Quaestio 55 Prooemium

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1 spiegato [q. 51, a. 3]. Quindi un abito può essere costituito di più abiti. 2. Un tutto è costituito di parti. Ma di un unico abito si possono determinare varie parti: Cicerone [De invent. 2, 54], p. es., assegna varie parti alla fortezza, alla temperanza e ad altre virtù. Quindi un abito può constare di molteplici abiti. 3. Una sola conclusione può già costituire l oggetto di un atto o di un abito di scienza. Ma a un unica scienza globale, come la geometria o l aritmetica, appartengono molte conclusioni. Quindi un unico abito può constare di più abiti. In contrario: L abito, essendo una qualità, è una forma semplice. Ma nessuna entità semplice è costituita di più parti. Quindi un abito non può constare di molteplici abiti. Dimostrazione: L abito operativo, del quale principalmente ora parliamo, è una perfezione della facoltà. Ora, ogni perfezione è proporzionata al soggetto che la riceve. Per cui come la facoltà, pur essendo unica, si estende a più cose in quanto esse convengono sotto un unico aspetto, cioè nella comune ragione di oggetto, così anche l abito si estende a più cose ma in quanto dicono ordine a un che di unico, p. es. a una determinata ragione di oggetto, o a un unica natura, o a un unico principio, secondo le spiegazioni date in precedenza [aa. 2, 3]. Se quindi consideriamo l abito in rapporto agli oggetti a cui si estende, troviamo in esso una certa molteplicità. Ma poiché tale molteplicità è ordinata a qualcosa di unico, che forma l oggetto principale dell abito, è chiaro che l abito stesso è una qualità semplice non costituita di più abiti, anche se si estende a realtà molteplici. Infatti un abito si estende a più cose soltanto in ordine a un unico oggetto, dal quale riceve la propria unità. Analisi delle obiezioni: 1. La gradualità che si riscontra nella produzione di un abito è dovuta non al fatto che le parti di esso siano prodotte una dopo l altra, ma al fatto che il soggetto non acquista subito una disposizione ferma e difficilmente amovibile, trovandosi essa in principio solo imperfettamente nel soggetto, per crescere poi gradatamente. Il che avviene anche per le altre qualità. 2. Le parti attribuite alle singole virtù cardinali non sono parti integranti, cioè parti costitutive di un tutto, ma parti soggettive o potenziali, come spiegheremo in seguito [q. 57, a. 6, ad 4; II-II, q. 48]. 3. Chi in una data disciplina acquista la scienza di una conclusione mediante il ragionamento possiede l abito scientifico, però imperfettamente. Quando poi acquista con una dimostrazione la scienza di una seconda conclusione non si produce in lui un secondo abito, ma l abito che prima era imperfetto si perfeziona, estendendosi a un numero maggiore di oggetti: poiché le conclusioni e le dimostrazioni di un unica scienza sono tra loro ordinate, e l una deriva dall altra. Quaestio 55 Prooemium [35787] Iª-IIae q. 55 pr. Consequenter considerandum est de habitibus in speciali. Et quia habitus, ut dictum est, distinguuntur per bonum et malum, primo dicendum est de habitibus bonis, qui

2 sunt virtutes et alia eis adiuncta, scilicet dona, beatitudines et fructus; secundo, de habitibus malis, scilicet de vitiis et peccatis. Circa virtutes autem quinque consideranda sunt, primo, de essentia virtutis; secundo, de subiecto eius; tertio, de divisione virtutum; quarto, de causa virtutis; quinto, de quibusdam proprietatibus virtutis. Circa primum quaeruntur quatuor. Primo, utrum virtus humana sit habitus. Secundo, utrum sit habitus operativus. Tertio, utrum sit habitus bonus. Quarto, de definitione virtutis. ARGOMENTO 55 LE VIRTÙ NELLA LORO ESSENZA Veniamo ora a parlare degli abiti in particolare. E poiché essi si distinguono, come si è visto [q. 54, a. 3], in base all opposizione tra bene e male, prima tratteremo degli abiti buoni, ossia delle virtù e di altre disposizioni affini, quali sono i doni, le beatitudini e i frutti [dello Spirito Santo], e poi degli abiti cattivi, cioè dei vizi e dei peccati [q. 71]. A proposito delle virtù si devono considerare cinque argomenti: primo, l essenza della virtù; secondo, il suo soggetto [q. 56]; terzo, la divisione delle virtù [q. 57]; quarto, la loro causa [q. 63]; quinto, alcune loro proprietà [q. 64]. Sul primo punto si pongono quattro problemi: 1. Se le virtù umane siano abiti; 2. Se siano abiti operativi; 3. Se siano abiti buoni; 4. La definizione della virtù. Articolo 1 In 2 Sent., d. 27, a. 1; 3, d. 23, q. 1, a. 3, sol. 1, 3; De Virt., q. 1, a. 1; In 2 Ethic., lect. 5 Se le virtù umane siano abiti Sembra che le virtù umane non siano abiti. Infatti: 1. Come dice Aristotele [De caelo 1, 11], la virtù è «l ultimo termine della potenza». Ma in ogni genere di cose l ultima rientra nel genere a cui appartiene come ultima: come il punto rientra nel genere della linea. Quindi le virtù rientrano nel genere delle potenze, e non in quello degli abiti. 2. S. Agostino [De lib. arb. 2, 19; cf. Retract. 1, 9] insegna che «la virtù è il buon uso del libero arbitrio». Ma l uso del libero arbitrio è un atto. Perciò la virtù non è un abito, ma un atto. 3. Si merita non con gli abiti, ma con gli atti: altrimenti un uomo meriterebbe di continuo, anche quando dorme. Ora, noi meritiamo con le virtù. Quindi le virtù non sono abiti, ma atti. 4. S. Agostino [De mor. Eccl. 15] scrive che «la virtù è l ordine dell amore». E altrove [Lib. LXXXIII quaest. 30] afferma che «l ordinamento che viene detto virtù consiste nel fruire di ciò che è degno di fruizione, e nell usare ciò che deve essere usato». Ora l ordine, o l ordinamento, indica o un atto o una relazione. Perciò la virtù non è un abito, ma un atto o una relazione. 5. Come ci sono le virtù umane, così ci sono anche le virtù naturali o fisiche. Ma le virtù naturali non sono abiti, bensì potenze. Quindi la stessa cosa vale anche per le virtù umane. In contrario: Il Filosofo [Praed. 6] afferma che la scienza e la virtù sono abiti. Dimostrazione: Il termine virtù sta a indicare la perfezione di una potenza. Ora, la perfezione di una cosa va concepita principalmente in ordine al suo fine.

3 Ma il fine di una potenza è il suo atto. Quindi una potenza si dice perfetta in quanto viene determinata al proprio atto. Ora, ci sono delle potenze che per se stesse sono determinate ai loro atti, cioè le potenze attive naturali. Perciò queste potenze naturali per se stesse sono denominate virtù. - Invece le potenze razionali, che sono proprie dell uomo, non sono determinate a una sola cosa, ma sono indirizzate, in modo indeterminato, a molte, per cui vengono determinate ai loro atti dagli abiti, come si è visto [q. 49, a. 4]. Quindi le virtù umane sono abiti. Analisi delle obiezioni: 1. Talora si denomina virtù la realtà a cui essa è indirizzata, cioè il suo oggetto o il suo atto: come col termine fede viene indicato ora ciò che si crede, ora l atto del credere, ora l abito con cui si crede. Perciò nell espressione: «la virtù è l ultimo termine della potenza», la virtù sta per il suo oggetto. Infatti l ultimo oggetto che la potenza può raggiungere è come il termine che indica la virtù di un dato essere: se uno, p. es., può portare solo fino a cento libbre, si dirà che la sua virtù è per cento libbre, e non per sessanta. Invece l obiezione pretendeva che l ultimo termine della potenza fosse l essenza stessa della virtù. 2. La stessa cosa vale per l affermazione che identifica la virtù col buon uso del libero arbitrio: poiché quest ultimo è il termine o l atto a cui la virtù è ordinata. Infatti l atto della virtù non è altro che il buon uso del libero arbitrio. 3. Quando si dice che si merita con qualcosa, l espressione può essere intesa in due modi. Primo, nel senso del merito stesso, come diciamo che si corre col correre: e in questo senso possiamo meritare soltanto con gli atti. Secondo, nel senso di un certo principio del merito, come diciamo che si corre mediante la facoltà del moto: e in questo senso meritiamo con le virtù e con gli abiti. 4. Si dice che la virtù è l ordine o l ordinamento dell amore per indicare lo scopo a cui è indirizzata: infatti in noi l amore è ordinato dalla virtù. 5. Le potenze naturali sono determinate per se stesse a una sola cosa; non così invece le potenze razionali. Perciò, come si è spiegato [nel corpo], il paragone non regge. Articolo 2 In 3 Sent., d. 23, q. 1, a. 3, sol. 1 Se le virtù umane siano abiti operativi Sembra che le virtù umane non siano essenzialmente operative. Infatti: 1. Cicerone [Tusc. disp. 4, 13] afferma che la virtù è per l anima quello che la salute e la bellezza sono per il corpo. Ma la salute e la bellezza non sono abiti operativi. Quindi neppure la virtù. 2. Nelle realtà di ordine fisico troviamo della virtù non solo in ordine all operare, ma anche in ordine all essere: come traspare dalle parole del Filosofo [De caelo 1, 12], il quale afferma che alcune realtà hanno la virtù di esistere sempre, mentre alcune altre non hanno la virtù di esistere sempre, ma solo per un tempo determinato. Ora, come la virtù di ordine fisico sta agli esseri corporei, così la virtù umana sta a quelli razionali. Perciò anche la virtù umana, oltre che al campo operativo, si estende a quello dell essere.

4 3. Il Filosofo [Phys. 7, 3] afferma che la virtù è «una disposizione di ciò che è perfetto all ottimo». Ma l ottimo a cui l uomo deve disporsi anche con la virtù è, come S. Agostino dimostra [De mor. Eccl. cc. 3, 14], Dio stesso, rispetto al quale l anima si predispone cercando di divenire a lui simile. Quindi la virtù va considerata una qualità dell anima in ordine alla somiglianza con Dio, e quindi non in ordine all operazione. Non è dunque un abito operativo. In contrario: Il Filosofo [Ethic. 2, 6] afferma che «la virtù di ciascuna cosa è ciò che rende buona la sua operazione». Dimostrazione: La virtù, come dice il nome stesso, comporta una certa perfezione della potenza, secondo le spiegazioni date [a. 1]. Ora, essendoci due generi di potenze, cioè all essere e all operazione, si può denominare virtù la perfezione di entrambe le potenze. Mentre però la potenza all essere ha attinenza con la materia, che è appunto un ente in potenza, la potenza a operare ha attinenza con la forma, che è principio di operazione, poiché ogni essere opera in quanto è in atto. Ora, nella compagine dell uomo il corpo fa da materia, e l anima da forma. Rispetto dunque al corpo l uomo non si distingue dagli altri animali, e così pure rispetto a quelle facoltà che appartengono insieme all anima e al corpo: soltanto le facoltà proprie dell anima, cioè quelle razionali, appartengono esclusivamente all uomo. E così le virtù umane, di cui ora parliamo, non si possono attribuire al corpo, ma esclusivamente a ciò che è proprio dell anima. Per cui le virtù umane non dicono ordine all essere, ma piuttosto all operazione. Quindi tali virtù sono per essenza abiti operativi. Analisi delle obiezioni: 1. La maniera di operare deriva dalla disposizione dell agente: infatti quale è l essere, tale sarà l operazione. Essendo quindi la virtù un principio dell operare, è necessario che in forza della virtù preesista in chi opera una disposizione proporzionata. Ma la virtù rende l operazione ordinata. Perciò la virtù stessa è nell anima una certa disposizione ordinata: in quanto cioè le potenze dell anima sono in qualche modo ordinate fra loro, e rispetto agli oggetti esterni. E così la virtù, come conveniente disposizione dell anima, viene paragonata alla salute e alla bellezza, che sono le dovute disposizioni del corpo. Ma ciò non esclude che la virtù sia anche principio di operazione. 2. Le virtù ordinate all essere non sono proprie dell uomo, ma lo sono soltanto le virtù ordinate all agire razionale, che è proprio dell uomo. 3. In Dio l essenza si identifica con l operazione: perciò la massima somiglianza che l uomo può avere con Dio si ha mediante un operazione. Quindi, come sopra [q. 3, a. 2] abbiamo spiegato, la felicità o beatitudine che rende l uomo più simile a Dio, e che è il fine della vita umana, consiste in un operazione. Articolo 3 In 3 Sent., d. 23, q. 1, a. 3, sol. 1; d. 26, q. 2, a. 1; In 2 Ethic., lect. 6 Se le virtù umane siano abiti buoni Sembra che le virtù umane non siano per essenza abiti buoni. Infatti: 1. Il peccato viene sempre preso in senso cattivo. Ma c è una virtù anche del peccato, secondo l espressione di S. Paolo [1 Cor 15, 56]: «La virtù del peccato

5 è la legge». Quindi non sempre la virtù è un abito buono. 2. Virtù è sinonimo di potenza. Ora, la potenza non si riferisce soltanto al bene, ma anche al male, secondo le parole di Isaia [5, 22]: «Guai a coloro che sono potenti nel bere vino, valorosi nel mescere bevande ubriacanti». Quindi la virtù si applica tanto al bene quanto al male. 3. Scrive l Apostolo [2 Cor 12, 9] che «la virtù ha la sua perfezione nella debolezza». Ma la debolezza è un male. Perciò la virtù non si riferisce solo al bene, ma anche al male. In contrario: S. Agostino [De mor. Eccl. 6] scrive: «Nessuno dubita che la virtù renda ottima l anima». E il Filosofo [Ethic. 2, 6] afferma che «la virtù rende buono chi la possiede e buona l azione che egli compie». Dimostrazione: Come si è già detto [a. 1], la virtù implica la perfezione di una potenza: infatti la virtù di ciascuna cosa viene fissata all ultimo termine a cui essa si estende, come nota Aristotele [De caelo 1, 11]. Ora, l ultimo termine a cui si estende una potenza deve essere il bene, poiché il male implica sempre un difetto: per cui ogni male è «una debolezza», come dice Dionigi [De div. nom. 4]. È quindi necessario che la virtù di qualsiasi cosa sia indirizzata al bene. Per cui la virtù umana, che è un abito operativo, deve essere un abito buono, e fatto per compiere il bene. Analisi delle obiezioni: 1. Stando alle spiegazioni del Filosofo [Met. 5, 16], quando nelle cose cattive si parla di perfezione il termine è improprio, come quando si parla di bontà: si usa infatti parlare di un buon ladro o di un buon brigante. E lo stesso si dica del termine virtù applicato al male. Per cui la legge è chiamata «virtù del peccato» in quanto occasionalmente diede incremento al peccato, tanto da permettergli di giungere al massimo della sua potenza. 2. Il male dell ubriachezza e degli eccessi nel bere consiste in un difetto nell ordine della ragione. Ora, tale difetto non impedisce che una potenza inferiore possa raggiungere la perfezione nel suo genere, pur rimanendo l opposizione o il difetto della ragione. Però la perfezione di tale potenza, essendo accompagnata da un difetto della ragione, non può essere considerata una virtù umana. 3. La ragione si rivela tanto più perfetta quanto più è capace di vincere, ossia di sopportare, la debolezza del corpo e delle facoltà inferiori. Perciò la virtù umana, che va attribuita alla ragione, «ha la sua perfezione nella debolezza» non della ragione, bensì del corpo e delle potenze inferiori. Articolo 4 In 2 Sent., d. 27, q. 1, a. 2; De Virt., q. 1, a. 2 Se la virtù sia ben definita Sembra che non sia buona la definizione che si è soliti dare della virtù, cioè: «La virtù è una qualità buona della mente umana, con la quale si vive rettamente, di cui nessuno usa malamente, e che Dio produce in noi senza di noi» [P. Lomb., Sent. 2, 27]. Infatti: 1. La virtù è la bontà di un uomo: poiché «rende buono chi la possiede». Ma la bontà non può dirsi buona, come la bianchezza non è bianca. Quindi non è corretta l affermazione che la virtù è «una qualità buona».

6 2. Una differenza non può essere più estesa del suo genere: essendo una suddivisione del genere. Ora, la bontà è più estesa della qualità: infatti il bene coincide con l ente. Quindi la «bontà» non deve entrare nella definizione della virtù come differenza della qualità. 3. S. Agostino [De Trin. 12, 8] scrive: «Quando troviamo che un elemento non è comune a noi e alle bestie, esso appartiene all anima». Ora, certe virtù appartengono anche alle facoltà inferiori, come dimostra il Filosofo [Ethic. 3, 10]. Perciò non tutte le virtù sono «buone qualità della mente». 4. La rettitudine fa parte della giustizia: infatti le stesse persone sono dette insieme rette e giuste. Ma la giustizia è una specie della virtù. Non è dunque corretto mettere la rettitudine nella definizione della virtù con l espressione: «con la quale si vive rettamente». 5. Chiunque si insuperbisce di una cosa, ne usa male. Ma sono molti quelli che si insuperbiscono della virtù: infatti S. Agostino [Epist. 211] afferma che «la superbia tende insidie anche alle opere buone, per renderle vane». Quindi è falso che «della virtù nessuno usa malamente». 6. L uomo viene giustificato mediante la virtù. Ora S. Agostino [Serm. 169], spiegando quel passo evangelico [Gv 14, 12]: «Ne farà anche di maggiori», afferma: «Colui che ti ha creato senza di te non ti giustificherà senza di te». Perciò non è a proposito l affermazione che «Dio produce in noi la virtù senza di noi». In contrario: Sta l autorità di S. Agostino, dalle cui parole questa definizione è stata tratta, e specialmente dal II libro del De Libero Arbitrio [c. 19]. Dimostrazione: Questa definizione abbraccia perfettamente tutto ciò che è essenziale alla virtù. Infatti la perfetta nozione di una cosa è desunta dalle sue cause. Ora, la suddetta definizione abbraccia tutte le cause della virtù. Poiché dunque la causa formale della virtù, come di qualsiasi altra cosa, è desunta dal suo genere e dalla sua differenza, nell espressione: «qualità buona» troviamo il genere della virtù nella qualità, e la differenza nella bontà. Tuttavia la definizione sarebbe più conveniente se al posto di qualità si mettesse abito, che è il genere prossimo. Si noti però che la virtù, come qualsiasi accidente, non ha una materia da cui deriva [ex qua], ma ha solo una materia che la interessa [circa quam, cioè l oggetto], e una materia in cui risiede [in qua], vale a dire il soggetto. Ora, la materia che la riguarda è l oggetto della virtù; e non era possibile indicarlo nella suddetta definizione, poiché l oggetto serve a determinare la specie della virtù, mentre qui si tratta di definire la virtù in generale. Perciò come causa materiale viene indicato il soggetto, quando si afferma che la virtù è una buona qualità «della mente». Il fine poi della virtù, che è un abito operativo, è l operazione stessa. Si osservi però che tra gli abiti operativi alcuni sono sempre volti al male, cioè gli abiti viziosi, e altri sono indifferenti al bene e al male, come l opinione, che può essere sia vera che falsa: la virtù invece è sempre ordinata al bene. Per distinguere quindi la virtù dagli abiti che sono sempre cattivi si dice che «con essa si vive rettamente», e per distinguerla da quelli che possono essere sia buoni che cattivi si dice che «di essa nessuno usa malamente».

7 Infine la causa efficiente della virtù infusa, che qui viene definita, è Dio. Per cui si dice che «Dio la produce in noi senza di noi». Ma se togliamo quest ultima parte, il resto della definizione è comune a tutte le virtù, sia acquisite che infuse. Analisi delle obiezioni: 1. La prima nozione che viene appresa dall intelletto è l ente: infatti di qualsiasi cosa diciamo che è un ente; e per conseguenza diciamo che è uno e che è bene, nozioni queste che coincidono con l ente. Per cui possiamo affermare che l essenza, come l unità e la bontà, è ente, è una ed è buona. Ma ciò non avviene per le forme particolari, quali sono la bianchezza e la salute: infatti non tutto ciò che conosciamo lo conosciamo sotto l aspetto di bianco e di sano. - Si deve però notare che come gli accidenti e le forme prive di sussistenza non vengono dette enti perché hanno l essere in se stesse, ma perché alcune cose l hanno in forza di esse, così si attribuisce loro la bontà e l unità in forza della bontà o dell unità stessa con la quale rendono buono o uno l essere in cui si trovano. Ed è in questo senso che viene detta buona la virtù, poiché in forza di essa una certa cosa è buona. 2. La bontà che è posta nella definizione della virtù non è il bene in generale, che coincide con l ente, e che è più esteso della qualità, ma è il bene di ordine razionale, riferendosi al quale Dionigi [De div. nom. 4] afferma che «il bene dell anima è di essere secondo la ragione». 3. La virtù non può trovarsi nelle parti irrazionali dell anima se non in quanto esse partecipano della ragione, come nota Aristotele [Ethic. 1, 13]. Perciò la ragione, o mente, è il soggetto proprio delle virtù umane. 4. La rettitudine propria della giustizia si riferisce alle cose esterne deputate all uso dell uomo e che costituiscono la materia specifica della giustizia, come vedremo [q. 60, a. 2; II-II, q. 58, a. 8], ma la rettitudine che dice ordine al debito fine e alla legge divina, e che secondo le spiegazioni già date [q. 19, a. 4] forma la regola della volontà umana, è una qualità comune a tutte le virtù. 5. Si può fare un cattivo uso della virtù come oggetto, cioè nel senso che uno può non stimarla, odiarla, oppure insuperbirsi di essa; ma se la si considera come principio operativo nessuno può farne cattivo uso, nel senso di rendere cattivo l atto stesso della virtù. 6. Le virtù infuse vengono causate in noi da Dio senza la nostra opera, non però senza il nostro consenso. Ed è così che vanno intese le parole: «che Dio produce in noi senza di noi». Invece le operazioni che noi compiamo Dio le causa in noi non senza la nostra opera: poiché egli agisce in ogni volere e in ogni natura. Quaestio 56 Prooemium [35830] Iª-IIae q. 56 pr. Deinde considerandum est de subiecto virtutis. Et circa hoc quaeruntur sex. Primo, utrum virtus sit in potentia animae sicut in subiecto. Secundo, utrum una virtus possit esse in pluribus potentiis. Tertio, utrum intellectus possit esse subiectum virtutis. Quarto, utrum irascibilis et concupiscibilis. Quinto, utrum vires apprehensivae sensitivae. Sexto, utrum voluntas.

8 ARGOMENTO 56 IL SOGGETTO DELLE VIRTÙ Passiamo a considerare il soggetto delle virtù. Sull argomento si pongono sei quesiti: 1. Se le virtù risiedano nelle potenze dell anima; 2. Se una virtù possa risiedere in più di una potenza; 3. Se l intelletto possa essere sede delle virtù; 4. Se possano esserlo l irascibile e il concupiscibile; 5. Se possano esserlo le potenze sensitive; 6. Se possa esserlo la volontà. Articolo 1 In 3 Sent., d. 33, q. 2, a. 4, sol. 1; De Virt., q. 1, a. 3 Se le virtù risiedano nelle potenze dell anima Sembra che le virtù non risiedano nelle potenze dell anima. Infatti: 1. S. Agostino [De lib. arb. 2, 19] afferma che «la virtù è una qualità con la quale si vive rettamente». Ora, non si vive con le potenze dell anima, bensì con la sua essenza. Perciò la virtù non risiede nelle potenze dell anima, ma nella sua essenza. 2. Il Filosofo [Ethic. 2, 6] scrive: «La virtù rende buono chi la possiede, e buona l azione che egli compie». Ora, come un azione deve il proprio essere alla potenza, così chi possiede una virtù lo deve all essenza della sua anima. Quindi le virtù non appartengono alle potenze più che all essenza dell anima. 3. La potenza si trova nella seconda specie della qualità. Ma la virtù, come abbiamo detto sopra [q. 55, a. 4], è una qualità, e questa non può appartenere a un altra qualità. Quindi la virtù non può aver sede nelle potenze dell anima. In contrario: Come dice Aristotele [De caelo 1, 11], «la virtù è l ultimo termine della potenza». Ma il termine ultimo risiede nella realtà che esso termina. Quindi le virtù risiedono nelle potenze dell anima. Dimostrazione: Con tre argomenti si può dimostrare che la virtù risiede nelle potenze dell anima. Primo, partendo dalla stessa nozione di virtù, che dice perfezione di una potenza: e una perfezione deve risiedere nella realtà che essa perfeziona. - Secondo, dal fatto che la virtù è un abito operativo, come sopra abbiamo detto [q. 55, a. 2]: infatti ogni operazione procede dall anima mediante qualche potenza. - Terzo, dal fatto che è una disposizione all ottimo. Ora, l ottimo è il fine, che è o l operazione di una cosa, oppure qualcosa che deriva dalla potenza mediante l operazione. Perciò le virtù umane hanno la loro sede nelle potenze dell anima. Analisi delle obiezioni: 1. Vivere ha due significati. Talora si dice vivere l essere stesso di un vivente: e in questo caso appartiene all essenza dell anima, che nel vivente è il principio dell essere. Altre volte per vivere si intende l operazione di un vivente: e in questo caso si vive rettamente con la virtù in quanto con essa uno agisce rettamente. 2. La bontà viene attribuita o al fine o a ciò che è ordinato al fine. Siccome quindi il bene di chi opera consiste nell operare, ne viene che anche l attitudine della virtù a rendere buono l operante si riferisce all operazione, e conseguentemente alla potenza. 3. Si può dire che un accidente è il soggetto o la sede di un altro accidente non

9 nel senso che possa sostentarlo, ma perché un accidente può risiedere in una sostanza mediante un altro accidente: come il colore è nel corpo mediante la superficie, per cui si dice che la superficie è la sede o il soggetto del colore. Ed è in questo modo che le potenze dell anima sono la sede delle virtù. Articolo 2 Infra, q. 60, a. 5; In 4 Sent., d. 14, q. 1, a. 3, sol. 1; De Verit., q. 14, a. 4, ad 7 Se una virtù possa risiedere in più di una potenza Sembra che una virtù possa risiedere in due potenze. Infatti: 1. Gli abiti sono conosciuti mediante i loro atti. Ma un atto può derivare in modo diverso da diverse potenze: come il camminare deriva dalla ragione che dirige, dalla volontà che muove e dalla potenza locomotiva che esegue. Quindi un abito virtuoso può risiedere in diverse potenze. 2. Il Filosofo [Ethic. 2, 4] insegna che per la virtù si richiedono tre cose, cioè «sapere», «volere» e «operare con fermezza». Ma sapere spetta all intelletto, volere invece alla volontà. Quindi una virtù si può trovare in più di una potenza. 3. La prudenza risiede nella ragione essendo, come dice Aristotele [Ethic. 6, 5], «la retta ragione dell agire». Ma si trova pure nella volontà: poiché, come nota il medesimo [ib., c. 12], essa è incompatibile con una volontà perversa. Perciò una virtù può risiedere in due potenze. In contrario: La virtù ha come sede, o soggetto, qualche potenza dell anima. Ma il medesimo accidente non può risiedere in più soggetti. Quindi una virtù non può trovarsi in più di una potenza dell anima. Dimostrazione: La presenza di una qualità in due soggetti può essere concepita in due modi. Primo, a parità di condizioni nell uno e nell altro. E in questo modo è impossibile che una virtù si trovi in due potenze, poiché la distinzione delle potenze viene desunta dalle differenze generiche degli oggetti, mentre la distinzione degli abiti da quelle specifiche: se quindi c è una distinzione di potenze ci sarà pure una distinzione di abiti, sebbene non sia vero l inverso. Secondo, una qualità può trovarsi in due o più soggetti non a parità di condizioni, ma secondo un certo ordine. E allora una virtù può appartenere a più di una potenza, così da trovarsi in una di esse in maniera principale, e nelle altre per estensione o come predisposizione, secondo la mozione che una potenza esercita sull altra, e per il fatto che l una riceve qualcosa dall altra. Analisi delle obiezioni: 1. Il medesimo atto non può appartenere a potenze diverse a parità di condizioni, ma lo può secondo ragioni diverse e secondo un ordine differente. 2. Il sapere è un prerequisito della virtù morale in quanto una virtù morale agisce secondo la retta ragione. Ma essenzialmente la virtù morale consiste in un fatto appetitivo. 3. Sostanzialmente, come vedremo [a. 3; q. 57, a. 4], la prudenza risiede nella ragione, ma presuppone quale suo principio la rettitudine della volontà. Articolo 3 In 3 Sent., d. 23, q. 1, a. 4, sol. 1; De Virt., q. 1, a. 7

10 Se l intelletto possa essere sede di virtù Sembra che l intelletto non sia sede di virtù. Infatti: 1. S. Agostino [De mor. Eccl. 15] insegna che ogni virtù è amore. Ora, l amore non risiede nell intelletto, ma soltanto nelle potenze appetitive. Quindi nessuna virtù risiede nell intelletto. 2. La virtù, come si è dimostrato [q. 55, a. 3], è ordinata al bene. Ora, il bene non è oggetto dell intelletto, ma delle potenze appetitive. Quindi la sede delle virtù non è l intelletto, ma la potenza appetitiva. 3. Al dire del Filosofo [Ethic. 2, 6], «la virtù rende buono chi la possiede». Ma l abito che perfeziona l intelletto non rende buono chi lo possiede: infatti un uomo non è detto buono per la sua scienza o per la sua arte. Quindi l intelletto non è sede di virtù. In contrario: Mente si dice in modo specialissimo dell intelletto. Ora, il soggetto proprio delle virtù è la mente, come risulta chiaro dalla definizione riportata sopra [q. 55, a. 4]. Quindi l intelletto è sede di virtù. Dimostrazione: La virtù, come si è detto [ib., a. 3], è un abito che serve a ben operare. Ora, un abito può essere ordinato a ben operare in due modi. Primo, in quanto esso conferisce a un uomo la sola capacità di compiere bene degli atti: come l abito della grammatica dà a un uomo la capacità di parlare correttamente. Ma la grammatica non fa sì che egli parli sempre correttamente: infatti un grammatico può anche permettersi dei barbarismi o dei solecismi. E lo stesso si dica delle altre scienze o arti. - Secondo, in quanto un abito non dà solo la capacità di agire, ma anche quella di usare bene di questa capacità: come la giustizia non soltanto fa sì che un uomo sia di pronta volontà nel compiere cose giuste, ma anche fa sì che agisca secondo giustizia. Ora, è in forza di tali abiti che uno opera il bene e che è buono in senso assoluto, p. es. giusto, temperante, ecc.: poiché una cosa viene detta buona, o ente, in senso assoluto non quando è in potenza, ma quando è in atto. E poiché «la virtù è ciò che rende buono chi la possiede, e buone le azioni che egli compie» [cf. l. cit. nell ob. 3], a questi abiti si applica perfettamente il termine di virtù: poiché rendono attualmente buona un azione, e rendono buono in senso assoluto chi la possiede. Invece gli abiti del primo tipo non sono virtù in senso assoluto: poiché rendono buona l azione solo rispetto a una data capacità; e neppure rendono buono in senso assoluto chi li possiede. Se infatti uno è scienziato o artista, non si dice che è buono in senso assoluto, ma si dice che è buono soltanto in senso relativo: si dirà, p. es., che è un buon grammatico, o un buon artigiano. Ed è per questo che d ordinario le scienze e le arti vengono contrapposte alle virtù; qualche volta però, come fa Aristotele nel VI libro dell Etica [cc. 2, 3], sono denominate virtù. Perciò l intelletto, non solo quello pratico, ma anche quello speculativo, può essere sede di quegli abiti che sono virtù in senso relativo, senza alcuna subordinazione alla volontà: il Filosofo, p. es., mette tra le virtù intellettive la scienza, la sapienza, l intelletto e persino le arti [ib.]. - Invece per gli abiti che sono virtù in senso assoluto l unica sede è la volontà; oppure qualche altra potenza in quanto è mossa dalla volontà. E questo perché la volontà

11 muove ai loro atti tutte le altre potenze che in qualche modo sono razionali, come sopra [q. 9, a. 1; q. 17, aa. 1, 5; I, q. 82, a. 4] abbiamo spiegato: perciò il retto agire di un uomo dipende dal fatto che egli ha buona la volontà. E così la virtù che porta ad agire bene non solo per la capacità, ma anche per l atto che produce, deve trovarsi nella volontà medesima; oppure in una potenza sotto la sua mozione. L intelletto però può essere mosso dalla volontà come le altre potenze: infatti uno pensa attualmente una cosa perché lo vuole. Perciò, in quanto subordinato alla volontà, l intelletto può essere sede o soggetto di virtù propriamente dette. E in questo senso l intelletto speculativo, o ragione, è il soggetto della fede: poiché l intelletto viene mosso a dare l assenso alle realtà di fede dal comando della volontà: infatti «nessuno crede se non perché lo vuole» [Agost., In Ioh. ev. tract. 26]. - Invece l intelletto pratico è il soggetto della prudenza. Essendo infatti questa la retta ragione dell agire umano, si richiede che l uomo prudente sia ben disposto rispetto ai princìpi dell agire razionale, cioè rispetto ai fini di esso; e questa buona disposizione dipende dalla rettitudine della volontà, come la buona disposizione rispetto ai princìpi speculativi dipende dal lume naturale dell intelletto agente. Come quindi l intelletto speculativo, per la sua dipendenza dall intelletto agente, è la sede o il soggetto della scienza, che è la retta ragione rispetto alle verità speculative, così il soggetto della prudenza è l intelletto pratico, per la sua dipendenza dalla volontà retta. Analisi delle obiezioni: 1. Le parole di S. Agostino vanno applicate alla virtù propriamente detta: non nel senso che ogni virtù del genere sia amore in senso assoluto, ma perché essa dipende in qualche modo dall amore, in quanto dipende dalla volontà, il cui primo moto è l amore, come si è spiegato [q. 25, aa. 1, 2, 3; q. 27, a. 4; I, q. 20, a. 1]. 2. Il bene di ciascun essere è il proprio fine: perciò, essendo fine dell intelletto il vero, conoscere il vero è l atto buono dell intelletto. Quindi l abito che dà la perfezione all intelletto con la conoscenza del vero, sia in campo speculativo che in campo pratico, è detto virtù. 3. L argomento è valido se si tratta della virtù in senso assoluto. Articolo 4 Infra, a. 5, ad 1; In 3 Sent., d. 33, q. 2, a. 4, sol. 2; De Verit., q. 24, a. 4, ad 9; De Virt., q. 1, a. 4; a. 10, ad 5 Se l irascibile e il concupiscibile possano essere sede di virtù Sembra che l irascibile e il concupiscibile non possano essere sede di virtù. Infatti: 1. Queste facoltà sono comuni a noi e ai bruti. Ma noi ora parliamo delle virtù proprie dell uomo, cioè delle virtù umane. Perciò le virtù umane non possono risiedere nell irascibile e nel concupiscibile, che sono potenze dell appetito sensitivo, secondo le spiegazioni date nella Prima Parte [q. 81, a. 2]. 2. L appetito sensitivo è una facoltà organica. Ora, il bene della virtù non può trovarsi nel corpo dell uomo, poiché l Apostolo [Rm 7, 18] afferma: «Io so che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene». Quindi un appetito

12 sensitivo non può essere sede o soggetto di virtù. 3. S. Agostino [De mor. Eccl. 5] dimostra che la virtù non è nel corpo, ma nell anima, per il fatto che il corpo è retto dall anima: che quindi uno usi bene del corpo va attribuito totalmente all anima: «come se un cocchiere conducesse sulla strada giusta i cavalli seguendo le mie indicazioni, tutto il merito sarebbe mio». Ora, come l anima dirige il corpo, così la ragione dirige l appetito sensitivo. Perciò la retta condotta dell irascibile e del concupiscibile è dovuta interamente alle potenze razionali. D altra parte sopra [q. 55, a. 4] si è detto che «la virtù è la disposizione per cui si vive rettamente». Quindi la virtù non può trovarsi nell irascibile e nel concupiscibile, ma soltanto nella parte razionale. 4. «L atto principale di una virtù morale è la scelta», come scrive Aristotele [Ethic. 8, 13]. Ma la scelta non è un atto dell irascibile o del concupiscibile, bensì della ragione, secondo le spiegazioni date [q. 13, a. 2]. Quindi una virtù morale non può risiedere nell irascibile o nel concupiscibile, ma solo nella ragione. In contrario: Si è soliti collocare la fortezza nell irascibile, e la temperanza nel concupiscibile. Per cui il Filosofo [Ethic. 3, 10] afferma che «queste virtù appartengono alle facoltà irrazionali». Dimostrazione: L irascibile e il concupiscibile possono essere considerati sotto due punti di vista. Primo, in se stessi, come facoltà dell appetito sensitivo. E da questo lato non possono essere sede di virtù. - Secondo, come facoltà partecipi della ragione, in quanto sono fatte per obbedire alla ragione. E da questo lato l irascibile e il concupiscibile possono essere sede di virtù umane: poiché sotto questo aspetto, in quanto partecipi della ragione, sono princìpi degli atti umani. E a potenze di questo genere non si possono non attribuire delle virtù. È infatti evidente che nell irascibile e nel concupiscibile ci sono delle virtù. Poiché l atto che promana da una potenza sotto la mozione di un altra non può essere perfetto se entrambe le potenze non sono ben disposte all operazione: come l atto di un artefice non può essere ben appropriato se l artefice e lo strumento stesso non sono ben disposti all operazione. Perciò nelle azioni compiute dall irascibile e dal concupiscibile sotto la mozione della ragione è necessario, per ben operare, che vi sia il perfezionamento di qualche abito non soltanto nella ragione, ma anche nell irascibile e nel concupiscibile stessi. E poiché la buona disposizione di una potenza che muove perché mossa viene desunta dalla conformità di essa con la potenza motrice, di conseguenza la virtù che risiede nell irascibile e nel concupiscibile non è altro che una conformità abituale di tali potenze con la ragione. Analisi delle obiezioni: 1. Considerate in se stesse, cioè in quanto parti dell appetito sensitivo, le facoltà dell irascibile e del concupiscibile sono comuni a noi e alle bestie. Ma nella misura in cui sono razionali per partecipazione, in quanto sottomesse alla ragione, sono proprie dell uomo. E sotto questo aspetto possono essere sede di virtù umane. 2. La carne di un uomo di per sé non possiede il bene della virtù, tuttavia diviene strumento di atti virtuosi in quanto, sotto la mozione della ragione,

13 «mettiamo le nostre membra a servizio della giustizia» [Rm 6, 19]. E allo stesso modo anche l irascibile e il concupiscibile di per sé non possiedono il bene della virtù, ma piuttosto l infezione del fomite; però il bene della virtù morale si ingenera in essi in quanto si conformano alla ragione. 3. Il modo con cui l anima regge il corpo è diverso da quello con cui la ragione regge l irascibile e il concupiscibile. Infatti il corpo obbedisce pienamente all anima senza contrasti nelle cose in cui naturalmente deve seguirne la mozione: per cui il Filosofo [Polit. 1, 2] dice che «l anima regge il corpo con un dominio dispotico», cioè come un padrone fa col suo schiavo. Perciò il moto del corpo si riferisce interamente all anima. E per questo nel corpo non ci possono essere delle virtù, ma soltanto nell anima. Invece l irascibile e il concupiscibile non obbediscono pienamente alla ragione, ma hanno dei moti peculiari che talora contrastano con la ragione: per cui il Filosofo [ib.] aggiunge che la ragione regge l irascibile e il concupiscibile «con un dominio politico», cioè come vengono governate le persone libere, che in certe cose conservano la propria volontà. E per questo è necessario che anche nell irascibile e nel concupiscibile ci siano delle virtù, per ben disporli ai loro atti. 4. Nella scelta, secondo Aristotele [Ethic. 6, 12], si devono considerare due cose: l intenzione del fine, che spetta a una virtù morale, e la scelta dei mezzi, che spetta alla prudenza. Ora, dipende proprio dalla buona disposizione dell irascibile e del concupiscibile avere la retta intenzione del fine in materia di passioni. Perciò le virtù morali riguardanti le passioni sono nell irascibile e nel concupiscibile, mentre la prudenza è nella ragione. Articolo 5 Supra, q. 50, a. 3, ad 3; In 3 Sent., d. 33, q. 2, a. 4, sol. 2, ad 6; De Virt., q. 1, a. 4, ad 6 Se le potenze sensitive di ordine conoscitivo siano sede di virtù Sembra che qualche virtù possa risiedere nelle potenze apprensive sensitive interne. Infatti: 1. L appetito sensitivo può essere sede di virtù in quanto obbedisce alla ragione. Ma anche i sensi interni obbediscono alla ragione: infatti l immaginativa, la cogitativa e la memoria sottostanno al comando della ragione. Quindi in tali potenze si possono trovare delle virtù. 2. Come l appetito razionale, cioè la volontà, può essere ostacolato o agevolato dall appetito sensitivo, così l intelletto, ossia la ragione, può essere ostacolato o agevolato dalle predette facoltà. Quindi nelle facoltà sensitive di ordine conoscitivo si può trovare la virtù come in quelle appetitive. 3. La prudenza è una virtù alla quale Cicerone [De invent. 2, 53] assegna come parte la memoria. Perciò anche nella facoltà della memoria ci può essere una virtù. E per lo stesso motivo in tutte le altre facoltà sensitive. In contrario: Tutte le virtù o sono intellettuali o sono morali, come insegna Aristotele [Ethic. 2, 1]. Ora, tutte le virtù morali sono nella parte appetitiva; le intellettuali invece sono nell intelletto o ragione, come egli dimostra [Ethic. 6, 1]. Quindi nessuna virtù può trovarsi nei sensi interni. Dimostrazione: Nei sensi interni bisogna ammettere l esistenza di alcuni abiti.

14 E ciò è dimostrato specialmente da quanto fa notare il Filosofo [De mem. et remin. 2], cioè dal fatto che «nel ricordare una cosa dopo l altra influisce la consuetudine, che è come una seconda natura»: ora, questo abito consuetudinario non è altro che l abitudine acquisita mediante la consuetudine, che opera come una seconda natura. Cicerone quindi può affermare [l. cit.] che la virtù è «un abito che si uniforma alla ragione in maniera quasi connaturale». Nell uomo però ciò che viene acquisito per consuetudine dalla memoria e dalle altre facoltà sensitive non è un abito a sé stante, ma un elemento annesso agli abiti della parte intellettiva, come si è già ricordato [q. 50, a. 4, ad 3]. Tuttavia anche se in queste potenze ci sono degli abiti, questi non possono essere considerati virtù. Infatti la virtù è un abito perfetto, col quale non si può operare che il bene: perciò è necessario che la virtù risieda in quella potenza che può compiere un atto buono. Ora, la conoscenza della verità non ha compimento nelle facoltà sensitive, ma queste facoltà sono come preparatorie alla conoscenza intellettiva. E così le virtù riguardanti la conoscenza del vero non sono in queste facoltà, ma piuttosto nell intelletto o nella ragione. Analisi delle obiezioni: 1. L appetito sensitivo rispetto alla volontà, che è l appetito razionale, ha la funzione di uno strumento che ne subisce il moto. Perciò l operazione delle facoltà appetitive ha il suo compimento nell appetito sensitivo. E così quest ultimo è sede di virtù. - Invece le potenze sensitive di ordine conoscitivo sono piuttosto moventi rispetto all intelletto: poiché i fantasmi stanno all anima intellettiva come i colori alla vista, secondo l espressione di Aristotele [De anima 3, cc. 5, 7]. Perciò l operazione conoscitiva termina nell intelletto. E così le virtù di ordine conoscitivo sono nell intelletto, o nella ragione. 2. È così risolta anche la seconda obiezioni. 3. Non si dice che la memoria fa parte della prudenza come una specie fa parte del genere, come se la memoria fosse una virtù a sé stante; siccome però fra le cose richieste per la prudenza c è anche la bontà della memoria, sotto questo aspetto la memoria ne è una parte integrante. Articolo 6 In 3 Sent., d. 23, q. 1, a. 4, sol. 1; d. 27, q. 2, a. 3, ad 5; De Verit., q. 25, a. 4, ad 9; De Virt., q. 1, a. 5; a. 12, ad 10; q. 2, a. 2 Se la volontà possa essere sede di virtù Sembra che la volontà non possa essere sede di alcuna virtù. Infatti: 1. Non si richiede alcun abito per orientarsi verso ciò che conviene a una data facoltà in forza della sua natura. Ora, essendo la volontà nella ragione, come afferma il Filosofo [De anima 3, 9], in forza della sua natura essa tende, come del resto tutte le virtù, verso ciò che è conforme alla ragione, poiché ogni essere desidera per natura il proprio bene: infatti, come scrive Cicerone [De invent. 2, 53], «la virtù è un abito connaturato, che si conforma alla ragione». Quindi la volontà non è sede di virtù. 2. Qualsiasi virtù o è intellettuale o è morale, come dice Aristotele [Ethic. 1, 13; 2, 1]. Ora, le virtù intellettuali risiedono nell intelletto e nella ragione, ma non nella volontà; le virtù morali invece risiedono nell irascibile e nel concupiscibile,

15 che sono potenze razionali per partecipazione. Quindi nessuna virtù risiede nella volontà. 3. Tutti gli atti umani, ai quali le virtù sono ordinate, sono atti volontari. Se dunque ci fosse una virtù nella volontà per alcuni atti umani, per lo stesso motivo bisognerebbe ammetterla per tutti. Quindi o si dovranno escludere le virtù in tutte le altre facoltà, oppure al medesimo atto dovranno essere ordinate due virtù differenti: il che sembra inammissibile. Quindi la volontà non può essere sede o soggetto di virtù. In contrario: Ciò che muove richiede una perfezione maggiore di ciò che subisce la mozione. Ma la volontà muove l irascibile e il concupiscibile. Quindi la virtù deve trovarsi nella volontà più che nell irascibile e nel concupiscibile. Dimostrazione: L abito ha il compito di predisporre la potenza all operazione: perciò una potenza per ben operare ha bisogno di un abito, cioè di una virtù, quando a ciò non sia sufficiente la sua stessa natura. Ora, la natura propria di ciascuna potenza si desume dall oggetto. Avendo quindi noi già dimostrato [q. 19, a. 3] che l oggetto della volontà è il bene di ordine razionale ad essa proporzionato, è chiaro che rispetto a tale bene la volontà non ha bisogno di essere predisposta da una virtù. Se però un uomo è tenuto a volere un bene che supera le proporzioni del volente, o rispetto a tutta la specie umana, come il bene divino, che trascende i limiti della natura umana, o rispetto a un determinato individuo, come il bene del prossimo, allora la volontà ha bisogno di virtù. Perciò le virtù che ordinano l affetto dell uomo verso Dio e verso il prossimo, come la carità, la giustizia e simili, hanno la loro sede nella volontà. Analisi delle obiezioni: 1. Il primo argomento è valido per le virtù che dispongono al bene proprio di colui che vuole, come la temperanza e la fortezza, che come si è visto [I, q. 21, a. 1, ad 1; q. 59, a. 4, ad 3] hanno per oggetto le passioni umane o altre cose del genere. 2. Razionale per partecipazione non è soltanto l irascibile o il concupiscibile, ma «tutto il genere appetitivo», come dice Aristotele [Ethic. 1, 13]. E nell appetito è compresa anche la volontà. Perciò ogni virtù che eventualmente ha sede nella volontà è una virtù morale, a meno che non sia teologale, come vedremo in seguito [q. 58, a. 3, ad 3; q. 62, a. 3]. 3. Alcune virtù sono ordinate ad assicurare un bene che consiste nella moderazione delle passioni, cioè un bene particolare e proprio di ciascuno: e da questo punto di vista non è necessario che vi siano delle virtù nella volontà, poiché a ciò basta la natura della potenza, come si è detto [nel corpo]. Rimangono però necessarie quelle virtù che sono ordinate a un bene che sorpassa quei limiti. Quaestio 57 Prooemium [35881] Iª-IIae q. 57 pr. Deinde considerandum est de distinctione virtutum. Et primo, quantum ad virtutes intellectuales; secundo, quantum ad morales; tertio, quantum ad theologicas. Circa primum quaeruntur sex. Primo, utrum habitus intellectuales speculativi sint virtutes. Secundo,

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