Effetti della presenza di una sindrome metabolica in pazienti anziani malnutriti.



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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI SASSARI FACOLTÀ DI MEDICINA E CHIRURGIA ISTITUTO DI CLINICA MEDICA GENERALE E TERAPIA MEDICA (Direttore: Prof. Giuseppe Delitala) Effetti della presenza di una sindrome metabolica in pazienti anziani malnutriti. Tesi di laurea di Giovanni Antonio Comida Relatore: Prof. Rinaldo Tedde Anno accademico: 2009 2010

Indice La sindrome metabolica... 3 Definizione... 3 Epidemiologia... 5 Patogenesi... 6 Aspetti clinici, criteri diagnostici e valutazione della SMet... 31 SMet: influenza sulla mortalità... 34 Malnutrizione proteico-energetica... 35 Definizione... 35 Epidemiologia... 36 Patogenesi... 38 Indici e valutazione dello stato nutrizionale... 38 Importanza clinica del riconoscimento della MPE e influenza sulla mortalità... 43 Ipotesi di lavoro... 45 Obiettivo dello studio... 45 Pazienti e metodi... 46 Pazienti... 46 Analisi dei dati.... 47 Risultati... 48 Dati generali... 48 Categorie diagnostiche e comorbilità... 49 Indicatori di malnutrizione... 49 Studio di sopravvivenza... 55 Discussione... 60 Conclusioni... 64 BIBLIOGRAFIA... 65 2

La sindrome metabolica Definizione La sindrome metabolica (SMet) può essere definita una condizione clinica caratterizzata dalla contemporanea presenza in uno stesso individuo di più alterazioni, in prevalenza di origine metabolica,che insieme concorrono a determinare lo sviluppo di un importante rischio cardiovascolare. Il cluster di fattori di rischio che identifica i pazienti con tale sindrome è rappresentato da obesità viscerale, ipertensione arteriosa, alterazioni del metabolismo glucidico e del metabolismo lipidico. La prevalenza di queste alterazioni è differente tra i sessi, nelle diverse età e in differenti gruppi etnici. Esistono tuttora alcuni problemi relativi alla definizione e alla diagnosi di SMet: le componenti proposte sono variabili continue e per quanto sia necessario stabilire un valore di cut-off, non esiste tuttavia un consenso sugli specifici valori per stabilire la diagnosi di ciascuna componente. Anche la difficoltà di trovare un consenso riguardo ad un nome ricorda quanto ancora si sia lontani da un accordo unanime riguardo a tale sindrome. È stata chiamata sindrome plurimetabolica, sindrome metabolica, sindrome X, quartetto mortale, sindrome da insulino resistenza, sindrome dismetabolica. La descrizione della SMet ed il tentativo di standardizzarne i criteri diagnostici hanno una storia che risale ai primi del 600 ma che tuttora tiene vivace il dibattito. Fu Nicolaes Tulp (1593-1674) per primo, ad Amsterdam, a descrivere un caso di sindrome da ipertrigliceridemia. Tulp stabilì il nesso tra ipertrigliceridemia ed ingestione di acidi grassi saturi ( latte puro nel sangue ), obesità e tendenza al sanguinamento (da ipertensione?). Non solo, egli suggerì un approccio terapeutico corretto indicando una riduzione nell apporto di acidi grassi saturi, riconobbe inoltre l associazione tra aterosclerosi precoce e morte improvvisa. Circa 250 anni dopo, Morgagni descrisse molto chiaramente l associazione tra obesità viscerale, ipertensione, iperuricemia, aterosclerosi e sindrome delle apnee ostruttive notturne, molto tempo prima che la SMet e la sindrome delle apnee ostruttive notturne venissero definite. Nel 1923 Kylin descrisse l associazione contemporanea di ipertensione, iperglicemia e iperuricemia. Vague fu il primo ad riconoscere l importanza dell obesità androide, proponendola come condizione spesso associata a diabete, aterosclerosi e gotta. 3

La frequente presenza simultanea di obesità, iperlipidemia, diabete e ipertensione fu descritta innanzitutto da Avogaro et al. nel 1967. In questo lavoro, venne riportato come l alto rischio di malattia coronarica fosse associato alla presenza di SMet e complicanze vascolari. L associazione tra questi fattori fu successivamente descritta, nel 1977 da Haller et al., che per primo utilizza il termine sindrome metabolica e ne descrive l associazione con l aterosclerosi. In un lavoro del 1947 e successivamente nel 1956 Vague suggerisce il concetto che la massa grassa ha di per sé scarso effetto sulla progressione dell obesità verso il diabete, ma sarebbe la predominanza di grasso nella parte alta del corpo che porterebbe a diabete ed aterosclerosi. Egli ricorda inoltre che l insulinemia e la secrezione di cortisolo nei pazienti obesi è correlata con l obesità centrale. Nel 1988 Reaven introduce il concetto di Sindrome X per identificare il raggruppamento di disturbi riguardanti il metabolismo del glucosio e insulinico, la dislipidemia e l ipertensione. Reaven suggerì che l insulino resistenza, che determina l iperinsulinemia, caratterizzi questo gruppo di disturbi e rappresenti un importante fattore di rischio cardiovascolare di per sé. Occorre ricordare che Reaven, nella sua descrizione, non aveva incluso tra le componenti della sindrome sovrappeso e/o obesità. Nel 1991, Ferranini et al. suggerirono inoltre che questo insieme di disturbi fosse determinato dall insulino resistenza e usarono il termine di sindrome da insulino resistenza. Una definizione della sindrome metabolica venne data dal WHO Working Group on diabetes nel 1998, poi modificata nel 1999, con una lista di criteri per la diagnosi clinica. In particolare, la definizione del WHO stabilisce che a definire la SMet è la presenza di diabete tipo 2 o di alterata tolleranza al glucosio (IGT), insieme ad almeno 2 degli altri 4 fattori (ipertensione, iperlipidemia, obesità e microalbuminuria). In caso di normale tolleranza glucidica, è necessario evidenziare la presenza di insulino resistenza misurata durante il clamp euglicemico o con l indice HOMA (homeostasis model assessment). La definizione di obesità è basata sull indice di massa corporea (IMC) o sul rapporto tra la circonferenza della vita e la circonferenza dei fianchi (WHR). Nella definizione così come proposta dal WHO vi sono peraltro alcuni punti suscettibili di qualche critica. È ben noto che l IMC non è una reale misura dell obesità nell età avanzata, e ciò è dovuto ai cambiamenti di statura con l avanzare dell età e al diverso rapporto tra massa grassa e massa magra rispetto al giovane adulto, inoltre l IMC non è informativo circa la distribuzione corporea del tessuto adiposo. Altro punto: la frequenza di microalbuminuria negli individui non diabetici è molto bassa e, perciò, questo criterio diventa rilevante solo in presenza di diabete. Infine, l uso della tecnica del clamp euglicemico, il gold standard per la misura 4

dell insulino resistenza, non è applicabile negli studi epidemiologici. Vengono usati piuttosto metodi alternativi, quali indice HOMA, insulinemia a digiuno o il test di tolleranza all infusione di glucosio. Tuttavia, i diversi metodi ed i valori limite utilizzati possono influire sulle differenze riscontrate nella prevalenza di insulino resistenza. Nel 2001 l United States National Cholesterol Education Program s Adult Treatment Panel III (ATP III) report propose una serie di criteri simili a quelli proposti dal WHO, eccetto per il fatto che la componente chiave è l obesità viscerale invece dell insulino resistenza. L ATP III non trova abbastanza evidenze per raccomandare la misura routinaria della sensibilità insulinica o del dosaggio della glicemia a due ore post-carico, ma include semplicemente la determinazione della glicemia a digiuno. Questa definizione di SMet richiede che siano presenti almeno 3 dei seguenti 5 fattori: aumentata circonferenza addominale ( 102 cm negli uomini e 88 cm nelle donne), ipertrigliceridemia ( 150 mg/dl), basso HDL colesterolo (< 40 mg/dl negli uomini e < 50 mg/dl nelle donne), ipertensione ( 130/85 mmhg o trattamento per ipertensione), e glicemia a digiuno 110 mg/dl. Inoltre, l ATP III raccomanda alcune misure opzionali, come la proteina C reattiva, come marker di stato pro-infiammatorio, e il fibrinogeno, in qualità di marker di stato protrombotico. Epidemiologia L interesse che assume tale sindrome (che non è ovviamente a insorgenza in età geriatrica, instaurandosi a volte già in giovane età e progredendo lentamente ma inesorabilmente col passare degli anni) in ambito geriatrico deriva principalmente dal fatto che l invecchiamento è responsabile del peggioramento di tutte le condizioni che concorrono alla SMet. Infatti, lo studio NA HNES III (NAtional Health and Nutritional Examination Survey) ha evidenziato come la prevalenza della sindrome sia del 7% in individui di età compresa tra i 20 e 29 anni, raggiungendo circa il 24-25% nella fascia 40-49 anni, per arrivare al 45% nella decade 60-69 e mantenersi sostanzialmente allo stesso livello oltre i 70 anni. Che la prevalenza della SMet aumenti drammaticamente con l aumentare dell età è facilmente spiegabile con il fatto che gli elementi che la caratterizzano vanno modificandosi con l età. Obesità, diabete di tipo 2 ed insulino resistenza, ipertensione ed alterazioni lipidiche è ben noto che vanno aumentando di frequenza con il progredire delle decadi di vita anche per effetto di modificazioni della composizione corporea legate appunto all età. Sia l obesità che il diabete frequentemente coesistono e si accompagnano alla insulino resistenza. Sono stati proposti quattro più importanti fattori come responsabili dell incremento dell insulino resistenza collegata all età. Con 5

l aumentare dell età vi è innanzitutto una progressiva diminuzione della massa magra ed un aumento della quota adiposa addominale, modificazioni che sono più rilevanti nelle donne rispetto agli uomini. Essendo la massa magra muscolare il principale utilizzatore di glucosio si può comprendere come una sua riduzione comporti anche la riduzione dell utilizzo di glucosio. Un secondo fattore che sembra influire sulla riduzione della insulino sensibilità legata all età sono le modificazioni ambientali ed in particolare una riduzione della attività fisica e modificazioni dietetiche (un eccesso calorico e forse anche una alimentazione ricca in carboidrati). Un terzo elemento che influenza negativamente l insulino sensibilità sono le modificazioni neuro-ormonali legate all età. Tra queste sono state considerate la riduzione dell insulin-like growth factor-1 e del deidroepiandrosterone solfato. Infine, potrebbe avere un ruolo anche l incremento dei radicali liberi plasmatici conseguente ad una riduzione dei meccanismi antiossidanti. Patogenesi Nella patogenesi della SMet sono coinvolti diversi agenti eziologici fra loro in stretta correlazione: obesità viscerale, insulino resistenza, fattori infiammatori ed endocrini. I due aspetti principali sarebbero rappresentati da: eccesso di tessuto adiposo e dall insulino resistenza,tra loro strettamente correlate. Un ruolo fondamentale nel determinismo delle numerose alterazioni metaboliche presenti in questa sindrome è inoltre svolto dal fegato al punto da poter esser considerato il vero e proprio mediatore della stessa SMet. Esistono infine altre condizioni che contribuiscono a determinare la piena espressione di tale sindrome, rappresentate da uno stato pro-infiammatorio (alti indici di Tumor Necrosis Factor TNF-α, interleuchine, proteina C reattiva) e pro-trombotico (alti valori di inibitore dell attivatore del plasminogeno PAI-1) Ruolo della insulino resistenza nella SMet L insulino resistenza (IR) è una condizione caratterizzata da elevati livelli di insulina e normali livelli di glicemia o al contrario normali livelli d insulina ed elevati livelli glicemici. L insulino resistenza ha una base genetica ma è influenzata da fattori acquisiti e/o ambientali. Eccesso ponderale, localizzazione prevalentemente centrale e, soprattutto, viscerale dell adipe, dieta iperlipidica, scarsa attività fisica, fumo di sigaretta, alcuni farmaci (glucocorticoidi, diuretici tiazidici, beta-bloccanti) sono in grado di ridurre la sensibilità insulinica. Ci sono numerosi test 6

utilizzati per determinare il grado d insulino resistenza. Tutte queste tecniche d indagine presentano dei limiti o non sono adatte per l uso clinico di routine. Il test considerato il gold standard è il clamp euglicemico iperinsulinemico. Il principio è quello di incrementare artificiosamente i livelli circolanti di insulina mantenendo l'euglicemia con un'infusione costante di glucosio. In breve la concentrazione plasmatica di insulina viene incrementata e successivamente mantenuta stabile ad un livello di circa 100 μu/ml per un periodo di circa 120 minuti. Parallelamente la glicemia viene mantenuta costantemente ad un livello basale di circa 90 mg/dl. Una volta raggiunta una condizione di stato stabile, negli ultimi 40 minuti del test, la quantità di glucosio infusa nell'unità di tempo corrisponde alla quantità di glucosio utilizzata dai tessuti periferici, con trasporto dipendente dall'azione dell'insulina, e costituisce quindi un indice della sensibilità dei tessuti all'azione stessa dell'insulina. La quantità di glucosio speso nel controbilanciare l'azione insulinemica è espressione della sensibilità periferica all'insulina. Questo test è utile per studi fisiologici approfonditi su un esiguo numero di pazienti e risulta di difficile utilizzo nella pratica clinica corrente. La relazione tra glicemia ed insulina è ben conosciuta ed ha portato all elaborazione dell indice HOMA (Homeostasis Model Assessment). Matthews e coll. hanno presentato un modello matematico che permette di quantificare l entità della presenza di resistenza insulinica calcolando l indice di resistenza insulinica mediante HOMA (HOMA-IR) e valutare quindi la funzionalità della ßcellula pancreatica. L HOMA è un modello matematico attraverso il quale i valori della sensibilità insulinica possono essere calcolati se si conoscono le concentrazioni simultanee del glucosio plasmatico e quelle dell insulina a digiuno; è un test semplice, risulta appropriato per grandi studi epidemiologici e fornisce una stima dell insulino resistenza basale, al contrario delle altre tecniche (clamp euglicemico) che misurano l insulino resistenza stimolata. Nei dati di letteratura l HOMA-IR ha dimostrato una buona correlazione con i dati sperimentali ottenuti con tecniche di misurazione diretta quali il clamp euglicemico. Insulino resistenza ed obesità (1-9) L obesità è una malattia cronico degenerativa, caratterizzata da un eccesso di massa grassa nell organismo. Il parametro più semplice e quindi più utilizzato per definire il grado di obesità è l Indice di Massa Corporea (IMC), in inglese Body Mass Index (BMI), che esprime il rapporto tra il peso espresso in chilogrammi e l altezza espressa in metri al quadrato (BMI = Kg/m²).Sulla base del BMI si distinguono quindi diversi gruppi di soggetti, con distribuzione non lineare del rischio : 7

Normopeso: BMI 18,5-24,9 Sovrappeso: BMI 25,0-29,9 Obesità di I grado: BMI 30,0-34,9 Obesità di II grado: BMI 35,0-39,9 Obesità di III grado: BMI > 40 Il rischio di morbilità e mortalità, legato all obesità, dipende anche dalla distribuzione del tessuto adiposo; infatti, l accumulo di grasso in regione addominale (obesità addominale o viscerale) è maggiormente correlato a complicanze cardiovascolari e metaboliche, rispetto alla distribuzione a livello del bacino e delle cosce (obesità sottocutanea). La misurazione della circonferenza vita rappresenta un indice abbastanza indicativo dell adiposità viscerale e viene quindi frequentemente utilizzato come indicatore di rischio delle complicanze metaboliche e cardiovascolari (il valore di cut-off è di 102 cm per i soggetti maschi e 88 cm per le femmine). Abbiamo detto che la distribuzione di tessuto adiposo in differenti depositi anatomici ha sostanziali implicazioni sulla morbilità,ed in particolare l insulino resistenza è più strettamente correlata con i depositi di grasso intraddominale che con altri depositi adiposi, e del resto le relazioni causali tra obesità addominale e insulino resistenza occupano un ruolo centrale nella patogenesi della SMet. Entrambe la condizioni danno infatti origine a un ciclo che si automantiene, sostenuto dal fatto che l IR promuove lo sviluppo di tessuto adiposo viscerale e obesità addominale e quest ultima induce IR. Per molto tempo il tessuto adiposo è stato considerato un organo con un ruolo scarsamente attivo nell omeostasi energetica globale. Si riteneva che la sua funzione, oltre a fornire un isolamento termico e meccanico, fosse solo quella di immagazzinare l eccesso di energia sotto forma di trigliceridi ad alta densità calorica, per restituirla, secondo i bisogni, come acidi grassi liberi. Da poco più di un decennio è in corso una rivoluzione nel modo di intendere le funzioni biologiche del tessuto adiposo. Oggi è visto come un organo dinamico, coinvolto in un ampia gamma di processi biologici e metabolici. Questa diversa prospettiva è stata imposta dalla scoperta che il tessuto adiposo è un organo endocrino. Gli adipociti secernono, infatti, una serie di ormoni, fattori e segnali proteici, chiamati adipochine, che si associano al ruolo dell adipocita nell omeostasi energetica e contribuiscono al determinismo delle maggiori complicanze che accompagnano l obesità. Le adipochine sono molto diverse tra di loro, sia in termini di struttura proteica che di funzione. Esse includono citochine classiche, fattori di crescita e fattori angiogenetici, proteine della fase acuta e della risposta allo stress, proteine della via alternativa del sistema del complemento, proteine dell emostasi, della coagulazione e del tono vascolare. Molte adipochine intervengono, infine, 8

nel bilancio energetico e nel metabolismo lipidico e glucidico. Tra di esse è necessario ricordare la leptina, la cui scoperta ha aperto l era dell adipocita come unità endocrina, l adiponectina,e la resistina. I topi con la mutazione del gene per la leptina (ob/ob) o per il suo recettore (db/db) mostrano un obesità massiva. Come nell animale, anche nell uomo il deficit congenito di leptina determina un obesità grave, con alterata termogenesi e insulino resistenza, sensibili al trattamento con leptina ricombinante. Si tratta, peraltro, di una condizione molto rara; nell obesità prevale un aumentata concentrazione plasmatica di leptina, che correla con il peso corporeo e si associa ad una leptino resistenza centrale. In pazienti con lipoatrofia la mancanza di tessuto adiposo determina una severa ipoleptinemia, che si associa a grave insulino resistenza, steatosi epatica e dislipidemia. In questi pazienti il trattamento con leptina determina un netto miglioramento del metabolismo glucidico, della dislipidemia e dell epatosteatosi. D altro verso, la stessa iperleptinemia, propria della grande maggioranza degli obesi, sembra avere un ruolo proaterogeno contribuendo all insulino resistenza, alterando la funzione endoteliale, favorendo l aggregazione piastrinica e la trombosi arteriosa. L adiponectina è prodotta dagli adipociti maturi e viene secreta nel torrente ematico, dove è dosabile a concentrazioni di 2-20 mg/l. Strutturalmente appartiene alla superfamiglia del collagene e si presenta in tre forme oligomeriche maggiori: un trimero a basso peso molecolare, un esamero con peso molecolare medio e un 12-18mero ad alto peso molecolare. Sono stati identificati due recettori per l adiponectina, uno (AdipoR1) è espresso nel muscolo, l altro (AdipoR2) è espresso prevalentemente dal fegato; pertanto gli effetti biologici dell adiponectina non dipendono solo dalla sua concentrazione in circolo, ma anche da attività ed espressione di specifici recettori tissutali. L adiponectina è espressa abbondantemente nell adipocita, ma, diversamente da altre adipochine, i suoi livelli plasmatici sono ridotti nell adiposità addominale; è verosimile che il tessuto adiposo viscerale produca un fattore inibente la sintesi di adiponectina, che alcuni identificano nel TNF- α. I livelli plasmatici di adiponectina, oltre che nell obesità addominale, sono ridotti nel sesso maschile e nella donna in postmenopausa, nell ipertensione arteriosa, nell ipertrigliceridemia, nel diabete di tipo 2 e nella cardiopatia ischemica. L adiponectina migliora la sensibilità all insulina nel tessuto adiposo, nel muscolo e nel fegato; favorisce l ossidazione dei lipidi; migliora la vasodilatazione endotelio-dipendente; riduce l espressione delle proteine di adesione; contrasta gli effetti negativi del TNF-α e delle lipoproteine a bassa densità ossidate sulla funzione endoteliale; inibisce la differenziazione dei monociti e la formazione di cellule schiumose; inibisce l attività delle metalloproteasi di matrice, proteggendo la placca dalla rottura; ha anche azione antitrombotica riducendo l aggregazione 9

piastrinica e la formazione del trombo. Per quanto gran parte di questi effetti sia frutto di studi in vitro o nell animale, l adiponectina mostra di possedere importanti proprietà antiaterogene, antidiabetiche e antinfiammatorie anche nell uomo. I soggetti con elevati livelli plasmatici di adiponectina hanno un rischio significativamente ridotto di eventi cardiovascolari maggiori, anche dopo aggiustamento per colesterolo legato a lipoproteine a bassa e ad alta densità, peso corporeo, diabete, e ipertensione arteriosa. Secondo alcuni autori, l ipoadiponectinemia che caratterizza i soggetti con obesità addominale e SMet sarebbe l elemento chiave per giustificare il rischio cardiometabolico di questa situazione. La terza adipochina che sembra coinvolta nella patogenesi dell obesità e dell insulino resistenza è la resistina. La sua concentrazione sierica è significativamente aumentata nel diabete di tipo 2, Sono state trovate più alte concentrazioni di resistina negli obesi piuttosto che nei soggetti normali. Si tratta di un ormone identificato nel 2001 da Steppan e coll. Tale ormone sembra essere correlato con l insorgenza di insulino resistenza in quanto la resistina riduce la sensibilità tissutale all insulina e che la produzione di resistina da parte del tessuto adiposo è inibita dai tiazolidinedioni, classe di farmaci antidiabetici. In aggiunta alle specifiche adipochine, il tessuto adiposo sintetizza anche altre proteine con funzioni di mediatori della flogosi e fattori della fase acuta, agenti protrombotici e vasoattivi. Tra i primi ricordiamo il TNF-α, le interleukine 1, 6, 8, 10, i cui livelli sono aumentati nel tessuto adiposo. I livelli circolanti di questi fattori aumentano con l aumentare della massa adiposa, specie se addominale. Molti di questi fattori della flogosi sono prodotti, oltre che dagli adipociti, da macrofagi attivati residenti nel tessuto adiposo; la presenza di queste cellule infiammatorie è molto probabilmente determinata dal reclutamento di monociti circolanti ad opera di fattori chemiotattici prodotti da adipociti resi ipertrofici dall eccesso calorico e perciò sofferenti. Il TNF-α oltre ad avere una azione proinfiammatoria, induce nelle cellule muscolari una riduzione della sensibilità all insulina. Anche l interleukina 6 (IL-6) sintetizzata in maggior misura a livello dell adipe viscerale, attraverso l attivazione dell asse ipotalamo-ipofisi-surrene, potrebbe provocare i sintomi caratteristici della SMet. Infatti, tale citochina incrementa la secrezione di CRH, la produzione di ormone adrenocorticotropo (ACTH) e di cortisolo predisponendo gli individui all obesità centrale, all insulino resistenza e alla dislipidemia. Un ulteriore aspetto che lega la SMet alla funzione endocrina ci è offerto dalle numerose osservazioni che documentano una riduzione dei valori di testosteronemia nei soggetti con SMet. Questa associazione trova comunque consistenza sulla base non soltanto dei dati osservazionali o 10

epidemiologici, ma anche dei presupposti di ordine fisiopatologico. Il deficit androgenico può svolgere di per sé un ruolo nella patogenesi della SMet nella popolazione maschile, nel senso che bassi livelli di SHBG (sex hormone binding globulin) e di testosterone possono associarsi nel tempo a una maggiore incidenza di diabete e di obesità viscerale. Kupelian et al.,esaminando i dati dello studio prospettico di popolazione MMAS (Massachusetts male aging study), hanno osservato che più bassi livelli plasmatici di SHBG e di testosterone o una condizione clinica di ipogonadismo maschile predicono lo sviluppo della SMet. Inoltre,vari studi epidemiologici condotti su ampie casistiche hanno ben documentato livelli plasmatici di testosterone totale e/o libero consistentemente più bassi nei maschi con diabete di tipo 2 rispetto ai soggetti sani di controllo e la terapia sostitutiva in soggetti ipogonadici con diabete di tipo 2, ha portato a una riduzione della glicemia a digiuno e della HbA1c, oltre che a un aumento, sia pure non costante, della sensibilità insulinica. Tali modificazioni si sono associate anche a una riduzione della massa grassa e a un incremento della massa magra, come peraltro si osserva bene anche nei soggetti ipogonadici non affetti da sindrome metabolica. Al contrario, la castrazione farmacologia attuata per la terapia del cancro della prostata può indurre una condizione di insulino resistenza e la comparsa delle sequele cliniche a essa associate. Appare ben documentata una interrelazione fra SMet e ipogonadismo maschile. Più specificamente i rapporti in termini fisiopatologici e patogenetici fra obesità viscerale, insulino resistenza e ipogonadismo sono tali per cui le tre condizioni vengono oggi proposte come fattori sentinella, nel senso che ciascuna di esse può predisporre o favorire lo sviluppo di una serie di alterazioni che conducono alla SMet. Sono state suggerite alcune interpretazioni patogenetiche per comprendere queste interrelazioni. L obesità per l aumento della massa adiposa, soprattutto quella di tipo viscerale, può facilitare la conversione di testosterone in 17-betaestradiolo grazie all enzima aromatasi ben rappresentato negli adipociti. L aumentata produzione di estrogeni determina nel sesso maschile una riduzione della secrezione ipofisaria di LH determinando così una minore disponibilità di testosterone sia totale sia libero e una condizione di ipogonadismo, sia pure parziale. Inoltre l iperinsulinemia determinata dall aumento del grasso viscerale e dalla condizione di insulino resistenza, riduce la produzione epatica di SHBG e di conseguenza anche le concentrazioni plasmatiche di testosterone totale. La diminuita disponibilità di testosterone induce a sua volta un attivazione della lipoprotein lipasi che condiziona un maggior flusso di acidi grassi a livello epatico e degli adipociti con espansione ulteriore della massa adiposa. A riprova di queste considerazioni fisiopatologiche, sta il fatto che la riduzione di peso può avere un effetto favorevole incrementando le concentrazioni plasmatiche di testosterone, riducendo quelle di 17-11

beta-estradiolo, e correggendo la disfunzione erettile se presente. Una condizione di ipogonadismo d altro canto, per la minore disponibilità di testosterone, può di per sé indurre una condizione di insulino resistenza, provocando da un lato la riduzione della massa magra muscolare e inducendo dall altro un incremento del tessuto adiposo viscerale e della concentrazione degli acidi grassi liberi circolanti. Aging e insulino resistenza È interessante chiedersi perché la prevalenza della SM aumenti drammaticamente nell anziano e se vi è un altra circolarità di eventi tale da legare tra loro alcune condizioni tipiche dell invecchiamento quali l obesità, la sarcopenia, la stessa SMet. Nei pazienti anziani è di comune riscontro oltre l obesità, anche una ridotta massa muscolare. La combinazione di obesità e ridotta massa muscolare è definita obesità sarcopenica. Un eccessivo apporto calorico,la scarsa attività fisica,un basso ma costante stato infiammatorio,l insulino resistenza e le alterazioni del normale pattern endocrino sarebbero le radici patogenetiche dell obesità sarcopenica. Il termine sarcopenia deriva dal greco sarx (carne,muscolo) e penia (deficienza,perdita). Fu usato questo termine perché prima si riteneva che il declino della forza muscolare associato all età fosse espressione della ridotta massa muscolare, tuttavia ciò non si è dimostrato del tutto vero: sia la massa che la forza si riducono con l età, ma il declino della forza muscolare è proporzionalmente maggiore del declino della massa. Questo perché assieme ad una riduzione dal punto di vista quantitativo, vi è un deterioramento della qualità del muscolo, caratterizzata da riduzione del numero e del calibro delle fibre, riduzione della capacità contrattile, micro e macro infiltrazioni di grasso,incremento del collagene, alterazione dell unità motoria e ridotta modulazione neurologica della contrazione. La sarcopenia è definita dal NHANES III come un indice di massa muscolare inferiore a 2 deviazioni standard rispetto al valore di riferimento di una popolazione giovane e sana,mentre l obesità è individuata dal valore di BMI maggiore o uguale a 30. Studi longitudinali hanno evidenziato che la massa grassa aumenta con l età,e valori più elevati si evidenziano in individui tra i 60 e i 75 anni,mentre la massa muscolare e la forza iniziano a declinare progressivamente verso i 30 anni, con una perdita accelerata dopo i 60 anni. Aumenta la percentuale di grasso intramuscolare e viscerale,mentre tende a ridursi la componente adiposa sottocutanea. Inoltre l infiltrazione di grasso nei muscoli è associato a una minor forza 12

muscolare. L aumento di peso e della massa grassa son probabilmente dovuti al declino della spesa energetica causato dalla ridotta attività fisica e al ridotto metabolismo basale a fronte di un apporto calorico che eccede stabilmente il fabbisogno energetico. L inattività fisica è un importante fattore di rischio per l aumento ponderale, e del resto le persone obese tendono ad essere più sedentarie,e ciò può contribuire alla riduzione della forza e della massa muscolare. L atrofia muscolare,d altro canto conduce ad una riduzione del metabolismo, sia a riposo che durante l attività fisica. Alcuni studi hanno del resto dimostrato come la riduzione del peso in anziani obesi migliori sia la forza che la qualità del muscolo, confermando l ipotesi di una stretta correlazione tra adiposità e funzione muscolare. Contribuisce alla perdita di massa e forza muscolare anche lo stato proinfiammatorio cronico presente nei pazienti obesi. Del resto i livelli di citochine proinfiammatorie ( soprattutto IL-6 e TNF-α) son positivamente correlati con la massa grassa mentre lo sono negativamente con la massa muscolare. Dall importante studio InCHIANTI, è emerso che anziani obesi con ridotta forza muscolare avevano più alti livelli di proteina C reattiva e IL-6 rispetto a quelli con normale forza muscolare.così si può delineare un circolo vizioso per il quale lo stato proinfiammatorio che si accompagna all obesità causa riduzione di forza muscolare, con conseguente minore attività fisica ed aggravamento dell obesità. E stato ipotizzato, ed in parte anche confermato che l infiltrazione di grasso nel muscolo sia una delle cause dell insulino resistenza.inoltre è ben noto l effetto anabolico dell insulina, perciò l insulino resistenza negli obesi può promuovere il catabolismo muscolare. Alcuni studi hanno dimostrato che l insulino resistenza correla con una ridotta forza muscolare, e i pazienti con un diabete di vecchia data mostrano una accelerata perdita della forza muscolare degli arti inferiori. L aumento dell adiposità,specie quella intraddominale, è associato ad alti livelli di acidi grassi non esterificati (NEFA) circolanti, i quali inibiscono la secrezione di ormone della crescita (GH), cui consegue una diminuzione dei livelli plasmatici di insulin-like growth factor 1 (IGF- 1). Inoltre le persone obese tendono ad avere livelli più bassi di testosterone. Si è visto che bassi livelli di questi ormoni anabolizzanti sono associati alla ridotta forza muscolare delle persone obese. La malnutrizione è un importante fattore eziologico nella sarcopenia. Le persone anziane spesso hanno un introito proteico non adeguato e che può ridurre il normale turnover delle proteine muscolari,specialmente in occasione di eventi acuti o in periodi caratterizzati da perdita di peso,che quindi coincidono spesso con un accelerazione dei processi sarcopenici. 13

L obesità è un importante fattore di rischio per numerose patologie e si accompagna ad una ridotta qualità di vita. Analogamente la ridotta forza muscolare è un importante predittore di incapacità funzionale, istituzionalizzazione e mortalità. E intuitivo quindi come gli individui anziani che hanno obesità sarcopenica sono molto a rischio di disabilità,oltre naturalmente a tutte le patologie connesse con l obesità specialmente intraddominale. Insulino resistenza e metabolismo lipidico(10-11) Le alterazioni del profilo lipidico che caratterizzano la SMet sono verosimilmente secondarie all'insulino resistenza ed alla obesità viscerale. Esse sono rappresentate da ipertrigliceridemia, bassi livelli di colesterolo HDL (lipoproteine ad alta densità), aumento dei livelli di colesterolo LDL (lipoproteine a bassa densità), piccole e dense con spiccata predisposizione a fenomeni di ossidazione e ad alta valenza aterogena. Per comprendere la patogenesi dell ipertrigliceridemia nella SMet occorre conoscere la fisiologia di due enzimi chiave del metabolismo lipidico, la lipoprotein lipasi (LPL) e la lipasi ormono specifica (Hormon Specific Lipase,HSL). La LPL è un enzima chiave nel metabolismo delle lipoproteine ricche in trigliceridi quali chilomicroni, di origine intestinale, e VLDL, di origine epatica. È espressa in diversi tessuti (adiposo, muscolare, cardiaco e ghiandola mammaria) e la sua regolazione è specifica per ognuno di essi, tanto che l espressione della LPL si correla altamente con il bisogno e la captazione dei lipidi da parte dei tessuti. Sebbene il sito fisiologico di azione per la LPL sia la superficie luminale dei vasi sanguigni, dove l enzima può interagire con le lipoproteine circolanti, le cellule dell endotelio vascolare non sintetizzano LPL. Studi di ibridizzazione in situ hanno evidenziato la presenza di LPL mrna in tutti gli altri tipi cellulari dei diversi tessuti analizzati (adipociti, miociti) indicando che la LPL endoteliale viene sintetizzata dalle cellule parenchimali dei tessuti e poi traslocata al suo sito di azione. La LPL viene sintetizzata come precursore inattivo nel reticolo endoplasmatico ruvido delle cellule parenchimali. Dopo una serie di trasformazioni post-traslazionali, è attivata nell apparato del Golgi, da dove è secreta in vescicole secernenti e diretta o ai lisosomi, per la degradazione cellulare, o alla superficie delle cellule parenchimali, donde la LPL viene trasportata sulla superficie dell endotelio vasale. 14

Nel lume vasale la lipasi agisce sulla componente trigliceridica delle lipoproteine in circolo, soprattutto lipoproteine ricche in trigliceridi, quali chilomicroni e VLDL, generando di- e monogliceridi, acidi grassi liberi e lipoproteine a densità intermedia. Dopo l idrolisi, i chilomicroni, resi più piccoli (remnant), sono trasportati nel fegato, dove uno specifico recettore riconosce la loro apoproteina E, rendendone possibile la metabolizzazione all interno degli epatociti. In genere, tutti i chilomicroni scompaiono dal circolo sanguigno nell arco di 12-14 ore dopo un pasto ricco in lipidi. Per quanto concerne le VLDL, in seguito all azione idrolitica della LPL, esse vengono trasformate in IDL (lipoproteine a densità intermedia, ancora ricche di esteri del colesterolo), per poi dare vita alle LDL, le quali rappresentano la maggiore riserva di colesterolo per la sintesi degli steroidi o degli acidi biliari. La LPL richiede, per la sua ottimale attività, sia in vitro sia in vivo, la presenza dell apoproteina C-II, parte integrante delle lipoproteine ricche in trigliceridi quali chilomicroni e VLDL. L espressione e l attività della LPL sono correlate allo stato metabolico e nutrizionale dei tessuti, cioè variano in accordo al fabbisogno e all utilizzazione di acidi grassi da parte dei tessuti stessi.a tal proposito si parla di regolazione tessuto-specifica della LPL. Per esempio, durante il periodo di allattamento si assiste a un marcato aumento dell attività della LPL nella ghiandola mammaria e a una sua corrispondente diminuzione nel tessuto adiposo; in fase post-prandiale, la LPL è attiva nel tessuto adiposo, mentre è inattiva nel tessuto muscolare e nel muscolo cardiaco; a digiuno, invece, la situazione è inversa, infatti l attività della LPL aumenta nel tessuto muscolare e in quello cardiaco, e diminuisce nel tessuto adiposo. Il ruolo della regolazione tessuto-specifica, perciò, sembra essere quello di dirigere gli acidi grassi, generati dall attività idrolitica dell enzima sulla componente trigliceridica delle lipoproteine, o al tessuto adiposo, per l esterificazione e l immagazzinamento, in un momento di surplus energetico, quale è la fase che segue l apporto di alimenti, oppure al tessuto muscolare e/o cardiaco, dove gli acidi grassi vengono ossidati a scopo energetico durante il periodo di digiuno. L HSL è il principale enzima responsabile della mobilizzazione intracellulare dei trigliceridi nel tessuto adiposo. È attivata in risposta ad agenti ß-adrenergici, come l adrenalina, e disattivata in risposta all insulina e ad altri agenti antilipolitici. In fase postprandiale l attività dell HSL si riduce ed è stimolata l esterificazione degli acidi grassi. A digiuno, invece, l attività dell HSL aumenta, la LPL è inibita, e il meccanismo di esterificazione non è stimolato. Pertanto gli acidi grassi sono diretti dagli adipociti ai capillari, per essere poi distribuiti ad altri tessuti tramite il circolo sanguigno. 15

Esiste, quindi, una regolazione altamente coordinata di LPL, HSL ed esterificazione degli acidi grassi, la quale governa la mobilizzazione o la deposizione degli acidi grassi nel tessuto adiposo. L aumento dell attività della LPL del tessuto adiposo a cui si assiste nel periodo post-prandiale è da associarsi all aumentata secrezione insulinica che si ha in seguito a un apporto di alimenti. L insulina è uno dei più potenti regolatori noti della LPL. L insulina può influenzare, in maniera diversa, ciascuna delle fasi implicate nell espressione dell attività dell enzima, quali la trascrizione del gene che codifica per la LPL, la sintesi dell mrna, le fasi di trasporto e traduzione, così come può anche indurre modifiche post-traslazionali e influenzare anche la fase di secrezione dell enzima. Oltre all insulina, anche l adrenalina e la noradrenalina influenzano l attività della LPL nel tessuto adiposo. Questi ormoni sembrano essere responsabili di una diminuzione dell attività della LPL, inattivando l enzima prima del suo rilascio dall adipocita. Essendo la LPL un enzima la cui attività è regolata principalmente dall insulina, è facile dedurre che alterazioni della sua attività possano essere presenti in tutte le condizioni caratterizzate o da deficit più o meno assoluto dell insulina (diabete tipo 1 all insorgenza, prima dell inizio della terapia insulinica) o da insulino resistenza, come obesità, diabete tipo 2 e SMet. In tutte queste condizioni, la ridotta attività della LPL si associa ad aumento delle lipoproteine ricche in trigliceridi, sia nel periodo postprandiale che nel digiuno. Ma la condizione di ipertrigliceridemia non è il risultato del solo ridotto catabolismo di chilomicroni e delle VLDL, bensi anche di un aumentata produzione di VLDL da parte del fegato. L aumento della produzione epatica di VLDL è legato ad un incrementato flusso di acidi grassi liberi dal tessuto adiposo al fegato determinato dal mancato effetto inibitorio dell insulina sulla lipolisi nel tessuto adiposo. In presenza di insulino resistenza, l attività della lipasi ormono sensibile non viene efficacemente inibita dall insulina provocando un incremento della concentrazione degli acidi grassi non esterificati (NEFA) plasmatici nel circolo splancnico. I NEFA vengono utilizzati dal fegato nella risintesi di trigliceridi, secreti poi in circolo nelle VLDL. Modificazioni nella produzione di citochine da parte del tessuto adiposo, ad esempio un aumento del fattore di necrosi tumorale e ridotti livelli di adiponectina, possono a loro volta influenzare la produzione epatica di VLDL, nonché ridurre la loro clearance periferica. La seconda grande alterazione del profilo lipidico nei pazienti con SMet è la presenza di lipoproteine a bassa densità (LDL) piccole e dense. L associazione statistica tra LDL piccole e dense ed ipertrigliceridemia ha condotto all ipotesi che le alterazioni metaboliche lipidiche che portano all aumento delle lipoproteine ricche in trigliceridi, ad esempio le VLDL, siano anche alla base della formazione di LDL di dimensioni ridotte e densità aumentata. Tuttavia, 16

l osservazione che le donne, a parità di livelli di trigliceridi, hanno una minore prevalenza di LDL piccole e dense rispetto agli uomini di pari età, indica chiaramente la presenza di altri fattori di regolazione. Un candidato ad un ruolo rilevante nella modulazione delle dimensioni e densità delle LDL appare la lipasi epatica, un enzima prodotto dal fegato ove risiede ancorato sulla superficie endoluminale dei sinusoidi epatici. La lipasi epatica idrolizza fosfolipidi e trigliceridi preferenzialmente contenuti nelle HDL e nelle IDL, ma agisce anche sui fosfolipidi ed i trigliceridi contenuti nelle LDL. Tanto più è elevata l attività della lipasi epatica, tanto più alta è la quota di fosfolipidi e trigliceridi idrolizzata nelle LDL e quindi tanto più piccola è la risultante lipoproteina. La lipasi epatica è fortemente influenzata dagli ormoni sessuali sia estrogeni (riducono l attività della lipasi) che androgeni (la aumentano). Nei pazienti con obesità addominale l attività della lipasi epatica è significativamente aumentata. Studi di cinetica metabolica hanno messo in luce come i soggetti con valori di trigliceridi ai limiti superiori della norma (135-205 mg/dl), o appena più elevati, formino delle LDL che sono metabolizzate molto lentamente. Tale popolazione di LDL ha un tempo di residenza nel plasma prolungato ed ampia opportunità di venire rimodellata in circolo dall azione della cholesteryl ester transfer protein (CETP), proteina che trasporta esteri del colesterolo dalle LDL alle VLDL e trigliceridi in senso opposto dalle VLDL alle LDL. Le risultanti LDL sono ricche in trigliceridi e rappresentano un ottimo substrato per la lipasi epatica (la cui attività è aumentata nell obesità viscerale) con conseguente formazione di LDL piccole e dense. L obesità viscerale si associa infine invariabilmente a bassi livelli di colesterolo HDL. Al pari delle LDL, le HDL rappresentano una classe lipoproteica eterogenea per dimensioni e densità. Molte delle condizioni che spesso si associano all obesità viscerale, quali l insulino resistenza, l ipertrigliceridemia e l ipertensione arteriosa, sono di per sé caratterizzate dalla presenza di bassi livelli di colesterolo HDL. Nelle condizioni di insulino resistenza le HDL tendono ad essere più piccole e dense del normale. Le dimensioni delle HDL correlano in modo inverso con la concentrazione dei TRIGLICERIDI plasmatici, di fatto sovente elevati in presenza di obesità addominale. I pazienti con trigliceridemia >150 mg/dl tendono a presentare HDL piccole e dense. Tale valore sembra rappresentare un valore soglia al di sotto del quale si assiste ad un aumento delle dimensioni delle HDL che ritornano di densità e dimensioni nella norma. Studi di cinetica lipoproteica hanno messo in luce come i ridotti livelli di colesterolo HDL nei pazienti insulino resistenti con obesità viscerale siano il risultato di un aumentato catabolismo delle HDL, verosimilmente conseguenza dell aumentato contenuto in trigliceridi delle HDL stesse dovuto ad un elevata attività della CETP, enzima che, come riportato in precedenza, trasporta i trigliceridi 17

dalle VLDL alle LDL e HDL. Questo arricchimento in trigliceridi rende le HDL un substrato ideale per la lipasi epatica. L idrolisi dei trigliceridi contenuti nelle HDL da parte della lipasi epatica, la cui attività è aumentata nei soggetti con obesità viscerale, porta ad una riduzione di volume del core lipidico delle HDL e di conseguenza ad una riduzione delle dimensioni delle stesse. Durante tale processo si distacca dalla superficie delle HDL la componente proteica apoa-1 che viene filtrata ed eliminata dal rene. Questo processo appare essere particolarmente attivo in presenza di ipertrigliceridemia, una caratteristica comune del paziente obeso addominale e insulino resistente. Dal momento che apoa-1 rappresenta una componente strutturale fondamentale nella biosintesi delle HDL, la sua aumentata perdita con le urine può contribuire in modo significativo a spiegare i ridotti livelli di HDL associati all insulino resistenza e più in generale alle situazioni in cui è presente ipertrigliceridemia. Insulino resistenza ed epatopatia steatosica (12-19) La steatosi epatica non alcolica (non-alcoholic fatty liver disease o NAFLD) è la più frequente epatopatia nel mondo occidentale e può presentarsi come steatoepatite non alcolica (NASH), che evolve nel 15-20% dei casi in cirrosi e in epatocarcinoma. Dagli studi longitudinali i principali fattori di rischio per la progressione a fibrosi sono l età, l insulino resistenza e le patologie ad essa correlate (diabete, obesità, ipertrigliceridemia). Nelle fasi avanzate vi è una sovrapposizione tra causa (insulino resistenza ) ed effetto (fibrosi), la cirrosi infatti induce di per sé insulino resistenza. L insorgenza e la progressione della fibrosi è più frequente tra i pazienti con steatoepatite rispetto a semplice steatosi. La NAFLD si caratterizza dal punto di vista anatomopatologico per la sua somiglianza con i quadri epatici indotti dall abuso di alcol, ma si sviluppa in soggetti con consumo modesto (< 20 g/die) o nullo di alcolici. Stime basate su marcatori surrogati indicano che la prevalenza della NAFLD si aggira tra il 10 e il 25% della popolazione generale. La prevalenza di NAFLD subisce un ulteriore incremento all interno di una popolazione altamente selezionata come quella degli obesi o dei diabetici, nei quali la biopsia epatica risulta positiva per NAFLD nel 90% dei casi. È stato proposto che la NAFLD possa rappresentare l interessamento epatico della SMet; diabete tipo 2, obesità e dislipidemia sono infatti le patologie più frequentemente a essa associate. L aumentata prevalenza della NAFLD nei Paesi occidentali negli ultimi 10-15 anni è quindi potenzialmente correlabile al parallelo aumento di obesità e diabete riscontrato nei diversi gruppi d età. Tuttavia, alcuni pazienti con NAFLD sono 18

normopeso e non diabetici e hanno un normale profilo lipidico e normali valori sierici di test di funzionalità epatica. L obesità centrale, documentata da un aumento della circonferenza vita, sembra essere un fattore di rischio per la NAFLD, anche in soggetti con normale BMI. Il meccanismo patogenetico della NAFLD non è ancora stato chiarito, ma certamente l insulino resistenza gioca un ruolo primario nell innescare una serie di reazioni a catena che portano alla comparsa di steatosi epatica. La steatosi per sé non è una condizione maligna in grado di evolvere verso quadri epatici più avanzati, ma con essa entrano in gioco altri meccanismi patogenetici, alla cui base è la perossidazione lipidica. La patogenesi della NAFLD non è stata ancora del tutto chiarita. Alcuni Autori propongono che l insulino resistenza svolga un ruolo chiave portando alla steatosi epatica da una parte e dall altra facilitando la progressione in steatoepatite. Altri autori hanno proposto la teoria dei due colpi, cioè accanto ad una degenerazione grassa del fegato (primo colpo) ci deve essere un altro insulto ossidativo (secondo colpo) per far progredire la semplice steatosi in NASH. L insulino resistenza induce cambiamenti importanti nel metabolismo lipidico quali un aumento della lipolisi periferica, aumentata sintesi di trigliceridi e aumentata captazione di acidi grassi da parte del fegato. Ciò contribuisce all accumulo di trigliceridi all interno dell epatocita. La lipolisi induce un aumento della quantità di acidi grassi liberi nel sangue provenienti dal tessuto adiposo e di conseguenza un aumento dell uptake epatico di acidi grassi. L aumento degli acidi grassi a livello degli epatociti porta ad uno shift tra l ossidazione dei carboidrati e la β- ossidazione degli acidi grassi, una saturazione della β-ossidazione comporta un accumulo intraepatico di grasso. Gli acidi grassi sono inoltre substrati e induttori dei citocromi P450 (in particolare 2E1 e 4A). Quest ultimo tende ad essere elevato nei pazienti con NAFLD e porta ad un aumento dei radicali liberi dell ossigeno capaci di indurre la perossidazione dei lipidi di membrana. L iperinsulinemia (secondaria all insulino resistenza) favorisce la sintesi epatica di NEFA incrementando la glicolisi e promuove l accumulo di trigliceridi anche a causa della ridotta produzione epatica di ApoB -100, proteina necessaria per la dismissione epatica di trigliceridi sotto forma di VLDL. Nella SMet il grado di insulino resistenza è correlato all entità del grasso addominale,ed abbiamo detto che il tessuto adiposo è anche un organo endocrino attivo,e le adipochine che esso secerne sembrano avere un ruolo importante come legame patogenetico tra obesità, insulino resistenza e steatosi epatica. Il ruolo delle adipochine e delle citochine sembra centrale inoltre nella progressione della steatosi, verosimilmente mediata dallo stress ossidativo. 19

La leptina è un sensore di massa grassa che in condizioni fisiologiche previene l accumulo lipidico nei tessuti non adiposi quali miocardio, muscolo scheletrico, fegato e pancreas attraverso la modulazione della β-ossidazione. La concentrazione plasmatica della leptina si correla positivamente col grado di obesità. Tuttavia l iperleptinemia che si osserva nella maggioranza degli obesi si accompagna a leptino resistenza, ed è stato dimostrato inoltre che la leptina potrebbe avere un effetto profibrogenico a livello dei sinusoidi favorendo la progressione della steatosi in fibrosi. In pazienti con obesità addominale sono ridotti i livelli plasmatici di adiponectina,che abbiamo detto in precedenza essere una adipochina che sortisce effetti positivi sul metabolismo lipidico in quanto aumenta sia l entrata dei lipidi all interno delle cellule sia la β-ossidazione a livello muscolare. Inoltre ha effetti anti-infiammatori in quanto inibisce la produzione del TNF-α a livello epatico. L adiponectina gioca un ruolo nella modulazione dell insulino sensibilità, ha proprietà antinfiammatorie e a questo proposito si è visto che ridotti livelli di adiponectina correlano con la severità dell istologia in pazienti con NASH. L adiponectina potrebbe avere un ruolo nella modulazione dell insulino sensibilità, poiché la somministrazione di pioglitazone aumenta i livelli di adiponectina che a sua volta correla con il miglioramento nella steatosi epatica, nell infiammazione e nella fibrosi. I livelli plasmatici di resistina sono aumentati nei pazienti con obesità viscerale. Come abbiamo detto in precedenza essa è una adipochina che favorisce l insulino resistenza e può inoltre stimolare il processo infiammatorio. I livelli circolanti di resistina e l espressione dell m-rna nel tessuto adiposo sono più elevati nei pazienti con NAFLD, il livello di resistina sierica è inoltre correlato con la severità dell istologia, infatti la resistina induce un aumento dell IL-6 e del TNF-α. Oltre alle adipochine specifiche,sembra svolgere un ruolo importante la Proteina C reattiva (PCR), proteina di fase acuta che viene prodotta a livello del fegato in risposta a stimoli flogistici. E stato dimostrato che vi è una produzione di PCR anche negli adipociti del tessuto adiposo umano come risposta a citochine infiammatorie (IL-6, IL-1β).Oltre ad essere una citochina ad alta attività proinfiammatoria, si è visto che la PCR inibisce altresì l espressione del gene per l adiponectina negli adipociti, con conseguente deficit di adiponectina, che abbiamo visto riveste un ruolo protettivo nei confronti della NAFLD. L importanza della PCR nella steatosi epatica è stato poi definito da uno studio giapponese che ha identificato la PCR come marcatore di NASH rispetto a NAFLD, inoltre in caso di steatoepatite l aumento della PCR risulta correlato al grado di fibrosi epatica. 20