IMPRENDITORE OCCULTO



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IMPRENDITORE OCCULTO Prima di entrare nel vivo dell'argomento, occorre premettere la definizione di imprenditore ed operare una rapida disamina della stessa. Recita appunto l'articolo 2082 del codice civile: è imprenditore chi esercita professionalmente un'attività economica organizzata, al fine della produzione e dello scambio di beni o di servizi. Il codice non definisce l'impresa, ma la sua nozione è desumibile da quella di imprenditore, ai sensi appunto del citato articolo. Dal punto di vista giuridico, pertanto, l'impresa è una attività, cioè è costituita da una serie di atti funzionalmente collegati fra loro. Gli elementi, poi, che caratterizzano l'imprenditore, nei confronti degli altri soggetti che fanno capo all'impresa, sono l'iniziativa ed il rischio. L'iniziativa è il potere di organizzare l'impresa e di dare ad essa un indirizzo. Il rischio è invece la sopportazione di tutti gli oneri inerenti alla conduzione dell'impresa. Enunciato quindi il primo fondamentale assioma: che l'impresa è un'attività, si ricava poi che i suoi caratteri fondamentali sono: - la presenza di un'attività economica, (l'attività imprenditoriale, cioè, consiste in una serie di atti coordinati al conseguimento di uno stesso fine, che deve essere economico e quindi, come statuisce il legislatore, nella produzione o nello scambio di beni o servizi); - l'organizzazione, (termine insito nel concetto stesso di impresa, intesa come complesso di mezzi e di persone che dal legislatore è stato considerato nel suo aspetto dinamico; quindi occorre la presenza di persone che collaborano alle dipendenze dell'imprenditore e che costituiscono appunto i suoi ausiliari; ed occorrono inoltre i mezzi di cui si serve l'imprenditore e che costituiscono la sua azienda); - l'esercizio professionale dell'attività stessa, (e quindi una attività abituale e continuativa, anche se non necessariamente esclusiva; occorre pure che l'attività tenda ad uno scopo di lucro, e quindi che l'impresa abbia una obiettiva e credibile economicità, intesa come capacità di coprire i costi di produzione con i ricavi dell'attività svolta); - la finalità di produzione o scambio di beni o servizi, (un aspetto ulteriore della professionalità è dato dal fatto che l'attività economica organizzata sia rivolta al mercato e realizzi dunque uno scambio. L'imprenditore per conto proprio non appare come

imprenditore in senso strettamente giuridico (come potrebbe essere ad esempio chi vive dei prodotti che produce senza offrirli sul mercato). Infine è da tenere presente, per una più compiuta comprensione del fenomeno dell'imprenditore occulto (come andremo ad esaminare), che l'imprenditore è assoggettato ad uno speciale regime, che incide direttamente sui rapporti giuridici che a lui fanno capo e pertanto: - ha la direzione dell'impresa, ne è il capo ed esercita il potere gerarchico sui collaboratori subordinati che dipendono da lui (art. 2086 c.c.); - ha l'obbligo di tutelare le condizioni di lavoro dei propri dipendenti, adottando tutte le misure atte a proteggere l'integrità fisica e la personalità morale (art. 2087 c.c.); - è sottoposto ad un regime di particolare rigore pubblicistico (ad esempio per quanto riguarda la responsabilità per i reati fallimentari). Quando è lo stesso interessato ad esercitare personalmente l'impresa non sorge problema, ma quando egli la esercita per mezzo di altri, si pone il problema se sia imprenditore colui nel cui nome, o invece colui nel cui interesse l'impresa viene esercitata. E' imprenditore colui nel cui nome l'impresa viene esercitata, anche se di fatto egli la eserciti nell'interesse altrui. Si ritiene cioè che, pure con riferimento all'impresa, valga ciò che vale per gli atti e per i negozi giuridici: la imputazione viene fatta al soggetto nel cui nome si agisce. Il punto è però controverso. Alcuni studiosi sostengono che l'impresa è una attività e non un atto o un negozio. Altri studiosi replicano che se l'attività non è un atto, essa è pur sempre fatta di atti. Attività esercitata in nome proprio (spendita del nome) Se lo scopo di lucro è elemento naturale dell'impresa, appare invece come essenziale che il suo esercizio avvenga, da parte dell'imprenditore, in nome proprio. Dall'esercizio dell'attività in nome proprio deriva, infatti, per l'imprenditore l'assunzione di quel particolare rischio, conosciuto come rischio imprenditoriale e che differenzia il lavoratore autonomo da quello subordinato. Il criterio pertanto in base al quale si identifica la figura dell'imprenditore è il requisito della spendita del nome. L'imprenditore occulto è quindi colui che non agisce personalmente, ma esercita la propria attività servendosi, nei suoi rapporti con i terzi, di un prestanome; pur non apparendo, cioè, all'esterno come colui che esercita l'attività di impresa, ne è il vero soggetto economico.

La figura è stata creata in dottrina ed accolta da parte della giurisprudenza per ammettere la possibilità di dichiararne il fallimento, pur non avendo questi soggetti i requisiti formali per essere oggetto di una sentenza dichiarativa di fallimento. Da tempo, secondo l'opinione prevalente, contro l'imprenditore occulto i terzi creditori pare non possano avanzare alcuna pretesa, in quanto essi hanno contrattato col prestanome, il quale ha speso il proprio nome e non già quello dell'imprenditore occulto. In pratica si è sempre ritenuto dai più che la situazione fosse analoga a quella che si verifica nel caso di terzi che hanno contrattato con un mandatario senza rappresentanza; in tal caso, infatti, i terzi non hanno azione verso il mandante, il cui nome non è speso dal mandatario senza rappresentanza. La giurisprudenza ha sostenuto in passato che l'imprenditore occulto ed il prestanome sono comunque responsabili in solido per le obbligazioni sorte dall'esercizio dell'impresa, utilizzando a questo scopo l'interpretazione analogica dell'art. 147 secondo comma della legge fallimentare, che prevede l'estensione del fallimento della società ai soci illimitatamente responsabili scoperti dopo la dichiarazione di fallimento, anche se la loro presenza era ignara ai creditori stessi, circostanza questa che accomuna all'ipotesi dell'art. 147 quella dell'imprenditore occulto. Su tali aspetti verterà ora la nostra disamina, corredata poi dalle più recenti pronunce della Magistratura ed in particolare della Corte Costituzionale. Un illustre autore, il Bigiavi, ha approfondito in passato, verso gli anni 60, l'argomento. Spesso accade nella realtà che taluno svolga attività imprenditoriale senza risultare e facendo quindi apparire al suo posto un prestanome e così, nel caso gli affari vadano male, egli (l'imprenditore occulto quindi) riterrà di non essere responsabile di fronte ai terzi e di non essere soggetto a fallimento, ricorrendone gli estremi. Premesso tutto questo, il Bigiavi elabora una sua tesi, secondo la quale risponde colui che è apparso nei confronti dei terzi creditori, per il solo fatto di essere apparso creditore e risponde anche colui che è rimasto occulto, per il fatto che è nell'interesse di lui che si è agito e quindi risponderebbero entrambi. Sorge a questo punto un primo dubbio: se per la responsabilità che gli si attribuisce, l'imprenditore occulto possa o non possa essere considerato imprenditore in senso tecnico. Secondo il citato autore, entrambi verrebbero a qualificarsi come imprenditori, sia quindi l'imprenditore diretto (che è colui il cui nome viene direttamente speso nell'esercizio dell'impresa) che l'imprenditore indiretto (che è colui nel cui interesse l'impresa viene esercitata).

Su tale teoria la dottrina non è uniforme e lo stesso Bigiavi ammette poi che l'imprenditore indiretto appare tale solo per quanto riguarda la responsabilità, lasciando chiaramente intendere che a tale figura non si applicherebbe tutta la disciplina dell'imprenditore in senso tecnico del termine. Anche a mio sommesso avviso, per poter parlare di imprenditore a pieno titolo è indispensabile che questi si faccia carico di tutta l'attività nel suo complesso, con tutte le conseguenze attive e passive. Quando quindi l'art. 2082 del codice civile parla di esercizio di attività occorre intendere che è da considerarsi imprenditore colui nel cui nome l'impresa viene esercitata. Non è sufficiente perciò agire nell'interesse di qualcuno, ma è assolutamente indispensabile la cosiddetta spendita diretta del suo nome, in base ad un chiaro diritto. Chi, come il Bigiavi, sostiene la responsabilità dell'imprenditore occulto, sviluppa la sua tesi fondandosi essenzialmente sull'articolo 147 della legge fallimentare, che recita così: la sentenza che dichiara il fallimento della società con soci a responsabilità illimitata produce anche il fallimento dei soci illimitatamente responsabili. Se dopo la dichiarazione di fallimento della società risulta l'esistenza di altri soci illimitatamente responsabili, il Tribunale, su domanda del curatore o di ufficio, dichiara il fallimento dei medesimi, dopo averli sentiti in camera di consiglio. Per tale articolo il legislatore, per quanto riguarda il fallimento, non fa distinzione fra soci palesi e soci occulti, purchè siano tutti a responsabilità illimitata. Osserva allora il citato autore che, se à vero che falliscono i soci occulti di una società palese, ai sensi dell'art. 147 comma 2 della legge fallimentare, non vi è ragione per negare che falliscano anche i soci occulti di una società occulta e quindi la stessa società occulta. Non avrebbe importanza, sempre secondo l'autore, ed ai fini del citato ragionamento, che i terzi siano a conoscenza dell'esistenza di altri soci accanto a quelli che si erano manifestati; come pure non avrebbe rilievo alcuno che i terzi ignorino non soltanto la qualità di soci di certi soggetti, ma addirittura l'esistenza della società e, se l'apparente imprenditore individuale era nient'altro che un preposto ad una impresa realmente sociale, va dichiarato non solo il suo fallimento, ma il fallimento della società e quello dei soci illimitatamente responsabili. Dunque, in ogni ipotesi di preposizione all'esercizio di una impresa commerciale da parte di un imprenditore che non spenda il proprio nome vi è la responsabilità e la soggezione a fallimento, non soltanto di colui che è apparso nei confronti dei terzi, ma anche della società o della persona individuale, che è rimasta occulta.

Oltre all'art. 147 comma 2 della legge fallimentare, anche i seguenti articoli del codice civile avvalorerebbero la tesi citata del Bigiavi e precisamente: - art. 2267: I creditori della società possono far valere I loro diritti sul patrimonio sociale. Per le obbligazioni sociali rispondono inoltre personalmente e solidalmente i soci che hanno agito in nome e per conto della società e, salvo patto contrario, gli altri soci. Il patto deve essere portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei; in mancanza, la limitazione della responsabilità o l'esclusione della solidarietà non è opponibile a coloro che non ne hanno avuto conoscenza; - art. 2208: l'institore è personalmente obbligato se omette di far conoscere al terzo che egli tratta per il preponente; tuttavia il terzo può agire anche contro il preponente per gli atti compiuti dall'institore, che siano pertinenti all'esercizio dell'impresa a cui è preposto; - art. 2339, comma 2 (responsabilità dei promotori):..sono del pari solidalmente responsabili verso la società e verso i terzi coloro per conto dei quali i promotori hanno agito; - art. 2615, comma 2 (consorzi con attività esterna):..per le obbligazioni assunte dagli organi del consorzio, per conto dei singoli consorziati, rispondono questi ultimi solidalmente col fondo consortile. In caso di insolvenza nei rapporti tra i consorziati, il debito dell'insolvente si ripartisce tra tutti in proporzione delle quote. Osserva ancora il Bigiavi che la preposizione all'impresa è regolata da principi diversi da quelli che regolano il mandato. Infatti mentre in questo il mandatario è incaricato del compimento di uno o più atti, il preponente ad una impresa è incaricato dello svolgimento di una attività. Fin qui la più qualificata dottrina, che non è comunque uniforme. Ma vediamo ora come si muove la Giurisprudenza corrente. (1) TRIBUNALE DI UDINE sentenza del 26 gennaio 1967 l'articolo 2362 del codice civile, concernente la responsabilità illimitata dell'azionista unico, è applicabile anche all'ipotesi in cui due o più azionisti abbiano adoperato la società come mezzo per il perseguimento dei propri fini, assumendo la figura di imprenditori occulti. In tal caso, fallita la società, deve essere dichiarato anche il fallimento della sdf esistente fra i soci sovrani e quello loro personale. (2)

CORTE DI CASSAZIONE sezione I, sentenza n. 1708 del 24/3/1981 Al fine dell'applicazione dell'art. 147 della legge fallimentare, è sufficiente il riscontro, oltre che della situazione normale di una società che esista nella realtà e come tale operi nei rapporti con i terzi, anche delle situazioni anomale costituite dalla società meramente apparente nei confronti dei terzi, pure se inesistente nei rapporti interni, e dalla società occulta, cioè realmente esistente, ma non esteriorizzata. Queste due ultime situazioni, peraltro, in relazione alla diversità di presupposti, si pongono su un piano alternativo. Ne consegue che l'estensione del fallimento di un imprenditore individuale ad altro soggetto, previo riscontro di una società di fatto, non può essere contradditoriamente giustificata in base al contemporaneo accertamento, in detto soggetto, della qualità di socio apparente e di socio occulto. (3) TRIBUNALE DI FIRENZE ordinanza di promovimento di giudizio costituzionale emessa in data 23/11/2001 Ordinanza emessa nel procedimento civile vertente tra una signora e la curatela di un fallimento estensione al socio, la cui esistenza risulti successivamente alla dichiarazione di fallimento della società assenza di limiti temporali disparità di trattamento rispetto all'imprenditore individuale, alla società cancellata dal registro delle imprese, nonché al socio receduto od escluso lesione del principio della certezza delle situazioni giuridiche richiamo alla sentenza n. 319/2000 della Corte Costituzionale regio decreto 16/3/1942 n. 267 art. 147 comma secondo Costituzione art. 3 (Gazzetta Ufficiale n. 10 del 6/3/2002). Nella ordinanza, l'attuale situazione normativa, la quale prevede un differente trattamento per i soci receduti od esclusi da oltre un anno antecedente la dichiarazione di fallimento (non più fallibili) ed i soci per i quali è invece accertata la qualità di socio successivamente all'anno della dichiarazione di fallimento (ancora fallibili) non trova adeguata giustificazione alla luce del disposto dell'art. 3 della Costituzione, il quale pretende identità di trattamento per situazioni sostanzialmente omogenee, e che ciò costituisca lesione del principio della certezza delle situazioni giuridiche, assoggettando il socio alle determinazioni del curatore e del tribunale fallimentare senza limiti temporali. Per i motivi sopra esposti la questione si presenta rilevante e non manifestamente infondata. Il Tribunale solleva questione di costituzionalità dell'art. 147, secondo comma, r.d. 16/3/1942 n. 267, per contrasto con l'art. 3 della Costituzione, nella parte in cui prevede la fallibilità del socio la cui esistenza risulti successivamente alla dichiarazione di fallimento della società, senza limiti temporali. (4) CORTE DI CASSAZIONE Sezioni Unite, Sentenza n. 8257 del 7/6/2002 Quando, dopo la dichiarazione di fallimento di una società con soci a responsabilità illimitata, risulti l'esistenza di altro socio illimitatamente responsabile (ovvero, dopo la dichiarazione di fallimento dell'imprenditore individuale, risulti l'esistenza di una società di fatto tra lo stesso

imprenditore ed altro od altri soci), la successiva dichiarazione di fallimento (cosiddetta in estensione) del socio occulto ha effetto ex nunc, in virtù del carattere autonomo che (pur nel simultaneo processo) va ad essa riconosciuto. (5) ed infine una recente sentenza della Corte Costituzionale, che merita di essere citata per esteso. CORTE COSTITUZIONALE ordinanza, nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 147, secondo comma, del regio decreto 16/3/1942 n. 267 promosso dal tribunale di Trani in data 24/4/2001, sull'istanza proposta dalla curatela del fallimento di Bombini Tommaso contro Bombini Sergio ed altra. Ritenuto: - che il Tribunale di Trani ha sollevato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 147, secondo comma, del regio decreto 16/3/1942 n. 267, nella parte in cui non prevede un limite temporale, decorrente dalla data della sentenza dichiarativa del fallimento principale, per la dichiarazione del fallimento del socio occulto illimitatamente responsabile di una società di persone; - che il giudice rimettente è investito dell'esame di una istanza, presentata dal curatore del fallimento di un imprenditore individuale, con la quale si chiede di dichiarare il fallimento in estensione della società occulta costituita dal fallito e dai suoi genitori, e di questi ultimi quali soci illimitatamente responsabili della stessa; - che, in ordine alla non manifesta infondatezza della questione, il giudice a quo osserva che la più recente giurisprudenza ha ribaltato l'orientamento, un tempo consolidato, pur se criticato dalla dottrina, secondo il quali gli articoli 10 ed 11 della legge fallimentare si applicano al solo imprenditore individuale; - che, ricordata la svolta rappresentata dalla sentenza della Corte n. 66 del 1999 ed il successivo dibattito sulle conseguenze di tale pronuncia interpretativa di rigetto, il Tribunale di Trani rileva come con la successiva sentenza n. 319 del 2000 la Corte abbia definitivamente chiarito le relazioni intercorrenti tra l'art. 10 e l'art. 147, primo comma, della legge fallimentare; - che, secondo il rimettente resterebbe comunque discriminata la posizione del socio occulto, per il fallimento del quale non sussiste alcun limite temporale, dal momento che la pronunzia di incostituzionalità ha riguardato il solo primo comma dell'art. 147 della legge fallimentare e non ha investito anche il secondo comma della stessa disposizione;

- che, il giudice rimettente osserva ancora come non possa negarsi che l'esigenza di tutela del principio di certezza delle situazioni giuridiche dovrebbe ispirare anche l'applicazione del secondo comma dell'art. 147 legge fallimentare, esigenza ancor più sentita nel caso della estensione del fallimento al socio occulto, essendo in questo caso minore o addirittura insussistente la necessità di tutelare i creditori nei confronti di un soggetto del quale neppure conoscono la qualità; - che, secondo il Tribunale di Trani, la posizione del socio occulto, che non può esternare il suo recesso con le forme legali di pubblicità e si vede esposto al rischio di una dichiarazione di fallimento per un tempo illimitato, andrebbe confrontata con quelle del socio receduto e del socio illimitatamente responsabile di società di persone trasformata in società di capitali, situazioni che appaiono diverse tra loro, ma non in modo tale da giustificare una disparità di trattamento riguardo al termine per la sottoposizione a fallimento; - che, ad avviso del giudice a quo, la mancanza di un termine per l'estensione del fallimento al socio occulto, la cui qualità si sia manifestata ai creditori, al curatore o al pubblico ministero dopo la dichiarazione di fallimento della società termine che dovrebbe decorrere dalla data della prima sentenza di fallimento viola l'art. 3 della Costituzione, né sarebbe possibile un'interpretazione secondo Costituzione della norma impugnata, mancando nella stessa un qualunque riferimento al momento preciso da cui far decorrere detto termine; - che, secondo il rimettente è assurdo prevedere, per il fallimento del socio receduto, il termine di un anno dal recesso della società, tenendo al contrario indefinitamente nell'incertezza il destino del socio occulto, dopo che questi ha perduto ogni controllo dell'impresa, atteso che la nettezza della interruzione del rapporto sociale rappresentata dalla dichiarazione del fallimento principale combinata con l'intrinseca esigenza di concentrazione della procedura concorsuale dovrebbero imporre, a maggior ragione, il rispetto di un termine perentorio per definire la posizione del socio; - che, secondo il giudice a quo, l'omessa previsione di un termine entro il quale possa esservi la pronuncia di estensione del fallimento nei riguardi del socio occulto urta non solo col principio di eguaglianza, ma anche con l'esigenza di dare certezza alle situazioni giuridiche e con quella di garantire ai creditori un accesso certo ed efficiente alla tutela giurisdizionale; - che, sempre ad avviso del Tribunale di Trani, dovendosi stabilire un termine per l'estensione del fallimento al socio, questo dovrebbe essere fissato a far data dalla dichiarazione del fallimento principale; - che, nel giudizio di legittimità costituzionale si sono costituite le parti nei cui confronti il curatore del fallimento dell'impresa individuale ha chiesto al Tribunale di Trani la pronuncia di sentenza ex art. 147, secondo comma, legge fallimentare; - che le parti private, ribadendo una specifica eccezione sollevata nel corso del giudizio a quo, ritengono che la norma impugnata dal Tribunale di Trani possa essere interpretata in senso costituzionalmente legittimo; - che, ad avviso delle parti private, quello previsto dall'art. 10 della legge fallimentare è un termine di decadenza applicabile in ogni caso e la cessazione per qualsiasi causa

dell'impresa, pubblicizzata nelle forme di legge, costituisce il dies a quo dal quale esso inizia a decorrere; - che, sempre secondo le parti costituite, una diversa interpretazione dell'art. 147 impugnato sarebbe incostituzionale, in quanto si tratterebbe dell'unico caso in cui, nonostante la cessazione dell'impresa, avvenuta a seguito della dichiarazione di fallimento, verrebbe dichiarato il fallimento dei soci decorso un anno dalla prima pronuncia; - che le parti private chiedono, in subordine, che la Corte dichiari incostituzionale la norma impugnata nel senso indicato dal tribunale rimettente, Considerato - che il Tribunale di Trani dubita, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, della legittimità dell'art. 147, secondo comma, del regio decreto 16/3/1942, n. 267, nella parte in cui non prevede un limite temporale, decorrente dalla data della sentenza dichiarativa del fallimento principale, per la dichiarazione di fallimento c.d. in estensione del socio occulto illimitatamente responsabile; - che, secondo il giudice a quo, la disposizione impugnata violerebbe il principio di eguaglianza, poiché determinerebbe una disparità di trattamento, quanto al termine per la dichiarazione di fallimento, tra il socio occulto da un lato, e l'imprenditore individuale ed il socio palese cessato per qualsiasi causa dalla società,dall'altro, situazioni che, pur non essendo secondo il Tribunale di Trani identiche, sarebbero fra loro raffrontabili; - che, sempre secondo il Tribunale di Trani, vi sarebbe violazione della stessa norma costituzionale, anche avuto riguardo al principio di ragionevolezza, stante l'esigenza di dare certezza, anche per il fallimento in estensione del socio occulto, alle situazioni giuridiche e di garantire ai creditori un accesso certo ed efficiente alla tutela giurisdizionale; - che la premessa, da cui prende le mosse il giudice rimettente, in ordine alla ritenuta violazione del principio di eguaglianza, risulta palesemente erronea, non potendo in alcun modo essere poste a raffronto, ai fini della applicabilità del termine annuale, entro il quale può essere dichiarato il fallimento personale del socio illimitatamente responsabile di una società personale, due situazioni fra loro del tutto diverse, quali sono quella del socio receduto da una società regolarmente costituita e registrata, nel rispetto delle forme di pubblicità prescritte dalla legge, e quella del socio occulto di una società irregolare, perché non iscritta nel registro delle imprese o addirittura, come nel caso all'esame del tribunale rimettente, a sua volta del tutto occulta; - che tutto il nostro sistema normativo, ed in particolare le disposizioni del libro V del codice civile in tema di responsabilità personale del socio per le obbligazioni delle società di persone, è improntato a netta differenza tra società registrate e società irregolari o occulte, potendo essere opposte ai creditori (salvo che questi ne abbiano avuto ugualmente conoscenza) solo le vicende, societarie o personali, regolarmente iscritte nel registro delle imprese, secondo quanto prescrivono gli artt. 2193 e 2200 codice civile e le altre disposizioni connesse;

- che la stessa legge fallimentare, quanto alla ammissione alle procedure concorsuali, esclude le società irregolari, ed a maggior ragione quelle occulte, dal concordato preventivo e dalla amministrazione controllata (artt. 160 e 187 del regio decreto n. 267 del 1942); - che le sentenze di questa Corte n. 66 del 1999 e n. 319 del 2000, contrariamente a quanto mostra di ritenere il giudice rimettente, considerano appunto esclusivamente ipotesi nella quale sia stata regolarmente cancellata una società dal registro delle imprese ovvero nelle quali sia regolarmente pubblicizzata la perdita della qualità di socio illimitatamente responsabile, a seguito di vicende che siano state, a loro volta, debitamente portate a conoscenza dei terzi nelle forme prescritte; - che altrettanto infondata appare la questione sollevata, sempre con riferimento all'art. 3 della Costituzione, in relazione alla violazione del principio di ragionevolezza; - che, contrariamente a quanto sostiene il rimettente, è proprio la necessità di dare certezza alle situazioni giuridiche, che consente al legislatore di prevedere una diversa disciplina per le società ed i soci in regola con le disposizioni sulla pubblicità e per i soci e le società irregolari, se non occulti, essendo la mancata registrazione una scelta degli stessi associati, che in tal modo si espongono, per loro volontà, alle conseguenze di tale loro opzione; - che, infine, appare del tutto evidente come l'interesse dei creditori ad avere un accesso certo ed efficiente alla tutela giurisdizionale stia esattamente in senso contrario a quanto sostiene il giudice a quo, risultando la possibilità di chiedere il fallimento di chi ha volutamente occultato la propria qualità di socio, un mezzo di rafforzamento della garanzia patrimoniale; - che la questione di legittimità costituzionale risulta perciò manifestamente infondata sotto ogni profilo. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 147, secondo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Tribunale di Trani con l'ordinanza in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 1 luglio 2002. F.to: Cesare Ruperto, Presidente Fernanda Contri, Redattore Giuseppe Di Paola, Cancelliere. Depositata in Cancelleria il 5 luglio 2002. Il Direttore della Cancelleria f.to: Di Paola.