PIER FRANCESCO ASSO (Università di Palermo)



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Transcript:

PIER FRANCESCO ASSO (Università di Palermo) Gli indicatori di bilancio, le elaborazioni, le analisi sul passato e le previsioni per il futuro che sono contenute nel Rapporto Mediobanca - Unioncamere offrono, come di consueto, un quadro ricco e stimolante. Provare a commentarli implica, naturalmente, una scelta preliminare. La mia intenzione è di leggerli in controluce al recente andamento dell economia meridionale. L economia meridionale si trova oggi in una situazione di grave crisi, che viene registrata da quasi tutti gli aggregati macroeconomici, colpisce settori e territori, con forti riflessi sui livelli occupazionali e sulla crescita della povertà. Forse mai come quest anno il rapporto annuale della Svimez - Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno è stato oggetto di attenzione e di commento da parte dei media per il quadro drammatico che ha tracciato e le espressioni insolitamente forti utilizzate per descrivere lo stato delle cose. Colpisce soprattutto il richiamo al rischio di una desertificazione produttiva, che si sta manifestando a seguito della caduta degli investimenti netti (distruzione di capitale fisico) e del calo demografico che coinvolge con numeri crescenti i giovani istruiti o alla ricerca di formazione avanzata (distruzione di capitale umano). Siamo di fronte a processi difficilmente reversibili, che rischiano di indebolire ulteriormente il tessuto produttivo del Mezzogiorno e che, per essere sanati, richiedono una ripresa di un percorso di sviluppo autonomo, fondato sulla valorizzazione delle risorse locali e delle tante potenzialità inespresse. Ora, se si guarda all indagine realizzata da Mediobanca e Unioncamere nell ottica di queste analisi e previsioni, mi pare che emergano due aspetti che possono, per comodità espositiva, essere collegati a due modi diversi di avvicinarsi, oggi, alla questione meridionale. Il primo è quello più classico del divario ovvero del ritardo e del dualismo. Sappiamo che, con un terzo della popolazione nazionale, il Sud produce meno di un quarto del reddito e contribuisce per poco più del 10% alle esportazioni e al valore aggiunto del Paese. Anche in questo segmento delle medie imprese, che rappresenta uno degli elementi di forza e di dinamismo del nostro sistema produttivo, si registra una distanza abissale con le macro aree del Nord, utilizzando tutti i possibili indicatori che ci vengono forniti da questa indagine. Anzi, sembra evidente che questa distanza si sia decisamente ampliata nel corso degli ultimi anni: in media, si osserva che la caduta degli indici di redditività è stata molto più rapida per le imprese meridionali; mentre se si guarda agli ultimi due anni la tendenza al recupero di redditività che si registra fra le medie imprese italiane è molto più limitata e insufficiente a ritornare sui livelli precedenti alla crisi. Al tempo stesso la struttura patrimoniale e finanziaria delle medie imprese meridionali presenta caratteri di maggiore fragilità rispetto alle imprese che operano nelle altre macro aree, mentre i costi medi unitari del personale sono più elevati di tante altre regioni del Centro Nord e sono cresciuti a ritmi più sostenuti in questo decennio. Fra le regioni meridionali, soltanto la Puglia ha una crescita dei costi del personale in linea con le imprese che operano nelle principali regioni del Centro Nord. Le altre fanno registrare variazioni mediamente superiori e sono proprio gli anni della crisi a mostrare le divergenze più nette in questi andamenti. Quindi, nel Mezzogiorno troviamo un numero di medie

imprese assai più modesto, meno efficienti, meno redditizie, meno solide, con una tendenza progressiva al peggioramento. Il divario aumenta. Il secondo tema è quello che richiama l attenzione sulla eterogeneità del Mezzogiorno. Infatti, l indagine offre molte evidenze a sostegno della tesi che il Mezzogiorno non sia una realtà indifferenziata e tutta stagnante, come spesso si sostiene. Al contrario, sono presenti importanti aree di vitalità caratterizzate da dinamismo, robustezza e una spiccata propensione al cambiamento; aree in cui si può osservare una graduale, ma progressiva, crescita della densità produttiva e delle agglomerazioni, in cui aumenta il peso della media impresa che si inserisce in modelli sempre più complessi, estesi e integrati di reti e di catene produttive. In particolare è soprattutto lungo la direttrice Campania Puglia (Napoli, Salerno, Bari), che sembrano ormai consolidate realtà produttive di successo fondate sulla media impresa, in settori diversi. Si tratta di un pezzo di Mezzogiorno che si può agganciare, e lo sta facendo, al resto del Paese e che pare non essere stato scalfito, anzi essersi rafforzato (almeno in termini relativi) dalla terribile crisi che stiamo attraversando. La localizzazione delle imprese divenute medie negli ultimi anni mostra chiaramente questa tendenza in atto, con risultati lusinghieri anche rispetto a territori a più forte tradizione distrettuale, come la Toscana e le Marche; e mostra anche qualche segnale importante di presenza nelle tanto bistrattate isole, in particolare nel cagliaritano, nel ragusano e nel siracusano. Spicca un dato: soprattutto negli ultimi anni, le medie imprese meridionali possono vantare una interessante crescita nel loro fatturato estero che, nel 2011, supera di oltre un miliardo quello realizzato nel 2004 (+47%). La quota complessiva di fatturato estero sul totale è ancora abbastanza inferiore alle due macro aree settentrionali, ma in questo caso il divario è diminuito negli ultimi anni e l indicatore per il Mezzogiorno risulta essere ormai vicino a quello del Centro. In definitiva, anche nel Mezzogiorno, le medie imprese internazionalizzate sono fra i (pochi, veri) protagonisti della crescita economica. Ora la questione su cui interrogarsi, anche alla luce di questa indagine, è approfondire quali siano state le ragioni, gli elementi fondamentali, i drivers del cambiamento che hanno reso possibile questi processi. La risposta è probabilmente scontata: le imprese che operano sui mercati internazionali, che sono ben posizionate all interno delle catene produttive, che sono impegnate in processi innovativi, mostrano livelli di produttività maggiore, riuscendo a neutralizzare le difficoltà del contesto, le carenze di infrastrutture e di servizi, le minacce della criminalità organizzata. Tuttavia è necessario un passo successivo e chiedersi perché, a parità dei vantaggi competitivi offerti dal territorio e radicati in specializzazioni spesso antiche, e a parità delle diseconomie esterne prodotte dalla più bassa qualità del contesto ambientale, alcune imprese, nonostante tutto, ce la fanno a crescere, innovare e internazionalizzare e altre no? Si tratta di una domanda impegnativa, ma proviamo a indicare qualche possibile risposta.

In mancanza di una significativa presenza di agglomerazioni industriali con elevata specializzazione, l internazionalizzazione è un fenomeno che, nel Mezzogiorno forse più che altrove, risulta essere dipendente dalla densità e dallo spessore delle relazioni, non soltanto economiche, che le imprese riescono a realizzare con l esterno. Infatti, i risultati di alcune recenti ricerche sul campo mostrano che, partendo dalla forza e dalla qualità del prodotto, sono le imprese più integrate, più aperte a collaborazioni strategiche, più coraggiose nell investire in capitale umano, più attente a valorizzare le risorse locali, che riescono a entrare nei mercati internazionali. Lo fanno con gradualità e con prudenza, spesso affidandosi a canali distributivi inadeguati o di scarso impatto. Ma, una volta entrate in mercati più ampi, tendono in larghissima misura a restarci, a migliorare nelle performance, ad alimentare processi di innovazione sempre più diffusa, a crescere nelle dimensioni. Di converso, esiste una platea di imprese che potenzialmente potrebbero seguire lo stesso percorso, ma non lo fanno, non per la scarsa competitività della propria produzione, ma per la ritrosia ad avviare collaborazioni strategiche o per la carente accumulazione di conoscenze, esperienze, informazioni utili che portano alla scoperta di nuovi mercati e di nuove opportunità. In mancanza di flussi importanti di risorse investite in ricerca e sviluppo, e in mancanza di un adeguato processo di trasferimento tecnologico proveniente da università e centri di ricerca, sono dunque le dimensioni sociali e relazionali dell impresa che incidono sulla effettiva capacità di assorbire nuove conoscenze e sulla traiettoria seguita per modificare la struttura della propria offerta. Questo richiamo all importanza della collaborazione fra imprese, delle reti formali e informali che si creano per promuovere occasioni di upgrading e di crescita, mi porta a toccare brevemente il tema delle filiere produttive in cui operano le imprese meridionali, in particolare quelle di media dimensione. La partecipazione a reti produttive estese rappresenta un opportunità importante per le imprese in termini di maggiore estensione del mercato e di maggiori stimoli concorrenziali. Certo, nel Mezzogiorno sono ancora poco diffusi i sistemi locali a forte specializzazione: basti pensare che una buona parte dell occupazione manifatturiera si trova in sistemi privi di qualsiasi forma di specializzazione settoriale. Inoltre, la presenza di industria agglomerata nelle aree urbane meridionali è un fenomeno raro e un ulteriore fattore di debolezza. Al contrario, mi pare che si possa registrare con soddisfazione il buon successo dei contratti di rete in alcune regioni del Mezzogiorno che vedono la partecipazione di imprese meridionali per circa un quinto del totale (diffusi soprattutto in Puglia e Abruzzo, ma anche in Sardegna e Basilicata). Oltre a questi elementi generali, sappiamo che le imprese meridionali soffrono di un problema di inserimento e di posizionamento all interno delle filiere e in particolare in quelle più lunghe e internazionalizzate. Sono spesso collocate ai margini, in condizioni di subalternità, dipendenti da uno o da pochi committenti. Appartengono a catene più frammentate, più esposte alle fluttuazioni della domanda finale, con pochi esempi di specializzazione nei settori dei beni intermedi e dei prodotti a monte che sono quelli che mostrano una crescita più forte dal 2005.

Esiste, tuttavia, un ulteriore elemento di debolezza che raramente viene ricordato e che, se superato, potrebbe contribuire alla crescita delle imprese internazionalizzate e irrobustire lo spessore e la completezza della filiera. Infatti, uno dei vincoli più importanti per le imprese meridionali che operano nelle filiere è l inadeguatezza dei canali di distribuzione soprattutto quando l obiettivo è quello dell internazionalizzazione. Questo è vero soprattutto per le produzioni agroalimentari, ma non soltanto. Si usano canali commerciali tradizionali, attivati dall Italia, spesso di derivazione etnica, affidandosi ad agenti o distributori monomandatari raramente presidiati da distributori nazionali. Ciò abbatte la capacità di trovare nuovi mercati di sbocco e in particolare di allargarsi in quelli a maggiore crescita. Le fiere continuano a essere il principale veicolo di ingresso, ma manca un ruolo di supporto della Grande Distribuzione Organizzata soprattutto nel settore alimentare e dei beni alla famiglia, in quanto priva le nostre produzioni di importanti vetrine sui mercati esteri e dell opportunità di conoscere, attraverso i distributori italiani, le tendenze dei nuovi mercati e i cambiamenti nelle scelte dei consumatori. Credo dunque che la distribuzione sia una fase che vincola piuttosto che una condizione capace di trainare la catena in cui operano le imprese meridionali. In questo ambito, come mostra una recente indagine di UniCredit e Prometeia, è l intera economia italiana che sconta il forte divario con le grandi catene distributive di Francia e Germania, molto internazionalizzate e ben posizionate anche nei nuovi mercati, mentre le nostre principali sono assai poco competitive per la dimensione ridotta, la scarsa internazionalizzazione, il ridotto impiego di format innovativi. I produttori sono spesso in balìa dei distributori locali, inaffidabili e con maggiore potere contrattuale, con scarso impegno verso il prodotto. Cosa fare? Quale potrebbe essere il ruolo della politica economica per sostenere alcune di queste realtà e avviare la soluzione di alcune di queste problematiche? Credo che la domanda delle imprese meridionali sia soprattutto diretta a richiedere un miglioramento della qualità del contesto. In proposito, guardando alla struttura dell industria meridionale, credo che i vantaggi competitivi, di produttività e di efficienza, per operare in mercati sempre più integrati non dipenda esclusivamente dalla dimensione aziendale. Le caratteristiche della struttura dimensionale sono più la conseguenza che non la determinante dei processi virtuosi che sono stati osservati nel Mezzogiorno. Affinché si consolidino e si diffondano, credo che qualsiasi disegno di policy debba passare prioritariamente attraverso: - la crescita di beni e servizi collettivi, rivolti alle imprese e alla produzione; - il miglioramento della qualità delle istituzioni, a cominciare dalla scuola; - la valorizzazione e la crescita del capitale umano presente nelle imprese; - l ampliamento delle opportunità di far conoscere la qualità delle nostre produzioni. Da questo punto di vista politiche eccessivamente decentrate si sono rivelate palliative per un intervento pubblico serio, che favorisse investimenti volti a rafforzare il tessuto amministrativo, infrastrutturale e socio-culturale. In questo modo potrebbe realizzarsi, non soltanto una crescita

dimensionale delle imprese, ma anche la riduzione dei divari e dei ritardi che continuano a caratterizzare non soltanto il Mezzogiorno, ma anche l intero sistema economico nazionale.