente importante sottolineare che al convegno di Montechiarugolo è stata annunciata la pubblicazione dell'opera poetica di Spatola, che sarà disponibile a breve per i tipi di Diaforia. Parallelamente, sono in corso i lavori per la pubblicazione di una raccolta di poemi sonori per l'etichetta Recital di Sean McCann, a Los Angeles, mentre si allestisce a Roma, presso lo Studio Varroni/Edizioni Eos, una mostra documentaria dal titolo "Adriano Spatola - da zero ad infinito - verso la poesia totale" (10 dicembre marzo 2019), e, soprattutto, esce in quel di Bilbao l'edizione spagnola di Verso la poesia totale, presso "La unica puerta à la izquierda" di Juanje Sanz, Iniziative queste ultime che focalizzano l'attenzione sulla componente visuale dell'opera spatoliana. Oggi, dopo tanti anni di sperimentazione sul rapporto parola/immagine, sono ormai ben note le qualità figurali di certi testi, siano essi tipografici, dattiloscritti, composti al computer, vergati a mano o dipinti: la loro forma dice al di là di ciò che dice, al di là di ciò che si dice. Aggiunge sempre qualcosa di sostanziale, di fondamentale. Offre un bonus a chi sa ben guardare. A seconda di come è scritta, infatti, una parola può trascendere il suo significato principale o incamerare attributi ampliando non poco la propria sfera semantica. Non solo è possibile registrare sorprendenti passaggi dalla denotazione all area della connotazione, ma si possono aprire ampie prospettive di significato e di senso, talvolta del tutto singolari o addirittura impreviste. iur Adriano Spatola, collage (1980) 2

184 Nel caso delle opere visive di Adriano Spatola dovremmo essere a zero sul piano dei significati, avendo scelto l artista di giocare la sua partita esclusivamente a livello di significanti. Sappiamo bene che ogni opera costituisce un sistema linguistico e che, nei casi più spinti di chiusura verso l altro da sé, dice comunque se stessa. Lo zeroglifico spatoliano1 sembra rispondere a questa regola, non ricercando, infatti, implicazioni nella realtà, ma essendo esso stesso realtà. La sua fase di progetto coincide perfettamente con il processo di realizzazione dell opera. Concluso tale percorso, che rappresenta un modo tutto particolare di rapportarsi al dato reale, fatto di ritagli, di gesti, di superfici di scorrimento, di congiunzioni, di sovrapposizioni, di sguardi misuratori, di esistenze e resistenze, si giunge sul filo del traguardo di una nuova realtà. La realtà dell opera, che costituisce un elemento del tutto nuovo: un nuovo dato reale, un dato nuovo che va ad aggiungersi al mare magnum della realtà esterna. L approdo di Adriano Spatola alla poesia concreta è del Il suo poema-puzzle Poesia da montare2 è del Si tratta di giochi a incastro di lettere e frammenti di lettere che implicano il diretto intervento del fruitore, che, nelle differenti fasi di montaggio, "legge le forme. Per l autore, questo momento costruttivo, questo coinvolgimento, è l essenziale. Il ruolo del lettore, già tradizionalmente attivo, viene qui arricchito da un compito tecnicopratico. Gli si richiede addirittura una gestualità che sappia individuare equilibri di volta in volta differenti e che possa creare incidenti di lettura in una prospettiva di forme dinamiche indipendenti dalla volontà dell autore. In quegli anni, il pubblico è coinvolto come parte attiva in numerosi settori artistici: nella musica, in teatro, nelle arti visive. Il coinvolgimento è sinestetico. Nello stesso tempo l opera si apre sempre di più all imprevedibilità dell intervento del fruitore, che viene teorizzato, stimolato, atteso. Del resto l universo comunicativo non è fatto solo di parole, e la comunicazione è sempre intersensoriale. Essa coinvolge tutti gli organi di senso, e quasi mai uno per volta, mentre sempre più spesso, nella nuova realtà mediatica, si può parlare di comunicazione intrecciata. La confusione dei linguaggi tra i diversi canali sensoriali è più facile di quanto non sembri. Il cervello non contiene culs de sac. Per il biofisico Ruggero Pierantoni "s incontrano solo anelli entro anelli [...] non esistono vicoli ciechi, binari morti 3. La nuova opera d arte tende, in effetti, ad implicare 3

185 necessariamente una plurisensorialità. Lo stesso mosaico dei frammenti di lettere decontestualizzate che costituiscono gli zeroglifici spatoliani non si presenta come puro spettacolo per gli occhi: le particelle si organizzano nello spazio secondo un ritmo ed una logica addirittura musicali. Lo stesso Adriano Spatola parla di fraseggio (secondo il gergo della musica) e aggiunge che "i valori semantici di partenza sono sconvolti e rielaborati come molecole di un organismo iconografico astratto, in cui l ordine rigorosamente casuale porta mediante l iterazione all apparizione-evocazione di segni altri.4 Quindi ogni zeroglifico è una sorta di spartito, di tessuto sonoro. Parlerei a questo punto di musica cristallizzata. Ciò è confermato anche da quest'altra dichiarazione di Spatola: "I frammenti di significato che nonostante tutto emergono dalla superficie del testo visuale [...] lasciano forse intravedere sul fondo relitti di metafore e di simboli, così come la parola esplosa non dimentica mai l eco lontana ma ancora percepibile di un significato sonoro. Certo, gli zeroglifici sono anche partiture, ed è forse per questo che il rapporto tra parola e immagine (da qualsiasi punto di vista lo si guardi) sembra esistere unicamente in una zona percorsa da richiami per l orecchio o, al limite, per la mente.5 Ma pur se il termine zeroglifico sembra essere stato coniato per dire che non c è nulla al di là di un vuoto apparire (un vuoto semantico per definizione), in realtà vi traspare tutto il peso di un gesto polemico, trasgressivo, tra impegno e ironia, sul fronte della lotta contro le convenzioni e contro il linguaggio consunto di certa letteratura. Di ciò si fa carico la riconoscibilità della matrice tipografica utilizzata ritmicamente e la trasparenza del processo creativo in deroga, costruito sulla connessione tra materia, gesto, spazio, colore, frutto del gioco intermediale. Nell ottica della sperimentazione verbo-visuale novecentesca la poesia si fa "oggetto e in quanto tale rifiuta i canoni tradizionali della lettura. Ciò vale per tutti i poeti che lavorano in questo settore, siano essi i "concreti, siano essi i "visivi, siano essi i "calligrafici. Ormai più di quarant'anni fa, i poeti Anna e Martino Oberto compilarono un inventario secondo il quale la poesia sperimentale poteva essere "visiva, concreta, aleatoria, evidente, fonetica, grafica, elementare, elettronica, automatica, gestuale, cinetica, simbiotica, ideografica, multidimensionale, spaziale, artificiale, permutazionale, trovata, simultanea, casuale, statistica, programmata, cibernetica, semiotica.6 Da allora, numerosi si sono aggiunti gli aggettivi, tra cui recentemente "asemic. Tutte sigle ed etichette, che però non si distaccano mai dagli ambiti di ricerca dei singoli artisti o di piccoli gruppi di sperimentazione. L unica definizione che sembrerebbe avere un respiro tanto ampio da comprederle tutte è "totale. 4

186 Adriano Spatola è tra i primi ad avvertire questa nuova dimensione creativa. E nel suo saggio Verso la poesia totale indica chiaramente la vastità e la complessità della ricerca, che ponendosi al di là di qualsiasi limitazione di tipo linguistico, strutturale, metodologico, tecnico, disciplinare o mediatico procede verso la totalità, organizzandosi come atto inglobante. Cosicché ogni aspetto coinvolto nel gesto creativo deve essere inteso come mezzo e non come fine. Egli scrive che la poesia "cerca oggi di farsi medium totale, di sfuggire a ogni limitazione, di inglobare teatro, fotografia, musica, pittura, arte tipografica, tecniche cinematografiche e ogni altro aspetto della cultura, in un'aspirazione utopistica al ritorno alle origini".7 Così, da attento osservatore del panorama intermediale, il poeta registrava nel suo libro, un utilissimo studio sulle "posizioni" delle ricerche in atto, l'assoluta continuità, nella parola poetica, tra la dimensione visuale e quella sonora. Adriano Spatola, che vive con partecipazione il suo tempo così carico di fermenti e di tensioni, pone immediatamente l accento sulle nuove realtà: "Il teatro si fonde con la scultura, la poesia diventa azione, la musica si fa gesto e nello stesso tempo usa, nella notazione, procedimenti di tipo pittorico: termini come happening, environment, mixed media, assembalge sono indicativi di questa situazione culturale.8 Egli mette inoltre bene in evidenza il fatto che i fenomeni di "confusione delle arti non rappresentano pure sommatorie, ma costituiscono eventi dinamici, interattivi, altamente imprevedibili: non si tratta di sovrapposizione inerte, bensì di simultaneità produttiva. Le operazioni interattive provocano infinite modificazioni negli elementi, spesso inafferrabili, mentre si affacciano all orizzonte nuove forme artistiche, pienamente autonome, anche se ampi settori dell arte e della critica ancora arroccati su categorie aristoteliche oppongono una dura resistenza. Questo saggio, lucido e documentato, si pose immediatamente come fondamentale punto di riferimento per ogni altra indagine su quelle poetiche, allora in rapidissima trasformazione: "La poesia totale si consuma a una velocità non più commensurabile".9 Il concetto di continuità costituirà il leitmotiv del suo lavoro. Vi tornerà più volte su, approfondendo la questione sul piano teorico e/o analizzando criticamente l'opera di "poeti 5

187 sperimentali" che lavoravano in questa direzione, pur provenendo, talvolta, da situazioni culturali molto distanti tra loro. In occasione della mostra Parola fra spazio e suono,10 a distanza di quindici anni dalla pubblicazione del suo saggio per i tipi dell'editore Rumma, scriverà: "Esiste ormai una teoria generale della scrittura visuale, così come esiste una teoria generale della poesia sonora. Dico 'teoria generale' alludendo a una ipotesi totale di arte della parola. Questa ipotesi non è una semplificazione, ma un'analisi globale del problema: dal graffito alla pubblicità televisiva, dall'urlo alla musica elettronica troviamo continuità mentale, pur nella diversità profonda dei comportamenti e delle tecniche".11 Fin dai primi anni Sessanta, Spatola aveva perfettamente compreso che l'arte della parola sarebbe stata coinvolta in processi di sconfinamento linguistico e di contaminazione interartistica in misura sempre maggiore. Ne darà dimostrazione già nella sua prima rivista, BAB ILU,12 nel 1962; ma la partecipazione al convegno di Palermo del "Gruppo 63" e la fitta rete di rapporti internazionali, che man mano andò costruendo, gli aprirono nuovi orizzonti e gli consegnarono fortunate opportunità sul piano creativo. Il superamento dei confini disciplinari comportava significative metamorfosi fin dentro i processi immaginativi. Per Spatola "La nuova poesia [. ] prende l'avvio, nel suo processo di formazione, dai linguaggi tipici di altre arti, in particolare delle arti plastiche, per farsi «oggetto» che rifiuta la lettura".13 Riprendendo una tesi di Pierre Garnier, sottolinea che "la lingua non è più un codice per comunicare, ma una materia a cui bisogna dar vita".14 In questo senso anche le sue prime composizioni lineari appartengono ad un progetto poetico "totalizzante". Il passaggio avviene dopo la pubblicazione di Le pietre e gli dei,15 un testo che sigilla l'esperienza poetica degli esordi, vissuta in isolamento senza ancora una chiara coscienza di quanto accadeva nel mondo della poesia, anche se in quella raccolta, oggi quasi dimenticata, dimostrava di aver già letto Emilio Villa, che egli considerava "forse il più grande poeta italiano vivente".16 Il titolo BAB ILU allude già alla confusione dei linguaggi, alla contaminazione e alla dismisura. E aver ospitato in quelle pagine un testo come Omaggio ai sassi di Tot di Villa sta proprio a significare, salvo altro, l'interesse per le trasgressioni linguistiche e per l'irriverenza. Entrambi i poeti credono nel mito fertile della torre di Babele. Per Spatola ben presto si delinea l'idea di una poesia come vero e proprio centro della realtà. Anche se per qualche anno vorrà prendere le distanze da eventuali mistiche identità tra letteratura e vita o tra poesia e realtà,17 egli arriverà a sfiorare proprio quel progetto di poesia-vita, già appartenuto a diversi momenti dell'avanguardia storica, che investiva allora gli interessi del movimento "Fluxus". Nel 1961 George Maciunas elaborava a New York un progetto artistico che annullava le differenze tra poesia, musica, pittura, scultura, teatro: l'opera diveniva evento totale capace di inglobare in sé tutte le discipline 6

188 possibili e di avvolgere i tempi e le dinamiche del quotidiano, ponendo l'arte come flusso coincidente con quello della vita. L'anno dopo, a Wiesbaden, si teneva il primo "Fluxus Internationale Festspiele". Influenzato profondamente da questi fermenti internazionali di taglio "intermediale", Spatola in Verso la poesia totale dirà: "Del resto ciò che contraddistingue la nostra epoca non è più soltanto il sistema della divisione del lavoro, conseguenza dell introduzione dei metodi di produzione industriali, ma anche l aspirazione a un mondo nel quale ogni differenza culturale tra l artista e il non artista, tra l intellettuale e il suo pubblico possa definitivamente scomparire. La poesia totale sembra offrire oggi al lettore non un prodotto definitivo, da accettare o subire nella sua chiusa perfezione, ma gli strumenti stessi della creazione poetica, nella loro strutturale rimaneggiabilità".18 La fluidità intermediale, in effetti, individua rapporti artista/pubblico del tutto inediti. Nel saggio che inquadra i materiali raccolti nell antologia Geiger 5, Adriano e suo fratello Maurizio scrivono che il termine intermedia "è [...] comprensivo di ogni esperimento di apertura non patetica né pseudoesistenziale verso la vita".19 Il concetto di intermedia, infatti, come sottolinea Gilberto Finzi, denota una "disponibilità tipica e totale a utilizzare tutto quanto può fare di un antica concezione dell arte immobile una moderna possibilità di arte nuova o di modi altri di fare arte. Si tratta di una prospettiva che tiene conto degli oggetti, del mondo che circonda l uomo, e dell uomo stesso, visti in relazioni eterodosse, in relazioni che non siano di pura esteticità categoriale ma, al contrario, di una funzionalità che l emozione o viceversa l assenza di emozione rendono oggettiva perché oggettuali, continue e freddamente critiche nei confronti di un ambiente qualsivoglia. E intermedia deriva forse (anche) da Lautréamont che auspicava un arte fatta da tutti e non da uno solo".20 Adriano e Maurizio Spatola riportano poi, nella citata antologia, alcuni giudizi di artisti tra i quali ne spicca uno di Piero Manzoni: "Non c è nulla da dire, c è solo da essere, c è solo da vivere".21 Dietro l'idea di "poesia totale", che non offre al lettore un prodotto precostituito, ma gli strumenti stessi della creazione poetica, si affaccia il progetto utopico del superamento della scissione tra soggetto e oggetto e tra teoria e prassi. Non si tratta soltanto di dilatare i campi espressivi o di moltiplicare il potere di significazione, si tratta quasi di rifare il mondo, quel mondo che agli occhi di Guy Debord22 appariva frammentato e illusoriamente ricomposto nello spettacolo globale. Se il mondo appare incongruo, forse c'è speranza di ricomposizione dell'uomo totale anche attraverso la prassi della poesia. La passività del lettore tradizionale è superata da un gesto totale che si lega all' "interesse per il materiale fisico con il quale il testo viene costruito".23 Nella sua veste di manipolatore di segni Spatola dichiarerà più volte la sua "abilità artigianale di rimettere in questione le parole - e attraverso le parole - una filosofia del mondo".24 Il ruolo del gesto e della manualità come elementi comprimari nei processi tecnici di composizione, l ampliamento dei campi d intervento e l importanza della decontestualizzazione, la funzione delle componenti visuali e sonore e la presenza del corpo, le loro corrispondenze come produttrici di senso, la necessità di sintesi e immediatezza nel segno poetico, la relazione con le forme archetipiche costituiscono i temi fondamentali della sua poetica: tutti elementi che confluiscono nell'area della sua "poesia totale", contribuendo a specificarne il senso. Più volte Spatola accenna a un iperspazio come continuum multidimensionale, entro il quale accede solo chi è capace di abbandonare gli esigui ambienti dell istituzionalità, del corrente, del precostituito, per costruire un mondo da contrapporre a quello dato. "Rifare il mondo - egli scrive - vuol dire creare in laboratorio il linguaggio del mondo in concorrenza col mondo, vuol dire entrare nella quarta dimensione, che è la dimensione del rifiuto della 7

189 pura e semplice registrazione lessicale".25 E, infatti, tutto il lavoro intorno alle Edizioni Geiger e a "Tam Tam",26 rivista che prende corpo dopo la spaccatura di "Quindici", è teso alla ricerca di un nuovo linguaggio poetico che sia il più possibile trasgressivo nei confronti delle consuetudini e dei gesti istituzionalizzati e, quindi, del tutto liberatorio: un linguaggio che metta continuamente in crisi se stesso attraverso contaminazioni e dilatazioni imprevedibili, ma anche attraverso l utilizzazione di segni funzionali all abbattimento delle barriere linguistiche. Emblematici saranno i testi visuali e le pièce sonore. Nel 1976, il suo maestro Luciano Anceschi scrive che "la lingua della poesia si fa radicalmente problematica, e da sistema prestabilito di segni si apre alla possibilità di un acquisto di segni sempre imprevisti [. ] secondo relazioni possibili. L area segnica sembra espandersi continuamente. La parola mette in crisi se stessa, non solo nel gioco delle famose strategie tra significante e significato, o nel mettere in discussione strutture anche elementari come il grafema o il fonema, ma, al limite, correndo il rischio di essere sostituita da altri tipi di segni. E certo si giunge a proporre un tipo di messaggio il cui sistema segnico non solo suggerisce l idea, come è stato detto, di un movimento di poesia veramente internazionale, ma anche perché può proporre l ipotesi di una lingua poetica internazionale che ha solo certi aspetti in comune con la musica".27 Com'era prevedibile, le critiche a questo modo di procedere non vengono risparmiate né a Spatola, né ai poeti dell area di "Tam Tam", mentre le pratiche visuali, sonore e performative vanno infittendo sempre di più una rete di relazioni già ampia ed articolata. Il Mulino di Bazzano, in Val d Enza, prima sede redazionale della rivista, si trasforma ben presto in un vero e proprio faro per poeti nomadi. Da lì Adriano Spatola e la sua compagna Giulia Niccolai segnalano, coordinano e organizzano, accanto alle iniziative editoriali, rassegne, mostre e festival. Gli echi del tam tam raggiungono ogni angolo del mondo con risultati sorprendenti non solo sul piano artistico, ma anche su quello socio-culturale ed umano. In un certo senso il Mulino finisce per rappresentare quella "maison poétique" vagheggiata negli anni Sessanta, di cui restano tracce, anche grafiche, in un carteggio con Claudio Parmiggiani28 e in alcuni documenti elaborati a Torino in un contesto interdisciplinare che si appoggiava ad un gruppo di artisti tra i quali figuravano l'architetto Leonardo Mosso, Laura Castagno e Arrigo Lora Totino. La "maison" era intesa come "obiettivazione di uno spazio mentale" e "come costruzione astratta di un'abitabilità ipotetica". Si trattava nello stesso tempo di un oggetto intenzionale da destinare ad un uso "poietico", ma anche di un atto creativo in sé, di un progetto utopisticamente connesso ad una libera funzione abitativa che coniugasse l'originalità dell'idea all'originarietà dell'azione specifica, non intesa come gesto morale di rifiuto, ma come ri-creazione amorale di un gioco positivo, nel quale si innestasse il tema della libertà, perfettamente in linea con una prospettiva ampiamente sperimentale. Al di là di qualsiasi ipotesi progettuale in senso architettonico, ciò conferma l'interesse per "un'apertura totale verso un mondo nuovo abitabile mentalmente". Nel dicembre del '65 Spatola scrive all'amico artista Claudio Parmiggiani che "la maison ha tutta l'aria di essere un'utopia",29 ma che tuttavia ritiene possibile "identificare [...] il progetto con la sua realizzabilità": spogliare il progetto della sua "destinazione alla realizzabilità" favorendo invece "il rifiuto di una gestualità storica". I miti in via di trasformazione "non fanno che ripetere un certo numero di strade già indicate - no all'azione mitopoietica". In una lettera di qualche giorno dopo30 scriverà: "Io rifiuto completamente l'azione mitopoietica, e la vedo, appunto, non come una museificazione ma come una 'mummificazione' dell'avanguardia". 8

190 Sul piano della strategia Spatola rilancerà dalle pagine di "Quindici": "il pensiero deve farsi clandestino: il pensiero che circola liberamente è un pensiero venduto, nel momento stesso in cui gli si concede libertà di circolazione gli si dà una patente, una carta d'identità, un passaporto, uno stipendio, e un valore in moneta, un prezzo: bisognerà riuscire ad abolire la proprietà privata del pensiero, e a metterne in crisi il mercato internazionale [...], creando dei focolai rivoluzionari dovunque si mettono in vendita idee; il pensiero dovrebbe diventare un bene collettivo, ed esistere, un giorno, come creazione collettiva pura".31 La sostituzione del "pensiero-merce" con il "pensiero-sogno", l'opposizione alla reificazione, al mercato brutale, ma anche la volontà di arrestare "il processo di sclerosi del mondo" o di contrastare "il mito negativo della civiltà come progresso",32 sono tutti elementi che confluiscono in un progetto di "liberazione della poesia da se stessa"33 attraverso la pura tensione poetica: "Il passaggio dalla poesia come poesia a una forma di poesia totale è l'unica maniera di usare positivamente e concretamente, nella direzione di un'utopia anarchicamente garantita, quell'esperienza del linguaggio che il poeta è finora abituato a fare come fine a se stessa".34 Ecco allora che il progetto di "maison poétique" perde la sua connotazione utopica in ragione del sostegno richiesto dall'esigenza assoluta di autonomia della poesia. La poesia ha bisogno di un luogo, di uno spazio reale entro il quale i poeti possano lavorare in piena libertà, ha bisogno di un laboratorio, di una tipografia; la poesia sceglie la sua nuova sede: il Mulino di Bazzano, dove la rivista "Tam Tam" prende corpo. Nell'editoriale del primo numero Spatola scrive: "La poesia sta diventando di nuovo il problema della poesia. [...] Se il mondo si vuole ripetere immutabile in tutti i suoi aspetti, dai metodi politici al linguaggio, sarebbe sbagliato dedurne che l'unica possibilità di rifiuto sia ora per la poesia il movimento continuo, l'inquietudine isterica o l'instabilità programmatica. Così come sarebbe assurdo affidarsi a una poesia impegnata più nel silenzio che nella parola, più nell'ammiccamento che nell'essenziale".35 Nell'editoriale del secondo numero, invece, sottolinea che le crisi ricorrenti della poesia d'avanguardia costituiscono "una necessità storica costante, attuata e attuabile in nome del ricambio linguistico. Tam Tam s'innesta in una di queste crisi con il preciso impegno di documentarne la portata e il senso, ma anche con l'obiettivo di suggerire nuove direzioni di discorso".36 Il rifiuto della dicotomia impegno-disimpegno e dell'adozione di formule ideologiche per combattere il clima di restaurazione culturale, l'idea di una poesia che si costruisca come metamorfosi oggettiva, la dichiarazione della sua autosufficienza e della risoluzione in organismo consapevole, la messa in discussione di codici prestabiliti in merito a tecniche espressive e valori formali, la disponibilità ad accogliere gli impulsi provenienti dalle altre arti aprono un nuovo fronte strategico, per molti versi perfettamente in linea con le avanguardie storiche. Nel nuovo ambiente vengono avviate numerose iniziative editoriali; i libri sono stampati in proprio e, sia pure con innumerevoli difficoltà, dal Mulino viene lanciato un chiaro segnale di indipendenza, mentre le fitte frequentazioni di poeti ed artisti ne rendono particolarmente viva e creativa l'atmosfera. Tra gli ospiti del Mulino, oltre ai fratelli Spatola, Maurizio e Tiziano, e Corrado Costa, proprietario di quelle mura, si incrociano Parmiggiani e Giuliano Della Casa, Vaccari e Xerra, Carlo Alberto Sitta, Giovanni Anceschi, Milli Graffi, oltre ai numerosi stranieri, da Julien Blaine a Paul Vangelisti, da Gerald Bisinger a Jean- Frangois Bory. In quel clima Adriano Spatola lavora a pieno ritmo su testi lineari, visuali e sonori; cura le sue relazioni, prepara mostre; inventa le sue performance che propone nei principali 9

191 festival di poesia in Italia e all'estero. Sia pure nella distinzione dei diversi ambiti, le confluenze linguistiche sottolineano pur sempre l'ottica intermediale. Del resto Adriano Spatola aveva scritto nel suo fondamentale saggio (che per alcuni versi assume il tono di una dichiarazione di poetica e per altri quello di vero e proprio modello strategico, anche se "le poetiche, non appena identificate [...] sfuggono a se stesse 37): Verso la poesia totale vuol essere in primo luogo una formula in grado di stabilire la necessità di vedere nel campo della poesia sperimentale non tanto una confusa e frammentaria area in dispersione, quanto la coesistenza di varie direttrici di marcia legate da una fitta rete di rapporti e di scambi".38 Rapporti e scambi che costituiscono un dato fondamentale del suo progetto poetico, come del resto era stato per tutte le avanguardie storiche, dal Futurismo al Dadaismo, dal Surrealismo al Lettrismo. In quest'ottica militante Spatola esprime tutta la sua carica utopistica: "Il compito della nuova poesia sembra [...] essere quello di rendere sociologicamente attiva una realtà linguistica che rischia di rimanere «privata», senza contatti con il mondo. Il trionfo dei mezzi di comunicazione di massa coincide con un aumento dell'impotenza delle arti, ma può anche rappresentare il banco di prova della loro capacità di rinnovamento".39 La necessità di rapporto può, secondo Spatola, essere messa in crisi dai mass media, che però, nello stesso tempo, potrebbero rivelarsi utili alleati. L'intuizione era corretta. Oggi, infatti, ci troviamo di fronte ad una situazione fortemente ambigua, in cui a fronte dei poteri forti della convenzionalità si aprono nuove porte mediatiche di notevole potenzialità creativa. Di fronte alla violenza di questo mondo, subdolo per la sua capacità omologante e reso sempre più forte da un sistema mediatico mistificatorio che non ci aiuta affatto, la poesia, specialmente quando si pone come antagonista, occupa certamente una posizione difficile, ma non rinuncia a quel conflitto permanente, in mancanza del quale perderebbe completamente la sua vocazione e la sua funzione. Anche se non credo si possa più far riferimento a quella che una volta era chiamata poesia civile, non si può mai rinunciare a credere al valore politico della poesia, che si attua in una sorta di conflitto permanente contro l istituzione e le correnti mainstream che la rappresentano; e non si può rinunciare al continuo ri-cercare contatti, richiamando a sé coloro che aspirano ai valori di libertà e giustizia, che si esplicano proprio nei procedimenti allegorici giocati sul rapporto etica/estetica. Non dobbiamo dimenticare infatti, come ci ha insegnato Benjamin, che la tendenza di una poesia può essere politicamente giusta solo se è giusta anche letterariamente. A trent'anni dalla scomparsa di Adriano Spatola tante conquiste di allora sono state ormai acquisite e ben digerite dai media. La scrittura verbo-visuale non fa più rumore. Tantomeno scandalizza. Basti pensare alle acrobazie tecnicamente impeccabili della pubblicità televisiva. Ma la lezione di Spatola ci mette in guardia e ci indica che le strade percorribili ancora oggi sono quelle caratterizzate dal forte atteggiamento critico, quelle che considerino a pieno la materialità del linguaggio, che sfuggano alle limitazioni del mercato, che sappiano ben distinguere tra multimedialità e intermedialità, che garantiscano sempre un'alternativa al sistema linguistico istituzionale, nel senso che sappiano costruire il linguaggio, così come diceva Max Bense: scrivere "significa costruire il linguaggio, non spiegarlo".40 Ora, a quasi cinquantanni dalla prima edizione di questo libro e quarantanni esatti dalla pubblicazione della seconda edizione italiana, la traduzione in Castigliano di Fausto Grossi, grazie all'interessamento di Juanje Sanz e della sua équipe editoriale, rinnova nell'hispanidad l'attenzione su un tema in continua evoluzione, ma che solo Spatola ha saputo affrontare con le dovute densità e compiutezza, con sapienza tecnica e con verve polemica. Abbiamo già ricordato che lo stesso autore scrive in premessa che "la poesia 10

192 totale si consuma ad una velocità non più commensurabile". Ciò è vero proprio perché costituisce una dimensione inglobante, fortemente dinamica, frattale, proprio come accade del resto nelle performance dello stesso Spatola, dove il corpo diventa il centro di un campo di forze magnetiche collegate al mondo; ogni battito, ogni pulsazione è un modo di permettere la comunicazione, di favorire collegamenti iper-estetici. Il corpo è un tam tam che dissipa energie, che attua un processo di ionizzazione. Ma il corpo non emana semplicemente: è anche recettore degli stimoli provenienti dal pubblico che immediatamente inscrive in se stesso. L avvenimento performativo è collegato al contesto più di quanto non appaia. Ogni situazione esterna, ogni avvenimento casuale, tutto l ambiente, che pure è influenzato dalla performance, influisce su di essa, che a sua volta riflette modificando all istante. È un gioco di specchi operato contemporaneamente dal pubblico e dal poeta che gli si rivolge direttamente, accettando il colloquio e la sfida e procedendo ininterrottamente e instancabilmente verso la poesia totale. 1Si tratta di una tecnica combinatoria che Spatola mutua in maniera personalissima da Franz Mon e che, comunque, rientra per altri versi nel corredo tecnico del concretismo internazionale. 2 Bologna, Sampietro, Ruggero Pierantoni, Postfazione al volume di Tonino Tornitore, Scambi di sensi, Torino, Centro Scientifico Torinese, In Parola immagine scrittura, a cura di Matteo D Ambrosio, cat. Seconda Esposizione Nazionale, Urbino, Adriano Spatola, Dichiarazione, in Segnopoesia, Centro Culturale d Arte Bellora, Milano, In Adriano Spatola, Verso la poesia totale, Salerno, Rumma, 1969; poi Torino, Paravia, Del saggio esistono edizioni in lingua francese e inglese: Vers lapoésie totale [presentazione, traduzione e note di Ph il ip p e Ca s t e l l in ], Marseille, Editions Via Valeriano, 1993; Toward totalpoetry [traduzione di B r e n d a n W.HENNESSEY e Gu y B e n n e t, postfazione di Gu y Be n n e t ], Los Angeles, Otis Books / Sismicity Editions, Verso la poesia totale, cit. 8 Ivi. 9 Ivi. 10 Parola tra spazio e suono. Situazione italiana 1984, a cura di LUCIANO CARUSO, UBALDO GIACOMUCCI, A r r ig o L o r a -To t in o, La m b e r t o P ig n o t t i, A d r ia n o Sp a t o l a ; catalogo dell esposizione tenuta a Palazzo Paolina, Viareggio, 24 novembre - 16 dicembre 1984; Comune di Viareggio, stampa Eurograf, Lucca, Ivi. 12 Di Bab Ilu, pubblicata a Bologna, uscirono due numeri nel Verso la poesia totale, cit. 14 Ivi. 15 Bologna, Tamari Editore,

193 16 Luigi Fontanella, Conversazione con Adriano Spatola, in AA.VV., Adriano Spatola poeta totale. Materiali critici e documenti, a cura di P ie r Lu ig i Fe r r o, Genova, Edizioni Costa & Nolan, Editoriale in "Tarn Tarn", n 2, Verso la poesia totale, cit. 19 A d r ia n o e M a u r iz io Sp a t o l a, Intermedia?, in Geiger, n 5, antologia a cura di A d r ia n o e M a u r iz io Sp a t o l a, Torino, Ed. Geiger, s.d., ma GILBERTO Fin z i, Poesia in Italia, Milano, Mursia, in Geiger, n 5, cit. 22 Gu y D e b o r d, La société du spectacle, Paris, Buchet-Chastel, Verso la poesia totale, cit. 24 Parola tra spazio e suono, cit. 25Iperspazio linguistico, in Impaginazioni, San Polo d'enza, Tam Tam, 1984; già apparso come nota critica al volume di P ie t r o A r e t in o, I ragionamenti, Bologna, Sampietro Editore, La rivista veniva fondata da Spatola e da Giulia Niccolai nei primi mesi del 1971, ma il primo numero fu pubblicato l anno successivo. 27 LUCIANO An c e s c h i, Variazione su alcuni equilibri della poesia che san di essere precari, in Il Verri, VI serie, n 1, Il carteggio è inedito. Archivio Claudio Parmiggiani. 29 Lettera del 27/12/1965 [Archivio Claudio Parmiggiani]. 30 Lettera del 07/01/1966 [Archivio Claudio Parmiggiani]. 31 Va' pensiero (coro), in "Quindici", n 13 (nuova serie), novembre 1968; oggi in Quindici. Una rivista e il Sessantotto, a cura di N a n n i B a l e s t r in i; con un saggio di An d r e a Co r t e l l e s s a ; Feltinelli, Milano, Quindici, n 13, cit. 33 Poesia apoesia e poesia totale, in "Quindici", n 16, marzo 1969; ripubblicato in Gruppo 63. Critica e teoria, a cura di R e n a t o B a r il l i e An g e l o Gu g l ie l m i, Feltrinelli, Milano, 1976; oggi in Quindici. Una rivista e il Sessantotto, cit.; raccolto da SPATOLA in Impaginazioni, cit. 34 Poesia apoesia e poesia totale, cit. 35 "Tam Tam", n 1, "Tam Tam", n 2, Verso la poesia totale, cit. 38 Ivi. 39 Ivi. 40 Ivi. 12

194 Adriano Spatola e la poesia concreta: Zeroglifìco (Sampietro, Bologna 1966) I primi contatti di Adriano Spatola con la poesia concreta risalgono, che io sappia, al 1964, quando, per un verso, incontra le esperienze "anarchiche" dei poeti di "Ex", la rivista romana fondata da Emilio Villa, cui diedero il loro apporto anche i napoletani Mario Diacono e Stelio Maria Martini, che a loro volta avevano dato vita a Napoli alla rivista "Linea Sud"; e, per un altro verso, getta le basi sul secondo numero del periodico modenese "Malebolge" dell'avventura "parasurrealista". Della irruente (e irriverente) attività dei primi dà conto in un articolo pubblicato nel gennaio '64 sulla rivista bolognese "Il Mulino", in cui nota il loro approdo, ideologicamente motivato, a una poesia in cui "la parola tende a farsi ideogramma", portando in sé "mediante combinazioni, fusioni o incastri, il giudizio sulla realtà". Il Parasurrealismo teorizzato alla fine dello stesso anno lo condurrà a produrre i suoi primi puzzle-poems (con il pittore modenese Claudio Parmiggiani), esperimenti che si concretizzeranno, è il caso di dirlo, in due libretti composti di schede formato cm.12x17 raccolte in un contenitore a busta, pubblicati nel 1965 e nel 1966 dal dinamico editore bolognese Sampietro nella collana "Il dissenso": Poesia da montare e appunto Zeroglifico, qui riprodotto. Sull'origine e sull'interpretazione degli "zeroglifici", il cui evidente richiamo ai geroglifici egizi esprime la volontà di tornare al grado "zero" della scrittura e quindi della parola, e che costituiranno a lungo il perno della produzione poetico-visuale di Adriano prima di evolversi in quelle che chiamò "iconoscritture", rimando a quanto scritto da Giulia Niccolai (ubi maior, minor cessat) introducendo una seconda edizione di questa raccolta, pubblicata nel 1975 dalle Edizioni Geiger: testo anch'esso riprodotto nelle pagine seguenti. L'attenta lettura che la Niccolai offre delle singole composizioni ha reso necessario dar loro una numerazione assente nell'edizone sampietrina. Per una disamina ancor più approfondita dell'argomento sono disponibili in questo sito gli interventi di Renato Barilli, sul numero due de "il verri" del 1976 (sezione Protagonisti punto 2) e di Sandro Sproccati nella autobiobibliografia di Adriano pubblicata dall'editore Campanotto di Udine nel 1986 (sezione Protagonisti, punto 20). Anche Achille Bonito Oliva si è occupato degli "zeroglifici", in un intervento apparso sul numero 3 del 1969 della nostra Antologia sperimentale GEIGER, con un titolo interpretativo, Zeroglifico metonimico, che compare al termine di questo documento, ripreso però dal catalogo della mostra Recenti Zeroglifici, allestita alla Galleria Il Punto di Velletri nel novembre Una breve spiegazione, fornita dall'autore stesso sulle ragioni di queste sue particolari opere, si legge sul retro di copertina del libro qui riprodotto: importanti i riferimenti, in questo testo, a Max Bense, i cui testi teorici sulla poesia concreta Adriano doveva aver letto in quello stesso 1964, a Franz Mon, uno dei primi esponenti europei di questa nuova forma di poesia nonché, come punti di riferimento storici, a Mallarmé ed Ezra Pound. Le immagini sottostanti sono tratte, come la fotografia della pagina seguente, dal catalogo della mostra di Velletri di cui sopra. Maurizio Spatola

195 f'/vv. -, Per sonale. Si u d io S a m an d re M ilano,'

196 GIULIA NICCOLAI UNA PROPOSTA DI INTERPRETAZIONE DEGLI ZEROGLIFICI (Introduzione a Zeroglifico, Edizioni Geiger,Torino 1975) A quasi dieci anni di distanza dalla prima edizione1mi sembra importante constatare che questa serie iniziale di zeroglifici di Adriano Spatola ( serie iniziale perché il poeta usa la stessa definizione per molti dei poemi concreti che da allora ha fatto e continua a fare)2 non è invecchiata, non ha acquisito quella patina imbarazzante o patetica, quell ispido che presentano a volte i lavori preliminari o preparatori di operazioni successive di un artista. L equilibrio ottico-semantico di questi zeroglifici rimane invece invariato grazie al rigore, alla razionalità fredda, alla tecnica di collage non sentimentale con cui sono stati eseguiti. Zeroglifico nasce naturalmente dalla parola geroglifico - con la sostituzione di zero a gero: e sappiamo che geroglifico deriva dal latino tardo hieroglyphicum, dal greco hieroglyphicos ossia pertinente alle sacre (da hieros) incisioni (dal verbo glyphein, incidere, scolpire) - e vuol significare l annullamento del messaggio semantico, fermo restando il messaggio iconico. Come ha scritto Luigi Ballerini: A.S. tende a smembrare elementi grammaticali e lessicali (...) I suoi morceaux de language sono tessere (...) di un giuoco di pazienza composto dal caso: le w3 sagome a stampa appartengono a parole che si sono troppo avvicinate ai nostri occhi ". Qui vale la pena descrivere sommariamente la veste tipografica della prima edizione di questi dodici zeroglifici, che non erano rilegati in volume ma stampati su schede sciolte di cartoncino rigido (cm 11,5x16,5) raccolte in un contenitore a forma di busta. Le schede non portavano alcuna indicazione di alto/basso, potevano di conseguenza essere lette secondo una scelta del lettore o a caso; inoltre le varie schede non erano numerate e quindi le stesse regole valevano per la loro disposizione. Anche in questo senso pratico la definizione di Ballerini mi sembra indovinata. Inoltre è forse utile tener presente che il termine zeroglifico era già stato usato in precedenza, in occasione di una esposizione4, proprio con il significato di puzzle. Lo zeroglifico era in questo caso costituito da cubi di legno laccato identici ai cubetti dei giochi di pazienza per bambini, ma di formato adulto (misuravano 30 cm di lato). Ogni faccia del cubo portava un frammento di lettera alfabetica e i frammenti erano ingigantiti in modo da risultare spesso indecifrabili. Come nei puzzle per bambini, appunto, il gioco consisteva nel combinare fra di loro le varie facce dei cubi fino a ricostituire l alfabeto. Come insieme di presenze elementari, questi cubi volevano essere soprattutto presa di possesso effettiva non più della base causale statica o semistatica (l ambiente) ma della base dinamica dell autotrasformazione, come scriveva A.S. Rispetto alla soluzione mediante oggetti tridimensionali, la bidimensionalità del collage sposta l attenzione sull analisi della percezione testuale. In quale modo è variata a distanza di tempo la nostra lettura dei testi di Zeroglifico? Nel 1967 Arrigo Lora Totino diceva: Le articolazioni di A.S, nella serie di Zeroglifico, ad esempio, nascono come microavventure di segni frantumati: un linguaggio dunque spezzato e ricostruito, e cioè un prelinguaggio, che si presenta come evento visivo di bianchi e di neri, ma che, paradossalmente, potrebbe anche essere letto foneticamente, come traccia ovvero ombra di lettere alfabetiche o di spezzoni di frase 5, concetto che A.S. ribadisce quando, a commento di una nuova serie di zeroglifici, scrive: Il mosaico di frammenti decontestualizzati si costruisce nello spazio bidimensionale come fraseggio, nel senso che si dà in musica a questo termine 6. Direi allora che, grazie forse alla divulgazione che ha avuto dalla metà degli anni sessanta il lavoro della nuova musica (da Cage fino a Chiari) o quello di operatori visuali in relazione a spartiti non convenzionali che possono o debbono venire interpretati in senso grafico, questi zeroglifici si sono man mano caricati delle connotazioni di ipotetiche note musicali, di riduzione segnica (come da spartito) di un componimento musicale. Per otto di

197 questi testi l evidenza con la quale il materiale di partenza è stato ritagliato in strisce disposte poi le une accanto alle altre con scansioni di bianchi e di neri, non può che portare per associazione alla visualizzazione di una tastiera di pianoforte, alla quale si sovrappone la raffigurazione dei suoni che i tasti producono, con effetti di risonanza visuale. Sono tre i poemi più specificatamente esemplari di questa possibile interpretazione, il 2, l 11 e l 1, ed è forse il caso di esaminarli più da vicino individualmente e in reciproca relazione: nel 2 le strisce nere parallele e verticali dividono una lettera (spesso riconoscibile ma sempre spezzata) dall altra. La rigidità di questo impianto è solo parzialmente mitigata dal fatto che le lettere non si trovano su una linea retta ma tendono ad abbassarsi verso il centro, e dai tre segni che, pur non essendolo, ricordano frammenti di ideogrammi. La rigidità, formulata in maniera addirittura inquietante dell ultimo riquadro dove la t ricorda una croce, viene addolcita dunque da una curva. Questo, presupponendo che per inveterata abitudine i nostri occhi leggano da sinistra a destra anche un testo illeggibile. Anche l equilibrio grafico del poema, però, appare bloccato: ci disturba forse il fatto che in una tastiera reale i tasti di ebano sono più corti di quelli di avorio, mentre qui accade il contrario? Nel poema 11 le strisce nere (preponderanti sugli spazi bianchi) sono mosse e segmentate, ma soprattutto sono frammenti di lettere, e come tali ci sono consuete, le seguiamo e le rintracciamo capovolte, rovesciate, smontate e rimontate. E la trascrizione visuale di una musica possibile solo se rigorosamente mentale. Il testo evidentemente più semplice di questa ipotetica triade è il numero 1. Rispetto all immagine della tastiera qui c è uno scarto, in quanto abbiamo uno spazio delimitato da una curva che ci appare come tale, mentre i segni che si alzano e abbassano con forti scarti armonici ci suggeriscono un assenza di peso e di impegno strutturale: infatti la struttura è semplificata al massimo, come in una specie di solfeggio non cantato ma parlato, anzi sillabato. Ma, come ho detto, a parte questi tre testi esemplari, che ne costituiscono il nucleo, l interpretazione è genericamente valida anche per gli altri testi. Il 12 e il 9, ad esempio, sono, in positivo e in negativo, l immagine della dilatazione di una nota, mentre nel 5 le tre note bianche sono messe in vibrazione da un diapason e come un diapason. Secondo Achille Bonito Oliva, negli zeroglifici abbiamo un processo che atomizza il linguaggio istituzionale cancellandone tutti i significati obbligati, orientando la disposizione del segno sullo spazio estetico in maniera da costituire a linguaggio anche gli interstizi tra una particella linguistica e l altra 7. Il poema numero 10 è l unico nel quale la linea di contorno dei frammenti di lettere tende ad avere lo stesso spessore degli interstizi neri tra le tessere (questa volta bianche). Comunque le tre file di tessere costituiscono anche questa volta una tastiera, sulla quale, come per l esercizio della diteggiatura, ogni nota-tasto sia stata contrassegnata da un simbolo specifico. Questo simbolo non fa ovviamente riferimento alle dita ma a un alfabeto registrato nella mente e a una lettura spontanea. E strano infatti che in questo poema l occhio continui a porsi il problema della identità tra il contorno delle lettere e gli interstizi, andando alla ricerca di quegli spessori che effettivamente sono identici. Come sappiamo, solo un altro testo è ancora relativo al tema della tastiera, il numero 7. Ne parleremo più avanti. Intanto in due poemi, il 6 e l 8, è chiaramente identificabile, oltre alla struttura rappresentata dai frammenti alfabetici, la presenza di altri segni non alfabetici, appartenenti comunque alla civiltà dell immagine. In 8 questo segno è riconoscibile: si tratta del marchio della pura lana vergine ed è impiegato in modo da suggerire una impressione di sfericità o perlomeno il fatto che il testo ha una sua bizzarra propensione ad accartocciarsi in certi punti su se stesso, con effetti di tipo cinetico. Il 6 invece non possiamo sapere di che si tratta e abbiamo la sorpresa di osservare lettere nuove (segni muti di cui non abbiamo modo di sapere l esatta esistenza fonetica) che con le loro linee curve intersecate ci rimandano a un affollamento di linee afasiche. O di possibili ideogrammi, in quanto l atmosfera del testo è curiosamente orientale. Quanto al poema numero 7, la tastiera è identificabile con

198 il materiale pubblicitario con il quale il testo è stato costruito. In questo caso, parafrasando, o meglio ribaltando l assunto di Max Bense secondo il quale i testi di poesia concreta si avvicinano spesso, se non altro per motivi di dipendenza tipografica, a testi pubblicitari, A.S., per farne una verifica al contrario, ha voluto dimostrare che i testi pubblicitari sono già, almeno tipograficamente, "progetti di poesia concreta 8. Forse questo testo numero 7 è l unico che con il tempo ha perduto il suo impatto di sorpresa e di shock ed è diventato più un testo esplicativo di un metodo di lavoro che non un assolutizzazione in senso spaziale dell aspetto percettivo delle parole. O della parola Campari. Rintracciando così facilmente il carattere tipografico del marchio Campari, non possiamo ormai fare a meno di chiederci perché non ci abbia ancora pensato la Ditta Campari a farsi un layout come questo. Un testo complesso e indovinato per il suo inizio (cioè l angolo in alto a sinistra) categorico - 1 e 1, due volte uno (sarà mai successo a qualcuno di leggerli come 11?) seguito da caratteri indecifrabili di aspetto cuneiforme, simili a ganci, ripetuti anche specularmente - è il poema numero 3, disposto sulla pagina, come del resto altri zeroglifici, in modo da formare un quadrato (altri zeroglifici vengono invece circoscritti in un area rettangolare). Ciò che lo caratterizza sono però le tessere bianche riproducenti quasi fedelmente zone quadrate che si trovano sparse tra i segni-frammenti e rimandano all impianto delle caselle bianche delle parole crociate. Questo particolare, unito alla forma degli spezzoni di lettere, produce nel lettore un impressione di non finito nel senso di una possibile prosecuzione all infinito di questo testo su una superficie illimitata. Si tratta di una scrittura ieratica e orientale, non per associazione dei segni agli ideogrammi (come nel poema numero 6) ma perché mentalmente, come per un haiku o per un concetto zen, induce a uno stato di calma e di contemplazione. Il suo ipotetico contrario potrebbe essere il numero 4 nel quale i segni sono decisamente scrittura che riempie quasi sempre i quadrati bianchi ed è inframmezzata da quadrati neri pieni. Questi ultimi hanno la funzione di cesure più che di cancellature, e bloccano la prosecuzione delle parole situandosi nel testo come vere e proprie zone neutre e alternative. Il fatto che parole e figure geometriche non siano perfettamente allineate aumenta il movimento grafico rendendo più eccitante la lettura. L occhio dopo aver compitato e tentato di collegare fra loro i frammenti di parole (orango? e(x)pired?) si spostano come su una scacchiera sulla quale i pezzi si stanno dando battaglia, che poi è il vero modo di leggere Zeroglifico senza la complicità di Duchamp. NOTE 1. Zeroglifico, Sampietro Editore, Bologna Si vedano, ad esempio, gli zeroglifici apparsi in Tam Tam n.5, Catalogo dell esposizione Scrittura visuale in Italia , Galleria Civica d Arte Moderna, Torino Carlo Cremaschi, Claudio Parmiggiani, Adriano Spatola, Zeroglifico, Galleria della Sala di Cultura, Istituti Culturali del Comune di Modena, Dal catalogo dell esposizione presso la Galleria L.V., Verona Questa dichiarazione di poetica è stata pubblicata nel catalogo dell esposizione Verso una terza dimensione della scrittura, Galleria la Bertesca, Genova Vedi GEIGER 3, Torino Vedi il catalogo dell esposizione Segni nello spazio, Castello di San Giusto, Trieste 1967.

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213 Achille Bonito Oliva, Zeroglifico metonimico (già apparso sul n. 3 della rivista Geiger, Torino 1969) Quando il poeta, per potenziare le direzioni significative del testo, tenta di uscire dalla semantica bidim ensionalità sotto cui giace il segno verbale, allora scopre al di sopra del peso interno l'evidenza splendente dei segni. Una evidenza che si propone come esibizione superfìcialista delle unità linguistiche. E lo sconfinamento dalla necessaria dimensione metaforica comporta uno slabbramento della semantica istituzionale della pagina a favore di uno spazio che non è più puro contenitore di segni ma è segno strutturale esso stesso. Qra i segni impiegati si dispongono ad occupare concretamente la superficie su cui poggiano, fino a compenetrarsi in una fitta rete di relazioni e di rimandi. E la sintassi diventa una condizione indispensabile per arrivare allo svolgimento della metafora, la quale ormai è minacciata dall'accadimento visivo dei segni, che si accampano senza occultamento sulla superficie splendente. Così mediante una sottrazione di spazio interno al segno stesso ed una espansione della sua ineluttabile attitudine all'evidenza si realizza la condizione particolare della poesia concreta. Una poesia che dispone di un reticolo linguistico che tende a spostare la propria dimensione strutturale ed acquistare una elasticità ambigua, per cui la visibilità del segno diventa necessaria propedeutica del suo funzionam ento. Il segno aspetta di essere visto, e soltanto allora comincia a trasparire ed a significare, cioè a vedere il mondo. E la visione del mondo viene aiutata nell'emersione perché oltre alla metafora entra nel funzionam ento il concetto di metonimia. Adriano Spatola ha saggiato lo spazio compatto della pagina, ed evitando sprofondamenti di metafore ha tenuto il discorso su di un registro tutto evidenziato ed esibito facendo coincidere spazio e- sterno e spazio interno del linguaggio. 1 segni sono recuperati da un mercato linguistico molto frequentato, come quello esercitato dai mezzi di comunicazione di massa. Il recupero avviene anche sulla base della qualità visiva del segno, richiedente per l'intenzionalità estetica dell'autore una emergenza formale. Tale evidenziamento crea dei nessi, che rimandano soltanto ad un circuito interno di funzionamento ed al rapporto materiale esistente tra, i segni (come la contiguità materiale, la disposizione del linguaggio, la formulazione visiva). E la "metonimia" costituisce la possibilità effettiva per Spatola di creare uno spazio autonomo, su cui confluiscono i segni reperiti con un funzionamento endocrino, che più che rimandare al mondo rimanda a se stesso ed al processo di formazione. Un processo che atomizza il linguaggio istituzionale cancellandone tutti i significati obbligati, orientando la disposizione del segno sullo spazio estetico in maniera da costituire a linguaggio anche gli interstizi tra una particella linguistica ed un'altra. Perché il processo posto in atto da Spatola è il sintomo di un risentimento verso il mondo della produzione linguistica, e quindi del mondo, che non produce assolutamente segni connotanti lo spazio animale-individuale (la libertà) dell'uomo ma solam ente repressione e significati.

214 LA PROSPETTIVA ICONOTESTUALE LA PROSPETTIVA ICONOTESTUALE Forme e retoriche del fototesto letterario M ichele Com eta in: M.Cometa-R.Coglitore, Fototesti. Letteratura e cultura visuale, Macerata, Quodlibet, 2016 La differenza decisiva tra il metodo dello scrittore e la tecnica del fotografare, desiderosa di fare esperienza quanto di fuggirla, sta nel fatto [...] che la descrizione stimola la memoria mentre il fotografare stimola l oblio. W. G. Sebald Iconotesti In ciò che tradizionalmente chiamiamo letteratura esistono forme che definiamo fototesti. Nella loro ormai secolare storia - che di fatto inizia a pochi decenni dall invenzione della fotografia con il testo di Georges Rodenbach, Bruges la morta {Bruges-la-Morte, )1 - la teoria letteraria ha avuto costante difficoltà anche semplicemente ad accettarne l esistenza tra le forme alte di letteratura (per non dire nel canone), preferendo per lo più relegare questi ibridi tra le forme giornalistiche, quando addirittura non ne ha negato l esistenza amputando l immagine dal testo e viceversa. Eppure la creatività letteraria non ha mai cessato di interessarsi a queste forme e la costante e progrediente semplificazione delle loro condizioni di esistenza (basti pensare alle forme di impaginazione digitale che chiunque può realizzare) ne ha favorito la diffusione fino al punto che oggi, sia per ragioni autoriali sia per ragioni editoriali, il fototesto tende a conquistare un suo posto persino tra la letteratura canonica. M a che cos è un fototesto? E possibile farne una tipologia o almeno tratteggiarne una cartografia novecentesca? Di quali retoriche si serve? 1 Sul significato epocale di quest opera nel contesto della ricezione letteraria della fotografia si cfr. J. Thélot, Les inventions littéraires de la photographie, PUF, Paris 2003, pp. 1Ó 1 sgg.

215 70 M IC H E L E CO M ETA Quali effetti di lettura persegue? In che rapporto sta con le altre forme iconotestuali che l hanno preceduto? Certamente si tratta di un nuovo oggetto di studio che richiede un approccio interdisciplinare e che ci costringe ad affrontare uno dei problemi cruciali della teoria letteraria occidentale: il rapporto tra testo e immagine, tra verbale e visuale. La definizione più sintetica e valida per le forme iconotestuali, anche se non esaustiva, l ha forse data Peter Wagner quando scrive: «un artefatto in cui i segni verbali e visuali si mescolano per produrre una retorica che dipende dalla copresenza di parole e immagini»2. Scegliamo di adottare, sia pure provvisoriamente questa definizione, perché siamo consapevoli che qualunque altra specificazione potrebbe indebolire piuttosto che rafforzare i ragionamenti che ci porteranno a un accettabile delimitazione di un genere che, come vedremo, è in continua evoluzione. Sappiamo però che vi sono dei vicoli ciechi nella teoria letteraria, quelli, per esempio, in cui si cerca di distinguere - come succede anche per altre forme iconotestuali - tra opere letterarie e opere figurative, insistendo su presunte proporzioni tra testo e immagine. Per quanto intuitivo sia che i fototesti tradizionali s incarnino nel formato libro e siano un prodotto a stampa non è detto che sia conveniente, soprattutto nell era della multi- e intermedialità, limitarsi ai prodotti cartacei, tanto più che anche i libri possono essere realizzati su supporti digitali e in materiali diversi dalla carta. Poco aiuta anche l idea che in un fototesto propriamente detto ci debba essere la prevalenza del medium verbale rispetto a quello visuale. La storia ci dimostra - come vedremo più avanti - che non sempre le cose sono andate così e che tali proporzioni non sono state rispettate, anche se la fruizione del fototesto rimane legata all atto della lettura. Nozioni come predominanza, interdipendenza, o gran parte delle categorie maturate nelle teorie dell intermedialità (coreferenza, interreferenza etc.3) sono certamente utili nell analisi di singole sperimentazioni fototestuali, ma poco ci aiutano nel delimitare un campo che bisogna mappare senza la pretesa di esaurire una sperimentazione che grazie agli sviluppi mediali, riserva inesauribili sorprese (basti pensare ai fototesti letterari che vivono solo sulla rete e che sono disponibili per supporti digitali, nessuno escluso). 2 Peter Wagner (a cura di), Icons-Texts-Iconotexts. Essays onekphrasis and Intermediality, Walter de Gruyter, Berlin-New York 1996, p Cfr. Irina Rajewsky, Intermedialitàt, UTB, Stuttgart 2002, passim.

216 FORM E E RETORICHE DEL FOTOTESTO LETTERARIO 71 È sufficiente citare due casi estremi della lunga storia della fototestualità per rendersi conto come nozioni quantitative (più o meno testo, più o meno immagini) e persino la mera compresenza dei due media (verbale e fotografico) poco ci aiutano a definire gli effetti di lettura fototestuale. Alludiamo all esperienza della «Fackel» di Karl Kraus, che dispiega molte tecniche fototestuali per così dire statu nascendi e alle pagine di giornale dell artista e fotografa Sarah Charlesworth tratte dall «Herald Tribune» del Nel primo caso Kraus propone una pagina quasi interamente bianca della «Fackel» su cui campeggia la scritta Konsfiziert! 4 che fa riferimento alla censura cui, per ragioni di contenziosi legali, l autore veniva spesso condannato. La pagina è un perfetto esempio di critica politica e di come il fototesto nel Novecento sia legato a pratiche di potere le cui connotazioni sociali andrebbero sviluppate adeguatamente, ma è anche, sul piano formale, una testimonianza di come persino l assenza dell immagine - sostituita dalla parola «confiscata» - produca un effetto fototestuale e di grande potenza. La semplice presenza della parola «confiscata», rafforzata dalla naturale didascalia dell immagine, vale infatti più di mille foto. Per converso nelle pagine dell «FFerald Tribune» di Sara Charlesworth a essere cancellate sono le parole (con l eccezione della testata)5, mentre rimane l impaginazione del giornale con le immagini che navigano letteralmente in uno spazio bianco (tra cui quella, indimenticabile, di una vittima della Baader-Meinhof che espone la scritta RAF). Anche in questo caso non leggiamo nulla o quasi, ma la pagina bianca intorno all icona assoluta del terrorismo tedesco (così come in altre pagine altre icone, dal Papa6 a Moshe Dayan, alle foto di guerra) e soprattutto l associazione visiva con le altre foto disperse sul foglio costringe il lettore a vedere il senso profondo della storia del Karl Kraus, Konsfiziert!, «Die Fackel», , , p Quest opera si può vedere nel sito dell artista all indirizzo i& alb u m _id = i i& su b alb u m _id = & im age_ id = i i (ultimo accesso luglio ). 6 N on si dimentichi che Sara Charlesworth ripete l esperimento anche con «L Osservatore romano» e altre testate, procedendo a cancellazioni molto significative, come quando riporta solo le foto e i verbi della prima pagina del «New York Times» (cfr. http ://www. sarahcharlesworth.net).

217 7 2 M IC H E L E CO M ETA Si tratta di due casi estremi certamente, rilevanti dal punto di vista politico, ma anche cruciali sul piano formale. Né va dimenticato che essi confermano, sia pure paradossalmente, l assunzione di base dalla quale è opportuno prendere le mosse: quella della paradossale consustanzialità di testo e immagine, anche quando uno dei due termini manca del tutto. Ci troviamo comunque in quel territorio intermedio che la teoria letteraria ha sempre pensato come un campo di battaglia, un territorio conteso (di «struggle for territory»7 ha parlato, infatti W. J. T. Mitchell), lo spazio di un conflitto («a warfare in a medium and between thè media»8), non privo spesso di connotazioni politiche, sociali e, persino, gender, se già Susanne Langer poteva scrivere: «non ci sono matrimoni felici nell arte, solo stupri riusciti»9. L esistenza del fototesto tra le forme letterarie ha dunque l aspetto di un destino cui, in particolare l Occidente, non può sottrarsi. Giustamente Mieke Bai ribadisce: «la cultura in cui le opere d arte e della letteratura emergono e funzionano non impone una rigorosa distinzione tra il dominio del verbale e quello del visuale. Nella vita culturale i due domini sono costantemente intrecciati»10. E gli fa eco Jefferson Hunter il quale ribadisce che ogni immagine fotografica in fin dei conti reclama un testo: «da qualche parte nelle vicinanze di ogni fotografia c è una mano che tiene una penna»11. Un dato di fatto che Victor Burgin considera essenziale per la fotografia tout court: «Persino una fotografia che non ha nessuna scrittura sopra o nelle vicinanze è attraversata dal linguaggio quando viene letta da un lettore»12. Il fototesto ha poi tutto il fascino dell ibrido, quando non del mostruoso; sfida il canone, costringendo la letteratura non solo a rinunciare alla sua presunta e presupposta purezza verbale ma contaminandola pure con la tecnologia fotografica, per altro in costante 7 W. J. Thomas Mitchell, Picture Theory, The University of Chicago Press, Chicago- London 1994, passim. 8 P. Wagner (a cura di), Icons-Texts-Iconotexts, cit., p Susanne Langer, Problem s o f Art. Ten Philosophical Lectures, Scribner s, N ew York , p M ieke Bai, Reading «Rem brandt»: Beyond thè W ord-image O pposition, Amsterdam University Press, Amsterdam 2006, p Jefferson Hunter, Im age and Word. The Interaction o f Twentieth-Century Photographs and Texts, Harward University Press, Cambridge-London 19 87, p Victor Burgin (a cura di), Thinking Photography, M acm illan, London 1982, p. 144.

218 FORM E E RETORICHE DEL FOTOTESTO LETTERARIO 73 sviluppo. Non è un caso che sia stato proprio Marshall McLuhan ad interessarsi alle forme miste, agli ibridi, nei quali intravvedeva il futuro della medialità: L ibrido o l incontro tra due m edia è un m om ento di verità e di rivelazione dal quale scaturisce una nuova form a. Perché il parallelo tra due m edia ci tiene sulla frontiera tra form e che ci risvegliano dalla narcosi narcisistica. Il m om ento di incontro tra due m edia è un m om ento di libertà e di liberazione dalla trance quotidiana e dall ottundim ento che questi m edia im pongono ai nostri sensi1?. Che gli iconotesti in generale, e il fototesto in particolare, facciano parte di una secolare strategia di liberazione dalla dittatura del verbale e dalla conseguente testolatria della critica, specialmente occidentale, è un fatto riconosciuto da molti. La combinazione di fotografia e testo più che incoraggiare una sintesi marca, per molti autori, proprio la crisi della rappresentazione. E la conclamata referenzialità della fotografia complica lo scenario, piuttosto che rassicurarci con un ritorno al reale. Per questo Joseph Hillis Miller può scrivere: «L immagine chiede, pretende, implora di essere guardata. La storia chiede, pretende, implora di essere letta. Leggere una storia o guardare un immagine non solo risponde a ciò che esse sembrano desiderare. In tal modo si adempie a una pretesa o a una mancanza»14. Il fototesto è dunque lo spazio di uno scarto tra verbale e visuale, e persino all interno del visuale produce una frattura tra ciò che si vede e ciò che è esistito. Il fototesto in quanto forma iconotestuale, s inserisce dunque in quella corrente calda della scrittura occidentale (oggi sempre più globale) che, come sempre in passato, ha inteso mettere in discussione lo statuto profondo della letteratura, della testualità e della rappresentazione15. L atto di nascita della riflessione sull iconotesto letterario è abbastanza recente. Esso risale alla fondamentale raccolta di saggi curata 13 M arshall M cluhan, Under standing M edia. The Extension o fm a n, The M IT Press, London-New York 1964, p Joseph Hillis Miller, What D o Stories about Pictures Want?, «Criticai Inquiry», 34.2, 2008, p Per una prim a riflessione sul genere foto testuale si cfr. almeno Timothy D ow Adams, Photographs on thè Walls o f thè House o f Fiction, in «Poetics Today», (2008), pp. i 75~i 95; Jan Baetens, The Photographie N o vel, in «Criticai Inquiry», 15.2 (1989), pp ; Ari J. Blatt, Phototextuality: photography; fiction, criticism, «Visual Studies», 24.2, 2009, pp

219 74 M IC H E L E CO M ETA da Alain Montandon, Iconotesti {Iconotextes, 1990)16, variamente ripresa negli studi di Michael Nehrlich19, Peter Wagner18, Thomas von Steinaecker19 e, da ultimo, Gottfried Willelms20, i quali hanno insistito sull «irriducibilità di una differenza» (irréductibilité d une différencezt) che il fototesto mette in scena, creando una tensione tra i due media, o - come opportunamente è stato ricordato - «un dialogo»22 cui nessuno dei due media può, neanche per un momento, sottrarsi23. M edia che, ovviamente, hanno subito un evoluzione nel corso della storia, di modo che, a ben guardare, i fototesti vanno inseriti in un ampia genealogia, nobile (e meno nobile) che va dai Totentànze medievali agli Ex-voto, dalle illuminazioni alle illustrazioni moderne, dai Elugblàtter seicenteschi ai Bilderbogen e ai fumetti tra Ottocento e Novecento e dunque a tutte le forme di combinazione di testo e immagine su di un unico supporto mediale, la pagina, che di fatto non hanno mai abbandonato la scrittura. Inutile dire però che l uso della fotografia, al posto di quella che prima era una pictura realizzata attraverso il disegno, l incisione e la stampa, fa la 16 Alain M ontandon (a cura di), Iconotextes, Ophrys, Paris In italiano si veda anche Michele Vangi, Letteratura e fotografìa. R oland Barthes, R o lf D ieter Brinkm ann, Julio Cortàzar,; W. G. Sebald, Campanotto editore, Udine Interessanti considerazioni sul fototesto si trovano in Bruna Donatelli (a cura di), Bianco e nero. N ero su bianco. Tra fotografìa e scrittura, Liguori, Napoli Cfr. soprattutto M ichael Nehrlich, Q u est-ce q u un iconotexteì Réflexions sur le rapport texte-image photographique dans L a Femme se découvre d Évelyne Sinnassamy, in A. M ontandon (a cura di), Iconotextes, cit., pp P. Wagner, Reading Iconotexts. From Sw ift to thè French R evolution, Reaktion Books, London Di Wagner si veda il fondamentale volume da lui curato: Icons- Texts-Iconotext, cit. 19 Thomas von Steinaecker, Literarische Foto-Texte. Z u r Funktion der Fotographien in den Texten R o lf D ieter BrinkmannSy A lexander Kluges and W. G. Sebalds, Transkript, Bielefeld Cfr. Gottfried Willelms, Anschaulichkeit, Niemeyer, Tubingen A. M ontandon (a cura di), Iconotextes, cit., p Th. von Steinaecker, Literarische Foto-Texte, cit., p. 10 e pp. 13 sgg. 23 Come in tutte le questioni che riguardano il rapporto tra testo e immagine è inopportuno e alla fine inconcludente interrogarsi sulle forme pure o canoniche di queste ibridazioni, perché invece si tratta sempre di una scala di possibili combinazioni che vanno dalla mera illustrazione (anch essa un mito) dove dovrebbe prevalere la dimensione testuale, alla mera didascalia dove invece dovrebbe prevalere quella testuale. In realtà non esistono didascalie pure, così come non esistono illustrazioni pure, essendo la loro combinazione dipendente non dalla quantità (e meno che meno dalle intenzioni o dal mestiere dell autore) ma dagli effetti di senso che essi producono.

220 FORM E E RETORICHE DEL FOTOTESTO LETTERARIO 75 differenza e costituisce per sua stessa natura non soltanto una novità mediale, con implicazioni che sconvolgono la storia delle immagini, ma costringe il teorico della letteratura ad approfondire l essenza ultima dell immagine fotografica secondo un itinerario che è tuttora in costante evoluzione. Inoltre non si potrà trascurare il fatto che esistono forme di iconotestualità e fototestualità che non possono essere ricondotte alla forma-libro, e che dunque con maggior difficoltà cataloghiamo come letteratura. Si pensi alle iscrizioni su dipinti e incisioni, alle varie forme di letteratura digitale (ipertesti), ai collage e montage (gli Atlas di Aby Warburg e di Gerhard Richter), alle autobiografie visuali di molte artiste contemporanee, persino alle scritture sui corpi della scultura e sui corpi reali, ad esempio le scritture calligrafiche sui corpi nel film di Peter Greenaway, I racconti del cuscino {The Pillow Book, 1 996) o i tatuaggi di parole nel progetto di Shelley Jackson, Pelle. Un opera d arte mortale {Skin. A M ortai Work o f Art, 2003 Z4). Nelle considerazioni che seguono si dovrà tener conto di queste complesse tradizioni ma anche di due questioni, una di carattere teorico e una di carattere storico, che bisogna tenere sullo sfondo della tipologia che cercheremo di proporre. La prima considerazione potremo acquisirla senza ulteriori approfondimenti. E ovvio infatti che ci muoviamo nel contesto delineato da W. J. Thomas Mitchell in Teoria dell immagine {Picture Tbeory, 1994) in cui, tra l altro, l autore pone la questione del rapporto tra testo e immagine nei termini di una resistenza reciproca dei due media, di una negoziazione che lascia emergere tutte le paure iconofobiche e i desideri iconofilici dell Occidente: Il problem a di im m agine/testo non è qualcosa di costruito «tra» le arti, i media o le differenti form e di rappresentazione, m a una questione inevitabile all interno [witkin] delle singole arti e dei singoli media. D etto in una b attuta: tutte le arti sono arti «com posite» (sia testo che im m agine); tu tti i media sono media m isti [m ixed m edia] che com binano codici differenti, convenzioni discorsive, canali, m odi sensoriali e cognitivi2?. 24 Cfr. il sito dell artista all indirizzo: (ultima lettura luglio 2015 ). 25 W. J. T. M itchell, Picture Theory, cit., pp. 94 sgg. Il che significa che la questione dell iconotesto (e del fototesto) va inscritta nella più ampia regione di confronto tra testo e immagine che comprende, da un lato, Vékphrasis (la «rappresentazione verbale di una

221 76 M IC H E L E CO M ETA La seconda questione attiene alla terminologia, giacché la tipologia che sarà necessario tratteggiare, deve fare i conti con un territorio in costante trasformazione e con definizioni via via più complesse. Tanto più che, come per ogni forma dell avanguardia, la proliferazione di termini che indicano i generi della fototestualità non dipende dalle proposte teoriche, quanto dalla creatività degli stessi artisti. Certo più di un secolo di sperimentazioni artistiche ci permette ormai di individuare definizioni che hanno una certa consistenza e che comunque hanno creato tradizioni e forme relativamente stabili. Tuttavia saranno necessari sondaggi molto più ampi per definire le regioni di questo territorio. Il termine foto-testo (Pboto-text)z6 che prevale sia per il suo uso giornalistico (anche in Italia), sia per il successo delle opere di Wright M orris27 non è il primo né l unico. In ambito tedesco, già molto prima di Morris, Kurt Tucholsky, certo attingendo alla tradizione emblematica tedesca, coniava il termine Bilderunterschrift (letteralmente: scrittura al di sotto delle immagini, ovvero didascalia) nel suo epocale fototesto Germania, Germania, sopra tutto {Deutschland, Deutschland iiber alles, 1929), mentre Walter Benjamin, in perfetta sintonia con Aby Warburg, teorizzava un atlante di esercizi ( tìbungatlas) sociale e politico, come la raccolta di fotografie (e didascalie) Il volto del tempo (Anlitz der Zeit, 1929) di August Sanders. M a è Brecht a fornire con il suo Abicì della guerra {Kriegsfibel, 1955) e con gli innumerevoli fototesti che compongono il suo Diario di lavoro {Arbeitsjournal, 19 55) e le sue sperimentazioni verbovisuali, un termine, Foto-Epigramm, che va ben al di là dell iconotestualità barocca. Ed è su questo solco che si muove l altro classico della fototestualità tedesca, R olf Brinkmann, con le sue photo-lyrics pop. Ta teoria letteraria invece si approssima solo per difetto alla definizione di questo ibrido. Definizioni, per altro limitate a casi specifici, sono il photo-essay di W. J. T. Mitchell e il roman pboto/pbotograpbic rappresentazione visuale») e, dall altro, gli iconism i, ovvero le forme di simbiosi, quelle sì davvero inscindibili, tra testualità e visualità, come ci sono offerte da una lunga tradizione della poesia occidentale: dai technopaegnia alla poesia visiva, dai Bildgedichte alla poesia concreta e alle sue rivitalizzazioni nella letteratura digitale. 26 Ad esempio The Inhabitants (1946) e The Hom e Place (1948). 27 Per un primo orientamento si veda M aria Vera Speciale, Scritture di luce: Wright M orris e l invenzione del phototext, in S. Albertazzi, F. Amigoni (a cura di), Guardare oltre. Letteratura, fotografìa e altri territori, Meltemi, Rom a 2008, pp

222 FORM E E RETORICHE DEL FOTOTESTO LETTERARIO 77 novel di Jan Baetens28. La situazione è per altro complicata dal fatto che proprio nel cuore della teoria letteraria e della semiotica del testo si collocano opere fototestuali di seminale importanza - L impero dei segni {L Em pire des signes, 1970), Barthes di Roland Barthes {Roland Barthes par Roland Barthes, 1975), La camera chiara {La chambre claire, 1980) - che costituiscono un punto di non ritorno sia per la prassi che per la teoria29. Né aiuta la circostanza che nelle sperimentazioni fototestuali del Novecento - e il trend non sembra destinato a cambiare - trovano espressione questioni la cui valenza filosofica ed esistenziale offusca quelle di carattere retorico. Si pensi alla guerra (Ernst Jiinger), alla morte (Roland Barthes), al dolore degli altri (Susan Sontag) e via discorrendo. E, per curioso contrappasso invece, alla leggerezza di forme popolari e (apparentemente) banali come il fotoromanzo e la diffusissima iconotestualità digitale. Sembra quasi che la teoria letteraria venga lacerata in questa forbice che comprende alcune questioni fondamentali della storia novecentesca (e in fin dei conti costantemente tematizzate nell iconotestualità occidentale, per esempio il nesso morte/immagine) e, nel contempo, la costringe a confrontarsi con generi e forme che appaiono solo come effetti degradati della comunicazione di massa. Da ultimo si aggiunga che proprio i due media in questione hanno molti elementi in comune, spazi di enunciazione e di ricezione che si sovrappongono. Si pensi - ma è solo un esempio - al tema della intrinseca narratività (Baetens) della fotografia che implica un attenta considerazione del rapporto tra ciò che si vede (visibile) e ciò che si inferisce (invisibile) quando si guarda una fotografia o, come spesso accade, una sequenza di fotografie. E noto che le fotografie, come del resto già in passato alcuni prodotti figli della riproducibilità tecnica30, favoriscono le sequenze e dunque costringono il teorico ad 28 Che si applica a opere come L e M auvais ceil (1986) di Marie-Fran^oise Plissart e Benoit Peeters. 29 Tra questi fototesti teorici vanno ormai decisamente annoverate opere come la Kleine Geschichte der Photographie (di cui sarà necessario considerare l impaginazione originale come in Walter Benjamin, Petite histoire de la photographie, «Études photographique», 1, novembre 1996) o anche The M echanical Bride. Folklore o f Industriai M an (1952) di M arshall M cluhan (ora Corte M adera, Gingko Press, 2002) e ovviamente le opere di Bataille (soprattutto certe combinazioni epocali di «Documents», e Les Larm es de E ro s, ) o di André M alraux {Le M usée im aginaire, 1965). 30 Cfr. Bernard Dieterle, Erzàhlte Bilder. Zum narrativen Umgang m it G em àlden, Hitzeroth, M arburg 1988.

223 78 M IC H E L E CO M ETA occuparsi non solo di ciò che si vede ma anche dell intermezzo e degli spazi (apparentemente) vuoti che il lettore colma attivando memoria, fantasia, immaginazione etc. E, per converso, il discorso eminentemente letterario del momento pregnante che Lessing metteva al centro della sua riflessione sulla rappresentazione figurativa si applica con maggiore icasticità proprio alla fotografia. Per non parlare del fatto che la fotografia costitutivamente si pone sul discrimine di un endiadi che per la dimensione verbale è decisiva: quella tra fiction e non-fiction (il problema del referente e dell indessicalità della fotografia). E dunque non è un caso che tutti i discorsi sulla fototestualità siano percorsi da una tensione che comincia con Roland Barthes e si ripropone costantemente in tutta la letteratura autobiografica e nell autofiction, generi tutt altro che secondari nella letteratura contemporanea31. Retoriche del fototesto Uno studio che tenda a una tipologia e a una sistematica del fototesto non può oggi misconoscere le questioni centrali poste dalla Visual Culture contemporanea e dunque quel complesso interplay che organizza il rapporto tra immagine, dispositivo e sguardo32. Il fototesto declina a suo modo questi elementi di base, per cui sarà opportuno distinguere in via preliminare tra retoriche dello sguardo poiché l atto della fruizione è nel fototesto molto più complesso e variegato della sola lettura33, retoriche del layout, poiché la questione del supporto mediale, del dispositivo e dunque dell impaginazione è essenziale per comprendere il funzionamento dei fototesti, e retoriche dei parerga, poiché il sistema di integrazioni testuali dell immagine e di integrazioni visuali al testo rende la lettura del fototesto un esperienza molto più complessa di quella di un qualunque testo prevalentemente verbale. 31 Su questo cfr. infra il saggio di Roberta Coglitore, Le verità dell io fototesti autobiografici. 32 Su ciò mi permetto di rimandare al mio Archeologie del dispositivo. Regim i scopici della letteratura, Pellegrini, Cosenza Va da sé che nel contesto di un analisi della cultura visuale della letteratura nessun testo può prescindere dal suo layout grafico e da elementi non verbali che lo supportano e arricchiscono.

224 FORM E E RETORICHE DEL FOTOTESTO LETTERARIO 79 La teoria letteraria dovrà perciò tenere conto di conoscenze che le sono familiari, come le retoriche del testo - oggi comunque in costante arricchimento grazie alle prospettive aperte dagli studi cognitivisti, dalle teorie della performance etc. - ma anche di tutta una strumentazione che matura nel campo dello studio specifico delle retoriche dell immagine (fotografia) e, ancor più, delle incarnazioni specifiche che tali retoriche assumono nel paesaggio mediale. Dunque se ormai ci muoviamo con relativa agilità, anche dal punto di vista della letteratura, nel campo di una retorica dello sguardo e di una retorica dei parerga (del paratesto), lo stesso non può dirsi per quel che riguarda le retoriche del layout, sia per le loro specifiche connotazioni mediali, sia perché ci impegnano in una retorica del visuale che, nonostante pioneristici lavori, soprattutto nella tradizione semiotica, stenta a essere traghettata nei territori della teoria letteraria. Tuttavia è chiaro che è su questi tre piani che si dovrà articolare il discorso sui fototesti. In questa sede ci limiteremo a tratteggiare un agenda provvisoria e non esaustiva del tipo di conoscenze che devono convergere affinché si pongano le basi di una teoria della fototestualità. Una retorica dello sguardo dovrebbe infatti interrogarsi su tutte le implicazioni che lo sguardo fotografico può avere per la letteratura. Com è noto l invenzione della fotografia ha profondamente rivoluzionato i regimi scopici della modernità. Adesso, alle forme che la fotografia aveva ereditato e rielaborato dai regimi scopici precedenti - tutti introiettati e spesso a fondamento del lessico della teoria letteraria come prospettiva, punto di vista etc. - devono essere integrate nel discorso letterario nozioni che derivano dalla prassi fotografica e che hanno un loro evidente corrispettivo nella scrittura letteraria: il dettaglio, la messa a fuoco, il primo piano, lo sfocato, il blow up, il panorama, la dimensione istantanea, insomma tutte quelle forme del vedere che sono profondamente condizionate dal mezzo e che hanno subito una rivoluzione, tecnologica e ontologica, grazie alla fotografia. Per non parlare del profondo riesame cui vanno incontro alcune visioni classiche nella letteratura come il ritratto, la natura morta, il paesaggio che nell era fotografica non sono più quello che erano nell era, per esempio, della pittura classica. Che il dispositivo trasformi lo sguardo, fondamento teorico essenziale della Visual Culture contemporanea, è implicitamente confermato proprio dalla tematizzazione dei regimi scopici sviluppato nei fototesti che ovviamente sono ben consapevoli delle pratiche della visione

225 So M IC H E L E CO M ETA definitivamente a un unico punto cicco e muto. In effetti, dal mio letto non li poteva vedere del mondo nient'altro che il brandello incolore di ciclo racchiuso dentro la cornice della fincura. Il desiderio, già più volte affiorato nel cono della nomata. di potermi garantire con uno sguardo da quella finestra d'ospedale - stranamente velata da una rete nera - il possesso della realrà che temevo sfuggita per tempre, divenne coti forte al calar del crepuscolo che. dopo essere in qualche modo riuscito, per metà sulla pancia e per metà su un fianco, a scivolare dal bordo del letto sul pavimento e a raggiungere a quattro rampe la parete, nonostante i dolori causati da quello sforzo, mi misi in piedi aggrappandomi con fatica al davantale della finestra. Nella posizione contratta di una creatura che si 1 sollevata da terra per la prima volta, rimasi quindi in piedi appoggiato al vetro della finestra, e involontariamente mi trovai a ripensare alla scena in cui il povero (Jregnt. abbarbicandosi con le zampette tremanti al bracciolo della poltrona, spinge lo sguardo oltre la sua stanzetta nel ricordo confisso, come si dice, dcii'cffetto liberarono che un tempo aveva avuto su di lui il guardare dal Li finestra. E proprio come tiregor con gli occhi appannati non riconosceva più la Charlonrnurafie nella quale abitava da anni insieme ai tuoi genitori, c la vedeva come una grigia landa «lesena, anche a me riusciva del tutto estranea quella città ben nota che dai cottili drh'otpcdalc si estendeva ampia verso Poni zonte. Non riuscivo a immaginarmi che in quei susseguirsi di pareti, che là sotto si con fornirvi no luna nell'altra, si muovesse ancora qualcosa e credevo invece di osservare dall'alto di uno sroglio un mare di sassi o un campo di ciottoli, dal quale, sinuli a enormi massi erratici, si ergevano le sagome scure dei parcheggi a più piani. Nelle vicinanze, in quella tenue luce vespertina, non c era neppure l'ombra di un passante, eccettuata un'infermiera che proprio in quel momento si sava avviando attraverso le desolate aiuole «li fronte all'ingresso per prendete servizio od turno di notte. Un ambulanza, con b luce blu intermittmtc sul tetto, si avvicinavi Lenta «lai centro verso il pronto soccorso eseguendo divene curve. Il suono «Iella sirena non giungeva però fino a me. All'alterza a cui mi trovavo ero circondato da un elicono quasi totale, per coti dire artificiale. Sentivo solo b corrente d'aria che soffiava sulb campagna battere lieve fuori, contro b finestra, c «li tanto in unto, quando anche questo tumore cessava, solo il ronzio delle mie stesse orecchie che non (metteva mai del tutto. Oggi, mentre comincio a copiare in h d b i miei appunti a più di un anno di disunza dalla mia dimissione «bll ospedale. mi viene in mente quasi giocoforza che allora, mentre dall'ottavo piano «zsiervavo b città sprofondare sempre più nel- 9 Fig. i. messe in scena attraverso l uso di metapictnre}4. Come ha dimostrato W. J. T. Mitchell, le metapicture appaiono proprio quando ci troviamo di fronte a cambiamenti epocali delle nostre pratiche visive, i cosiddetti pictorial timi, poiché consentono di interrogarci sul dispositivo stesso (immagini come Las Meninas o Ceci n est pas ime pipe nella storia della pittura, o Picturefor Women di Jeff Wall e Self-Portrait with Wife and M odel di Helmut Newton nella storia della fotografia). E il caso della finestra albertiana che Winfried Georg Sebald decostruisce ironicamente proprio descrivendo una finestra scompostamente fotografata ne G li anelli di Saturno (Die Ringe des Saturn, z995)35 (% I )- Il setting è quello classico dell immobilità forzata in 34 Cfr. M. Cometa, Postfazione, in W. J. T. Mitchell, Pictorial Turn. Saggi di cultura visuale, a cura di M. Cometa, :duepunti, Palermo 2008, pp È appena il caso di ricordare che La camera chiara di Roland Barthes si apre con una polaroid di Daniel Boudinet che inquadra una finestra altrettanto crepuscolare. Cfr.

226 FORM E E RETORICHE DEL FOTOTESTO LETTERARIO 8 l una camera d ospedale - che conosciamo già in Hoffmann e Rilke, autori parecchio congeniali a Sebald36 - e che costringe il protagonista a osservare le nuvole attraverso questa buia finestra. Anche nel caso di Sebald si tratta di un occasione per denunciare l effetto di straniamento provocato dal più classico dei regimi della visione, la finestra albertiana appunto, non più in grado di restituire un paesaggio credibile: Il desiderio, già più volte affiorato nel corso della giornata, di poterm i garantire con uno sguardo da quella finestra d ospedale - stranam ente velata da una rete nera - il possesso della realtà che tem evo sfuggita per sem pre, divenne così forte al calar del crepuscolo che, dopo essere in qualche m odo riuscito, per m età sulla pancia e per m età su un fianco, a scivolare dal bordo del letto sul pavim ento e a raggiungere a q u attro zam pe la parete, nonostante i dolori causati da quello sforzo, m i m isi in piedi aggrappandom i a fatica al davanzale della finestra [...]. N o n riuscivo ad im m aginarm i che in quel susseguirsi di p a reti, che là sotto si confondevano l una nell altra, si m uovesse ancora qualcosa e credevo invece di osservare dall alto di uno scoglio un m are di sassi o un cam po di ciottoli, dal quale, simili a enorm i m assi erratici, si ergevano le sagom e scure dei parcheggi a più piani. N elle vicinanze, in quella tenue luce vespertina, non c era neppure l om bra di un passante??. La visione è dunque del tutto insoddisfacente e il vero senso del racconto non viene da essa, ma dal fatto che il protagonista (un alter ego di Sebald), rivedendo i propri appunti e descrivendo la finestra, decide di affidarsi ai ricordi perché comunque il dispositivo ottico non garantisce altro che una città «sprofondata nell oscurità». La finestra in questione, pubblicata in una fotografia scura e sghemba, mostra solo «il brandello incolore di cielo racchiuso dentro la cornice»38, sconfessando nella sua inutilità molti secoli di prospettiva (per altro enfatizzata dal reticolo che stranamente vela il vetro invece di dare adito alla visione). La presenza, a immediato R. Barthes, L a camera chiara. N ota sulla fotografìa, tr. it. di R. Guidieri, Einaudi, Torino 2003, tavola fuori testo. 36 Sul tema della finestra dalla quale si osserva la realtà, ormai immobilizzati da una malattia, si cfr. M. Cometa, A. M ontandon, Vedere. L o sguardo di E. T. A. H offm ann, :duepunti, Palermo 2009, passim. 37 Winfried G. Sebald, G li anelli di Saturno. Un pellegrinaggio in Inghilterra, tr. it. di A. Vigliani, Adelphi, M ilano , pp. 8 sgg. 38 Ivi, p. 8.

227 82 M IC H E L E CO M ETA ridosso di questo incipit, di alcune delle ékphrasis più suggestive di Sebald, quella della Vanitas con il teschio di Thomas Browne e, quella, davvero straordinaria, della Lezione di anatomia del dottor Tulp (163 2)39 di Rembrandt, non lascia alcun dubbio che in gioco è il regime scopico della prospettiva, come per altro dimostrano le numerose inquadrature prospettiche e le reiterate finestre e porte riprodotte tra le fotografie del libro. Una delle più forti manipolazioni dello sguardo in fotografia è dato dal rapporto tra sfocato/messa a fuoco e ancor più quello che è possibile costruire alternando ciò che si vede a ciò che si nasconde. Due esempi emblematici di queste retoriche si trovano nel seminale volume Sophie Calle. Suite veneziana. Jean Baudrillard. Ber favore seguimi {Sophie Calle. Suite Vénitienne. Jean Baudrillard. Please follow me, 1983) che già dal titolo sembra annunciare una simbiosi tra fotografia e testo del tutto particolare40. Il fototesto narra visivamente la storia dell inseguimento di un uomo (Henri B: sostanzialmente uno sconosciuto) tra le calli veneziane. Dopo averlo finalmente affrontato e accompagnato per un tratto sino a Piazza S. Marco l uomo si congeda improvvisamente e senza ragione negando esplicitamente a Sophie Calle un ultima fotografia, poiché si nasconde il volto con la mano. La foto è sfocata, e certo non casualmente, come la foto che ritrae l uomo di spalle mentre si allontana, una posa a cui siamo abituati da numerose immagini precedenti. La storia ci parla anche attraverso questa sequenza di sfocature che ovviamente sono il simbolo di una storia che appunto non si mette mai a fuoco, che non si trasforma - come auspica lo stesso Baudrillard - in una storia di amore o di sesso, né in un giallo, semmai, appunto in una cancellazione sistematica delle tracce dell involontario protagonista, in una dematerializzazione che l ultima fotografia, presa da molto lontano, sembra confermare. Ancora più radicale è la trasformazione che all iconotestualità pongono le retoriche del layout41 che attengono a fenomeni come l impaginazione, ma spesso anche a strategie che si svolgono fuori della pagina. 39 Ivi, pp- 15 sgg. 40 Sophie Calle, Suite Vénitienne. Jean Baudrillard. Please fo llo w me, Éditions de l Étoile - Cahiers du cinéma, Paris Citiamo dalla traduzione inglese di D. Barsh e D. Hatfield, Bay Press, Seattle Cfr. A. M ontandoti (a cura di), Iconotextes, cit., p. 7.

228 FORM E E RETORICHE DEL FOTOTESTO LETTERARIO 83 È chiaro che la fotografia ha radicalmente trasformato lo stesso formato del libro a stampa, ha introdotto sulla pagina prassi che erano relativamente estranee alla letteratura (collage, montage), ha, soprattutto, costruito una sintassi completamente originale per quel che riguarda i rapporti tra unità testuali e le unità visuali (relazioni tra testo e immagine: contiguità, nessuna relazione, libera associazione etc.). Compito di una retorica dell immagine oggi non è però solo quello di definire i rapporti tra testo e immagine, tra didascalia e foto, un percorso avviato sin dai tempi di Barthes, ma di studiare i rapporti che si creano tra immagine e immagine, a prescindere dal testo. Un autore che ha dedicato particolare attenzione al layout del proprio fototesto è Lalla Romano. Basti pensare alla costante opera di riadattamento cui sottopone uno dei fototesti più importanti del Novecento, la Lettura di un immagine (1975) poi ripubblicato nel 1986 con il titolo, ancora più significativo, di Romanzo di figure e, infine, ripreso in N uovo romanzo di figure ( 1997)42. In questa sede ci concentreremo sulla questione del layout, per quanto questi fototesti meritino una particolare attenzione sia dal punto di vista teorico - sottolineato dalla stessa autrice in due fondamentali premesse al lavoro - sia da quello più specificatamente poetico, giacché vi troviamo declinate alcune modalità essenziali della scrittura ecfrastica. I due fototesti della Romano mostrano inoltre, in maniera esemplare, la reversibilità già pensata da Barthes tra testo e illustrazione. Alternativamente il testo e l immagine assumono i caratteri di descrizione e di esemplificazione senza che si possa decidere se il testo illustra l immagine o l immagine commenta il testo. La stessa autrice, provocatoriamente, tende a capovolgere i normali rapporti tra testo e fotografia quando scrive: «in questo libro le immagini sono il testo e lo scritto un illustrazione»43 e insiste sulla priorità della fotografia, del resto opera unica dell amato padre. Non per questo il testo può essere trascurato. Non solo rappresenta in sé uno dei vertici della scrittura di Lalla Romano tra memoria individuale e sociale, ma ha esplicitamente la funzione di «fermare un poco l attenzione»44 dei lettori altrimenti poco abituati a soffermarsi su di un immagine. M a 42 Cfr. infra il saggio di Novella Primo, Fototesti di famiglia. Ritratti e paesaggi nel Nuovo romanzo di figure di Lalla Romano. 43 Lalla Rom ano, Lettura di un im m agine, Einaudi, Torino , p. IX. 44 Ibid.

229 84 M IC H E L E CO M ETA - immagine «nuova» di Id - il tornio i a peno, qujti un rito, gli ocdn icnu malinconia - la bambina è tutt'uno eoo lo - il balcone dava Milla valle, aveva il iole al maltinti - loco (moglie e bambina) tono accolte, protette, nella caia aerea, mio Li letta di lei temuta il tonile ma (ermo riparo(aimbotico della ringhiera lineare - lo tuie è quello d x va da Renoir e Moneti a Mutue - la m uglia a righe, huninoie nel controluce, il hocco lui capelli acompoai - il ddhabillé è un motivo (pittorico di naturalezza vitto, vale a dire: errato - (il taglio in forma di tavolozza è nel ginto d'epoca) - Fig. 2. tra la prima versione del libro e la seconda assistiamo a una rivoluzione nel layout che la stessa autrice considera «certamente migliore» perché non solo rispetta l originale lastra ma rende «ora veramente leggibili anche visualmente»45 le fotografie. Nella prima versione si trattava infatti di cartoline tratte dalle lastre del padre, che erano state opportunamente tagliate con il tipico arrotondamento degli angoli e risultavano comunque più scure. Il fortunato ritrovamento delle lastre originali aveva permesso di riprodurle con maggiore efficacia, di arricchire il percorso narrativo con nuove immagini e di rendere un omaggio ancora più netto al vero autore della storia familiare della Romano, il padre. Tuttavia il feticismo dell originale produce degli innegabili vantaggi ma anche delle perdite. Innanzitutto stravolge interamente il senso delle fotografie il cui ritaglio aveva spesso prodotto modificazioni notevoli. Il caso più eclatante è quello della foto della madre che tiene in braccio la piccola Lalla sulla soglia di un ampia finestra che dà sulla valle (fig. 2). 45 Lalla Romano, Romanzo di figure, Einaudi, Torino 1986, p. VII.

230 FORM E E RETORICHE DEL FOTOTESTO LETTERARIO 85 In Lettura di un immagine, il testo del 19 75, «il taglio in forma di tavolozza è nel gusto dell epoca»46, come riporta il testo, ma certamente stravolge la foto, obliterando l ampia finestra e soprattutto la tenda che, secondo un topos della pittura - si pensi a Vermeer - presenta la scena come una ri-velazione. Il recupero delle lastre originali, non tagliate per la pubblicazione come nella prima edizione, produce effetti del tutto diversi: fa sì che alcune vengano impaginate in orizzontale e così il lettore della seconda versione è costretto a ruotare il libro e invertire l immagine rispetto all orientamento del testo. In compenso molte foto acquistano nel loro taglio originale profondità e nuovi significati, focalizzazioni diverse, e un originalità che spesso si fonda sui loro naturali difetti (sfocato, fuori fuoco, inclinazioni etc.). E il caso della foto del cacciatore47 che, interamente riprodotta, mostra una straordinaria sfocatura sul lato sinistro, una sorta di geiser che rende l immagine surreale. In generale si può dire che la versione originale delle lastre denuncia tutte le smagliature delle fotografie, non più occultate attraverso tagli e oscuramenti. Già la semplice rotazione delle immagini contribuisce a dare una sorta di effetto di straniamento a foto apparentemente solo familiari. Il cielo si riprende il suo spazio, anche le architetture; le strade costituiscono fughe prospettiche più profonde; al bianco viene infine restituita la sua luminosità (dettaglio non trascurabile se si pensa ai numerosi ritratti di bambini vestiti di bianco o alle nevi presenti nel fototesto). Gli esempi di intervento sul layout anche a questo livello elementare si potrebbero moltiplicare. Vi è però un uso del layout che fa leva su tropi ben noti alla retorica classica e che sono direttamente applicabili alle immagini. Si pensi all effetto-sineddoche che Monika Maron applica sistematicamente alle foto nel suo romanzo L e lettere di Pawel {Pawels Briefe, r999), inquadrando un particolare della foto che normalmente viene riprodotta qualche pagina prima o, come nel caso qui riportato (fig. 3) nella pagina a fronte. Naturalmente gli autori non sempre dichiarano tali effetti di reframing48, di incorniciamento o di blow up. Il contrario è piuttosto *6 Ibid. 47 Ivi, p Qualunque fotografia non appena viene utilizzata in un testo subisce comunque un reframing a prescindere dai tagli che subisce. Un esempio molto convincente è quello

231 86 M IC H E L E CO M ETA lu n ln iu v n balte, tamil tir tich ri* nrn Hubikapf «chnridm Lwrn tu.mi ir. Damali warm «r ah drr Hrttxh «ut drr S u d i grluimnirn, alt dar Vrr- Mandini, dir n graditili haltrn Jrt/i lumini tir ah Vrttrirbrar. dir ( Mutai h «d u r a. E t iti Somme». M n n Grottvatrr hai fu» m n n r G ratìm u nrr rinrn Siuhl hmirr dat H aui frtrajjrn. D m Ja h tr tpalrr wird r r dat an trtnr Kinder n h rrib ra.»... habr ufi m irh dir T ig r /m in *rfrrut. «iolt M ania ui d m w ar- rara und *onni*rn T a g ra tirh umt lla u t crging. li h lialir ihr rin rn Sch rairl Iunior tirili, in drr Sunne ni «tl/rn A u f d in e W riar «laular ich. n in i tir w ird rr /u «a r a ani.imeni nnd rt «rtrd Iirttrr w rrdra l'n d an ri* nrm «aldini T ag grgrn Atirnd. a b M a n u Rrradr draudra vtar. Luti d rr vrrhangnnvuue Ruf, iiach BekhaioM ru grh rn.* Aber nnch iti ct d r r J u S M n n r G m llrltrm und vi w d rri ode» (imi m iri «rrht l a g n i in K u n m ange* knmmrn. Ihnrn u rlx a rn / u r i SthlabirU rn in Jad iti* gai Urinrra lla u t und dir R im iri in ihrrn K o flrm Fa u ri lu i Tur trin r Erau rinrn S d ir a ir l adrr ritm i Sm lil hmtrr «lat lla u t grtragi!i M n n r GroUmuttrr urhi uhrr dat ahgrrm tetr Frld hintrr Ja d w ig a i H am odrr 111 d m Hinim rl o d rr au f dir tandigr Erde /u ihrrn Fulirn. Da «itzt tir nini w irdrr in drm Duri, fiat ó r ab junge* Madi lira t n l a u r a lu i. a h galten alir A m tirngungru d rr \ rigai igrnm Ja lin r h n tr «min», alt lu i In i dir vtrn m ddm Bix Ja h r r in Brriin ilinra n kln rugruam irn, ah grhortrn tir und ihr M ann nichi rin n u l m rhr zu drn cigrn m K indrni. Wrint ile/ O d rr lirtct tir/ tragt ur ihrrn G oti, tornili tir che* tr Serale vrrdirnt h ai/ Hackrrt \irurtcht. nur lùr ritira rinzigrn kurrrn Augrablirk. drr G rd an kr auf. dall «t tirlln rh t ikn h n u r Siuulr ttar, rin rn Ju d rn zu h fin u ru ' Ju t r lu, u iji m n n G m ltvalrr W at».igt rr n o d i/ \Vat lunn rr, drr ut h ah W ru n arh rr ihrrt l nghk kt futili, ihr «agni/ J rad ia, tagt m n n G m fh a lcr. dir Rim lrr Urrrdni liakl u lim im i. lui A u fu ti rrhirh H rlla dir Eriaubim drr ZoUbrliordr. ihrrn Eltrn i d rn llau w ai tu rh /rac hit krn. dir Nah* n u v hm r. dir lln irn. da» G n rh irt. dir W a u h r M rhr alt dir M ittrihing. «Lift tir thr K ra h igu i in Em pia 113 n rhm rn luinnirn, lu lm i Pattrl und Jo trfa (Livon nirht tvirdrr gihrhrr» In/wMrhrn ttar K n rg und d rr Z u *. in d o n u d ì allrt brfand, ttorauf ó r ihr la-hrn in Kurrm hattra lirgnmden tvuilrn. tturdr grpiunck M. Ini O khilirr irh rirb H d la on itirr Khrrti:»Ea ut naturik h argrriirh nul drn vriwwrngrgangrnrn Sanim i, alirr G oti tri Dank, uinl S a d tm krin Irbrn drt W rtrn. «ondrrn iute G egrm tan dr > Fig- 3 - la norma come dimostra il celeberrimo caso della copertina di Storia naturale della distruzione {Luftkrieg und Literatur, 2001) di Sebald già rilevato da molti commentatori49. Inutile insistere sul fatto che gli effetti del layout sul lettore possono essere molteplici: il layout della forma-emblema, come vedremo, tende a guidare il lettore, un esempio sono gli emblemi de L abicì della guerra di Brecht. M a ci sono layout che programmaticamente si affidano a un ritmo puramente visivo che per così dire costruisce uno spettatore costringendolo a ritessere una narrazione a partire dalle offerto nello splendido libro di Frédéric Rousseau, II bambino di Varsavia. Storia di una fotografia, Laterza, Roma, che molto ha da insegnare sulla manipolazione e rimpaginazione di un immagine per quanto l obiettivo del libro sia soprattutto una teoria della memoria storica. 49 Su Sebald si veda almeno Jonathan J. Long, W. G. Sebald. Image, Archine, Modernity, Edinburgh University Press, Edinburgh 2007.

232 FORM E E RETORICHE DEL FOTOTESTO LETTERARIO 87 sole immagini. Un esempio relativamente puro è quello costituito dal fototesto di Maria-Franqois Plissart e Benoit Peeters, Il malocchio {Le Mauvais ceil, 1986), uno degli archetipi del genere, più volte studiato da Jan Baetens5. All assoluta libertà del fruitore si oppone una sorta di libertà condizionata, ovvero quel sistema di inter-referenze che viene prediletto anche da Sebald. Nei suoi fototesti le immagini sono disposte liberamente con scarse o nulle relazioni con il testo che le circonda, o comunque con referenze che presuppongono un attività intensa del lettore e non sono sottolineate né dalla cronologia naturale della narrazione né tantomeno da didascalie e altri apparati paratestuali. Il lettore deve semplicemente abbandonarsi al flusso delle immagini che scorrono come in sovraimpressione sul/accanto al testo. Una tecnica esplicitamente adottata anche da Elio Vittorini in Conversazione in Sicilia (1953): Potrei dire, insom m a, che ho fatto scorrere, alm eno a sfondo, nella «colonna illustrativa», la stoffa di pezza da cui tan ti anni prim a avevo tagliato fuori le figure del testo. Ve l ho fatta scorrere, ve l ho sv en to lata... ed è stato strao rd in ario accorgerm i che quelle im m agini di tan ti anni prim a rientravano quasi perfettam ente nel disegno della stoffa com e se ne fossero state tagliate fuori solo alla vigilia51. Nel caso del layout bisognerà costruire una tipologia che tenga conto delle possibili relazioni tra testo e immagine (inserto dell immagine nel testo, interdipendenza, interruzione etc.), ma anche di scelte che sono prima di tutto fotografiche, come l effetto zoom privilegiato da Monika Maron nelle già citate Le lettere di Pawel o il montage, prediletto da Rolf Dieter Brinkmann. E evidente che queste scelte implicano una molteplicità di sguardi (non ultimi quelli del lettore che è parte attiva nella ricostruzione dell enunciato)52 e una complessa negoziazione 50 J. Baetens, The Intermediate D om ain, or thè Photographie N o vel and thè Problem o f Vaine, «Criticai Inquiry», 15.2, 1989, pp Elio Vittorini, La foto strizza l occhio alla pagina, in Id., Lettere , a cura di E. Esposito e C. M inoia, Einaudi, Torino 2006, p Per altre considerazioni rimandiamo a M argherita Di Fazio, Scrittura e fotografìa - fotografìa e scrittura. D ue percorsi a confronto, in B. Donatelli (a cura di), Bianco e nero. N ero su bianco. Tra fotografìa e scrittura, cit., pp Scrive opportunamente Alain Montandon: «Cos è un effetto ico no testuale? È innanzitutto un effetto di lettura. Per indicare la relazione dinamica del funzionamento del testo-immagine abbiamo fatto ricorso al tema dell intreccio, della maglia e della rete» (A. Montandon, Présentation, in Id. (a cura di), Iconotextes, cit., p. 6).

233 8 8 M IC H E L E CO M ETA tra immagine reale e immagine mentale (memoria) nello scrittore così come nel fotografo e, in ultima istanza, nel lettore53. Naturalmente l uso dell immagine fotografica non si limita all uso di foto propriamente dette: media verbali come le lettere, le ricette, gli stessi manoscritti, il retro di cartoline postali, insomma tutto l ampio repertorio del verbale fotografato e fotografabile può essere inserito in un fototesto per creare straordinari effetti di straniamento. Già un incunabulo dei fototesti come Nadja (1928) di André Breton riportava fotografie di materiali verbali a stampa, ma soprattutto testi manoscritti come quello che riguarda il Théàtre Moderne54. L inserimento di foto di manoscritti, di scrittura, sia essa dello stesso autore sia di altra provenienza diviene una tecnica molto frequentata e con innumerevoli varianti. Si pensi agli inserti dattiloscritti di Rolf Brinkmann in capolavori della fototestualità come Tagli {Schnitte, 1973) o Roma, sguardi {Rom, Blicke, 1979), dove per altro non mancano «ritagli» (cut material)55 tratti da giornali, riviste e altre scritture a stampa, dattiloscritte e manoscritte. Un gioco di rifrazioni che scardina radicalmente le nostre sicurezze autoriali e rende la fruizione un costante spostamento nel tempo. Ancora più significativi, come abbiamo già avuto modo di vedere a proposito dei fototesti di Lalla Romano, sono gli stimoli performativi che la presenza dell immagine/testo ha dato alla fruizione: ruotare il libro, sfogliare, invertire il senso della lettura etc.). Un caso tra i più emblematici è certamente il flipbook che Jonathan Safran Foer pone alla fine di Molto forte, incredibilmente vicino {Extremely L ou d and Incredibly Close, 2005), uno dei più significativi fototesti contemporanei, costringendo letteralmente il lettore a far scorrere tra le dita le ultime pagine del libro e facendo sì che il celebre fading man delle Torri gemelle si muova sotto i nostri occhi. Giungiamo così, infine, alle retoriche dei parerga, parte fondamentale del dispositivo comunicativo di un fototesto giacché, come abbiamo ricordato, è impossibile distinguere nella sua fruizione, l atto della visio 53 La dimensione fototestuale è assolutamente centrale nel dibattito sulla post-m em ory e, più in generale, nelle questioni che riguardano l attualizzazione dei traumi privati e collettivi del Novecento. Si veda innanzitutto M arianne Hirsch, The Generation o f Postmem ory, «Poetics Today», 2 9.1, 2008, pp André Breton, N adja, Gallim ard, Paris , tr. it. di G. Falzoni, Einaudi, Torino 2007, pp. 27 sgg. 55 R olf D. Brinkmann, Schnitte, Rowohlt, Reinbeck bei Hamburg 1988, p. 158.

234 FORM E E RETORICHE DEL FOTOTESTO LETTERARIO 89 ne dall atto della lettura e dunque immagine e parerga collaborano strettamente, sia che li si consideri sul piano visuale sia su quello testuale. I teorici della fotografia ben sanno come ogni immagine sia assediata da contesti verbali a prescindere dalla loro compresenza sulla pagina. M a a maggior ragione si dovranno stabilire le retoriche che fanno funzionare i rapporti tra immagini e testo sotto forma di titoli, didascalie, note, firme, appendici, commenti, indici, legende etc. Il libro fotografico di per sé reclama un titolo, un indice e una nota esplicativa sui luoghi, i tempi, gli attori. Tutto questo nei fototesti ha portato di norma a quella che Jonathan Long, studiando L Abicì della guerra di Brecht, ha chiamato icasticamente «profusione paratestuale». E una profusione che determina gran parte delle sperimentazioni novecentesche e che certamente incarna un aspetto essenziale della collaborazione/contesa tra fotografia e testo. L A bicì della guerra costituisce infatti una sorta di propedeutica per una costruenda retorica dei parerga. Proprio alla sua profusione paratestuale sono affidate tutte quelle pratiche di resistenza, contraddizione ed enfasi che caratterizzano il rapporto immagine/testo nei fototesti. Vedremo più avanti come molti tropi classici siano facilmente applicabili agli emblemi presenti ne L Abicì della guerra che seguono, come è stato ampiamente studiato, gli schemi dell epigrammatica classica56. Tuttavia Andrea Zinn ha proposto un modo innovativo per descrivere il funzionamento dei parerga che ci permette di aggiornare le nostre cognizioni retoriche. Per esempio distingue quattro modalità di rapporto tra parergon testuale e immagine: Bildzerschlagung, Bildbemàchtigung, Bildmissachtung, Bildlòschung, che potremmo imperfettamente tradurre con iconoclastia, intensificazione/potenziamento dell immagine, contraddizione/irriverenza/violazione/disprezzo dell immagine e annientamento/cancellazione dell immagine. In effetti basta prendere in considerazione alcuni emblemi de L abicì della guerra per rendersi conto che il testo si comporta seguendo questi schemi. Nel primo emblema, che riproduce un tumulo per un milite ignoto (Ynconnu)57, il testo, una prosopopea classica, tipica dell epigrammatica, riproduce le parole del caduto che maledice Hit 56 Cfr. infra il saggio di Francesca Tucci, «L arte di leggere le im m agini». L Abicì della guerra di Bertolt Brecht, pp Bertolt Brecht, Kriegsfibel, Eulenspiegel Verlag, Berlin 2008, pp ; tr. it. di R. Fertonani, L abicì della guerra, Einaudi, Torino , p. 1 1.

235 90 M IC H E L E CO M ETA ler e nega nel contempo l immagine affermando che «solo la Loira/ sa dove sono adesso e poi un grillo»58 svuotando di senso proprio l immagine della croce e della tomba. Un esempio di intensificazione dell immagine è invece l apparente paesaggio idilliaco rappresentato dalle acque del Kattegatt59 dove trovarono la morte ben ottomila soldati, un informazione che rende drammatica e cambia radicalmente di segno le spume bianche dello stretto. In uno degli emblemi più complessi e più riusciti de L Abicì della guerra la inscriptio invece contraddice radicalmente l immagine allorché la scritta Life della famosa rivista illustrata americana si oppone ironicamente e tragicamente alla reale condizione di sepolti vivi in cui sono costrette le popolazioni civili del Siam (Tailandia) durante i bombardamenti60. Un caso di cancellazione paradossale dell immagine è, infine, quello in cui un testo - lo abbiamo visto già in Karl Kraus - si sostituisce all immagine, come quando Brecht pone come pictura dell emblema un incomprensibile ritaglio da un giornale danese che riporta una notizia di guerra (sulla partecipazione della Chiesa cattolica alla guerra)61. Il testo non solo prende il posto dell immagine ma di fatto viene ridotto a immagine per via della lingua certo di non comune dominio nemmeno per i tedeschi, tanto è vero che nella pagina a fronte Brecht si sente in dovere di darne la traduzione tedesca. L unicità di questo emblema (s)figurato rende l operazione brechtiana tanto più significativa e la colloca in una tradizione di immagini negate, e solitamente sostituite proprio da un testo, che, come abbiamo ricordato si è costantemente riproposta nella storia dei fototesti. I parerga nei fototesti non vanno per altro considerati come meri elementi testuali (vi sono ovviamente anche parerga grafici, ma nei fototesti sono un eccezione) poiché giocano un ruolo decisivo nella costituzione complessiva del layout e dunque concorrono alle sue retoriche. Si pensi per esempio alle relazioni che si instaurano tra didascalia e immagine e più in generale tra testo (sia esso didascalia, epigramma, commento etc.) e fotografia. Chiara è la tendenza, soprattutto nei primi fototesti fortemente influenzati dall impaginazione giornalistica a far sì che le didascalie e i testi si sovrappongano all immagine che solo 58 Ibid. 59 B. Brecht, Kriegsfìbel, cit., pp Ivi, pp Ivi, pp

236 FORM E E RETORICHE DEL FOTOTESTO LETTERARIO 91 apparentemente risultata limitata da questa invadenza. Semmai l immagine ne esce rafforzata poiché si dispiega a tutta pagina. E il caso del fototesto di guerra Alleanze con la Morte {Covenants with Death, 1934) di Terence A. Innes e Ivor Castle, risposta inglese ai celeberrimi fototesti di Ernst Jiinger e di Ernst Friedrich, in cui le didascalie appaiono sempre dentro l immagine in sovraimpressione o sono semplicemente poggiate come fossero dei ritagli di giornale. Una tecnica ripresa anche da Brecht ne L Abicì della guerra, per esempio nella didascalia in danese che narra dei bombardamenti inglesi sulle città tedesche. M a non sempre si tratta di didascalie poggiate sull immagine. Spesso l immagine è solo lo sfondo per la pubblicazione di testi cui si intende dare particolare importanza, soprattutto liriche ed epigrammi. Brecht ne è il prototipo, ma vai la pena di ricordare qui le provocatorie photo-lyrics - un genere originale di fototesto - di Godzilla (1968)62, una delle prime raccolte pop di Brinkmann. Sullo sfondo di immagini di donne in costume o in reggiseno e mutandine, che oggi ci appaiono caste ma che, grazie ai testi, sfiorano a più riprese la pornografia, Brinkmann inscrive le sue liriche curando attentamente la disposizione del testo all interno dei corpi (fig. 4) con un procedimento che riproduce perfettamente gli effetti che la poesia visiva, medievale e moderna, intendeva produrre associando testi e parte di testi alle immagini. Si pensi - senza che il paragone suoni blasfemo - alle sovrapposizioni di parole nei corpi degli oranti del Liber de laudibus Sanctae Crucis (810 ca.) di Rabano Mauro, o a quelle che letteralmente descrivono il corpo di Cristo in croce in uno straordinario Bildgedicht di Catharina von Greiffenberg, Su Gesù crocifisso {tìber den gekreuzigten JESU S, 1662), dove la parola Herz (cuore) è nella posizione occupata dall organo e così le ferite, le mani crocifisse etc. Il paragone sembrerà irriverente se non blasfemo, ma si legga l allusione ad Abelardo che Brinkmann pone ad epigrafe delle poesie per trovare conferma del fatto che Brinkmann è ben consapevole di questa tradizione. Dunque nel caso del fototesto si tratta di tenere costantemente presente la dimensione mediale già di per sé doppia (la forma libro e il medium fotografico) da cui discendono alcune questioni essenziali come quella del layout e del reframing, ma soprattutto la questione 62 R. Brinkmann, Standphotos. Gedichte , Rowohlt, Reinbeck bei Ham burg , pp

237 9Z M IC H E L E CO M ETA Fig- 4- dell autore/degli autori che possono coincidere (come nel caso paradigmatico di Wright Morris), ma anche programmaticamente essere diversi (come nel caso di Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini e Luigi Crocenzi), ovvero essere il prodotto di ibridazioni più sottili e complesse, com è il caso del riuso di foto casuali (Brecht, Brinkmann, Kluge, Cortàzar) o deliberatamente anonime (Sebald). L e form e dei fototesti: emblema, atlante, libro illustrato La mia passione per l emblematica... Non c è dubbio che fra le illustrazioni dei vecchi libri per bambini e quelle dell emblematica esistono molteplici rapporti. Walter Benjamin E giunto dunque il momento di tentare una prima tipologia del fototesto letterario che, viste le premesse, non potrà che attingere a un

238 FORM E E RETORICHE DEL FOTOTESTO LETTERARIO 93 repertorio molto complesso di soluzioni stilistiche e varianti testuali (dalla semplice didascalia/epigramma all ékpbrasis diffusa). In via del tutto provvisoria sarà opportuno distinguere tre modalità di costruzione in quello che Silke Horstkotte, una delle prime autrici a interessarsi al fototesto, ha definito uno «spazio di rappresentazione diviso» (fissured representational space)63: la forma-emblema, la forma-atlante e la forma-illustrazione. Queste tre modalità, più che forme o generi compiuti in se stessi, vengono costantemente rimodulate e ricombinate nelle sperimentazioni fototestuali. E certamente stabiliscono tra di loro relazioni che non si cristallizzano mai in forme fisse. Tutte e tre queste forme, quasi mai presenti allo stato puro nei fototesti novecenteschi che invece ampiamente si fondano su contaminazioni e ibridazioni tra di esse, vanno considerate come idealtipi e possono vantare ognuna una lunga e secolare tradizione se si prescinde ovviamente dall uso della fotografia. Appare tuttavia immediatamente chiaro che se la pictura si trasforma in immagine fotografica, le relazioni tra questa e le parti testuali e/o visive, resistono al cambiamento mediale. Emblema, atlante e libro illustrato sono dispositivi che la fotografia ha semmai arricchito e rifunzionalizzato costantemente. La forma-emblema, per esempio, è significazione (spesso enigmatica) in cui prevale il ruolo dell autore (o degli autori) e una retorica dello scambio tra le varie parti che costringe il lettore a una lettura/visione monodirezionale ancorché tripartita (inscriptio, pictura, subscriptio). Come nell emblema classico il fototesto cerca di produrre effetti di lettura programmati, ancorché non univoci, come dimostra, per esempio, uno degli incunaboli della fototestualità novecentesca frutto della straordinaria collaborazione di Erskine Caldwell e della fotografa Margaret Bourke-White, Voi avete visto i loro volti {You Have Seen Their Faces, 19 37)64. E tipico della tradizione emblematica fare scaturire il significato dall accostamento delle tre componenti più che dalle singole componenti prese di per sé. Ed è significativo che si insista sul significato non referenziale delle fotografie. 63 Silke Horstkotte, Photo-text Topographies. Photography and thè Representation o f Space in W. G. Sebald and M onika M aron, «Poetics Today», 2 9.1, 2008, p. 73. Della stessa autrice si veda il saggio a quattro mani con N ancy Pedri nello stesso fascicolo della rivista, alle pp Erskine Caldwell, M argaret Bourke-White, You Have Seen Their faces, Brown Trasher Book-University of Georgia Press, Athens-London 1995.

239 9 4 M IC H E L E CO M ETA La forma-illustrazione propone invece la visualizzazione di un testo; essa è qualcosa di specularmente opposto all ékpbrasis che tradizionalmente è la narrativizzazione di un immagine65. In un certo senso si potrebbe dire che la forma-illustrazione riconduce il testo alla sua immagine originaria, facendo dell eventuale ékphrasis, disponibile sul piano verbale, il necessario programma dell immagine. La fototestualità giornalistica ci ha abituati a questi effetti di lettura (l illustrazione di una narrazione) e molto spesso infatti l ispirazione originaria dei fototesti sta proprio nelle sperimentazioni del fotogiornalismo novecentesco. Per ultima la forma-atlante, un dispositivo che precede ampiamente l invenzione della fotografia66, ma che nella fotografia ha trovato uno strumento che ha reso virtualmente infinita la manipolazione (e la combinatoria) delle immagini, soprattutto nell epoca della riproducibilità tecnica e delle tecnologie digitali. La formaatlante è significazione diffusa (più istanze autoriali o anonimia) in cui senz altro prevale il ruolo della ricezione, chiamata a organizzare autonomamente il senso, attraverso letture sempre più complesse e comunque multidirezionali67. Questo vale per le forme più estreme di album, come i collage di Rolf Brinkmann che dispongono sulla pagina materiali eterogenei e che inducono a letture multiple in cui il ruolo dell autore si riduce a quello di motore immobile della diegesi ma anche per le costruzioni apparentemente autoriali di testi come quelli di Roland Barthes che mirano esplicitamente a negare l autore e a produrre segni scuciti e affidati alla pura lettura. N ell Impero dei segni si legge programmaticamente: «Il testo non commenta le immagini. Le immagini non illustrano il testo : ognuna è stata per me soltanto l inizio di un vacillamento visivo, analogo probabilmente alla perdita di sensi che lo Zen chiama un satori; testo e immagini, nel loro intreccio, vogliono assicurare la circolazione, lo scambio di questi significanti: il corpo, il viso, la scrittura, e leggervi il distacco dei segni»68. M a vale anche per costruzioni dialogiche come quelle di 65 Cfr. M. Cometa, L a scrittura delle immagini. Letteratura e cultura visuale, Cortina, M ilano , passim. 66 Cfr. Georges Didi-Hubermann, Atlas. Cóm o llevar el mundo a cu e stasi, Museo Nacional Centre de Arte Reina Sofia, M adrid Nell emblema prevale dunque la sintassi mentre nell atlante la paratassi e la compilatio. 68 R. Barthes, L em pire des signes, Skira, Paris , tr. it. di M. Vallora, L im pero dei segni, Einaudi, Torino , p. 3.

240 FORM E E RETORICHE DEL FOTOTESTO LETTERARIO 95 James Agee e Walker Evans in Sia lode ora agli uomini di fama {Let us now Praise Famous Men, )69 che lasciano al lettore l ultima parola sul significato. E forse sarà opportuno non trascurare la bussola del patto con il lettore che certamente ogni fototesto instaura, come del resto tutte le altre forme di collaborazione tra testo e immagine, dagli iconotesti agli iconismi, fino all ékpbrasis. E infatti evidente che l illustrazione, soprattutto quando il testo si fonda su di un ékpbrasis diretta, è quella che richiede il grado più basso di partecipazione del lettore, mentre la tripartizione dell emblema produce uno spazio più ampio per la ricezione, anche se guidata da una volontà autoriale per lo più riconoscibile (l intento morale o didattico dell autore indirizza comunque la lettura). L atlante è invece il dispositivo che riduce al minimo la volontà autoriale e crea un campo di tensioni semantiche in cui il lettore può - se vuole - giocare un ruolo più determinante, come dimostra il fatto che è questa una delle forme predilette delle avanguardie novecentesche. M a il punto è che nella prassi fototestuale queste modalità risultano costantemente ibridate e prevalgono di volta in volta in relazione ai contesti culturali e mediali in cui si muovono. Non sarà difficile, per esempio, dimostrare che la fototestualità del Novecento è stata e continua a essere essenzialmente un emblematica. Ciò non dipende tanto e solamente dal peso della tradizione, quanto dalle abitudini di lettura che, nonostante tutto, assorbiamo dal contesto mediale in cui ci troviamo. Mentre la forma-atlante, plausibilmente, finirà per prevalere nelle generazioni che sono cresciute all ombra dell ipertesto ed è già stata adeguatamente proposta nelle più ardite sperimentazioni teoriche e artistiche del Novecento, da Aby Warburg a Gerhard Richter. Sarà opportuno dunque considerare queste tre forme come dominanti che di volta in volta entrano in gioco, anche perché non può sfuggire il fatto che in tutti e tre i casi ci muoviamo sull impercettibile discrimine che separa retoriche grafiche e retoriche verbali, tra i territori del layout e delle impaginazioni, le cui retoriche sono ancora difficili da dipanare, e territori della retorica classica, aggiornata però con le indicazioni che ci vengono sul piano della ricezione, 69 Cfr. infra il saggio di Emanuele Crescimanno, Sia lode ora agli uomini di fam a: un reportage verbale e fotografico.

241 96 M IC H E L E CO M ETA dunque delle retoriche della lettura, e sul piano mediale, delle tecnologie coinvolte. Dunque si tratta di almeno due livelli ben distinti, le cui componenti tendono a comporsi chimicamente di modo che, come abbiamo già ricordato, è del tutto fuorviarne cercare forme e retoriche pure (se mai si sono date in letteratura) studiando i casi reali. Ci limiteremo, nelle riflessioni che seguono, a segnalare alcune di queste esperienze, cercando di non perdere di vista le ibridazioni tra questi modelli. La forma-emblema classica si ricollega ovviamente al modello barocco che prevede la giustapposizione tra una inscriptio (un titolo), una pictura (la foto stessa) e una subscriptio (un epigramma, sentenza o commento che si riferisce in maniera più o meno criptica ed enigmatica ai primi due elementi)70. Si tratta di una forma dialogica per definizione, in cui l equilibrio tra testo e immagine ha contribuito non poco al suo successo e alla sua durata71. Questa tripartizione non ha caratteri meramente illustrativi o didascalici (nonostante le apparenze) ma, semmai, mira a effetti di senso enigmatici, in cui molto forte è la dimensione autoriale, raffinato l uso del paratesto (decorazioni, effetti tipografici etc.) ed esplicita è la vocazione filosofica e morale del dispositivo. Non a caso al termine tedesco Sinnbild (immagine-senso) si è andato sostituendo, in una tradizione che va da Johann Gottfried Herder a Walter Benjamin72, il termine Denkbild (immagine-pensiero) che allude alle potenzialità semantiche infinite di questa giustapposizione e al ruolo decisivo che nell interpretazione hanno sia lo scrittore sia il lettore (per non dire della tradizione figurativa e testuale che li sostiene). Gli esempi classici di questa ripresa dell emblema barocco si possono trovare in Karl Kraus e Bertolt Brecht. Basta giustapporre due immagini come lo straordinario Cristo senza croce su di un campo di battaglia della Prima guerra mondiale della «Fackel» del , con le croci senza Cristo che Brecht allinea in una delle più toccanti 70 Su questo l ormai classico A. Henkel, A. Schòne, Em blem ata, H andbuch zur Sinnbildkunst des X V I. und X V II. Jahrhunderts, J. B. Metzler, Stuttgart-Weimar Cfr. Th. von Steinaecker, Literarische Foto-Texte, cit., pp. 10 sgg. 72 Per un primo orientamento Karoline Kirst, Walter Benjamin s Denkbild. Em blem atic Historiography o f Recent Past, «Monatshefte», 86.4, ,pp K. Kraus, Erhóret mich!, «Die Fackel», , 19 16, s.p.

242 FORM E E RETORICHE DEL FOTOTESTO LETTERARIO 9 7 immagini de L Abicì della guerra74 per rendersi conto che siamo nel cuore di questa tradizione. Innanzitutto per il tema, che oscilla tra l iscrizione funeraria (l archetipo di molta letteratura emblematica), con il consueto appello al lettore/viandante, e il sottile gioco del significare e interpretare (Deuteri und Darstellen), in cui un ruolo decisivo è affidato al lettore. Brecht del resto ne era ben consapevole quando nelle celeberrime Cinque difficoltà per chi scrive la verità annotava: «Ma la verità non si può semplicemente scriverla e basta; è indispensabile scriverla per qualcuno che possa servirsene»75. Nel Diario di lavoro che costituisce la riserva di molti dei suoi emblemi, Brecht torna costantemente sulla forma dell epigramma76. Che l emblema sia una strategia di senso fortemente dipendente dall enunciatario è chiaro anche in opere estranee alla tradizione emblematica, soprattutto nella sua versione tedesca. Nell opera a quattro mani di Erskine Caldwell e Margaret Bourke-White, un classico della fototestualità e del fotogiornalismo, Voi avete visto le loro facce, gli autori avvertono: «Le didascalie sotto le immagini intendono esprimere le concezioni proprie degli autori dei sentimenti degli individui ritratti; non intendono riprodurre i reali sentimenti di queste persone»77. Naturalmente la forma-emblema continua a sussistere, come nel fototesto di Caldwell e Bourke-White, anche se le tre componenti vengono disposte in modo diverso rispetto all emblema classico, quando, ad esempio, inscriptio e subscriptio vengono fuse in un unico blocco di testo e tendono ad assomigliare a una didascalia o a un titolo, offrendo suggestioni molteplici per un ermeneutica del testo. Si veda ad esempio la suggestiva inscriptio HAPPY HOLLOW, G EO RGIA, apparentemente solo un indicazione del luogo, con la subscriptio: «Talvolta dico a mio marito che non potremmo stare peggio, neppure se volessimo»78 dove la foto ritrae una derelitta che tiene tra le braccia un bambino. 74 B. Brecht, L abicì della guerra, cit., pp Cfr. J. J. Long, Paratextual Profusion: Photography and Text in Bertolt Brecht s War Primer, «Poetics Today», 29.1, 2008, pp B. Brecht, Scritti sulla letteratura e sull arte, nota introduttiva di C. Cases, tr. it. di B. Z agari, Einaudi, Torino , p B. Brecht, Diario di lavoro , a cura di W. Hecht, tr. it. di B. Zagari, Einaudi, Torino 19 76, p E. Caldwell, M. Bourke-White, You H ave Seen Their Faces, cit., p Ivi, s.p.

243 98 M IC H E L E CO M ETA dcssin de Picasso. Ils Io n i cnlcvée parte que Picasso ctaii communiste ei qu'on n anne plus Ics communisics. A Paris, Picasso esc encore Icgalemcm auiorisé, mais pas ici La colombe n V u ii pas spécialement belle mais, personndlcmcni, j'aurais bissi b legende. C e qu'on voit n'est certainement pas une amclio- ration. Ics Berlinois de l Est soni incapablcs de composer avee le capitalismo, sinon ils auraienr choisi une publicité bien suplrieurc et plus originale pour cct cndroit. Un grand panneau Coca-Cola aurait cté plus cohéront. Fig- 5- Un esempio del tutto particolare di fototesto emblematico è quello proposto da Sophie Calle in una straordinaria rielaborazione fotografica di un emblema architettonico, quello costruito e ricostruito sulla facciata di un anonimo edificio del Nicolaiviertel di Berlino che per la sua posizione - l angolo da cui si diparte il quartiere provenendo da Unter den Linden appena attraversata la Sprea - fu comunque uno dei simboli della Repubblica Democratica Tedesca e del presunto internazionalismo pacifista della Germania orientale. Si tratta di una sequenza di foto dei Ricordi di Berlino Est {Souvenirs de Berlin-Est, 1996) accompagnata da un testo a forte valenza ecfrastica che vuole dare conto dei cambiamenti urbani di Berlino. La prima immagine

244 FORM E E RETORICHE DEL FOTOTESTO LETTERARIO 99 ritrae la facciata prima della Caduta del Muro e documenta uno degli emblemi più potenti della Berlino comunista, la colomba della pace simbolo del riconoscimento che la città ottenne nel quale «Città della Pace» (Stadt des Friedens). La colomba, certamente ispirata a quella di Picasso, dunque un topos dell immaginario rivoluzionario comunista, venne sistemata sulla facciata solo nel 1986 e funge da pictura di un emblema la cui inscriptio era composta dalla scritta Berlin e la cui subscriptio riportava l epiteto citato (fig. 5). Sophie Calle la descrive così: C O L O M B A DELLA PACE (NIK OLAI-V IERTEL) C era u n iscrizione: non so più esattam ente di cosa si trattasse anche se, un tem po, passavo spesso di là [...] C era u n enorm e colom ba, tipo quella di Picasso, con un ram oscello nel becco, dalle dim ensioni di una grande stanza, m a io no n m i sono m ai arram picata sopra per vederla da vicino Là, dove vedete questo cartellone, vi era una colom ba e sotto questa didascalia: B ER LIN O, C IT TÀ DELLA PACE o qualcosa del genere. N o n la trovavo p articolarm ente bella. E ra tu tta d o rata, un p o pretenziosa, e i caratteri erano m olto bru tti, m a corrispondevano allo spirito del luogo e dell epoca??. Qualche anno dopo Sophie Calle fotografa la facciata appena trasformata dalla furia iconoclasta che i critici del regime avevano esercitato sui simboli del comunismo. La retorica iconografica della pace era stata trasformata nel frattempo in una prosaica sequenza di comuni pubblicità urbane. Al posto della pictura il cemento grinzoso di un palazzo pseudo moderno (fig. 6). Significativamente Sophie Calle mima nel testo l impianto emblematico delle due immagini. All inscriptio - un termine ben presente all autrice - segue la pictura sotto forma di un ékpbrasisso della colomba di Picasso più volte reiterata. Né manca un commento che interagisce con le prime due parti dell emblema, allorché Sophie Calle sottolinea che l iconografia della colomba va fatta risalire a Picasso ed è dunque ormai mal tollerata nel contesto di un rigetto del comunismo da parte dei berlinesi e della stessa autrice ( «perché non si amano più 79 S. Calle, Souvenirs de Berlin-Est, Actes-Sud, Paris 2000, p. 55. Su Sophie Calle si veda Anne Sauvageot, Sophie Calle l art caméléon, PUF, Paris 2007, pp. 207 sgg. 80 Chi conosce i destini de\y ékphrasis sa che essa ha spesso funzioni metatestuali sia rispetto all opera in cui è inserita, sia rispetto all ambito più ampio dei regimi scopici dell epoca che l ha prodotta. Su ciò mi permetto di rimandare al mio La scrittura delle im m agini, cit.,p p sgg.

245 IOO M IC H E L E CO M ETA f i l i m i! Il v avait une inscription. Je nc sais plus au justc de quoi il ètait question et pourtant, autrefois. je passais souvent par là. Mais il y a de Cortes chances pour qu il nc s'agisse pas de quelque chose de convenable C ctaic une immense colombe, du genre Picasso, avee une brindillc dans le bcc, aux dimensions d'une grande chambre, mais je ne l'ai jamais cscaladcc pour allcr voir de plus prcs Là-bas. là où vous voycz ces panneaux d'aftìchagc. il y avait une colombe et dessous cettc legende : B E R L IN, V IL L E D E PAIX. ou quelque chose de ce genre. Je ne trouvais pas va particulicrcmcnt beau. C'ètait dorè partout, un peu prétentieux, et les caractèrcs étaicnt assez vilains. mais cela correspondait à l csprit du licu et de l'époque. Qa n'a plus vraiment de raison d ciré, mais je n aime pas non plus ce nouveau machin C ètait ècrit : BERLIN. CAPTI A LE D E LA RDA. C A P IT A L E D E L 'E ST. Les caractèrcs ètaicnt grossieri. Au-dcssous, il y avait la colombe de la paix de Picasso, coulée cn bronze. Je ne peux pas dire si, oui ou non. c ètait beau. Vous pouvez juger par vous-mème. la colombe qui se trouve actucllcmcnt sur le quai de la Sprce vient d'ici On la voyair de loin. Une colombe qui avait de l'allure, cn acicr inoxydablc, et la légende : B ER L IN. V IL L E D E PAIX (^a n'attirait pas vraiment lattention. C ètait un peu terni. Il me scmblc Fig. 6. i comunisti»81). A questo punto segue un commento che è insieme ermeneutica e parodia dell evento (la rimozione della pictura): I Berlinesi dell Est sono incapaci di ad attarsi al capitalism o, altrim enti avrebbero scelto una pubblicità m igliore e più originale per questo posto. U n grande m anifesto della C oca C ola sarebbe stato più coerente82. In effetti proprio la fotografia scattata da Sophie Calle dimostra come i berlinesi hanno mimato l emblema della pace con una pub- 81 S. Calle, Souvenirs de Berlin-Est, cit., p z Ibid.

246 FORM E E RETORICHE DEL FOTOTESTO LETTERARIO IO I me il Bene dal Mule, dulia bambina isterica, dalla smorfiose!tu che gioca all'adulta, tutto ciò formava l immagine d una innocenza assoluta se si vuole accogliere questa parola nella lettera della sua etimologia. la quale e «Io non so nuocere*), tutto ciò aveva trasformato la posa fotografica in quel paradosso insostenibile che lei avevj sostenuto per tutta la vita, l'affcrma/ionc d'una dolcezza. Su quell'immagine dt bambina io vedevo la bontà che aveva formato il suo essere subito e per sempre, senza che l'avesse ereditata da qualcuno; come ha potuto questa bontà scaturire da genitori imperfetti, che l'amarono male, in poche parole: da una famiglia/ L i sua bontà era per l'uppunto fuori gioco, essa non apparteneva ad alcun sistema, o per lo meno si situava al limite di una morale evangelica, per esempio); non potrei definirla meglioche attraverso questo particolare (fra tanti altri): in tutta la nostra vita comune, essa non mi fece mai una sola «osservazione» l ale circostanza estrema e particolare, cosi astratta rispetto a un'immagine, era tuttavia presente nel volto che essa aveva sulla fotografia che avevo appena ritrovato. «Non un'immagine giusta, ma giusto un immagine», dice Godard. Ma la mia afflizione esigeva un immagine giusta, un'immagine che fosse al tempo stesso giustizia e giustezza, giusto un immagine, ma un'immagine giusta. Tale era per. me la Fotografia del Giardino d inverno. Per una volta, la fotografia mi dava una scnsa-» /ione sicura quanto il ricordo, come quella che prou vò Proust allorché, chinandosi un giorno per toj gliersi le scarpe, scorse all improvviso nella sua mc- 3 moria il vero volto di sua nonna, «di cui per la prima volta [..] io ritrovavo, in un ricordo pieno e involontario, la realtà viva». L oscuro fotografo di I Chi è, fecondo lei, il più grande fotografo del mondo? -Nudar*. Kg- 7- blicità stracciona e improbabile, che certo non deve aver contribuito all impreziosimento del Nikolaiviertel, secondo quanto auspicato dal comitato di quartiere che aveva fatto rimuovere la colomba (oggi tornata al suo posto insieme all inscriptio e alla subscriptio). Al posto della scritta Berlin si era infatti sostituito un più localistico N ikolaiviertel. Al posto della pictura si vedevano ormai pubblicità volgari e provinciali che comunque non invadevano lo spazio della colomba segnalandola per assenza, mentre l epigramma gridava sguaiatamente «allacciate le cinture prima di fumare». L ékphrasis di Sophie Calle restituisce dignità al testo emblematico recuperandone anche la dimensione morale e politica. Anche nello straordinario atlante della Camera chiara di Roland Barthes la forma-emblema fa capolino, per quanto abilmente occultata. Si prenda la foto della madre/moglie di Nadar (fig. 7). Che si

247 102 M IC H E L E CO M ETA tratti di un emblema risulta evidente nonostante una dichiarata predilezione di quella «profusione paratestuale» che inclina alla formaatlante. Tuttavia la foto della madre/moglie di Nadar è certamente contornata da una inscriptio, posta irritualmente in basso nella pagina («Nadar, madre o moglie dell artista») e da una subscriptio sistemata tradizionalmente sotto la pictura: «Chi è secondo lei, il più grande fotografo del mondo? - N adar»83. M a tale subscriptio viene raddoppiata nella pagina accanto da una rifrazione che illumina ben più che una citazione. La foto di Nadar - moglie/madre? - viene infatti interpretata, grazie ad un opportuna citazione proustiana (con tanto di didascalia a margine) nel complesso di uno snodo fondamentale del testo di Barthes, sia sul piano personale sia su quello teorico. E infatti come incastonata nella storia della «Fotografia del Giardino d inverno», la foto della madre di Barthes all età di cinque anni - l unica foto che l autore non mostra - che costituisce il nucleo autobiografico più profondo della Camera chiara. La riflessione su Nadar a una lettura attenta svela i suoi intenti autobiografici. E infine nella reiterata attenzione per la forma allegorica, per un sapere dunque che scaturisce da un interazione complessa di dati, assemblati senza riguardo per la cronologia e la pertinenza che matura, nel Novecento, la forma-atlante: una forma che tradizionalmente si fa risalire all esperienza intellettuale di Aby Warburg, ma che può vantare ascendenze più lontane in qualche modo collocabili nell alveo del primo romanticismo tedesco84, e, ovviamente anche del barocco europeo85. Si tratta di un esperienza ampiamente praticata da Warburg nell atto di fondazione della propria scienza della cultura (Kulturwissenschaft) e, parallelamente, e senza una conoscenza diretta dell Atlas warburghiano, teorizzata da autori come Benjamin, Bloch e, su un altro, ma del tutto simmetrico versante, da George Bataille, Cari Ein 83 R. Barthes, La camera chiara, cit., p Su ciò mi permetto di rimandare alla mia Introduzione in R. Coglitore, R Mazzara (a cura di), Dizionario degli studi culturali, Meltemi, Roma 2004, in particolare le pp. 30 sgg. 85 Si pensi, per fare solo due esempi che hanno più volte ispirato scritture contemporanea al caso delle Wunder- und Kunstkammer (soprattutto quelle virtuali riprodotte in dipinti, ai cabinet d amateur della pittura fiammingo-spagnola, o, in piena età di Goethe, i cabinet portatili di Johann Valentin Prehn ( ). Sulla forma-atlante in letteratura, nelle arti figurative e nella critica si cfr. almeno B. H. D. Buchloh, Gerhard Richter s «Atlas»: The Anomic Archine, in «October», 88 (1999),pp esabineflach,ingem ùnz-koenen,m ariannestreisand (a cura di), D er Bilderatlas im Wechsel der Kùnste und M edien, Fink, Mùnchen 2005.

248 FORM E E RETORICHE DEL FOTOTESTO LETTERARIO I O 3 stein, André Malraux. Questi ultimi poi preparano quella mentalità surrealista che non pochi effetti ha avuto anche sulla prassi artistica di autori come Gerhard Richter, Annette Messager o Sophie Calle. Anche nel caso della forma-atlante sarà meglio avvertire che si dovrà tener conto non tanto della quantità di testo che, per esempio nelle istallazioni degli artisti contemporanei si riduce spesso alla mera didascalia, quanto della relazione che si instaura tra immagini e testi. La sua forma canonica può essere perciò indicata, molto più che nei meri assemblaggi di immagini contrappuntati da qualche breve testo o didascalia (a cominciare dall esempio dell atlante Mnemosyne) in opere in cui le interrelazioni tra testo e immagini sono il frutto di una strategia complessa, multilineare e sostanzialmente affidata alle abitudini di lettura del ricevente piuttosto che a quelle di scrittura dell autore. Si pensi alle sperimentazioni di Rolf Brinkmann che culminano nel più importante fototesto della cultura pop tedesca Roma, sguardi {Rom, Blicke, 1979), solo uno dei molti atlanti verbovisuali realizzati dall autore nel corso degli anni e certamente incentrati sull uso della fotografia (le sue personali di Roma per esempio) oltre che sulle tecniche del collage86. Roma, sguardi, composto dall autore durante un soggiorno romano come borsista di Villa Massimo, si configura in prima istanza come un diario sotto forma di epistolario che ha il duplice scopo di comunicare alla moglie Maalen l esperienza romana e di documentare visivamente il suo soggiorno. Le fotografie si presentano dunque dapprima come illustrazioni di ciò che viene raccontato. Soprattutto nell incipit il percorso da Colonia a Rom a viene semplicemente illustrato da una serie di istantanee che saturano la pagina accanto al diario epistolare. A Roma la strategia intermediale di Brinkmann comincia però a maturare e ad attingere ad altri media, cartine e schizzi soprattutto. Ben presto la vis documentaria lascia spazio alle libere associazioni in cui testo e immagine cominciano a dialogare, lasciando riemergere non tanto o non solo i ricordi quotidiani dello 86 Anche Brinkmann cui, insieme ad Alexander Kluge, si devono i più interessanti fototesti tedeschi, ha pubblicato per lo più opere «spurie», dove la fotografia è presente sulla pagina insieme ad altri media visuali (pubblicità soprattutto, disegni, appunti manoscritti etc.). Tuttavia la sua produzione «intermediale» che si avvale massicciamente di foto realizzate da lui stesso aspetta ancora un adeguata valutazione critica. Si cfr. in prima istanza il già citato Th. von Steinaecker, Literarische Foto-Texte, cit., passim.

249 104 M IC H E L E CO M ETA scrittore ma il basso continuo della narrativa pop di Brinkmann, il nesso fortissimo che lega reclame, sesso/pornografia e morte. La logica dell atlante, la giustapposizione apparentemente arbitraria ma proprio per questo aperta alle rivelazioni di asincronie, per le quali Brinkmann ha scelto con Roma lo scenario ideale, si afferma con sempre maggiore determinazione. Nei collage pornografici che da metà del libro divengono più ossessivi87, nello straordinario atlante di immagini che Brinkmann pone al centro del libro, baricentrico tra le prime tensioni autobiografiche - rappresentato dalle foto e dalle piantine di Villa M assimo88 - nella critica della ragione edilizia che sta distruggendo il paesaggio89, nella morbosa mescolanza di immagini pornografiche con la Roma barocca e papalina straboccante di sensualità e chiese90 e nell irritante giustapposizione di un fumetto sadomaso e le strade del centro che a sua volta richiama una donna in posa oscena le cui rotondità si confrontano con l abside di una chiesa. Le immagini e il testo creano insomma spazi intermedi per la lettura, e il testo si frammenta, così come le immagini accostate diventano sempre più enigmatiche e provocatorie costringendo il lettore a una lettura trasversale. La tecnica dell atlante di Brinkmann si raffina in Esplorazioni {Erkundungen, 1987), dove si assiste a una reale fusione di testo e immagine su un unica pagina a stampa. Come nell inquietante tavola Strada a senso unico verso la morte {Einbahnstrafie in den Tod), dove la dimensione epigrammatica (e dunque come sappiamo funeraria) piega l atlante alla retorica dell emblema91 di cui costituisce in fondo un ispessimento semantico, anche se, come abbiamo ricordato, l associazione di immagini e testi su di un unico supporto cartaceo moltiplica i percorsi di lettura (anche per via del layout instabile e complesso) e sostituisce alla sintassi dell emblema la paratassi dell atlante. L interpretazione del fototesto è possibile solo se si tiene conto proprio del genere classico dell iscrizione funeraria che fa appello al lettore (al viandante che incontra la tomba nell antichità) e a lui si rivolge con domande che servono a chiarire la propria storia e a farlo riflettere sulla caducità del mondo. Questa «parata di immagini in 87 R. D. Brinkmann, Rom, Blicke, Rowohlt, Reinbeck bei Hamburg 1979, pp. 188 sgg. 88 Ivi, p Ivi, pp Ivi, pp Che Brinkmann svilupperà in Schnitte, cit., p

250 FORME E RETORICHE DEL FOTOTESTO LETTERARIO I 0 5 Che bea Clinton non era più così inguardabile ed era pronta a sposare un banchiere. I capelli sulla testa del principe William, erede al trono d'inghilterra, si diradavano a vista d'occhio. La stella di Britney Spears non brillava più come un tempo, mentre la cantante A m y Winchousc e l'attrice Lindsay Lohan entravano e uscivano dalle cliniche di disintossicazione. L'ereditiera Paris l ltlton - famosa per un interminabile video pornografico, A m jh t in Paris, e per quegli occhi sgranati e matti - stava perdendo smalto. Perfino Zac Efron, pure adorato e braccato da orde di ragazzine occidentali. vedeva spuntate all orizzonte, pronti a fargli ombra, i nati negli anni novanta. r ^Repubblica - «a a s s r Il mondo è cambiato OUsmu prvsxienh: tvira netta stona: ''RkvsOvumoinàewr.imenca' Fig. 8. bianco e nero» («schwarz-weise Bild-Parade»), come viene definita proprio da Brinkmann, è solo una figura dell infinito Totentanz che attraversa tutta la sua opera confermando, se ancora ce ne fosse bisogno, lo stretto legame che il secolo appena trascorso ha intrecciato tra il destino della fotografia e la morte. Val la pena di sottolineare però che non sempre la forma-atlante si dispiega in un profluvio di immagini disposte sulla pagina come nel caso di Brinkmann. Spesso impaginazioni più sobrie e apparentemente monolitiche producono effetti di lettura che competono ampiamente con la forma-atlante, soprattutto quando questo obiettivo è raggiunto non attraverso le immagini ma con il testo. Un caso parecchio significativo è dato da quel rutilante atlante delle immagini degli anni Ottanta e N o vanta del Novecento che Paolo Di Paolo ottiene con la giustapposizione di una pagina de «La Repubblica» del 2008 e una fitta evocazione di immagini che riguardano l era del presidente Clinton (fig. 8). All imma

251 io 6 M IC H E L E CO M ETA gine a tutta pagina della sorridente famiglia Obama, Di Paolo associa un testo che ci trascina in una sorta di film a ritroso sugli anni Ottanta92. Si tratta di una serie di istantanee verbali che costituiscono una sorta di album generazionale da opporre a quello della generazione di Obama evocato dalla foto di Repubblica. La serie/sequenza di istantanee è, nella sua forma visiva, quella che più avvicina l atlante alla sua vera vocazione cinematica. Interpreti di Warburg hanno opportunamente richiamato tale dimensione anche per l archetipo novecentesco dell Atlante. M a è evidente che questa cifra non ha mai abbandonato il fototesto novecentesco. Si pensi, per fare solo un esempio, alle sequenze del tutto cinematografiche che Julio Cortàzar inserisce in molte sue opere. Si tratta di fotogrammi tratti da riprese propriamente dette93, di foto giustapposte quasi appartenessero allo stesso rullino94 fino a narrazioni da lungometraggio come il fototesto realizzato insieme a Carol Dunlop, G li autonauti della cosmostrada, ovvero un viaggio atemporale Parigi-Marsiglia {Los autonautas de la cosmopista o un viaje atemporal Parìs-Marsella, 1983), che si legge come una sceneggiatura, oltre che come un atlante/album95 di immagini autobiografiche. L impulso cinematico si sposa perfettamente con la forma-atlante quando si tratta di immagini che non sono legate da un immediata sequenza narrativa, né verbale, né visuale, ma la cui giustapposizione produce insieme le libere associazioni tipiche della forma-atlante e l impressione di una sequenza cinematografica di cui ci rimangono solo alcune istantanee. E il caso della sequenza di sculture dell artista belga Reinhoud d Haese che Cortàzar riproduce e commenta in Ultimo round (1969) (fig. 9). Si tratta di corpi sempre diversi ma che sembrano il prodotto di un unica metamorfosi che mette insieme insetti, animali, gnomi e umani e che Cortàzar presenta come un film che si chiude su una pagina nera con la parola «fine»96. Le sculture solo in senso molto lato possono essere immaginate come la metamorfosi di un unica matrice, ma restano figure indipendenti il cui significato scaturisce dalla dispo- 92 Paolo Di Paolo, D ove eravate tutti, Feltrinelli, M ilano , p Cfr. Julio Cortàzar, Ultimo round, Alet edizioni, Padova 2007, pp. 14 sgg. 94 Ivi, p Sul nesso atlante/album rimandiamo a A. Kramer, A. Pelz (a cura di), Album. Organisationsform narrativer Kohàrenz, Wallstein, Gòttingen J. Cortàzar, Ultimo round, cit., p. 220.

252 FORME E RETORICHE DEL FOTOTESTO LETTERARIO IO7 I M tioolnt di gurto fv dicrao I I ra pmftttutr. im.(ini %»> icojpkvan iico'< tfrvih»! Fig. 9. sizione (per altro molto regolare) che ottengono nell atlante privato di Cortàzar che ovviamente aggiunge delle enigmatiche didascalie che alternano ékphrasis immaginarie a commenti autoriali e a prosopopee. Quando ci troviamo di fronte a un atlante sarà dunque opportuno interrogarsi sulle sue pretese cinematiche e cinematografiche. Inutile dire che queste considerazioni valgono a fortiori per opere come la Divina mimesis ( , pubbl. 1975) di Pier Paolo Pasolini9?, il cui «poema fotografico» potrebbe costituire plausibilmente il palinsesto di un film autobiografico, come del resto lo straordinario atlante delle immagini che è Barthes di Roland Barthes. Vedremo in chiusura come il già citato flipbook di Jonathan Safran Foer rappresenta l incarnazione più felice di questo impulso cinematico. Infine la forma-illustrazione, apparentemente la più semplice e la più tradizionale, ma che nel Novecento ha subito spesso torsioni interessanti. Un importante esempio di questa forma ci è offerto dalle 97 Si veda, infra, il saggio di Maria Rizzarelli, «Che le parole salvino l immagine». Fotografìa e narrazione in Vittorini, Pasolini e Sciascia.

253 io 8 M IC H E L E CO M ETA sperimentazioni di Lalla Romano i cui fototesti, più volte ripubblicati e rielaborati, le hanno consentito di esperire varie forme del rapporto tra ékphrasis di un immagine e illustrazione. Proprio studiando i testi (e i paratesti) della Romano ci si rende conto della peculiare reciprocità di descrizione e illustrazione. L ékpbrasis è infatti verbalizzazione di un immagine, così come l illustrazione è la visualizzazione di un testo. E però evidente che l enunciazione dipende molto dall impostazione finale della pagina, dal layout, e che anche la mera disposizione di testo e immagine nell impaginato decide il rapporto tra descrizione e illustrazione. E il caso del fototesto che, come abbiamo già ricordato, Lalla Romano costruisce con le lastre del padre, «pittore e fotografo dilettante», pubblicato dapprima nel con il titolo già di per sé significativo di Lettura di un immagine e ripreso poi a distanza di più di dieci anni con il titolo Romanzo di figure. Lettura di un immagine. Molte cose cambiano già a partire dal titolo. Se la prima versione si configurava come un operazione tutta sbilanciata sulla ricezione, a cominciare da quella della Romano stessa, la seconda di fatto capovolgeva la prospettiva dando al testo, al romanzo, la priorità. Non è un caso che nella Premessa alla prima versione si legga: In questo libro le im m agini sono il testo e lo scritto u n illustrazione. I brevi ap p u n ti dovrebbero servire a ferm are un poco l attenzione (di solito si g u ard a no le fotografie fuggevolm ente), in quan to suggeriscono prospettive di lettura. N o n vengono fornite notizie, né raccontate storie: in presenza di fotografie sarebbero indiscrete e fuorvianti. La lettu ra non deve avvenire su questo piano? 8. Per quanto l autrice si renda conto che ha costruito una «progressione vagamente narrativa»99, quello che deve prevalere è lo sguardo «contemplativo»100, anche perché questi fototesti richiamano fortemente la dimensione epigrammatica, e cioè funeraria, del genere, «una prospettiva...tragica (e tuttavia pacificata): quella delle vite spente, o prossime a spegnersi»101. Coerentemente con questo assunto l immagine nella prima versione è disposta a destra ed è il testo vero e proprio, mentre il breve commento - che conserva chiara la suggestione emblematica visto 98 L. Rom ano, Lettura di un immagine, Einaudi, Torino , p. IX. 99 Ivi, p. X. 100 Ivi, p. XI. 101 Ivi, p. XI.

254 FORM E E RETORICHE DEL FOTOTESTO LETTERARIO I O 9 che alterna va inscriptio sotto forma di titolo a un breve testo esplicativo - è relegato nella pagina a sinistra, dove riveste davvero i panni di un illustrazione accessoria e comunque esterna rispetto al ductus argomentativo della parte visuale. E significativo che la Romano, tornando sul significato dei brevi testi, distingua tra illustrazione e informazione: «Accostai al testo fotografico un testo letterario in funzione illustrativa, non informativa... Scelsi di prescindere dalle informazioni di cui disponevo per interpretare liberamente (creativamente) i segni delle immagini»102. Ben diverso è l approccio nel più tardo Romanzo di figure in cui i testi si leggono come una sequenza e le immagini come mere illustrazioni. La disposizione sulle due pagine è invertita103 e qualche testo subisce delle modificazioni e integrazioni. Per quanto la Premessa riporti le annotazioni della prima versione, l incipit testimonia di un cambiamento nell approccio: La bam bina della copertina è una delle figure venute alla luce - è il caso di dirlo - col ritrovam ento, nella m ia casa di C uneo, delle lastre di cui ignoravo l esistenza. La sua im m agine n o n rientrava nell ordine della com posizione preesistente, com e le altre - un certo num ero - che ho inserito perché non solo si integravano, m a anche arricchivano il senso dei capitoli. Il libro presente è diverso, certam ente m igliore, di quello del so p rattu tto per la m aggiore cospicuità delle im m agini, ora veram ente «leggibili» anche visualm ente. Il m io rapporto con esse è più em o tiv o Le lastre originali effettivamente, non più sacrificate dalla retorica degli angoli smussati tipica dell album di fotografie, invadono quasi completamente la pagina sinistra105 e hanno una definizione nuova che fa emergere, qua e là, particolari inediti. 102 L. Rom ano, II mio prim o romanzo d im m agini, in Id., O pere, a cura di C. Segre, M ondadori, M ilano i 9 9 i,p Su ciò cfr. Sara P. Hill, Texts as Photograph, Photograph as Texts: Lalla Rom ano and thè Photographie Im age, in «Italian Culture», ( ), PP- 45"^2 - Si veda anche M. Di Fazio, Scrittura e fotografìa - fotografìa e scrittura, cit., pp L. Rom ano, Rom anzo di figure, cit., p. I. 105 Fino al punto, come accade all immagine di p. 16, che la foto viene pubblicata in verticale per non ridurla. Curiosamente si tratta solo di un immagine simile a quella della prima versione, che ritrae la stessa battuta di caccia ma da un angolazione diversa e più ampia (cfr. L. Rom ano, Lettura di un im m agine, cit., pp. 16 sgg.). Lo stesso accade a molte altre foto della seconda raccolta. È opportuno sottolineare che questa strategia, che di fatto interrompe la lettura, anzi la nega, restituisce l immagine come irritazione del verbale e consente alla nuova impaginazione di presentarsi come un alternativa alla lettura, rivendicando, di tanto in tanto, la centralità dell immagine rispetto al testo.

255 n o M IC H E L E CO M ETA È tuttavia evidente che nonostante ogni cautela teorica che induce la Romano a distinguere tra descrizione, illustrazione e il carattere illustrativo dei testi, molti di questi commenti contengono delle ékphrasis raffinate per quanto, come è stato notato, sincopate e abbreviate per via della presenza delle immagini. E non sarebbe difficile elencare le varie tecniche (dinamizzazione, integrazione etc.ioé) ecfrastiche che la Romano usa con grande perizia. L inversione proposta da Lalla Romano tra significato illustrativo del testo e testo-immagine è un basso continuo della produzione novecentesca che evidentemente risente della diffusione delle tecniche fotografiche fino al punto di fare di ogni scrittore un potenziale fotografo. La facilità di produzione del testo fotografico, si pensi all era della Polaroid, ha indotto molti autori a costruire romanzi per immagini. Forse uno degli incunaboli di questo genere può essere considerato un fototesto di Peter Handke che documenta un importante esperienza parigina. Il viaggio alla Défense {Die Reise nach la Défense, 1974) è infatti uno dei rari esempi in cui fotografo e scrittore coincidono e un perfetto esempio di come il testo si possa fare didascalia, con evidenti funzioni deittiche, riducendo al minimo l impulso ecfrastico, cui per altro l autore ha dato sfogo nelle pagine introduttive anche attraverso un paragone con il Màrkisches Viertel di Berlino107. In realtà Handke ci propone formalmente due testi che però sembrano legarsi come introduzione e illustrazione. A un brano dal titolo I segreti palesi della tecnocrazia {Die offenen Geheimnisse der Technokratie) - in cui emerge una critica radicale di questi non-luoghi del moderno capitalismo - segue l impaginazione delle fotografie che inizia con una copertina108, si sviluppa per alcune pagine e termina con un colophon parecchio significativo: arrèt définitiv109. E chiaro che ci troviamo di fronte a una contesa tra ékphrasis e illustrazione, poiché si passa dal testo come mera deissi («Qui siamo sa per j e quap rimando ancora al mio La scrittura delle immagini, cit., passim. 107 N on va per altro dimenticato che il volumetto si conclude con un enigmatica foto a colori della pubblicità parigina di Tele Poche. Un immagine che ricorda molto quella posta a epigrafe de La camera chiara che però è successiva. 108 Si tratta di un collage applicato a una fotografia che riporta un appunto scritto con la macchina da scrivere completato da un titoletto a stampa minuscolo che recita: la Défense. Cfr. Peter Handke, Als das Wùnschen noch geholfen hat, Suhrkamp, Frankfurt a. M , p Ivi, p- 54-

256 FORME E RETORICHE DEL FOTOTESTO LETTERARIO III Hier sind wir eingestiegen. Hier sind wir ausgesticgen. Einige RoIItreppen fuhren aus der Métro-Station La Défense ans Tageslidu. Fig. io. liti») (fig. io) - per esempio con l inquadratura di una stazione della metropolitana110 - al paradosso di un illustrazione testuale che letteralmente fa vedere quello che le scure fotografie non mostrano111, fino alla negazione della visualizzazione che quasi costringe l autore a un ékpbrasis articolata (praticamente in assenza di immagini perspicue): Ciò che n o n volevo fotografare: la m adre con il passeggino, gli im piegati sulla strada per il Q U IC K F O O D, i resti pittoreschi delle piccole vecchie case in prim o piano con le to rri sullo sfo n d o... neanche la donna che stava alla finestra in un cortile interno e cucinava perduta nei suoi pensieri, gli alberi di plastica 110 Ivi, p Ivi, p. 46: «Su questi buildings ci sarebbe da leggere: ESSO, Crédit Lyonnais...». Oppure: «Qui ci troviamo tra i buildings per abitazioni. Naturalmente è una giornata grigia. Tra gli edifici c è molto verde», ivi, p. 47.

257 112 M IC H E L E CO M ETA nel ristorante dove m angiam m o a m ezzogiorno, l architetto che con i progetti arro to la ti sotto il braccio attraversava il p lateau 112. Ékphrasis e illustrazione statuiscono nel testo di Handke una competizione tra i due media che nei fototesti sembra dunque essere costitutiva. L abbiamo visto anche nel fototesto di Lalla Romano. Considerazioni simili si potrebbero fare per il carattere illustrativo ed ecfrastico insieme della già citata Conversazione in Sicilia. I fototesti e la memoria Appare a questo punto evidente quali sono i futuri compiti di una teoria generale del fototesto in letteratura di cui queste osservazioni costituiscono tutt al più una prima raccolta di materiali. Sarà necessario infatti, come è emerso più volte, considerare il fototesto come un caso particolare dell iconotesto letterario, non solo perché l iconotesto, in opposizione all iconismo (ovvero la simbiosi di immagine e testo come nella poesia visiva) è una delle forme specifiche in cui si dà l eterno confronto tra testo e immagine e cioè la convivenza dei due media su di un unico supporto (normalmente le pagine di un libro) ma perché il fototesto puro - cioè la mera giustapposizione di testi e fotografie - sembra essere più l eccezione che la regola. La dimensione visiva sembra infatti stimolare gli autori a forme di integrazione tra testi e immagini più complesse, come dimostra il caso di Brinkmann o di Julio Cortàzar. Si pensi alla complessa strategia iconotestuale che comprende la fotografia de II giro del giorno in ottanta mondi {La vuelta al dìa en ochenta mundos, 1967)113, un opera a metà tra la sperimentazione surrealista e i fremiti dell iconoclastia del Sessantotto. Per far questo sarà utile certamente studiare i modelli formali (emblema, atlante, illustrazione), le retoriche (sguardo, layout, parerga), magari facendo ricorso a strumenti più raffinati, per esempio quelli che deriverebbero - come avvertiva già Roland Barthes ne II 112 Ivi, p J. Cortàzar, La vuelta al dia en ochenta m undos, Signo X X I de Espana Editores, M adrid 2006.

258 FORM E E RETORICHE DEL FOTOTESTO LETTERARIO messaggio fotografico114 - da un più attento studio dei processi di connotazione tipici della fotografia, ovvero riaprendo la questione di una simmetria formale tra fotografia e lirica che spesso ha condotto a stucchevoli risultati dal punto di vista teorico, ma certo resta un assunto poetologico molto frequentato dagli autori. Tuttavia né una tipologia formale e neppure una storia mediale della letteratura che faccia solo appello alle facilitazioni tecnologiche, pure importanti, di cui il genere ha profittato potrà mai spiegare a sufficienza l enorme successo del fototesto nel Novecento. Della sua crucialità rispetto al problema fondamentale delpiconofilia/iconofobia occidentale abbiamo già detto115. E certamente nozioni come quella di image-text e le aperture teoriche che vengono dalla Visual Culture contemporanea hanno contribuito a meglio comprendere il genere se non addirittura ad alimentarlo. Tuttavia a noi pare che il successo del fototesto sia da ascrivere a ragioni estrinseche, ma non per questo meno convincenti rispetto al fascino che esercita la sua forma. Ci riferiamo al fatto che il fototesto intercetta un desiderio che ha informato di sé tutto il secolo scorso: la necessità di una rielaborazione del passato traumatico dei singoli e della collettività. Ta questione del fototesto attraversa quella dell autobiografia, della memoria (e della post-memory) 116 e del tragico. Giustamente, con Barthes e dopo di lui, c è chi si è chiesto117 se la questione del referente, di «ciò che è stato» una volta comunque, non sia la questione più profonda dell autobiografia e così facendo è chiaro come la fotografia assuma un ruolo significativo nella scrittura contemporanea R. Barthes, II messaggio fotografico, in Id., L ovvio e l ottuso. Saggi critici III, Einaudi, Torino 19 85, pp. 5 sgg. 115 Si cfr. su questo tema M aria Bettetini, Contro le immagini. Le radici dell iconoclastia, Laterza, Roma-Bari Si veda, per l Italia, il libro di Silvia Albertazzi, Il nulla, quasi. Foto di famiglia e istantanee amatoriali nella letteratura contemporanea, Le Lettere, Lirenze E naturalmente Silke Horstkotte, Nachbilder. Fotographie und Gedàchtnis in der deutschen Gegenwartsliteratur, Bòhlau, Kòln-Weimar-Wien Ad esempio T. D ow Adams, Light Wrighting & Life Writing. Photography in Autobiography, University of North Carolina Press, Chapel Hill-London 2000 e Paul Eaking, Touching thè Worlds. Reference in Autobiography, Princeton University Press, Princeton Sul rapporto tra foto testo e autobiografia si veda il libro di Alma-Elisa Kittner, Visuelle Autobiographie. Sammeln als Selbstentw urf bei Hanna H óch, Sophie Calle und Annette M essager, Transkript, Bielefeld Per i fototesti di Barthes essenziale è N. Pedri, D ocum enting thè Fictions o f Reality, «Poetics Today», 2 9.1, 2008, pp

259 i i 4 M IC H E L E CO M ETA Per lo stesso motivo la questione della memoria non può che costruire ipso facto una sorta di analogia strutturale tra la fotografia e la testimonianza (autobiografica). Il trauma - privato e collettivo - ha dimostrato di sapere rivivere nel reperto fotografico e nutrirsi della capacità che esso ha di essere ripetuto e riattualizzato (il reperto come il trauma stesso). Il fototesto gioca per altro un ruolo fondamentale nell articolazione di memoria e oblio, una consapevolezza che giunge intatta sino a Sebald secondo il quale la differenza decisiva tra il metodo dello scrittore e quello del fotografo è che la descrizione stimola la memoria mentre la fotografia stimola la dimenticanza119. Da questo punto di vista la contesa tra i due media sembra essere una lotta all ultimo sangue, il cui esito è comunque sempre incerto. Se per l autobiografia la referenzialità è il legame che si istituisce con la fotografia, nella questione della memoria si insediano molte delle metaforiche fotografiche120 e la tecnologia fotografica sembra naturalmente votata a diventare metafora della memoria, come nel Cinquecento poteva esserlo la metaforica architettonica. Il tema della sfocatura121, ad esempio, è centrale in ogni letteratura della memoria e della post-memoria. Da ultimo persino Umberto Eco sfiora questo tema, proprio nel suo libro sulla perdita della memoria, quando ricorda la foto sfocata dei bambini che si baciano: «era un istantanea ingrandita lo si vedeva dalla sfocatura»122. Inutile insistere su come questo tema sia centrale nella valutazione delle memorie familiari, degli album di famiglia e dunque nei fototesti novecenteschi. Non è un caso che la foto sfocata o anche decisamente sbagliata sia divenuta centrale nel dibattito, solo apparentemente mediale, del tardo Novecento Sull inestricabile intreccio tra memoria e oblio, anche nella letteratura del Novecento, mi permetto di rimandare al mio saggio Istantanee sulla dimenticanza. Su identità e memoria anche ebraica, in Rita Calabrese (a cura di), D opo la Shoah. N uove identità ebraiche nella letteratura, ETS, Pisa 2005, pp Esemplare rimane a questo riguardo il libro di Sarah Kofman sulla metaforica fotografica nel testo freudiano. Cfr. S. Kofman, Camera obscura de l ideologie, Édition Galilée, Paris Si confronti, a titolo di esempio, l uso che dello sfocato fa il figlio di M onika M a- ron, Jonas, nel fototesto della madre, G eburtsort Berlin (2003 ), tr. it. di A. M. Massimello, La mia Berlino, Bollati Boringhieri, Torino 2005, p. 33 e Umberto Eco, La misteriosa fiamma della regina Loana. Romanzo illustrato, Bompiani, M ilano 2004, p Cfr. soprattutto Wolfgang Ullrich, D ie Geschichte der Unschàrfe, Wagenbach, Berlin 2009, nonché Peter Geimer, B ilder aus Versehen. L in e Geschichte fotografischer

260 FORM E E RETORICHE DEL FOTOTESTO LETTERARIO 115 Infine, per tornare al territorio che abbiamo inteso delimitare con la nostra tipologia, è evidente che la questione dell autobiografia e della memoria sono strettamente connesse con quella della forma-atlante che non a caso è stata adottata sia nella teoria sia nella prassi artistica (le già citate Hannah Hòch, Sophie Calle, Annette Messager, ma anche Gerhard Richter ovviamente). La forma della collezione è infatti una forma di «memoria pratica» (Benjamin) che spezza le sicurezze della cronologia e mima molto più da vicino le stratificazioni delle storie (del singolo e della società). E soprattutto consente revisioni, inversioni e invenzioni che nessuna storiografia tradizionale potrà consentire, negandosi così a priori la possibilità di un futuro diverso o di un utopia. Ci sia consentito citare a questo proposito un fototesto che simboleggia compiutamente queste inversioni della storia, quella «dialettica in stato di quiete» (Dialektik im Stillstand), in cui il passato ci viene incontro e produce un illuminazione. E singolare che questa inversione della storia venga resa possibile proprio da un fototesto e in una forma originalissima quella del flipbook e in definitiva del film, anche se usa la sequenza filmica nell unico modo in cui per Benjamin è possibile immaginare la storia, risalendo, cioè, dal presente al passato, o, più esattamente, cogliendo il ricordo nel momento attuale del pericolo. Ci riferiamo allo straordinario fotoromanzo con svariati inserti iconotestuali, Molto forte, incredibilmente vicino di Jonathan Safran Foer. Alla fine del libro l autore rievoca la morte del padre durante l attacco alle Twin Towers. Autobiografia, memoria e tragedia s intrecciano in questo fototesto davvero singolare. Tra le ultime pagine un flipbook ripropone l immagine del falling man: Finalm ente ho tro v ato il corpo che cadeva. E ra papà. Forse. C hiunque fosse, era qualcuno. H o strap p ato le pagine del libro. Le ho rim esse in ordine al co n trario, in m odo che l ultim a fosse la prim a e la prim a fosse l ultim a. Le ho sfogliate velocem ente e sem brava che l uom o stesse alzandosi in cielo124. La fotografia e la letteratura possono reinventare la storia. Erscheinungen, Philo Fine Arts, Hamburg e infine Clément Chéroux, Fautographie. Petite histoire de Verreur photo graphique, Yellow Now, Crisnée 2003; L errore fotografico, tr. it. di R. Censi, Einaudi, Torino Jonathan S. Foer, Extrem ely Loud and Incredibly Close, Houghton M ifflin Com pany, N ew York 2005, tr. it. di M. Bocchiola, M olto forte, incredibilm ente vicino, Guanda, Parma 2007, p Eccellente esempio di fototesto italiano a noi contemporaneo è "Condominio Oltremare", di Giorgio Falco e Sabrina Ragucci (2014): v. ai links e

261 da: da: Nanni 9Z61 Balestrini 'N 'MVM- - Tano Tano D'Amico D'Amico, Ci Ci abbiamo abbiamo provato. provato. Parole e immagini del Parole immagini dal settantasette, settantasette Milano, Bompiani, 2017 ON o JÜ - ^ ^.5 is y S 1 e O^ * S S Ö Oh (U Oh 5-( 5 i O0) C/5 OOo g a ^ :. ^ H ^ U S-S 2 «<?«P > «g.2 0Û - w ii o cn S 'S «'5.& g S ^ «2H 5 «S c - o c c p 03 O U 2 <D SoU -H S > Sh 1) Ï3» " c <o <5 "5.2 g.2 g> t ] > h

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