Nuovi orizzonti per la filosofia del linguaggio

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1 Nuovi orizzonti per la filosofia del linguaggio di CLAUDIO FASCHILLI A cavallo tra il XIX e il XX secolo nasceva la cosiddetta "filosofia del linguaggio". Quali sono state le sue principali caratteristiche e verso quali nuovi orizzonti si sta muovendo oggi? Ma, soprattutto, quale può essere il ruolo del filosofo del linguaggio nell'attuale panorama scientifico, che vede il proliferare di numerose discipline che si occupano specificamente del linguaggio naturale? Non ritengo di dire un assurdità se affermo che il linguaggio è uno degli aspetti dell essere umano a cui è stata dedicata maggiore attenzione nella storia del pensiero occidentale. Il motivo di tanto interesse è presto compreso se consideriamo quanto sia importante possedere un linguaggio per le dinamiche della nostra vita sociale, culturale e interpersonale. Grazie alla nostra facoltà di linguaggio siamo, infatti, in grado di scambiare opinioni e conoscenze, di scrivere e di leggere, di ascoltare o di seguire lezioni, conferenze, programmi televisivi e radiofonici, ma anche di dichiarare guerre, di stipulare una pace, di sposare qualcuno, di esprimere sentimenti ed emozioni e persino di riflettere e di ragionare con noi stessi. A fronte di tutto ciò, potrà risultarci non così sorprendente la gran quantità di discipline che, partendo da prospettive differenti e concentrandosi su distinte componenti, si sono occupate e ancora oggi si occupano del linguaggio naturale. Mi riferisco, ad esempio, alla psicologia, alle neuroscienze, alla linguistica, alla psicolinguistica, alla glottologia, all ermeneutica, alla fonologia, alla semiotica, alla sociolinguistica, alla lessicografia; e, non ultima, alla filosofia. Ebbene, di fronte a una tale proliferazione di discipline, sarebbe opportuno soffermarsi a porre una domanda almeno apparentemente semplice: qual è il ruolo che la filosofia ha avuto nello studio del linguaggio e qual è il suo ruolo attuale? E quale contributo possono dare oggi i filosofi a tale ricerca? Cominciamo col dire che da un punto di vista storico sarebbe certamente più corretto invertire l ordine delle discipline sopra citate, dando alla filosofia non l ultimo posto, bensì il primo. Infatti, i primi a porsi domande specifiche sul linguaggio furono proprio dei filosofi e in particolare i cosiddetti filosofi naturalisti, alcuni dei quali, tra il VI e il V secolo a.c., iniziarono a indagare quale fosse la relazione sussistente tra le parole e la realtà esterna. Possiamo perciò già osservare 1

2 come la filosofia ai suoi primordi si rivolse alla sfera del linguaggio a partire da una prospettiva squisitamente ontologica, analizzando il legame linguaggio-mondo. Già in Eraclito, ad esempio, era possibile rinvenire un segno di tale relazione: dico questo pensando ai frammenti in cui il filosofo di Efeso utilizzava il termine logos attribuendogli una pluralità di significati, indicando ora la legge che governa il divenire di tutto l esistente ora il discorso e quindi l aspetto linguistico con il quale il saggio è in grado di parlare, di descrivere e perciò di comprendere tale legge. Una stretta relazione tra linguaggio ed essere era poi riscontrabile anche in Parmenide, il quale sosteneva che si può parlare solo di ciò che è, mentre di ciò che non è nulla può esser detto. Il primo filosofo, tuttavia, a fornire una sistematizzazione di queste riflessioni fu proprio Platone nel suo dialogo Cratilo, dove espose in modo chiaro e analitico le due possibili posizioni in merito al rapporto sussistente tra linguaggio e realtà. Platone poneva da un lato la tesi difesa da Cratilo una tesi naturalistica secondo la quale le parole rispecchierebbero la realtà, e vi contrapponeva dall altro lato la tesi sostenuta da Ermogene tesi convenzionalista per il quale invece è solo per una pura convenzione che le parole sono come sono e si trovano in relazione a certe entità del mondo piuttosto che ad altre. Senza entrare oltre nel merito di questa specifica discussione, diciamo semplicemente che a partire da Platone la ricerca sul linguaggio si fece sempre più serrata. Aristotele vi dedicò intere opere e, dopo di lui, i filosofi dei secoli successivi dagli stoici ai medievali, sino agli esponenti della filosofia moderna continuarono a prestarvi attenzione soffermandosi sulle più disparate tematiche, come le questioni inerenti alle parti del discorso, alla teoria dell argomentazione, all ermeneutica biblica o ancora all origine del linguaggio umano. Una linea di rottura, tuttavia, può essere individuata nel periodo a cavallo tra il XIX e il XX secolo, quando l attenzione filosofica per il linguaggio assunse definitivamente la forma di una disciplina specializzata e a sé stante. Tale metamorfosi fu possibile grazie al contributo di alcuni autori come Gottlob Frege, Bertrand Russell e Ludwig Wittgenstein, a partire dai quali si è appunto soliti parlare di una vera e propria filosofia del linguaggio. Una caratteristica di questa disciplina filosofica era innanzitutto quella di possedere un oggetto di studio ben preciso: l attenzione degli autori che contribuirono a dar vita a tale corrente si focalizzò, infatti, prevalentemente sugli aspetti semantici ovvero inerenti al significato trascurando e lasciando in secondo piano quelli sintattici, morfologici e fonologici, la trattazione dei quali fu tacitamente demandata ad altre discipline (prima fra tutte la linguistica). In tal senso, potremmo da subito precisare che la filosofia del linguaggio novecentesca fu più che altro una filosofia della 2

3 semantica del linguaggio. I primi filosofi del linguaggio si occupavano quindi di questioni relative a che cosa fosse il significato delle espressioni linguistiche, al riferimento che queste hanno nel mondo e al tema della verità. Ma quella che a mio parere può essere considerata la principale caratteristica di questa nuova disciplina filosofica fu l impostazione metodologica che i suoi autori assunsero sin da subito: impostazione nota come antipsicologismo. La tesi centrale dell approccio antipsicologista era data dall idea per cui lo studio filosofico del linguaggio e, nello specifico, del significato, del riferimento e della verità non dovesse in alcun modo fare appello a entità o a rappresentazioni mentali. Si lasciava quindi da parte la sfera psicologica, in quanto ritenuta filosoficamente irrilevante. Per comprendre la motivazione che sta dietro a una posizione così radicale è opportuno considerare il contesto storico-teorico in cui la prima filosofia del linguaggio si inseriva. Lo stesso Frege, infatti, prima che essere un filosofo era innanzitutto un logico e un matematico, tanto che con il suo lavoro contribuì ampiamente al superamento della logica aristotelica classica e alla nascita della logica moderna. Questa sua radice logica e matematica non poté far altro che orientare di conseguenza le ricerche degli autori che lo seguirono. Lo stesso Richard Montague, espressione più alta del paradigma classico della filosofia del linguaggio, ancora negli anni 70 sosteneva che la semantica dovesse esser concepita come una branca della matematica (e perciò della logica), piuttosto che come parte della psicologia. Nello specifico, l antipsicologismo di questi autori era giustificato in quanto forniva una soluzione a un problema concernente la comunicazione e la comprensione inter-individuale. La questione era la seguente: poniamo il caso che il significato di una parola corrisponda a una rappresentazione presente nella mente del parlante; tale rappresentazione avrebbe detto Frege sarà una rappresentazione privata, ossia non accessibile alle altre menti e non analizzabile da un punto di vista teorico oggettivo. Pertanto, non avendo noi accesso alle menti degli altri parlanti della nostra lingua, non potremo mai essere sicuri che essi stiano associando a una stessa parola la medesima rappresentazione che noi mentalmente vi associamo: ciò apre al rischio che la comunicazione linguistica sia in realtà una non-comunicazione. La soluzione stava allora nel rigettare ogni appello a entità psicologiche per spiegare i valori semantici delle espressioni linguistiche. Frege, ad esempio, sosteneva che il senso di una parola non dovesse esser confuso con un immagine mentale (dipendente quindi dal punto di vista soggettivo dell individuo), ma che fosse piuttosto «un possesso comune di molte persone e non dunque una parte o un modo della psiche individuale». 3

4 L impostazione metodologica antipsicologista caratterizzò per decenni la filosofia del linguaggio e ancora negli anni 70 autori come Michael Dummett sostenevano che la filosofia non dovesse occuparsi del processo psicologico del pensare. In tal modo, tuttavia, questi autori stavano deliberatamente escludendo l elemento fondamentale del linguaggio umano ovvero l essere umano stesso. Approccio metodologico nettamente opposto lo ebbero invece gli studi condotti a partire dalla fine degli anni 50 nel campo della linguistica. In particolare, una figura centrale fu quella di un giovane docente dell MIT di Boston, che in quegli anni aveva dato alle stampe una versione ridotta della sua tesi di dottorato, destinata a diventare di lì a poco una pietra miliare nello studio del linguaggio. La pubblicazione era intitolata Syntactic Structures, mentre il giovane docente si chiamava Noam Chomsky. Da questo lavoro ebbe inizio nei decenni successivi quella che ancora oggi può essere riconosciuta come la più influente teoria della linguistica contemporanea: sto parlando della Grammatica Generativa chomskiana. Mentre i filosofi del linguaggio lavoravano agli sviluppi della semantica modellistica e persistevano nella difesa dell antipsicologismo, Chomsky affermò molto semplicemente di considerare lo studio del linguaggio umano come facente «parte della psicologia e in ultima analisi della biologia». Insomma, secondo il linguista statunitense, per studiare il linguaggio era essenziale soffermarsi sulla dimensione interna e individuale, analizzando quelle strutture che a livello mentale rendono possibile a un essere umano lo sviluppo di una lingua. Le ricerche di Chomsky ebbero fin da subito un grande impatto in diversi ambiti di ricerca e, non da ultimo, in filosofia del linguaggio. Chomsky fu del resto uno degli attori principali della cosiddetta svolta cognitiva avvenuta nella seconda metà del secolo scorso: fu lui a far sì che in ambito psicologico si abbandonasse il comportamentismo che pretendeva di spiegare i comportamenti degli individui trascurandone gli stati mentali a favore della ricerca cognitiva in psicologia; e fu sempre grazie a lui che alcuni filosofi del linguaggio cominciarono ad avvicinarsi a un approccio più cognitivista, interessandosi ai progressi che la linguistica stava avendo in quegli anni. A partire da questa fase a partire quindi dalla svolta cognitiva si può dire che l approccio unitario della filosofia del linguaggio di inizio 900 cominciò a vacillare. Sebbene, infatti, rimase centrale l attenzione per le questioni semantiche, su un piano metodologico si assistette invece a una frammentazione delle posizioni: alcuni filosofi rimasero legati ancora al modello tradizionale, antipsicologista, mentre altri cominciarono a contemplare la necessità di avvicinarsi alle teorie cognitiviste moderne. Fu così che negli anni successivi l interesse di parte dei filosofi analitici 4

5 la precisazione è d obbligo si spostò verso tematiche inerenti alla mente umana e ai processi cognitivi. Fu così che si ebbe quindi un apertura da parte della filosofia del linguaggio nei confronti delle altre discipline scientifiche che si occupavano di linguaggio con metodi e strumenti teorici differenti, prima fra tutte la linguistica. Questa apertura e la frammentazione di cui dicevamo sopra ricevette ulteriore slancio con l avvento di una famiglia di teorie, nata sempre in seno alla linguistica e vicina all istanza cognitivista, conosciuta con il nome di Semantica Cognitiva. Queste teorie si presentavano come teorie della comprensione umana e identificavano i significati delle espressioni linguistiche con i concetti presenti nella mente degli individui. In tal senso si ponevano in aperto contrasto rispetto alla filosofia del linguaggio classica. La Semantica Cognitiva intendeva, infatti, studiare le strutture e i processi mentali alla base della comprensione e della produzione linguistica; eppure, al tempo stesso, era in grado di fornire un interessante soluzione al problema fregeano della comunicazione: la comprensione e la comunicazione reciproca potevano essere ammesse nonostante si dicesse che i significati erano rappresentazioni mentali, poiché si affermava che noi esseri umani fossimo dotati di strutture mentali e cerebrali simili tra loro (il che garantiva appunto la reciproca comprensione e comunicazione). Da questo momento in poi la filosofia del linguaggio almeno quella che definirei la buona filosofia del linguaggio non smise più di porsi in dialogo e a confronto con i risultati che emergevano dalle altre discipline scientifiche orientate allo studio del linguaggio. Ma torniamo quindi alla domanda posta inizialmente. Quale può essere oggi il ruolo della filosofia del linguaggio e quale contributo può ancora fornire alla ricerca? Diciamo innanzitutto che il filosofo, per sua natura, dovrebbe essere aperto a ogni forma di conoscenza e indagine. Se accettiamo tale impostazione, allora possiamo dire che la filosofia è in grado di porsi al di là delle varie specializzazioni scientifiche, superando i limitati punti di vista che si soffermano su particolari elementi, trascurandone altri. Uno dei rischi, infatti, a mio parere, della ricerca contemporanea sul linguaggio è proprio quello dell eccessiva specializzazione. In linguistica, ad esempio, ma anche nelle altre discipline, si tende molto spesso a focalizzarsi su aspetti e su questioni talmente particolari e specifici da perdere la visione di un orizzonte comune di ricerca. Tutto ciò a discapito del progresso della conoscenza. Il filosofo ha invece la possibilità di posizionarsi al di sopra delle singole divisioni disciplinari, per cercare di comprendere e di problematizzare le questioni più disparate, per poi porre nuove domande e formulare altre linee di ricerca, alimentando in un circolo virtuoso il lavoro delle altre discipline. In altri termini, la filosofia del linguaggio oggi ha ancora la possibilità di assumere il 5

6 ruolo di coordinamento e di regia tra le singole scienze che si occupano del linguaggio naturale. Il filosofo può recepire i dati e le ipotesi che vengono formulate nei più disparati ambiti e può, a partire da questi, tirarne le somme, ponendosi da una prospettiva generale, che permetta di dare nuovo slancio alla ricerca stessa. Ovviamente ciò può essere fatto a patto che non si pretenda di condurre uno studio puramente a- priori, slegato dai dati empirici e non aperto al dialogo con le singole scienze. Fare questo vorrebbe dire cadere in un peccato di hybris che rischierebbe, come nel caso di alcuni strenui difensori del programma antipsicologista, di portare la filosofia a uno stato di isolamento sterile e muto, incapace di dire alcunché di concreto e di rilevante sul fenomeno del linguaggio, se non astratte e vacue elucubrazioni. Claudio Faschilli è dottore di ricerca in Filosofia del linguaggio e della mente. Attualmente insegna filosofia e storia presso il Liceo classico San Raffaele di Milano, dove ricopre anche il ruolo di Vice Preside. Da due anni cura il blog linguaggionaturale.wordpress.com dedicato alla filosofia del linguaggio. 6

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