Esame di Storia Greca 2008-2009 SULLA PENTECONTAETIA «Che significa questa parola, epoca di transizione, che ci ronza tanto spesso agli orecchi? Tutti sono stati tempi di transizione; trovatemene uno, che si sia fermato.» Così scriveva Giuseppe Giusti contro quanti si ostinavano, ancora nel XIX secolo, a definire medioevo quei dieci secoli che separano, secondo convenzioni largamente accettate, l inizio della modernità dalla fine della classicità: quasi che quell arco cronologico non avesse altra caratteristica che stare in mezzo a due epoche splendenti, e ne fosse un malriuscito tentativo di oscuramento. Oggi nessuno potrebbe più considerare il Medioevo come una decadente parentesi del classicismo, poi tornato a nuova vita grazie agli umanisti, ma la terminologia che contempla una media aetas, coniata nel 1518 da Gioacchino di Watt, continua a essere usata universalmente, senza che il minimo dubbio sulla sua legittimità possa essere avanzato. Si ritrova la stessa acritica pigrizia nell ambito della storia greca, quando, parlando di pentecontaetia, si propone una scansione temporale che presenta sotto la medesima veste gli anni intercorsi (un altra media aetas) fra la fine delle Guerre Persiane e lo scoppio del conflitto fra Atene e Sparta. Certamente sono molte le periodizzazioni oggi accolte senza interrogarsi sulla loro opportunità, ma ciò è possibile, soprattutto laddove battaglie e trattati di pace indirizzino con sufficiente sicurezza lo storico, permettendogli di distinguere con lucidità le diverse evoluzioni di un arco temporale. Tuttavia, Tucidide, che dell idea di pentecontaetia è l autore, sceglie quali guerre adottare come estremi della sua trattazione, tralasciandone altri eventi perché, a suo avviso, meno importanti. Emerge qui un tema fondamentale: la vera o presunta oggettività della storia, ovvero il ruolo che in essa lo storico deve giocare. La portata del discorso è molto ampia, le argomentazioni numerose: si dirà soltanto che la storia, senza gli storici che la raccontino, non esisterebbe. E l oggettività di un racconto pare estremamente difficile, se non impossibile, da perseguire. Ecco dunque che Tucidide non può e non deve essere considerato lo storico, bensì uno degli storici: la maggiore o minore verosimiglianza della sua opera dipende da moltissimi fattori, ma anche solo un confronto con altri autori è sufficiente per suscitare alcuni dubbi riguardo al concetto di pentecontaetia, che pure è comunemente accettato e riproposto nei manuali. Pentecontaetia vale «cinquantennio, periodo di cinquant anni» e nella storia greca indica unitariamente il lasso temporale compreso fra il 478 a.c., anno della presa ateniese di Sesto, che conclude secondo la scansione erodotea le Guerre Persiane, e il 431, corrispondente allo scoppio 1
delle ostilità fra Atene e Sparta. Una prima considerazione permette di inquadrare meglio l arbitrarietà (peraltro legittima, come si è cercato di mostrare) dello storico del V secolo: se sulla data d inizio della Guerra del Peloponneso tutti gli autori che ne trattano non presentano divergenze sostanziali, e il 431 è effettivamente una cesura netta nella grecità, il termine delle lotte fra greci e barbari non è altrettanto certo e univoco. Anzi, esso varierà se si accetterà o meno l impostazione di Tucidide, che delle Storie di Erodoto vuole porsi come continuatore: la narrazione degli eventi che portano, secondo lo storico ateniese, alla guerra contro Sparta inizia nel 478 proprio perché c era già stato chi aveva dato conto del conflitto coi barbari, e aveva analizzato i rapporti fra la Grecia delle città e il temibile impero fondato da Ciro il Grande. Ma poiché c è stato anche chi ha dubitato della compiutezza dell opera di Erodoto, giudicando la chiusura estremamente affrettata, e gli ultimi eventi narrati non tali da porre fine definitivamente a un conflitto ventennale, in cui le città greche giocavano non solo la loro autonomia, ma addirittura la loro sopravvivenza, le nostre certezze e il nostro appoggio alla prospettiva, che vede nel periodo 478-431 un cinquantennio in sé coerente e compiuto, andrebbero quantomeno argomentati. Entrando ne La guerra del Peloponneso e analizzandone i capitoli metodologici, si legge che Tucidide ha intrapreso la narrazione del conflitto fra le due poleis perché lo ritiene emblema di quanto avverrà fra gli uomini dopo di lui: to anthròpinon, la natura dell uomo, è stata e sempre sarà la medesima, si ripeterà cioè uguale o molto simile a sé stessa [I 23, 6]. Per questo la Guerra del Peloponneso può diventare ktema es aèi, perché quegli avvenimenti, giudicati più grandi e più importanti di tutti i precedenti [I 21, 2], raccolgono in sé l intera gamma delle potenzialità umane. Occorre però notare che lo stesso principio deterministico che ha ispirato quei paragrafi è presente e condiziona pesantemente anche la visione che Tucidide offre degli anni precedenti, quelli della pentecontaetia, così come sono riassunti in I 23, 6: la forma verbale anankàsai non indica solamente l entrata in guerra. Dice che la crescita di Atene ha portato inevitabilmente, necessariamente al conflitto: ananke, da cui il verbo anankàzo deriva, è anche qualsiasi entità di forza maggiore che non può essere in alcun modo limitata o influenzata dall azione dell uomo. Dunque, la guerra era già scritta negli anni precedenti, vale a dire nella àuxesis di Atene: essa è per l autore alethestàte pròfasis. Si riconosce, nell impiego dei concetti di verità e necessità, l utilizzo della retorica, cioè di quei procedimenti volti a rendere più persuasivo un discorso: Tucidide deve dimostrare all uditorio la sua tesi, la sua impostazione, che non è vera a priori e anzi nasce come interpretazione. Egli fa risalire la nascita della politica aggressiva e imperialistica di Atene dunque, a suo dire, la causa prima della guerra - alla fondazione della Lega navale delio-attica, nel 477: l atto di prevaricazione nei confronti di Sparta, che deteneva l egemonia nella Lega Ellenica, vorrebbe 2
proprio privare la città della Laconia del comando sui mari, contravvenendo in tal modo alla condizione di parità fra le città federate e al ruolo spartano di comando. Ma, con Tucidide, non si capisce perché Sparta avrebbe dovuto permettere la nascita di una Lega sua concorrente, e lasciare ad Atene il controllo dell intero Egeo. L incidente diplomatico che vede protagonista Pausania [Thuc. I 94-95, Diod. XI 46-47, oltre a Plut. Aristide], comandante della flotta spartana in missione a Bisanzio, attaccato e cacciato dagli Ioni suoi alleati, non è sufficiente a spiegare il passaggio degli Ioni stessi sotto Atene, se non si dà conto del motivo per cui Sparta accetta successivamente di rinunciare al comando sulle operazioni marittime. Perché non reagisce? Diodoro [XI 50] a questo proposito rappresenta una fonte importante di informazioni: racconta di una concitata assemblea degli Spartani, in cui si discute se portare o meno guerra contro Atene, per riconquistare il potere nell Egeo. Etoimarida, geronte di grande prestigio per i suoi legami sanguinei con Eracle, afferma che non è nell interesse di Sparta spendere energie per riprendere l egemonia sul mare. Il verbo chiave, sumphèrein, è sintomatico della gerarchia di argomentazioni che portavano a prendere le decisioni: prima dell ideologia e della vendetta (che pure è categoria pienamente politica, nel mondo greco) vengono gli interessi: Sparta lascia correre l azione ateniese perché percepisce che sono altre le questioni per lei vitali. Non a caso, di lì a undici anni, al verificarsi del terribile terremoto che raderà al suolo l intero nucleo urbano (Plutarco testimonia di sole cinque case rimaste integre), Sparta rischierà di soccombere nella rivolta degli Iloti, e solo grazie alla prontezza del re Archidamo [Plut. Cim. 16, 6] l esercito dei superstiti riuscirà a battere sul tempo i rivoltosi; è molto probabile che i primi sintomi di queste tensioni fossero già presenti nel decennio precedente. Del resto, è lo stesso Tucidide ad affermare che a Sparta ci si «voleva liberare della guerra coi Medi» [I 95, 7]: la stabilizzazione interna pare indubbiamente il motivo più ragionevole. L errore di valutazione di Sparta diventa ancora meno rilevante quando si consideri che la Lega delio attica non era rivolta contro alcuna delle città greche: Cimone, personaggio politico ateniese che dominò la scena pubblica dalla metà degli anni 70 fino al 461, quando fu ostracizzato, fu il campione (come e forse più di Temistocle, eroe di Salamina) della lotta contro i Persiani, una lotta che non era affatto terminata nel 478, come lascia intendere Erodoto e come vuole far credere Tucidide. Si deve infatti considerare che tutta la storia della Grecia continentale, insulare e d Asia Minore si sviluppa come la storia di piccole città autonome, cresciute alla periferia di un impero sterminato e sempre minaccioso: solo in un ottica straniata e falsata si può pensare che, vinti per mare a Salamina, cacciati da alcune posizioni strategiche sull Ellesponto, i Persiani si fossero ritirati all interno, deponendo tutt a un tratto le loro ambizioni di espansione politica ed economica. La politica cimoniana non può essere bollata come aggressiva, né come momento di restaurazione di un aristocratico concentrato su un nemico ormai vinto e in fuga: la conquista di Eione (476), Sciro 3
(475), le operazioni contro Caristo, in Eubea, e Nasso (471) non sono le prime manifestazioni di un imperialismo sempre più ambizioso, destinato a generare uno scontro diretto con Sparta, bensì operazioni intese a rafforzare la sicurezza del bacino dell Egeo, e ad eliminare eventuali sacche di resistenza, come nel caso della cittadina euboica che aveva rifiutato l ingresso nella Lega. Persino l asservimento di Nasso, rimarcato da Tucidide come una delle rare cesure della pentecontaetia, nonché assurto a primo, fatale passo verso una crescente aggressività [I 98, 4] da parte ateniese, rientra nella necessità di imporre uno stabile ed efficace controllo in zone lontane da Atene e vicine ai domini dei Medi, in una coerente prospettiva antipersiana. La Lega delio attica si conferma quindi complementare a quella Ellenica, il cui comando rappresenta ancora, almeno formalmente, l unica forma di egemonia, come rivela il caso di Taso, ribelle nel 465, che chiede aiuto agli Spartani, in quanto ancora detentori del comando, sulla carta. Atene non è in questo periodo leader di nulla, e la sua politica non è tesa a contrastare Sparta, ma al contrario continua sul binario di contrasto ai Persiani, e lo abbandonerà solo molto più tardi. Nel 470/69 (anche se non è esclusa una datazione più bassa 467/6 ca. di questa, che è proposta da Diod. XI 60) si colloca un fatto al quale Tucidide dedica un solo paragrafo [I 100, 1], ma che altri autori narrano in pagine ricche di particolari e di valutazioni [Plut. Cim.12-13, oltre a Polieno, Callistene, Eforo di Cuma e il già citato Diodoro]: è la battaglia fra Ateniesi e Persiani, combattuta presso il fiume Eurimedonte, nella regione della Panfilia. Diodoro riporta che Cimone sia stato inviato con duecento triremi, ma potesse contare su una flotta di trecento unità, una volta raccolti gli aiuti degli alleati [XI 60, 3]; testimonia del resto un grande impegno da parte dello stratego ateniese nel coinvolgere, con la persuasione o con la forza, le città costiere nella ribellione al Gran Re. Si dilunga nel riferire di due clamorose vittorie, una per mare e una per terra, di Atene, e della larghissima diffusione che ebbero la fama e il prestigio di Cimone; assicura che i Persiani si affrettarono a ricostruire la loro flotta, addirittura phoboùmenoi ten ton Athenaion àuxesin [XI 62, 2]. Si parla cioè dei Persiani impauriti dalla crescente potenza degli avversari: questo di Diodoro è un passaggio fondamentale, perché rende giustizia della chiave di lettura fin qui proposta, vale a dire ripetuti e costanti sforzi di allontanare sempre più la minaccia barbara dai possedimenti ateniesi. Non sbaglia allora Plutarco, scrivendo che Cimone superò con queste vittorie le battaglie di Salamina e di Platea: l Eurimedonte e Cimone, più che Salamina e Temistocle (che pure aveva fermato i Persiani in un altro momento storico), dovevano essere in quei tempi l orgoglio degli Ateniesi. Alla luce di ciò, si può comprendere perché Plutarco stesso [Cim. 13, 4] faccia dipendere direttamente «quella famosa pace» [di Callia] dalle vittorie di Cimone all Eurimedonte: tale era il turbamento del re che egli fu indotto ad accettare un accordo dove si impegnava a non avanzare 4
verso la costa oltre una distanza inferiore ai tre giorni di marcia. Ammettendo una cronologia bassa per questa battaglia (467/6), secondo Plutarco la pace di Callia non potrebbe essere posteriore al 465. Tuttavia, Diodoro la colloca con sicurezza nel 449 [XII 4], all indomani di un altra rilevante battaglia, combattuta a Salamina di Cipro, in cui gli Ateniesi furono nuovamente impegnati contro i Medi, i Fenici e i Ciprioti; ancora una volta il loro impegno bellico fu considerevole (duecento navi, secondo Thuc. I 112, 2, al comando di Cimone, rientrato dall esilio forse già da cinque anni), a testimonianza che la minaccia persiana era viva e pressante, anche dopo i fatti dell Eurimedonte. Altrettanto vivo era l interesse di Atene verso Cipro, base d appoggio verso la Fenicia, dove i Persiani avevano legname per la flotta e abilissimi marinai per governarla, porta d accesso via mare all Egeo, centro strategico di comunicazioni e di commerci. La vittoria di Atene del 451/50, che tuttavia perde Cimone nel corso delle operazioni terrestri, rappresenta il più alto risultato ottenuto nella lotta contro l impero persiano, cui viene sottratto il controllo di un area di primaria importanza; la pace di Callia, seguente questa battaglia, sancisce difatti il controllo greco sul mare Egeo, l autonomia delle città d Asia Minore, e la creazione di un cordone di sicurezza che proteggesse i possedimenti ateniesi tanto sul mare (le navi straniere erano costrette a navigare a S della linea Creta Licia) quanto sul continente asiatico (distanza equivalente a tre giorni di marcia fra gli avamposti di Susa e la costa). Il silenzio di Tucidide e di Erodoto, i dubbi peraltro filologici, e non storiografici di Teopompo di Chio riguardo all autenticità dell accordo, non sono argomentazioni cogenti; d altra parte l apparente dicotomia fra Diod. XII 4 e Plut. Cim. 13, 4 può costituire a sua volta un ipotesi a favore della reale esistenza della pace: con Plutarco, si può congetturare un accordo di fatto, che non trovò ratifica ufficiale, avvenuta solo in un secondo momento, dopo un altra vittoria ateniese. Il breve resoconto fin qui proposto deve però considerare anche l altra area di conflitto in cui è impegnata Atene, ovvero i territori della Beozia e la zona dell istmo di Corinto, nonché il golfo Saronico e l isola di Egina: sono questi il teatro della cosiddetta Prima guerra del Peloponneso, scoppiata nel 459. Si dirà: dunque l imperialismo di Atene è cosa fatta già al termine degli anni 60, dunque ha ragione Tucidide nel proporre una visione improntata e finalizzata alla seconda e più grave guerra del Peloponneso. Non sembrerebbe, come è possibile ricavare dagli argomenti di Tucidide stesso: in I 102 si parla della prima diophorà phanerà fra Atene e Sparta, sorta in occasione della III guerra Messenica, nel 464. Il contingente al comando di Cimone, giunto in aiuto degli Spartani su loro richiesta, viene rimandato indietro da questi ultimi, che temevano collusioni fra gli Iloti ribelli e gli Ateniesi, dati i miglioramenti pressoché nulli che il loro arrivo aveva prodotto. Ma è proprio la reazione ateniese, concretizzatasi nell alleanza con Megara, a far cadere le buone relazioni fra Attica e Laconia: nessun intento imperialistico in epoca cimoniana (e non solo), 5
e nessuna contrapposizione ideologica fra le due città. Ancora nel 463, quando Cimone fu citato in giudizio dagli avversari democratici, fra cui Pericle già era in posizione preminente, l argomento del filolaconismo (l imputato Cimone era infatti prosseno degli Spartani) è utilizzato come difesa dalle accuse di collusione col re macedone Alessandro: esso poteva e doveva influenzare positivamente l opinione pubblica ateniese, a testimonianza del fatto che il primo conflitto del Peloponneso scoppia per la semplice evoluzione di un caso diplomatico. Nondimeno, gli interessi che muovono i contendenti sono molto forti, come dimostrano i numeri della battaglia di Tanagra del 457: millecinquecento opliti spartani combattono fuori dal Peloponneso, quando è risaputa l avversione di Sparta a impegnarsi militarmente oltre i propri confini. Diodoro [XI 81-82] spiega che il conflitto deve essere ascritto alla volontà tebana di ristabilire l antica egemonia sulla Beozia [in part. XI 81, 2]; i Tebani chiesero l aiuto di Sparta, promettendo in cambio il loro impegno a contrastare Atene, cosicché Sparta non dovesse più far uscire forze preziose dal suo territorio. A Tanagra si scontrarono eserciti dalle dimensioni mai viste prima in Grecia, circa quattordicimila uomini per parte. Proprio in questi anni, Atene è impegnata anche in Egitto, dove era intervenuta a sostegno del re Inaro, ribelle all impero persiano, nel 460. La megale stratèia dei Greci vuole sfruttare la crisi dei barbari, alle prese con rivolte anche in Battriana; l impegno sul delta del Nilo durerà sei anni, e deve essere considerato come naturale conseguenza della vittoria all Eurimedonte. Esso nasce infatti da un originaria spedizione che Atene aveva progettato contro Cipro, e che si concluderà, nella realtà dei fatti, solo dieci anni più tardi. La domanda sorge dunque legittima: quale pentecontaetia fra il 478 e il 431? Innumerevoli sono le cesure in questo periodo, non ultima, sul fronte politico interno ad Atene, la radicale riforma di Efialte, che sovverte il kosmos, l ordine prestabilito nella società e nella politica, delegittimando l Areopago. Quale pentecontaetia se gli scontri fra Atene e i Persiani si protraggono fino al 450, e il Partenone, comunemente emblema della classicità e di una città fiorente e democratica, fu costruito in voto e grazie alla pace di Callia? Quale pentecontaetia se gli scontri fra Sparta e Atene si intrecciano con la missione di contrasto ai Medi, fin dal 459? È necessario osservare qui che Atene non è o contro Sparta o contro i Persiani; non è verosimile un Atene impegnata contro i Medi fino al 478, e un altra Atene egemone di un impero antispartano dopo quella data. Se si vuole parlare di pentecontaetia, lo si può forse fare con maggiore aderenza alla storia considerando unitariamente il periodo 499-449, che, al di là dell esattezza cronologica, assume come suoi estremi l episodio di Nasso, col quale si è soliti far cominciare, a ragione, le guerre Persiane, e la pace di Callia, che sancisce la vittoria di Atene dopo un cinquantennio di lotte, nonché 6
la continuità sopra indicata fra la politica estera di Temistocle, di Cimone e di parte dell età periclea. Alessandro Occhipinti 7