IL RAPPORTO TRA IL DIRITTO DELL UNIONE EUROPEA E IL DIRITTO NAZIONALE DAL PUNTO DI VISTA DEGLI INDIVIDUI

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CORSO DI DIRITTO DELL UNIONE EUROPEA MATERIALE INTEGRATIVO PER LA PREPARAZIONE DELL ESAME IL RAPPORTO TRA IL DIRITTO DELL UNIONE EUROPEA E IL DIRITTO NAZIONALE DAL PUNTO DI VISTA DEGLI INDIVIDUI a cura di GAETANO VITELLINO

INDICE SOMMARIO I. LA DIRETTA EFFICACIA DELLE NORME DELL UNIONE EUROPEA 1. Considerazioni introduttive 2. L affermazione della dottrina degli effetti diretti e i suoi fondamenti teorici secondo la Corte di giustizia 2.1. Gli individui come soggetti dell ordinamento giuridico dell Unione europea: la sentenza Van Gend & Loos 2.2. Il fondamento della diretta efficacia delle direttive 2.3. Il fondamento della diretta efficacia delle decisioni 3. I presupposti per la diretta efficacia delle norme dell Unione europea 3.1. Con riguardo alle norme del diritto primario 3.2. Con riguardo alle norme contenute in direttive 3.3. Con riguardo alle decisioni 4. L intensità dell efficacia diretta delle norme dell Unione europea (e i suoi limiti) 4.1. L esclusione degli effetti diretti «orizzontali» delle direttive 4.2. L esclusione degli effetti diretti «verticali discendenti» delle direttive 4.3. L estensione della diretta efficacia «verticale» delle direttive: l ampia nozione di «soggetti pubblici» 4.4. Effetti diretti verticali delle direttive e ripercussioni negative per altri privati: a) le c.d. situazioni triangolari 4.5. (segue): b) La facoltà per un privato di chiedere, in una controversia che lo opponga a un altro privato, la disapplicazione delle regole nazionali adottate in violazione della procedura di controllo prevista da una direttiva 4.6. L esclusione degli effetti diretti «orizzontali» delle decisioni rivolte agli Stati membri II. L OBBLIGO DI INTERPRETAZIONE DEL DIRITTO NAZIONALE IN SENSO CONFORME AL DIRITTO DELL UNIONE EUROPEA 1.Fondamento e portata del principio dell interpretazione in senso conforme nella giurisprudenza della Corte di giustizia 2. L estensione dell obbligo di interpretazione in senso conforme alle decisioni quadro adottate nell ambito del titolo VI del vecchio trattato UE 3. I limiti all obbligo dell interpretazione in senso conforme

4 III. LA RESPONSABILITÀ DEGLI STATI MEMBRI PER I DANNI CAUSATI AI SINGOLI DALLA VIOLAZIONE DEL DIRITTO DELL UNIONE EUROPEA 1. Fondamento e portata del principio della responsabilità degli Stati membri per i danni derivanti dalla violazione degli obblighi posti dal diritto dell Unione 2.Le condizioni necessarie perché sorga la responsabilità degli Stati membri 2.1. Considerazioni generali 2.2. Il fatto generatore del danno: la violazione «sufficientemente caratterizzata» (cioè, «grave e manifesta») di norme dell Unione IV. LA TUTELA GIURISDIZIONALE EFFETTIVA DEI DIRITTI CONFERITI AI SINGOLI DAL DIRITTO DELL UNIONE 1. Il diritto alla tutela giurisdizionale effettiva quale principio generale del diritto dell Unione 2. Il principio dell autonomia procedurale degli Stati membri 3. I limiti all autonomia procedurale: i principi di equivalenza e di effettività V. IL PRIMATO DEL DIRITTO DELL UNIONE EUROPEA SUL DIRITTO NAZIONALE 1. L orientamento della Corte di giustizia 2. La posizione del Trattato di Lisbona

CAPITOLO I LA DIRETTA EFFICACIA DELLE NORME DELL UNIONE EUROPEA 1. Considerazioni introduttive Tra i tratti che contraddistinguono l Unione europea, e già prima le Comunità, nel panorama delle organizzazioni internazionali, vi è indubbiamente la creazione di una Corte di giustizia dell Unione europea che, a mente del nuovo art. 19 TUE, comprende la Corte di giustizia tout court, il Tribunale e i Tribunali specializzati alla quale è affidato il compito del controllo giurisdizionale onde assicurare il rispetto del principio dello Stato di diritto, eretto a valore fondante dell Unione dal nuovo art. 2 TUE. Ancor più peculiare, in tale contesto, è poi il riconoscimento anche in capo agli individui del potere di adire gli organi giurisdizionali europei. L accesso dei singoli a tali organi incontra tuttavia importanti limiti. Per citare solo gli esempi più importanti, essi possono innanzitutto agire contro l Unione per il risarcimento dei danni cagionati dalle sue istituzioni o dai suoi agenti nell esercizio delle loro funzioni (artt. 268 e 340 TFUE). Essi possono inoltre ricorrere per l annullamento di atti dell Unione, ma solo se questi siano stati adottati nei loro confronti oppure li riguardino «direttamente e individualmente» (art. 263 TFUE). I singoli non possono invece promuovere un ricorso per infrazione ex art. 258 ss. TFUE contro uno Stato membro, volto all accertamento di una violazione del diritto dell Unione, né gli organi giurisdizionali dell Unione hanno d altronde competenza a giudicare delle azioni di risarcimento danni asseritamente subiti da un individuo in conseguenza della violazione di una norma dell Unione da parte di uno Stato membro. Dall angolo visuale dell ordinamento internazionale, i summenzionati limiti all accesso degli individui alle Corti dell Unione non può sorprendere, atteso che, di norma, gli obblighi internazionali gravano sugli Stati in quanto soggetti di diritto internazionale e incidono invece solo indirettamente sulla sfera soggettiva individuale. Questa impostazione classica non vale, tuttavia, per l ordinamento dell Unione europea il quale riconosce come propri soggetti di diritto gli individui oltre agli Stati membri, in ciò rivelandosi uno dei più rilevanti aspetti del carattere sui generis di tale ordinamento, affermato dalla Corte di giustizia sin dalle sue più risalenti pronunce (v. infra, sentenza Van Gend & Loos). In questa prospettiva, dunque, siffatte restrizioni potrebbe apparire un anomalia, in contraddizione con il principio di legalità e con il diritto fondamentale alla tutela giurisdizionale effettiva riconosciuto tra l altro dall art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell Unione europea. Quest impressione sarebbe tuttavia errata poiché non

6 tiene conto di un altra delle caratteristiche peculiari del modo di essere dell ordinamento dell Unione, ossia la sua integrazione con gli ordinamenti nazionali, che si manifesta anche con riguardo all esercizio della funzione giurisdizionale. Il controllo del rispetto del diritto dell Unione non è, infatti, riservato alla Corte di giustizia dell Unione, la quale può essere investita soltanto nei casi e nelle forme contemplate dai Trattati, in ossequio al principio di attribuzione delle competenze (artt. 5 e 13 par. 2 TUE). In tutti gli altri casi, il controllo giurisdizionale dell osservanza del diritto dell Unione, in particolare da parte degli Stati membri, è affidato ai giudici nazionali che operano, come efficacemente affermato, quali «giudici dell Unione di diritto comune». È in questa prospettiva che si coglie pienamente il senso di quell importantissimo strumento di cooperazione tra giudici nazionali e Corte di giustizia rappresentato dal meccanismo del rinvio pregiudiziale disciplinato ora all art. 267 TFUE (ma già previsto dall originario art. 177 CEE, divenuto poi art. 234 CE). Nell affidare alla Corte il fondamentale ruolo di custode dell uniformità del diritto dell Unione nell interpretazione giurisprudenziale, infatti, la previsione di un tale strumento presuppone che il compito dell applicazione quotidiana del diritto dell Unione incomba su tutti i giudici nazionali. Esso trova peraltro diretto fondamento nell ordinamento dell Unione in forza del principio generale di leale cooperazione, elaborato dalla Corte di giustizia a partire dall art. 10 CE, abrogato dal Trattato di Lisbona e parzialmente trasfuso nel nuovo art. 4 par. 3 TUE, il quale impone a tutti gli organi degli Stati membri, ivi compresi gli organi giurisdizionali, il dovere tra l altro di garantire la piena effettività del diritto dell Unione. I giudici nazionali, agendo appunto in qualità di «giudici dell Unione di diritto comune», devono dunque conoscere e applicare le norme dell Unione allorché esse vengano in rilievo per dirimere le controversie delle quali sono investiti nell esercizio della loro funzione giurisdizionale, civile, penale o amministrativa che sia. In altre parole, il principio iura novit curia riguarda non solo le norme di diritto nazionale ma anche quelle dell Unione e comporta pertanto, in capo ai giudici nazionali, il delicato compito di assicurare l armonia tra i due ordinamenti, in conformità ai principi dettati dalla Corte di giustizia che saranno esaminati in prosieguo. Procedendo oltre lungo questa linea di ragionamento, è evidente che l obbligo per il giudice nazionale di applicare il diritto dell Unione sopra delineato sussiste anche quando la lite della quale sia chiamato a giudicare coinvolge un individuo. Più specificamente, ciò può verificarsi con riguardo alle controversie civilistiche tra soggetti privati oppure alle controversie che vedano contrapposti lo Stato o la pubblica amministrazione ai soggetti privati o, infine, nel caso di esercizio dell azione penale nei confronti delle persone imputate di un reato. In tutti questi casi, l affermazione del potere/dovere del giudice nazionale di conoscere e applicare il diritto dell Unione europea implica che quest ultimo possa essere fatto valere in giudizio o da parte di un individuo, allorché un suo interesse trovi tutela in quell ordinamento, oppure nei suoi confronti, allorché l obbligo che si assume egli abbia violato discenda da una norma dell Unione. Ora ed è questo l ulteriore passaggio logico del ragionamento la riconosciuta idoneità delle norme dell Unione a venire in rilievo davanti al giudice nazionale anche quando si debbano dirimere controversie che vedono coinvolti gli individui importa necessariamente, sul piano sostanziale, che tali norme sono in grado di disciplinare direttamente un rapporto giuridico facente capo a un soggetto privato. Dalla prospettiva processuale o rimediale dalla quale

7 muove si potrebbe dire «necessariamente» la Corte di giustizia si è così passati a quella sostanziale, ossia al riconoscimento del diritto dell Unione quale fonte «diretta» di situazioni giuridiche soggettive, attive o passive, facenti capo agli individui in quanto soggetti dell ordinamento dell Unione e non più soltanto degli ordinamenti nazionali. Alla luce di quanto sopra, si può a questo punto fornire una definizione, che ne colga la duplice portata, processuale da un lato e sostanziale dall altro, del concetto di «diretta efficacia» o «effetto diretto» delle norme dell Unione, al quale corrispondono altre espressioni in buona sostanza equipollenti cui fanno ricorso la stessa Corte di giustizia e la dottrina, quali in particolare quelle di «diretta applicabilità», «applicabilità immediata» o «effetto immediato». Con tale nozione si intende, in primo luogo, l idoneità delle norme dell Unione, allorché ricorrano determinate condizioni, a creare «direttamente e immediatamente», vale a dire a prescindere da ogni intervento da parte degli Stati membri, posizioni giuridiche soggettive di vantaggio (semplificando, diritti soggettivi) o di svantaggio (ossia, sempre semplificando, obblighi) in capo ai «singoli», ossia alle persone fisiche o giuridiche. È questa quella che possiamo definire come la «dimensione sostanziale» della diretta efficacia delle norme dell Unione. Ad essa si aggiunge poi la «dimensione rimediale o processuale», che consiste nella possibilità per l individuo di invocare tali norme nei confronti di tutti gli organi dello Stato, e in particolare dinanzi ai giudici nazionali: il singolo al quale una norma dell Unione attribuisca un diritto, vuoi nei confronti dello stesso Stato oppure di un altro singolo, può pretendere dai giudici nazionali la tutela giurisdizionale di tale diritto, invocando la diretta applicazione delle norme dell Unione che ne costituiscono la fonte diretta. Invero, come abbiamo esposto sopra, poiché non è contemplato dai Trattati il potere in capo agli individui di fare ricorso diretto agli organi giurisdizionali europei né contro uno Stato membro né nei confronti di un altro singolo per far valere il rispetto delle situazioni giuridiche soggettive nei loro confronti che trovino diretto fondamento nell ordinamento dell Unione, tale compito spetta ai giudici nazionali, chiamati così non solo a dare effettiva e adeguata tutela giurisdizionale a tali situazioni giuridiche soggettive (v. infra, capitolo IV) ma anche ad assicurare la piena efficacia del diritto dell Unione. Come si è detto all inizio, tuttavia, nello svolgere tale compito il giudice nazionale trovano un indispensabile ausilio nel meccanismo di cooperazione giudiziaria previsto dall art. 267 TFUE: quando, per la risoluzione la controversia dinanzi ad esso pendente, venga in rilievo una qualsiasi norma di diritto dell Unione, egli può o deve, qualora si tratti di giurisdizione di ultima istanza, «avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno» rinviare in via pregiudiziale alla Corte di giustizia una questione relativa all interpretazione della norma dell Unione in oggetto, potendo tra l altro chiedere se essa sia idonea a produrre effetti diretti e, quindi, a essere direttamente applicata dal giudice a quo. La dottrina degli effetti diretti delle norme dell Unione è di pura elaborazione giurisprudenziale. Essa è diretto corollario del principio di autonomia affermato nel leading case Van Gend & Loos del 1963, dove la Corte di giustizia ha fatto due fondamentali

8 osservazioni: la prima è che il sistema giuridico dell Unione è un ordinamento di nuovo genere, distinto e autonomo dagli ordinamenti degli Stati membri, avente proprie fonti, soggetti e garanzie; la seconda osservazione è che soggetti giuridici di tale nuovo ordinamento non sono soltanto gli Stati membri ma anche i singoli, il che significa che la base sociale dell ordinamento dell Unione e di quelli nazionali viene, almeno in parte, a coincidere. Deve inoltre tenersi conto del principio di integrazione, che la Corte ha affermato nell altra fondamentale sentenza Costa c. ENEL del 1964 per trarne come corollario il principio della prevalenza del diritto dell Unione su quello nazionale. Da esso deriva infatti che gli strumenti di garanzia, specie processuale, previsti dagli ordinamenti nazionali devono essere utilizzati per garantire la piena efficacia delle norme dell Unione. Di seguito sono esaminate, sulla base della giurisprudenza dell Unione, i tre aspetti essenziali della teoria della diretta efficacia, che si traducono in altrettante questioni che si pongono in ordine logico successivo: (1) il fondamento teorico della dottrina, con particolare riguardo alle direttive e alle decisioni indirizzate agli Stati membri; (2) le condizioni che deve presentare una norma dell Unione per essere in grado di produrre effetti diretti; (3) la portata (e i limiti) della diretta efficacia delle norme dell Unione, in particolar modo di quelle contenute nelle direttive e nelle decisioni. 2. L affermazione della dottrina degli effetti diretti e i suoi fondamenti teorici secondo la Corte di giustizia 2.1. Gli individui come soggetti dell ordinamento giuridico dell Unione europea: la sentenza Van Gend & Loos. CORTE DI GIUSTIZIA (pres. Donner, avv. gen. Roemer), sentenza 5 febbraio 1963 nella causa 26/62, sulla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Tariefcommissie (Paesi Bassi) nella causa tra NV Algemene Transport - en Expeditie Onder - neming Van Gend & Loos e Amministrazione olandese delle imposte (in Raccolta, p. 3). La libera circolazione delle merci costituisce una delle libertà economiche fondamentali sulle quali si fonda il mercato unico europeo, il quale costituisce a sua volta, sin dalle origini, uno degli obiettivi fondamentali dell Unione europea. La libertà di circolazione delle merci comporta, in particolare, il divieto, negli scambi di beni tra gli Stati membri, dei dazi doganali all importazione e all esportazione e di qualsiasi tassa di effetto equivalente (artt. 12 ss. CEE, divenuti poi artt. 25 ss. CE e ora artt. 30 ss. TFUE). A tal fine, l art. 12 del trattato istitutivo della Comunità economica europea, nella versione originaria, imponeva agli Stati membri l obbligo di astenersi, con effetto a

9 partire dalla data di entrata in vigore del trattato di Roma del 1957 (1 gennaio 1958), sia dall introdurre nuovi dazi doganali (o tasse di effetto equivalente), sia dall aumentare quelli esistenti (c.d. clausola di standstill) 1. La società di diritto olandese Van Gend & Loos aveva importato nei Paesi Bassi una partita di ureoformaldeide proveniente dalla Germania, alla quale era stato applicato dall amministrazione olandese delle imposte un dazio d importazione pari all 8% del valore della merce. Poiché le medesime merci erano sottoposte, alla data di entrata in vigore del trattato CEE, a un dazio del 3%, la società riteneva che il dazio applicatole fosse in contrasto con l art. 12 CEE e proponeva pertanto reclamo dinanzi al giudice olandese competente. Per risolvere la controversia, il Tariefcommissie (giudice amministrativo olandese di ultima istanza per le cause tributarie) rimetteva alla Corte di giustizia, ai sensi dell art. 177 CEE (divenuto poi art. 234 CE e ora art. 267 TFUE), due questioni pregiudiziali d interpretazione della suddetta disposizione comunitaria, la prima delle quali relativa alla sua idoneità a produrre effetti diretti nell ordinamento giuridico olandese. Nel rispondere affermativamente alla questione, la Corte di giustizia ha addotto le seguenti motivazioni: «La prima questione deferita alla Corte dalla Tariefcommissie consiste nello stabilire se l art. 12 del trattato abbia efficacia immediata negli ordinamenti interni degli Stati membri, attribuendo ai singoli dei diritti soggettivi che il giudice nazionale ha il dovere di tutelare. «Per accertare se le disposizioni di un trattato internazionale abbiano tale valore, si deve aver riguardo allo spirito, alla struttura ed al tenore di esso. «Lo scopo del trattato CEE, cioè l instaurazione di un mercato comune il cui funzionamento incide direttamente sui soggetti della Comunità, implica che esso va al di là di un accordo che si limitasse a creare degli obblighi reciproci fra gli Stati contraenti. «Ciò è confermato dal preambolo del trattato il quale, oltre a menzionare i governi, fa richiamo ai popoli e, più concretamente ancora, dall instaurazione di organi investiti istituzionalmente di poteri sovrani da esercitarsi nei confronti sia degli Stati membri sia dei loro cittadini. Va poi rilevato che i cittadini degli Stati membri della Comunità collaborano, attraverso il Parlamento europeo e il Comitato economico e sociale, alle attività della Comunità stessa. Oltracciò, la funzione attribuita alla Corte di giustizia dall art. 177, funzione il cui scopo è di garantire l uniforme interpretazione del trattato da parte dei giudici nazionali, costituisce la riprova del fatto che gli Stati hanno riconosciuto al diritto comunitario un autorità tale da poter esser fatto valere dai loro cittadini davanti a detti giudici. In considerazione di tutte queste circostanze si deve concludere che la Comunità costituisce un ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale, a favore del quale gli Stati hanno 1 La clausola di standstill di cui all art. 12 CEE, a mente del quale «Gli Stati membri si astengono dall introdurre tra loro nuovi dazi doganali all importazione o all esportazione o tasse di effetto equivalente e dall aumentare quelli che applicano nei loro rapporti commerciali reciproci», si accompagnava alla previsione dell obbligo per gli Stati membri di abolire progressivamente i dazi doganali e le tasse di effetto equivalente durante il periodo transitorio (artt. 13-17 CEE). Con il trattato di Amsterdam del 1997, che ha semplificato il trattato istitutivo della Comunità europea, sia abrogando le disposizioni divenute obsolete per la scadenza dei termini previsti con riguardo a obiettivi ormai raggiunti sia rinumerando gli articoli, tale complesso di disposizioni è stato sostituito dall art. 25 CE (ora art. 30 TFUE), che vieta in termini assoluti i dazi doganali fra gli Stati membri, e le tasse di effetto equivalente.

10 rinunziato, anche se in settori limitati, ai loro poteri sovrani, ordinamento che riconosce come soggetti, non soltanto gli Stati membri ma anche i loro cittadini. «Pertanto il diritto comunitario, indipendentemente dalle norme emananti dagli Stati membri, nello stesso modo in cui impone ai singoli degli obblighi, attribuisce loro dei diritti soggettivi. Si deve ritenere che questi sussistano, non soltanto nei casi in cui il trattato espressamente li menziona, ma anche come contropartita di precisi obblighi imposti dal trattato ai singoli, agli Stati membri o alle istituzioni comunitarie. «Tenuto conto della struttura del trattato in materia di dazi doganali e di tasse di effetto equivalente, va rilevato che l art. 9 (CEE, poi art. 23 CE e ora art. 28 TFUE) secondo il quale la Comunità è fondata su un unione doganale sancisce come principio fondamentale il divieto di tali dazi e tasse. Questa disposizione, collocata all inizio della seconda parte del trattato che definisce i fondamenti della Comunità, viene concretata e attuata dall art. 12. «Il disposto dell art. 12 pone un divieto chiaro e incondizionato che si concreta in un obbligo non già di fare, bensì di non fare. A questo obbligo non fa riscontro alcuna facoltà degli Stati di subordinarne l efficacia all emanazione di un provvedimento di diritto interno. Il divieto dell art. 12 è per sua natura perfettamente atto a produrre direttamente degli effetti sui rapporti giuridici intercorrenti fra gli Stati membri ed i loro amministrati. «Per la sua attuazione, quindi, l art. 12 non richiede interventi legislativi degli Stati. Il fatto, poi, che questo stesso articolo designi gli Stati membri come soggetti dell obbligo di non fare non significa affatto che gli amministrati non se ne possano avvalere. L argomento che i tre governi che hanno depositato osservazioni scritte traggono dagli artt. 169 e 170 del trattato (CEE, poi artt. 226 e 227 CE e ora artt. 258 e 259 TFUE) è del resto infondato. La circostanza che gli or citati articoli consentano alla Commissione e agli Stati membri di convenire davanti alla Corte lo Stato che sia venuto meno ai suoi obblighi non implica infatti che ai singoli sia precluso di far valere gli obblighi stessi davanti al giudice nazionale, precisamente come quando il trattato fornisce alla Commissione i mezzi per imporre agli amministrati l osservanza dei loro obblighi, non esclude con ciò la possibilità che, nelle controversie fra singoli davanti ad un giudice nazionale, questi possano far valere la violazione di tali obblighi. «Ove le garanzie contro la violazione dell art. 12 da parte degli Stati membri venissero limitate a quelle offerte dagli artt. 169 e 170, i diritti individuali degli amministrati rimarrebbero privi di tutela giurisdizionale diretta. Inoltre, il ricorso a detti articoli rischierebbe di essere inefficace qualora dovesse intervenire solo dopo l esecuzione di un provvedimento interno adottato in violazione delle norme del trattato. La vigilanza dei singoli, interessati alla salvaguardia dei loro diritti, costituisce d altronde un efficace controllo che si aggiunge a quello che gli artt. 169 e 170 affidano alla diligenza della Commissione e degli Stati membri». 2.2. Il fondamento della diretta efficacia delle direttive. Per quanto riguarda le direttive, occorre innanzitutto tenere presente che il problema della loro diretta efficacia all interno degli ordinamenti nazionali si pone soltanto allorché uno Stato membro sia rimasto inadempiente all obbligo di dare attuazione a una direttiva entro il termine a tal uopo dalla stessa fissato, ossia nell ipotesi (patologica) di tardiva o

11 non corretta attuazione della direttiva. In un primo momento, la Corte di giustizia ha riconosciuto che possano produrre effetti diretti le disposizioni di quelle direttive che si limitano a confermare, chiarendone la portata, un obbligo già sancito da norme di diritto primario di per sé direttamente efficaci (v. infra, sentenza SACE del 1970). Solo successivamente la diretta efficacia delle norme contenute in direttive non tempestivamente o non correttamente attuate è stata invece ammessa in via generale. A tal fine la Corte ha, in primo luogo, tratto argomenti dal carattere obbligatorio per lo Stato membro cui è rivolta della direttiva (a mente dell art. 249 CE, divenuto art. 288 TFUE, infatti, «la direttiva vincola lo Stato membro cui è rivolta», ossia impone obblighi giuridici allo stesso), il cui effetto utile sarebbe pregiudicato se i singoli non ne potessero far valere l efficacia, invocando un diritto soggettivo come contropartita dell obbligo dello Stato (v. infra sentenza van Duyn del 1974). La giurisprudenza più recente ha invocato un secondo ordine di argomenti, che si richiamano al principio dell estoppel: allo Stato membro che non abbia attuato la direttiva deve essere precluso, infatti, di riversare su terzi (i singoli) le conseguenze del proprio inadempimento, ciò che si verificherebbe qualora lo Stato potesse opporre ai singoli il proprio inadempimento per negare i diritti che la direttiva è volta a creare in capo a essi (v. infra, sentenza Ratti del 1979). Questo tipo di argomenti pone l accento sul carattere rimediale o sanzionatorio dell inadempimento dello Stato proprio del riconoscimento degli effetti diretti delle direttive. Esso spiega, peraltro, quella giurisprudenza secondo la quale l effetto diretto di una direttiva costituisce una «garanzia minima» di tutela per i singoli, che non esime pertanto lo Stato cui è rivolta dall obbligo di darle corretta e tempestiva attuazione: «questa garanzia minima, che deriva dal carattere vincolante dell obbligo imposto dalle direttive agli Stati membri, non può servire a giustificare la mancata adozione in tempo utile, delle misure di attuazione adeguate allo scopo di ciascuna direttiva (v. tra le tante la sentenza 25 luglio 1991, in causa C-208/90, Emmot c. Minister for Social Welfare e Attorney General, in Raccolta, p. I-4269, punto 20). CORTE DI GIUSTIZIA (pres. Lecourt, avv. gen. Roemer), sentenza 17 dicembre 1970 nella causa 33/70, sulla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Tribunale di Brescia (Italia) nella causa SACE s.p.a. contro Ministero delle finanze della Repubblica italiana (in Raccolta, p. 1213). Come si è osservato in precedenza (v. supra sub sentenza Van Gend & Loos), la libera circolazione delle merci comporta tra l altro l abolizione fra gli Stati membri dei dazi doganali e delle tasse di effetto equivalente. A tal fine, l art. 13 par. 2 CEE (poi abrogato dal trattato di Amsterdam, per aver esaurito la sua funzione) prevedeva in particolare che gli Stati membri abolissero progressivamente le tasse di effetto equivalente a dazi doganali secondo il ritmo determinato dalla Commissione mediante direttive. Ciò doveva inizialmente avvenire durante il periodo transitorio di dodici anni dall entrata in vigore del trattato di Roma del 1957, fissato dall art. 8 CEE (anch esso successivamente abrogato) per la progressiva instaurazione del mercato comune, ma la decisione del Consiglio n. 66/532 del 26 luglio 1966 (c.d. d acceleramento) aveva

12 anticipato al 1 luglio 1968 la data per la definitiva abolizione dei dazi doganali. Con direttiva n. 68/31 del 22 dicembre 1967, la Commissione imponeva all Italia la graduale riduzione dei diritti per servizi amministrativi, pari allo 0,50% sul valore delle merci importate dall estero, istituiti con legge 15 giugno 1950 n. 330, fino alla loro totale abolizione entro il 1 luglio 1968. La direttiva non era però tempestivamente e correttamente recepita in Italia. La società italiana SACE, avendo dovuto in conseguenza di ciò pagare su merci importate in Italia da vari Stati membri i relativi diritti per servizi amministrativi, agiva dinanzi al Tribunale di Brescia per il rimborso delle somme riscosse, a suo avviso indebitamente, dallo Stato italiano. Con rinvio pregiudiziale, il Tribunale di Brescia chiedeva quindi alla Corte di giustizia se gli obblighi posti dall art. 13 par. 2 CEE e dalla direttiva 68/31 fossero direttamente efficaci, con conseguente attribuzione ai singoli del diritto di non vedersi imporre diritti per servizi amministrativi sui beni importati in Italia. La Corte di giustizia riconosce innanzitutto la diretta efficacia del combinato disposto degli artt. 9 e 13 par. 2 del trattato, che «implica, al più tardi a partire dalla fine del periodo transitorio per quanto riguarda il complesso delle tasse di effetto equivalente ai dazi doganali all importazione un divieto chiaro e preciso di riscuotere dette tasse, divieto cui non si accompagna alcuna riserva degli Stati di subordinare la sua attuazione ad un atto positivo di diritto interno o ad un intervento delle istituzioni della Comunità. Esso e perfettamente idoneo, per la sua stessa natura, a produrre direttamente effetti nei rapporti giuridici fra gli Stati membri e i loro cittadini. Di conseguenza, a partire dalla fine del periodo transitorio, dette disposizioni attribuiscono ai singoli, per quanto riguarda il complesso delle tasse d effetto equivalente cui si riferiscono, dei diritti che i giudici nazionali devono tutelare» (punto 10 della sentenza). Ricordando che la direttiva 68/31 ha legittimamente anticipato al 1 luglio 1968 la scadenza per la completa abolizione della tassa italiana e ritenuto quindi che l efficacia della direttiva vada valutata alla luce del complesso normativo comprendente gli artt. 9 e 13 par. 2 CEE e la decisione 66/532, la Corte risponde affermativamente al quesito postole: «14. La fissazione, da parte della Commissione, in forza della decisione 66/532, di una data anteriore alla fine del periodo transitorio non ha modificato sotto alcun aspetto la natura dell obbligo imposto agli Stati membri dagli artt. 9 e 13 par. 2 del trattato (CEE). Quest obbligo è quindi atto a produrre effetti diretti, come li avrebbe prodotti alla fine del periodo transitorio. «15. La direttiva 68/31, il cui scopo è d impartire a uno Stato membro una data limite per l adempimento di un obbligo comunitario, non riguarda solo i rapporti fra la Commissione e detto Stato, ma implica conseguenze giuridiche che possono essere fatte valere e dagli altri Stati membri essi pure interessati alla sua esecuzione, e dai singoli qualora, per sua natura, la disposizione che sancisce detto obbligo sia direttamente efficace, come lo sono gli artt. 9 e 13 del trattato. ( ) «18. Pertanto l obbligo di abolire il diritto per servizi amministrativi, stabilito dalla direttiva 68/31 della Commissione in data 22 dicembre 1967, in relazione agli artt. 9 e 13 par. 2 CEE ed alla decisione del Consiglio n. 66/532, è direttamente efficace nei rapporti fra lo Stato membro, destinatario della direttiva, e i suoi cittadini e attribuisce loro, a partire dal 1 luglio 1968, dei diritti che i giudici nazionali devono tutelare».

13 CORTE DI GIUSTIZIA (pres. Lecourt, avv. gen. Mayras), sentenza 4 dicembre 1974 nella causa 41/74, sulla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla High Court of Justice, Chancery Division (Regno Unito) nella causa Van Duyn contro Home Office (in Raccolta, p. 1337). La direttiva n. 64/221/CEE del 25 febbraio 1964, «per il coordinamento dei provvedimenti speciali riguardanti il trasferimento e il soggiorno degli stranieri, giustificati da motivi d ordine pubblico, di pubblica sicurezza e di sanità pubblica», adottata dal Consiglio sulla base dell art. 56 par. 2 CEE (poi art. 46 par. 2 CE e ora art. 52 par. 2 TFUE) allo scopo di dare attuazione alla libera circolazione delle persone, ivi compresi i lavoratori, prevedeva all art. 3 par. 1 che «i provvedimenti di ordine pubblico o di pubblica sicurezza devono essere adottati esclusivamente in relazione al comportamento personale dell individuo nei riguardi del quale essi sono applicati». 2 La signora Van Duyn, cittadina olandese, si era visto negare dall Home Office il permesso d ingresso nel Regno Unito per assumere un impiego di segretaria presso la Church of Scientology, diniego giustificato a motivo del fatto che il governo britannico riteneva dannose le attività svolte da tale organizzazione. Adita della questione, la High Court (Chancery Division) poneva alla Corte di giustizia tre questioni pregiudiziali, la seconda delle quali riguardava segnatamente la diretta efficacia dell art. 3 par. 1 della direttiva n. 64/221/CEE. Nel risolvere positivamente la questione, la Corte di giustizia così in particolare motivava: «11. Il Regno Unito ha osservato che, se l art. 189 (CEE; poi art. 249 CE e ora art. 288 TFUE) attribuisce ai regolamenti, alle direttive e alle decisioni una diversa efficacia, è giusto presumere che il Consiglio, emanando una direttiva invece di un regolamento, abbia inteso adottare un provvedimento con effetti diversi da quelli d un regolamento, vale a dire non direttamente efficace. «12. Tuttavia, se è vero che i regolamenti, in forza dell art. 189, sono direttamente applicabili e quindi atti, per natura, a produrre effetti diretti, da ciò non si può inferire che le altre categorie di atti contemplate dal suddetto articolo non possano mai produrre effetti analoghi. «Sarebbe in contrasto con la forza obbligatoria attribuita dall art. 189 alla direttiva l escludere, in generale, la possibilità che l obbligo da essa imposta sia fatto valere dagli eventuali interessati. «In particolare, nei casi in cui le autorità comunitarie abbiano, mediante direttiva, obbligato gli Stati membri ad adottare un determinato comportamento, la portata dell atto sarebbe ristretta se in singoli non potessero far valere in giudizio la sua efficacia e se i giudici nazionali non potessero prenderlo in considerazione come norma di diritto comunitario. «D altra parte l art. 177, che autorizza i giudici nazionali a domandare alla Corte di giustizia di pronunziarsi sulla validità e sull interpretazione di tutti gli atti compiuti dalle istituzioni, senza distinzione, implica il fatto che singoli possano far valere tali atti dinanzi 2 La direttiva n. 64/221/CEE è stata abrogata dalla direttiva 2004/38/CE del 29 aprile 2004, relativa al diritto dei cittadini dell Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, il cui art. 27 par. 2 ricomprende la previsione di cui all art. 3 par. 1 della direttiva del 1964.

14 ai detti giudici. È quindi opportuno esaminare, caso per caso, se la natura, lo spirito e la lettera della disposizione di cui trattasi consentano di riconoscerle efficacia immediata nei rapporti fra gli Stati membri ed i singoli». CORTE DI GIUSTIZIA (pres. Mertens de Wilmars, avv. gen. Reischl), sentenza 5 aprile 1979 nella causa 148/78, sulla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Pretore di Milano (Italia) nel procedimento penale a carico di Ratti (in Raccolta, p. 1629). Nei confronti del sig. Ratti, legale rappresentante di una società produttrice di solventi e vernici, era avviato un procedimento penale per violazione di talune disposizioni della legge 3 marzo 1963 n. 245. Il problema sorgeva da fatto che, all epoca dei fatti di causa, la normativa italiana avrebbe dovuto essere stata adeguata a due direttive comunitarie (la 73/173/CEE per i solventi; la 77/728/CEE per le vernici), ciò che avrebbe dovuto comportare l abrogazione della disposizione legislativa italiana della cui violazione si faceva penalmente carico all imputato, con la conseguente modifica dei presupposti per l irrogazione delle sanzioni penali stabilite dalla legge n. 245/1963. Per di più, la società di cui era responsabile il Ratti si era spontaneamente conformata, per l imballaggio e l etichettatura dei solventi e delle vernici di sua produzione, agli obblighi prescritti dalla direttiva. Il Pretore di Milano sollevò perciò quattro questioni pregiudiziali davanti alla Corte di giustizia, la prima delle quali del seguente tenore: «Se la direttiva del Consiglio delle Comunità europee n. 173/73 del 4 giugno 1973, e in particolare l art. 8 della medesima [ Gli Stati membri non possono vietare, limitare o ostacolare per motivi di classificazione, di imballaggio o di etichettatura, l immissione sul mercato dei preparati pericolosi se sono conformi alle disposizioni della presente direttiva e del suo allegato ], rappresenti una norma direttamente applicabile con l attribuzione ai singoli di diritti soggettivi tutelabili dinanzi ai giudici nazionali». La Corte risolse affermativamente la prima questione, così motivando: «20. Sarebbe incompatibile con l efficacia vincolante che l art. 189 riconosce alla direttiva l escludere, in linea di principio, che l obbligo da essa imposto possa esser fatto valere dalle persone interessate; «21. Particolarmente nei casi in cui le autorità comunitarie abbiano, mediante direttiva, imposto agli Stati membri di adottare un determinato comportamento, l effetto utile dell atto sarebbe attenuato se agli amministrati fosse precluso di valersene in giudizio ed ai giudici nazionali di prenderlo in considerazione in quanto elemento del diritto comunitario; «22. Di conseguenza lo Stato membro che non abbia adottato, entro i termini, i provvedimenti d attuazione imposti dalla direttiva non può opporre ai singoli l inadempimento, da parte sua, degli obblighi derivanti dalla direttiva stessa; «23. Ne consegue che il giudice nazionale cui il singolo amministrato che si sia conformato alle disposizioni di una direttiva chieda di disapplicare una norma interna incompatibile con detta direttiva non recepita nell ordinamento interno dello Stato inadempiente deve accogliere tale richiesta, se l obbligo di cui trattasi e incondizionato e sufficientemente preciso; «24. ( ) dopo la scadenza del termine stabilito per l attuazione di una direttiva, gli Stati membri non possono applicare la propria normativa nazionale non ancora adeguata a

15 quest ultima neppure se vengano contemplate sanzioni penali a chi si sia conformato alle disposizioni della direttiva stessa». 2.3. Il fondamento della diretta efficacia delle decisioni rivolte agli Stati membri. Prima del trattato di Lisbona, la decisione era concepita dall art. 249 CE esclusivamente come atto a portata individuale, come la direttiva, benché potesse avere per destinatari, a differenza di quest ultima, non solo gli Stati membri ma anche i soggetti privati (persone fisiche e giuridiche). Il trattato di Lisbona, prendendo atto e formalizzando un evoluzione che si era già registrata nella precedente prassi, fa della decisione un atto tipico ambivalente, ossia suscettibile di avere, a seconda dei casi, portata individuale o generale. L art. 288 TFUE dispone infatti che la decisione «se designa i destinatari è obbligatoria nei confronti di questi», ammettendo così implicitamente che essa può anche non avere specifici destinatari, ossia avere portata generale. 3 Ad ogni modo la vocazione prevalente della decisione era e rimane ancora oggi quella di strumento a portata individuale, espressione di un attività amministrativa dell Unione, attraverso il quale le istituzioni applicano a casi concreti le norme generali e astratte dell Unione, siano esse contenute nei Trattati istitutivi o in atti di diritto derivato. Siffatta applicazione concreta può avvenire sia nei confronti di un soggetto privato, al quale appunto la decisione sarà indirizzata, sia nei confronti di uno Stato membro, destinatario pertanto della decisione. Le decisioni aventi per destinatari dei soggetti privati non pongono particolari problemi in ordine alla loro diretta applicabilità all interno degli ordinamenti nazionali. Esse sono invero vincolanti per le persone fisiche o giuridiche alle quali sono indirizzate e quindi impongono loro direttamente degli obblighi giuridici, facendo inoltre eventualmente sorgere diritti soggettivi corrispettivi in capo ad altri individui, alla stessa stregua di quanto avviene con riguardo alle disposizioni contenute nei Trattati che disciplinano rapporti giuridici tra privati (come, ad esempio, nel caso delle regole sulla libera concorrenza tra imprese di cui agli artt. 81 s. CE, ora artt. 101 s. TFUE). La diretta efficacia di questo genere di decisioni è pertanto «piena», nel senso che può, a seconda dei casi, operare anche in senso «orizzontale» nei rapporti tra soggetti privati: la decisione può così essere invocata da soggetti terzi nei confronti dei destinatari della stessa dinanzi alle giurisdizioni nazionali, anche in occasione di controversie privatistiche. Ad esempio, una decisione adottata dalla Commissione in forza dell art. 7 del regolamento (CE) del Consiglio n. 1/2003 del 16 dicembre 2002, concernente l applicazione delle regole di concorrenza di cui agli artt. 81 e 82 CE (ora artt. 101 e 102 TFUE), la quale stabilisca la contrarietà di un cartello tra imprese al divieto di intese restrittive della concorrenza di cui all art. 81 CE (ora art. 101 TFUE), potrà essere fatta valere contro le imprese partecipanti al cartello illecito vuoi dai loro concorrenti vuoi dai consumatori che 3 Sul punto v. amplius R. ADAM, A. TIZZANO, Lineamenti di diritto dell Unione europea, 2 a ed., Torino, 2010, p. 155 ss.

16 abbiano subito un danno per l effetto del comportamento anticoncorrenziale. Per converso, è altresì possibile che una decisione possa essere invocata dal suo stesso destinatario, al quale conferisca una posizione di vantaggio, nei confronti di altri soggetti privati. Così, ad esempio, per restare nel campo del diritto della concorrenza, una decisione della Commissione ai sensi dell art. 10 del regolamento (CE) n. 1/2003, nella quale si stabilisca che l art. 101 TFUE non è applicabile a un dato cartello tra imprese (ex. una decisione di esenzione individuale), potrà essere opposta da queste ultime ad altri soggetti privati che asseriscano di aver subito un danno da tale cartello. Per quanto concerne invece le decisioni rivolte agli Stati membri, ai sensi dell art. 288 TFUE esse sono obbligatorie soltanto nei loro confronti. Ne consegue pertanto che la questione della loro diretta efficacia verso i soggetti privati si pone in termini non dissimili da quelli che abbiamo precedentemente esaminato con riguardo alle direttive. È infatti questo l atteggiamento adottato dalla Corte di giustizia che, con argomenti analoghi appunto a quelli svolti per le direttive, da una parte ha giustificato in principio la diretta efficacia delle decisioni e, dall altra parte, ne ha circoscritto la portata, escludendo in particolare la loro diretta efficacia orizzontale (v. infra, 3.5). In buona sostanza, imponendo obblighi esclusivamente allo Stato membro cui è indirizzata, è esclusivamente nei suoi confronti che una decisione potrà essere invocata da un soggetto privato, mentre non potrà essere fatta valere nei rapporti interindividuali. CORTE DI GIUSTIZIA (pres. Lecourt, avv. gen. Roemer), sentenza 6 ottobre 1970 nella causa 9/70, sulla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Finanzgeright München (Germania) nella causa Grad contro Finanzamt Traunstein (in Raccolta, p. 825). Il sig. Grad, autotrasportatore austriaco, ricorreva dinanzi al tribunale tributario di Monaco di Baviera per l annullamento di un provvedimento doganale con il quale gli veniva chiesto il pagamento dell imposta sui trasporti su strada. Tale imposta, applicata in Germania per l anno solare 1969, si assumeva in contrasto con la decisione del Consiglio n. 65/271/CEE del 13 maggio 1965, destinata a tutti gli Stati membri. A norma dell art. 4 della decisione, infatti, al più tardi dalla sua entrata in vigore, il sistema comune d imposta sulla cifra d affari sostituiva, per i trasporti di merci per ferrovia, su strada e per vie navigabili, i regimi d imposte specifiche equipollenti. Alla questione pregiudiziale sollevata dal giudice tedesco se la suddetta disposizione della decisione producesse effetti immediati nei rapporti giuridici tra gli Stati membri e i singoli, e costituisse diritti soggettivi che il giudice nazionale doveva tutelare, la Corte di giustizia così rispose: «3. A norma dell articolo 189 del trattato CEE, la decisione è obbligatoria in tutti i suoi elementi per i destinatari da essa designati. ( ) «5. Se è vero che i regolamenti, in forza dell art. 189, sono direttamente applicabili e quindi atti, per natura, a produrre effetti diretti, da ciò non si può inferire che le altre categorie di atti contemplate dal suddetto articolo non possano mai produrre effetti analoghi. In particolare, la norma secondo cui le decisioni sono obbligatorie in tutti i loro elementi per il

17 destinatario fa sorgere il problema del se l obbligo derivante da una decisione possa esser fatto valere soltanto dalle istituzioni comunitarie nei confronti del destinatario, oppure possa eventualmente esser fatto valere da qualsiasi soggetto interessato al suo adempimento. Sarebbe in contrasto con la forza obbligatoria attribuita dall art. 189 alla decisione l escludere, in generale, la possibilità che l obbligo da essa imposto sia fatto valere dagli eventuali interessati. In particolare, nei casi in cui le autorità comunitarie abbiano, mediante decisione, obbligato uno Stato membro o tutti gli Stati membri ad adottare un determinato comportamento, la portata dell atto sarebbe ristretta se i singoli non potessero far valere in giudizio la sua efficacia e se i giudici nazionali non potessero prenderlo in considerazione come norma di diritto comunitario. Gli effetti di una decisione possono non essere identici a quelli di una disposizione contenuta in un regolamento, ma tale differenza non esclude che il risultato finale, consistente nel diritto del singolo di far valere in giudizio l efficacia dell atto, sia lo stesso nei due casi. «6. D altra parte l art. 177, che autorizza i giudici nazionali a domandare alla Corte di giustizia di pronunziarsi sulla validità e sull interpretazione di tutti gli atti compiuti dalle istituzioni, senza distinzione, implica il fatto che i singoli possano far valere tali atti dinanzi ai giudici nazionali. È quindi opportuno esaminare, caso per caso, se la natura, lo spirito e la lettera della disposizione di cui trattasi consentano di riconoscerle efficacia immediata nei rapporti fra il destinatario dell atto e i terzi». 3. I presupposti per la diretta efficacia delle norme dell Unione europea Per poter essere direttamente efficace (ossia, creare diritti e obblighi in capo ai singoli), una norma dell Unione europea, quale che ne sia la fonte, deve possedere alcune caratteristiche, individuate dalla giurisprudenza nella «sufficiente chiarezza e precisione», da un lato, e nella «incondizionatezza», dall altro, della norma in questione. Il primo requisito riguarda il dettato normativo della disposizione dell Unione dal quale, anche con l ausilio dell interpretazione della Corte di giustizia svolta in particolare alla luce dello scopo e del contesto della norma, devono potersi inferire almeno gli elementi minimi essenziali del rapporto giuridico che la norma voglia disciplinare, ossia (i) chi sia il soggetto obbligato, (ii) chi sia il titolare del correlato diritto e, infine, (iii) quale sia l assetto dato alle rispettive pretese delle parti, cioè quale comportamento l una possa pretendere dall altra. Il secondo requisito esige invece che l applicazione della norma non sia subordinata a ulteriori interventi normativi da parte del legislatore dell Unione o di quello nazionale, che servano a meglio definire, o anche a restringere o limitare il rapporto giuridico regolato dalla norma in questione. Nella sentenza 15 gennaio 1986, in causa 44/84, Hurd, in Raccolta, p. 1986, punto 47, la Corte di giustizia ha così sintetizzato i criteri per la diretta efficacia di una norma dell Unione: «perché una norma abbia efficacia diretta nei rapporti fra i singoli e i

18 rispettivi Stati membri, è necessario che essa sia chiara e incondizionata e che non sia subordinata ad alcun altro provvedimento di esecuzione a carattere discrezionale». Entrambi i suddetti fattori attestano il carattere eminentemente pratico del criterio dell «efficacia diretta»: una norma dell Unione europea ha efficacia diretta allorché e nella misura in cui è di per sé sufficientemente operativa per essere applicata da un giudice. Il carattere chiaro, preciso e incondizionato, la completezza o la perfezione della norma e la sua indipendenza da misure di attuazione discrezionali sono a tal riguardo semplici aspetti della stessa caratteristica che la norma deve avere, cioè essa deve poter essere applicata da un giudice a un caso specifico (cfr. concl. Avv. Gen. Van Gerven presentate il 27 ottobre 1993 nella causa C-128/92, H.J. Banks & Co. Ltd c. British Coal Corporation, in Raccolta, p. I-1209, par. 27; T.C. HARTLEY, The Foundations of European Community Law, Oxford, 2 a ed., 1988, p. 195; P. PESCATORE, The Doctrine of «Direct Effect»: An Infant Disease of Community Law, in Eur. Law Rev., 1983, p. 177. 3.1. Con riguardo alle norme del diritto primario Già nella sentenza Van Gend & Loos la Corte riconosceva la diretta efficacia dell art. 12 CEE per il fatto che esso «pone un divieto chiaro e incondizionato che si concreta in un obbligo non già di fare, bensì di non fare»; che come contropartita di tale obbligo sussiste un diritto soggettivo dei singoli e, infine, che «a questo obbligo non fa riscontro alcuna facoltà degli Stati di subordinarne l efficacia all emanazione di un provvedimento di diritto interno». CORTE DI GIUSTIZIA (pres. Lecourt, avv. gen. Mayras), sentenza 21 giugno 1974 nella causa 2/74, sulla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Conseil d Etat (Belgio) nella causa Reyners contro Belgio (in Raccolta, p. 631). In base all art. 52 CEE, avrebbero dovuto essere «gradatamente soppresse durante il periodo transitorio» le restrizioni alla libertà di stabilimento dei cittadini di uno Stato membro nel territorio di un altro Stato membro, libertà che importa, segnatamente, «l accesso alle attività non salariate e al loro esercizio alle condizioni definite dalla legislazione del paese di stabilimento nei confronti dei propri cittadini». 4 Di conseguenza, il trattato attribuiva al Consiglio ora, dopo il Trattato di Lisbona, congiuntamente al Parlamento europeo e al Consiglio, che deliberano secondo la procedura legislativa ordinaria il potere di adottare direttive sia per realizzare tale libertà (art. 54 par. 2 CEE, divenuto poi, con modifiche, art. 44 CE e ora art. 50 TFUE) sia per agevolare l accesso alle (e l esercizio delle) attività non salariate (art. 57 CEE, poi art. 47 CE e ora art. 53 TFUE). Tuttavia, alla scadenza del periodo transitorio, tali direttive erano state adottate solo in minima parte. 4 L art. 52 CEE è poi divenuto, a seguito della rinumerazione di cui al trattato di Amsterdam, l art. 43 CE, che pone un divieto assoluto e incondizionato di restrizioni alla libertà di stabilimento, il cui disposto è ora interamente ripreso dall art. 49 TFUE.