IL TEMPO, LA VITA, LE OPERE. Atti del Convegno di studio Ascoli Piceno 12 ottobre 1996 e Montegallo 23 agosto a cura di Silvano Bracci

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1 MARCO DA MONTEGALLO ( ) IL TEMPO, LA VITA, LE OPERE Atti del Convegno di studio Ascoli Piceno 12 ottobre 1996 e Montegallo 23 agosto 1997 a cura di Silvano Bracci PADOVA CENTRO STUDI ANTONIANI 1999 Ò ~ (10_7 { r t '../

2 GIANCARLO ANDENNA PRESTITO, INTERESSE E USURA IN ETÀ COMUNALE: RIFLESSIONI ECONOMICHE E CANONISTICHE (XII-XIV SECOLO) In una lettera pastorale relativa alla condanna degli usurai e all'obbligo della restituzione del guadagno disonesto (turpe lucrum), scritta subito dopo il II Concilio di Lione del 1274 dal frate francescano Azzone da Cremona per il Capitolo della cattedrale di Novara, il quale la inviò a tutti i rettori di chiese in cura d'anime della diocesi, è raccontato un aneddoto che può essere inteso sia in modo ironico, sia in modo drammatico. Volendo stroncare la piaga del prestito usurario, permesso dalla legislazione comunale cittadina, il francescano ordinava ai sacerdoti che per poter confessare un usuraio in punto di morte non bastava una genrica promessa di restituire, ma occorreva la reale e piena restituzione di ciò che era stato maltolto (male ablata), indicando la precisa entità della somma sottratta e i nomi di coloro che avrebbero dovuto ricevere l'indennizzo. A tale proposito era necessario che l'usuraio rilasciasse al confessore, prima di iniziare la confessione, una carta di 'cauzione', o "securitas", con cui egli cedeva in pegno al sacerdote tutti i suoi beni, in modo che quest'ultimo potesse in seguito effettuare nei confronti dei danneggiati una congrua restituzione. Proprio per evitare i guai economici derivanti da una così rigida legislazione ecclesiastica, gli usurai avevano messo in atto alcuni comportamenti astuti per ottenere l'assoluzione dei peccati, la sepoltura cristiana e insieme la salvaguardia delloro capitale. Contro tali sotterfugi, miranti a ingannare i confessori e a recare danno agli atti della Chiesa, il francescano forniva ai sacerdoti alcuni esempi di imbrogli, architettati dagli usurai, uno dei quali si presenta in modo boccaccesco. Un usuraio, giunto al termine della vita, desiderò salvare sia la sua anima, sia il suo patrimonio, cioè, secondo

3 24 GIANCARLO ANDENNA una espressione cara a Jacques Le Goff, "salvare la borsa e la vita'". Egli, prima di affrontare la sua ultima confessione, pensò di effettuare una alienazione di tutti i suoi beni ad alcuni amici, disposti a mettere in atto il raggiro contro la Chiesa. La vendita fu registrata nel minutario di un notaio e pertanto ebbe valore legale, ma nel contempo con atto seaparato fu stilato un documento di retrovendita a tempo predeterminato. In questo modo il prestatore non aveva più nulla di suo con cui effettuare la restituzione del rnaltolto; reso così indigente, egli affrontò la confessione, fingendo di essere ancora ricco. Poiché egli era un usuraio pubblico, il confessore gli richiese, prima che egli iniziasse l'accusa dei peccati, una carta di "securitas", o di ipoteca sui suoi beni, in modo da poter poi effettuare la restituzione. Il prestatore, giocando sulla situazione di equivoco, consegnò al sacerdote la carta di pegno sulle proprietà immobiliari, che in quel momento non possedeva più, al fine di ottenere subito l'assoluzione dei peccati e il diritto alla sepoltura ecclesiastica nel cimitero. Ma, dopo alcuni giorni dalla morte e dalla inumazione del cadavere dell'usuraio, per l'incauto confessore, intenzionato a restituire il maltolto, emersero i problemi. Il testo della lettera circolare, scritta dal francescano, si esprime in modo chiaro: "Vengono gli amici e i parenti e dicono al sacerdote: "Signore, dei beni che il defunto vi ha dato, non potete rendere alcunché; infatti egli non era proprietario di nulla, in quanto aveva alienato tutto il suo patrimonio. Ecco, guardate, ci sono molti atti pubblici che testimoniano questo stato di cose! E se egli durante la confessione non ve lo ha detto, è stato perché egli non aveva più presente alla memoria ciò che aveva fatto, vuoi per la grave malattia, oppure per qualche altra ragìone". Orbene, concludeva il francescano, "questi defunti che, in modo così malizioso, avevano tentato di ingannare i sacerdoti, non dovevano essere sepolti nel cimitero, e se l'inumazione fosse già avvenuta, avrebbero dovuto essere riesumati e posti in terra non consacrata'". 1) J. LEGOFF, La bourse et la vie. Economie et religton au Moyen àge, Paris 1986, ora in traduzione italiana con il titolo La borsa e ta uita. Dall'usurato al banchiere, Dari ) G. ANOENNA, -Non remittetur peccatum nisi restituatur ablatum- (c. 1, C. XIv, q. 6). Una tnedtta lettera pastorale relattua all'usura e alla restituzione dopo il secondo concilio di Lione, in Società, istituzioni, sptrttuatttà. Studi in onore di Cinzio Violante, I, Spoleto 1994, pp ; il documento è anche citato da T. DEIIRrMNN, Domkapitel und SchriftUchkeit in Novara ( Jahrhundert). Sozial-und Wirtschaftsgeschichte

4 PRESTITO. INTERESSE E USURA IN ETA' COMUNALE 25 Per spiegare le ragioni di un atteggiamento così severo della Chiesa nei confronti sia degli usurai, sia del prestito a interesse, che rappresentava una delle molle fondamentali dell'economia della società comunale italiana, è necessario operare alcune premesse. Dal X secolo in poi la popolazione dell'italia settentrionale era au mentata 3 e tale fenomeno aveva determinato una simultanea crescita della richiesta di prodotti e di servizi acquistabili con danaro, la quale aveva innescato un costante processo di aumento dei prezzi, tale da provocare a sua volta una forte e accelerata domanda di moneta. Per soddisfare quest'ultima esigenza era possibile servirsi di due mezzi: in primo luogo, poiché la moneta era solo d'argento, occorreva aumentare la quantità di metallo pregiato presente sul mercato, sia fondendo oggetti d'argento, sia ricercando nuove miniere, oppure importando il metallo prezioso dai paesi arabi e da Bisanzio. Tale soluzione, di certo ottimale, richiedeva tempi molto lunghi e pertanto, sul breve periodo, fu in genere utilizzato il secondo metodo, più sbrigativo, consistente nel coniare dalla stessa quantità di argento un numero maggiore di monete del medesimo valore nominale. Il risultato finale era inevitabilmente quello di far aumentare, ancora di più, i prezzi delle merci e dei servizi. Ma, la relativa abbondanza di questa "cattiva" moneta influiva anche sulla velocità della circolazione monetaria e così, passando rapidamente di mano in mano, la medesima quantità di danaro servì a un numero maggiore di operazioni economiche. La "cattiva" moneta, essendo alla portata di tutte le borse, "permise al fornaio di vendere il pane al minuto e al muratore di farsi pagare il lavoro a giornata". In altre parole, l'inflazione, che era una conseguenza dello sviluppo economico, divenne a sua volta causa di un nuovo sviluppo', Ma ad accrescere la velocità della circolazione monetaria, più ancora della "cattiva" moneta, intervenne, a patire dalla seconda metà dell'xi von Santa Maria und San Gaudenzio im Spiegel der urkundlichen Überlieferung, Tübingen 1994 (Bibliothek des Deutschen Historischen Instituts in Rom, 77), pp. 117, ) Sulla crescita demografica in Lombardia si veda G. ANDENNA, Territorio e popolazione, in Comuni e Signorie nell'italta settentrionale: la Lombardia, in Storia d'italia diretta da G. Galasso, VI, Utet, Torino 1998, pp e la bibliografia ivi indicata. 4) R. S. LoPEZ, 7be Commerciai Revolution oj the Middle Ages, , New York 1971, ora in traduzione italiana con il titolo La rivoluzione commerciale del Medioevo, Torino 1975, pp

5 26 G~CARLOANDENNA secolo, l'uso generalizzato del credito a opera dei mercanti. Proprio il credito illimitato, secondo il parere di Roberto Sabatino Lopez, fu "il grande lubrificante della rivoluzione cornmerciale'", realizzatasi nel periodo dello sviluppo della civiltà comunle italiana. A ragione il Lopez ha parlato di una "rivoluzione commerciale", infatti il mondo economico romano, che aveva utilizzato molti generi di moneta, si era poco servito del credito commerciale, mentre il sistema economico "barbarico", o dei regni romano-germanici, non aveva utilizzato il credito e aveva usato con parsimonia la moneta. Il cambiamento in positivo, determinatosi dopo il Mille, non fu dato da una massiccia immissione di danaro liquido d'argento nel sistema economico occidentale, ma da una forte collaborazione creditizia tra gli uomini d'affari, soprattutto in Italia', mentre in Germania il fenomeno di nuove miniere d'argento.. Il credito commerciale imponeva l'esigenza di una corresponsione di interessi, che la tarda legislazione romana aveva tollerato, ma che i Padri della Chiesa occidentale nel IV e V secolo avevano condannato. Essi infatti, come nelle primitive leggi romane, erano contrari, qualora si fosse verificato un contratto di mutuo, alla pratica di esigere di più di quanto si fosse dato nei prestiti di danaro e di merci alimentari, al fine di evitare che l'egoismo dei ricchi danneggiasse i poveri. Questo insegnamento, contenuto nelle opere di Ambrogio, di Gerolamo e di Agostino, trovava la sua massima espressione nell'identificazione dell'usura, non distinta dall'interesse, con il furto, infatti nel De bono mortis Ambrogio aveva perentoriamente affermato: "Se qualcuno riceve delle usure, egli commette una rapina", L'uguaglianza dei due concetti portava con sé l'obbligo della restituzione, senza la quale il peccato non poteva essere perdonato. In altre parole, oltre a ragioni di natura etica, i Padri erano spinti da preoccupazioni di chiara impronta sociale, giacché il prestito ad usura, o anche solo ad interesse, mirava a scardinare la visione di una società fondata sulla "caritas", sul mutuo aiuto economico e sociale, come era stato descritto nel celebre passo degli Atti degli 5) LoPEZ, La rivoluzione commerciale, eit., p ) Y. RENOUARD, Les hommes d'affaires italtens du M<ryenàge, Paris 1968, ora anche in traduzione italiana a cura di B. GUILLE."-1AIN con il titolo Gli uomini d'affari italiani del Medioevo, Milano ) La citazione è tratta dal paragrafo 56 del De bono mortis, inserito in Decretum Gratiani, c. X, C. XIV, q. 4, in Corpus iuris canonici, ed. E. FRIEDßERG, Leipzig , I, col. 738.

6 PRESTITO, INTERESSE E USURA IN ETA' COMUNALE 27 Apostoli (4, 32), in cui la vita dei fedeli era riportata al "cor unum et anima una". D'altra parte anche la legislazione ebraica permetteva l'usura solo verso gli estranei al gruppo israelitico e la proibiva nei confronti dei correligionari". Ma che cosa pensavano fosse l'usura i Padri della Chiesa e come fu intesa in età medievale, tra XII e XIII secolo, quando si stava affermando in modo deciso la rivoluzione commerciale? Nel concilio Lateranense II del 1139 i padri conciliari, più che condannare l'usura in sé, si scagliarono contro "l'insaziabile rapacità degli usurai", azione "vergognosa e detestabile", condannata dal Vecchio e dal Nuovo Testamento. Contro costoro era disposta la proibizione di ogni conforto ecclesiastico e, qualora non si fossero riavveduti, anche la privazione della sepoltura cristiana". In altre parole, giacché il peccatore mirava alla disgregazione del gruppo, la pena era l'esclusione, sia da vivo, sia da morto, dalla comunità religiosa. Occorreva tuttavia giungere a una precisa definizione dell'usura, vista la moltiplicazione del fenomeno creditizo all'interno della civiltà comunale, che per la penuria di moneta circolante, cioè per una ragione legata al piano dell'economia, era costretta a utilizzare molte forme di mutuo, o di credito a interesse. Attorno al 1140, cioè subito dopo il concilio Lateranense II, Graziano, uno dei maggiori canonisti della sua epoca, nella Concordia discordantium canonum, pose in modo preciso il problema; infatti la III questione della Causa XIV è significativamente dedicata alla domanda: "che cosa sia esigere delle usure?"!", La risposta, tratta dagli scritti di Ambrogio, Agostino e Gerolamo e da un canone del II capitolare di Nimègue, è univoca: "Tutto ciò che il prestatore esige oltre la restituzione del capitale prestato è da considerare usura", anche se non si tratta di danaro, ma di derrate alimentari, vesti, oggetti preziosi". In rapporto a quest'ultima affermazione Graziano utilizzò un 8) La questione dci prestito a interesse per gli ebrei è sostanzialmente regolata da due passi del Deuteronomio, 23, 20-21; 28, 12: -Non presterai ad usura al tuo fratello, ma allo stranicro-; 11Signore benedirà tutte le opere dclle tue mani, tu presterai a molte genti, ma tu non prenderai a prestito nulla. 9) conctttorum oecumenicorum decreta, ed. J. ALBERIGO, P. PRODI, Basileae 1962, p. 200, e. 13. lo) Decretum Gratìani, cit., cc. I-IV, C. XIV, q. 3, coli ; -Tertìo, an illud sit usuras exigere? 11) Decretum Grattanl. eit., e. IV, C. XIV, q. 3;, col. 735; -Quando amplius exigitur quam detur, usura accipitur. Usura est, ubi amplius requiritur quam quod datur. Verbi gratta, si solidos decern dcderis et amplius quesieris, vcl dcdcris frumenti modium

7 28 GIANCARLO ANDENNA testo di Gerolamo, tratto dal Commento su Ezechiele CEz. 18, 10-13): "Alcuni pensano che le usure siano legate solo al danaro. Ma la divina scrittura, in modo previdente, riconosce come usura tutto ciò che il prestatore esige in più (superhabundantia), così che tu non abbia a ricevere di più di quanto hai dato?", I discepoli di Graziano aggiunsero a queste autorità dei Padri un testo, tratto da un'opera che ebbe particolare importanza sugli intellettuali del XII secolo, l'opus imperfectum in Mattbaeum, scritto da un autore vissuto nel V secolo, oggi noto come lo Pseudo Crisostomo. Il frammento ebbe fortuna nel pensiero della Scolastica, poiché costituì il c. XI della Distinzione LXXXVIII:"Tra tutti i mercanti, il più maledetto è l'usuraio, poiché egli vende una cosa che Dio gli ha donato, non acquistata dagli uomini, come fa il mercante. In più, dopo l'usura, egli si riprende l'oggetto insieme ai beni dell'altro, cosa che il mercante non fa. Si obietterà: ehi dà in affitto un campo per ricevere un censo annuo, oppure una casa per avere un canone di affitto, non si comporta in modo uguale a ehi presta il suo danaro a interesse? Certamente no. Infatti, in primo luogo la sola funzione del danaro è quella del pagamento del prezzo negli acquisti, poi va detto che il contadino che riceve la terra la fa fruttificare e che il locatario gode della casa. In questi due casi il proprietario cede l'uso del suo bene per ricevere del danaro e in un certo modo per scambiare un guadagno contro un guadagno, mentre del danaro prestato non si può fare alcun uso. Infine l'uso svilìsce a poco a poco il campo e degrada la casa, mentre il danaro prestato non subisce diminuzioni, né ìnvecchìamentì'?'. Come giustamente ha fatto notare il Le Goff emergono da questo testo e da altri scritti ecclesiastici coevi due concetti che non appartengono alla sfera economica, entro la quale la nostra società colloca il mutuo, o se si vuole il prestito, ma alla sfera delle relazioni sociali in generale". In primo luogo appare la nozione della reciprocità dello scambio, concetto ben noto all'antropologia culturale, per cui ad un à unum et super aliquid exigeris-, Pertanto Graziano concluse: -Ecce, evidenter ostendìtur, quod quicquid ultra sortern exìgitur usura est-, 12) Decretum Grattani, cit., c. II, C. XIV, q. 3, col. 735, -Quicquìd supra datum exigitur, usura est-, Gerolamo, Commento ad Ezecbtele, VI, c. 18, ) G. LE BRASS,La doctrine ecctéstasnque de l'usure l'époque classique (XI/'-XY siècle), in Usure, in Dictionnaire de Tbéologie Catbolique, XV, Paris 1946, coli , in particolare coli ) J. LEGOFF, La borsa e la otta, eit, pp

8 PRESTITO. INTERESSE E USURA IN ETA' COMUNALE 29 dono deve corrispondere un controdono. Il pensiero è ben espresso anche da Tommaso di Chobham: "Quando io ti ho dato qualche cosa posso sperare in un controdono, cioè in una risposta a ciò che ti ho dato e posso sperare di ricevere dal momento che sono stato il primo a dare?". Questo scambio di dono e controdono non ha e non aveva alcuna valenza economica, ma solo la finalità di incrementare i rapporti sociali e di mantenere compatto il gruppo, la società in cui le due parti agivano", In questo caso la sfera dell'economia alla fine del XII secolo non era teoricamente distinta da quella etica e da quella dei vincoli sociali. In via subordinata non era possibile affermare nel caso del mutuo che il danaro potesse essere un controdono, in quanto esso era inteso solo come strumento di pagamento e in quanto tale perfettamente sterile e sempre uguale a se stesso", Anche in questo caso il ragionamento era effettuato prescindendo dalla sfera economica e senza alcuna possibilità di intendere la moneta come merce. Affermare inoltre che l'usuraio fosse peggiore del mercante costituiva in quel momento storico il più pesante degli insulti e la maggiore condanna morale: infatti lo Pseudo Crisostomo, commentando l'episodio evangelico di Cristo che aveva cacciato i mercanti dal tempio, sottolineava che "il mercante non può mai piacere a Dio e quindi nessun cristiano deve essere mercante o, se vuole esserlo, deve essere scacciato dalla Chiesa?". Infatti chi compra e vende non può farlo senza essere spergiuro, poiché acquista una merce per rivenderla senza averla modificata, o trasformata con il suo lavoro, e quindi per poter ottenere un guadagno bisogna che sia bugiardo, affermando che l'oggetto non vale quando lo acquista e che vale molto di più quando lo vende", Eppure, nonostante queste posizioni ecclesiastiche, da cui tardava ad emergere una visione scientifica dell'economia, o meglio la capacità 15) TIIOMAE DE CUOßUAM, Summa confessorum, q. XI, c. I, ed. F. ßROOMFIELD, Louvain-Paris 1968 (Analeeta Mediaevalia Namurcensia, 25), p ) LE GaFF, La borsa e la oira, cit., pp ) LE GaFF, La borsa e la oita, cit., pp ) PIETRO DI GIOVANNI OUVI, Trattato sulle compere e sulle vendite, in Usure, compere e vendite. La scienza economica del XlII secolo, a cura di A. SPICCIANI, P. VIAN, G. ANDENNA, Milano 1990, p ) A. SPICCIANI, La mercatura e la formazione del prezzo nella riflessione teologica medioevale, Roma 1977, Accademia Nazionale dei Lincei, Memorie, Classe di Scienze Morali, VIII, XX/3, pp ; ID., Capitale e interesse tra mercatura e povertà nei teologi e canonisti del secoli XlII-xv, Roma 1990, p. 11.

9 30 GIANCARLO ANDENNA di dare un fondamento teorico ai fatti economici, senza ridurli all'eticità, o al sociale, lo sviluppo del credito era aumentato in modo esponenziale e con esso la sempre più pressante richiesta di pagamento di interessi, ora calcolati in modo composto", Nel 1179 il concilio Lateranense III affrontò ancora il problema. I padri conciliari denunciarono il fatto nuovo che molti indirizzavano i loro danari verso il credito, abbandonando le altre tradizionali attività di impiego dei capitali e con questa scelta ponevano in pericolo il settore primario della produzione, come ebbe a dire più tardi il papa Innocenzo IV. I padri conciliari nel 1179 furono più severi dei loro antecessori: "Giacché in quasi tutte le località il crimine delle usure è cresciuto in modo tale che molti, abbandonata ogni altra attività, esercitano quasi lecitamente l'usura, (...) stabiliamo che i pubblici e notori usurai non siano ammessi alla comunione dell'altare e che, qualora morissero persistendo in questo peccato, non ricevano una sepoltura cristiana'", La questione, invece di risolversi, si complicò, visto anche il dualismo delle posizioni dottrinali sul problema: da una parte vi era la Chiesa, preoccupata di salvaguardare la compattezza del sociale, e dall'altra vi erano le legittime ragioni di ehi si dedicava all'economia e, per i motivi già illustrati, non poteva fare a meno del prestito a interesse. La lettera Consuluit, scritta dal papa milanese Urbano III a un sacerdote bresciano tra il 1185 e il 1187, poi inserita nelle Decretali, riaffermò la validità della condanna verso gli usurai, cioè verso ehi pretendeva di più di quanto aveva dato, e in aggiunta considerò usurai anche coloro che, per aver concesso una dilazione nel pagamento, o per aver effettuato una vendita a termine, cedevano le loro merci a un prezzo maggiorato", In altre parole anche la maggiorazione del prezzo delle merci per la concessione della rateazione, o della dilazione della quietanza, era peccato di usura. La ragione di questa presa di posizione papale era data dalla convinzione che il prestatore vendesse il tempo, una realtà non sua, ma appartenente a Dio. Tommaso di Chobham sostiene in modo molto preciso questa tesi: -L'usuraio non vende al debitore nulla che gli appartenga, ma solo il 20) T. ZERBI, Credito e Interesse In Lombardia nel secoli XIV e Xv, Milano ) Conctliorum oecumentcorum decreta, cit., p ) Decretaltum Gregortt IX, ed. E. FRIEDBERG, II, Leipzig 1881, c. lo, tn, XIX, b. V, Consuluit, p. 814.

10 PRESTITO, INTERESSE E USURA IN ETA' COMUNALE 31 tempo, che è di Dio- 23 Una risposta simile, proprio mentre lo sviluppo mercantile era in piena crescita, sostenuto da una grande richiesta di capitali liquidi e di credito, era troppo rozza, infatti i mercanti e i giuristi più agguerriti sapevano che nella dilazione di pagamento non era il tempo ad essere venduto, ma il diritto del prestatore sul tempo. Sempre più importante divenne, secondo i fondamentali studi di Amleto Spicciani, -la questione di una richiesta di indennizzo, fatta in concomitanza con il mutuo, per l'impedito conseguimento di un guadagno-", Di fronte alla interruzione del guadagno (lucrum cessans) e alla possibile comparsa di un danno (damnum emergens), i canonisti erano concordi nell'affermare che era possibile ottenere un risarcimento del medesimo danno, cioè godere di un interesse. In questo caso era necessario distinguere l'interesse dall'usura; quest'ultima si configurava come un aumento di restituzione richiesto solo -ex vi mutui-, cioè solo in forza del prestito, mentre l'interesse era una ricompensa giustificata da un danno subito in rapporto a un prestito. Stabilito questo primo punto, valido soprattutto per i danni derivanti da insolvenza, ci si chiese se fosse lecito un patto con la previsione di una corresponsione di Interesse fissato al momento della stipulazione del contratto di mutuo o di prestito. La maggioranza dei teologi approvò la pattuizione dell'interesse qualora fosse intervenuto un danno effettivo, ma respinse l'opinione che sin dal momento della stipulazione del prestito ci si potesse accordare sull'interesse per il guadagno non conseguito dal capitale ceduto. Il testo più significativo su questo problema è la lettera di papa Gregorio IX, Naviganti, redatta tra il 1227 e il 1234, entrata poi nella raccolta delle Decretali". Il pontefice poneva il caso, ormai molto diffuso, di un mercante che riceveva da un altro uomo d'affari una somma di danaro per svolgere la sua attività, e dichiarava usuraio il prestatore che esigeva una parte del guadagno, perché si assumeva un rischio non specificato, che in genere i commentatori intesero alla stregua del -rischio del mare-, interpretando la concessione del danaro come un prestito marittimo. 23) THOMAE OE CHOBHAM, Summa confessorum, eit., q. XI, c. l, p ) A. SPICCIANI, La produttività del capitale monetario e la questione dell'interesse nella dottrina teologtco-canonistica dei secoli XIII-xv, in ID., Capitale e interesse tra mercatura e povertà, eit. pp ) Decretaltum Gregorit IX, eit., c. 19, X, tit. XIX, b. V, col. 816.

11 32 GIANCARLO ANDENNA Se tale forma di corresponsione di un interesse era vietata dal pontefice, insieme allo sconto, effettuato per il pagamento immediato della merce, alcuni teologi, studiati dallo Spicciani, fra cui Raimondo di Pefiafort, ipotizzarono una situazione di prestito con restituzione maggiorata, per la quale non si sarebbe dovuto parlare di usura. Era il caso di un prestito richiesto con insistenza a un mercante, che era in procinto di compiere con una somma di danaro un investimento economico, da un altro mercante. Risultava evidente che il danaro avrebbe potuto rendere al suo proprietario un guadagno mercantile, per questo Raimondo ritenne che fosse lecito un accordo tra i due uomini d'affari per stabilire il rimborso di una somma superiore a quella prestata>. Su questo punto le opinioni si divisero: il cardinale Sinibaldo Fieschi, eletto poi papa nel 1243 con il nome di Innocenzo IV, ritenne di dover contrastare, basandosi su considerazioni di politica economica, questa tesi di Raimondo, che si fondava su evidenti giustificazioni di natura economica, spostando il problema dal piano etico e sociale a quello dell'economia, anche perché limitava l'applicazione dell'eccezione al solo ambito dei mercanti. Il ragionamento del Fieschi è interessante e riguarda a sua volta l'aspetto politico del problema, in quanto egli voleva prevenire non i mali sociali, ma quelli derivanti da una errata politica finanziaria, o creditizia. Se fosse stato permesso ricevere interessi dal prestito i ricchi avrebbero investito il loro danaro nell'attività creditizia, sia per il guadagno più elevato, sia per la maggiore sicurezza di ottenere dei vantaggi. Nessuno avrebbe scelto l'agricoltura come campo per ottenere una rendita dal proprio danaro; così, se i ricchi avessero evitato di impegnare i loro soldi nella terra, i poveri, anche se possessori di piccole aziende, non avrebbero avuto capitali sufficienti per acquistare strumenti tecnologici e animali. Per cui l'agricoltura sarebbe decaduta a tal punto da far paventare l'aumento illimitato dei prezzi dei prodotti agricoli, con il conseguente pericolo della carestia, che per il Fieschi era il peggiore dei mali, in quanto colpiva soprattutto i poveri. Pertanto, -anche se l'usura non fosse un peccato, dovrebbe essere in ogni caso proibita, per i mali e per i pericoli che da essa derìvano-" 26) RAYMUNDI DE PENNAFORT, Summa de poenttentta, II, VII, 5, Naviganti, Veronae 1744, p. 210 ab; SPICClANl, La produttività del capitale monetario, cit., pp ) Apparatus in qutnque libros Decretalium, V, de usuris, cap. XIX, in INNOCENTII IV In qutnque ltbros Decretaltum Commentario, Venctiis 1580, ff ; SPICCIANI, La produttività del capitale monetario, eit., p. 35; LE ßRASS, La doctrine eccléstasttque de l'u-

12 PRESTITO, INTERESSE E USURA IN ETA' COMUNALE 33 Contro l'opinione di Sinibaldo Fieschi, ormai eletto papa, si pose, mentre questi era ancora vivo, Enrico di Susa, cardinale vescovo di Ostia; egli operò una brillante distinzione, rimanendo sempre entro l'ambito mercantile, tra legittimo interesse e guadagno disonesto, procurato da un illecito aumento. Scrisse infatti l'ostiense, a cui premeva definire in modo corretto la fìgura e la professionalità dell'uomo d'affari: -Se uno fosse mercante e guadagnasse molto frequentando i mercati e le fiere e se a me, che ho grande necessità, per carità cristiana, concedesse in mutuo del danaro, con il quale era in procinto di fare degli affari, io sarei obbligato a pagargli gli interessi a partire da quel momento, purché tutto ciò non fosse compiuto per nascondere una operazione usuraria e purché il mercante non fosse solito prestare il suo danaro a usura in questo modo-". Per il cardinale Ostiense l'intera riproposizione del problema era legata di fatto alla rivalutazione della professionalità del mercante, che cedeva per carità cristiana il suo danaro, destinato agli affari commerciali, e che incorreva pertanto in un danno, a cui gli interessi prestavano solo in qualche modo rimedio. Ma la liceità o meno dell'operazione era anche legata alla retta intenzione dell'uomo d'affari, poiché la differenza tra un prestito -ex carìtate- e uno -ex usuris- poteva ormai essere stabilita, sulla scia di questo ragionamento, solo dalla sua coscienza, anche se l'osservatore esterno poteva dire, attraverso il controllo della fama del mercante, se egli fosse solito, oppure no, commettere peccati di usura in quel modo. Nonostante queste prime aperture, sollecitate da poche personalità ecclesiastiche capaci di comprendere l'eccezionale importanza sociale della professione mercantile, la Chiesa ufficiale continuò a mantenere le condanne ecclesiastiche contro i prestatori, che esigevano di più di quanto avevano dato. Inoltre, complesse ragioni legate alla salvaguardia delle finanze ecclesiastiche e alla preoccupazione di evitare ulteriori indebitamenti delle Chiese locali e delle abbazie, costrinsero i Padri conciliari nel primo Concilio di Lione del 1245 a proibire ai prelati di sure, eit., coli ; J. T. NOONAN, Tbe Scbo/astic Analysts of Usury, Cambridge, Mass., l larvard University Press, 1957, p. 49; A. SPICCIANI, Usura e carestie In un canonista del XIII secolo (Sinibaldo de' Piescbi, papa Innocenzo IV?, in ID., Capita/e e interesse tra mercatura e povertà, eit., pp ) Lectura in Decreta/es Gregorii IX, V, de usuris, cap. XVI, in HENRICI DE SEGUSIO 111 quintum Decretaltum librum commentarta, Venetììs 1581, ff, 58<.1-59a;SPICCIANI, La produttività del capitale monetario, eit., pp

13 34 GIANCARLO ANDENNA contrarre debiti con contratti usurari, impegnando i tesori ecclesìasrlcì=. Infine, nel secondo concilio, tenutosi nella medesima città nel 1274, i vescovi rinnovarono la condanna del Lateranense III nei confronti degli usurai e aggiunsero la maledizione divina e una minuziosa serie di norme per impedire la -comrnoditas fenerandi- e la -fenus exercendi lìbertas-, nonché per rendere tassativo, come si è visto in apertura, l'obbligo della restituzione".. Le ragioni che spingevano la Chiesa a proibire con forza e in ogni caso il prestito a interesse, non separandolo dall'usura, erano legate al vasto proliferare nelle città dell'italia settentrionale e della Provenza di attività feneratizie spicciole, rivolte verso il ceto dei piccoli proprietari rurali, che furono tartassati a partire dalla seconda metà del Duecento da continue imposte cittadine, raccolte per finanziare gruppi mercenari durante la grave situazione di instabilità politica della tarda età comunale. Questi prestatori, veri e propri strozzini, erano capaci di rovinare decine di famiglie dei villaggi rurali, riducendo i loro membri, con il gioco dei pegni terrieri che non potevano essere riscattati per l'esosità degli interessi, da proprietari ad affittuari e infine a salariati sulle loro stesse terre. Per evitare di dover avallare un simile stato di cose, la Chiesa preferì mantenere la proibizione del prestito a interesse in tutto il suo rigore tassativo. Ma il ceto dei mercanti, dei banchieri e degli uomini d'affari lombardi, fiorentini, senesi, catalani e provenzali tentò di opporsi a tale chiusura. Essi non ritenevano di dover essere confusi con gli strozzini e richiedevano in modo insistente una dottrina che effettuasse le necessarie distinzioni. Era indispensabile fissare i fondamenti di una scienza economica, capace di giudicare la correttezza degli atti finanziari dei mercanti, sottraendoli a un generico giudizio morale, e di garantire nel contempo la netta e precisa distinzione tra la loro attività, socialmente produttiva e utile, e quella degli usurai, tendente a minare e a dissolvere la compattezza dei gruppi sociali. Il francescano Pietro Olivi", aderente al movimento degli Spirituali, affrontò il problema con la stesura di un volumetto di economia politi- 29) concütorum oecumentcorum decreta, eit., pp ) conctltorum oecumenicorum decreta, cit., pp ) SuJIa vita di Olivi è ancora fondamentale il lavoro di F. EHRLE, Petrus fobannts Olivi: sein Leben und seine Schriften, in -Archiv für Litteratur und Kirchengeschichte des Mìttelalters-, III (1887), pp ; per la bibliografìa più recente S. GIEßEN, Bibliografia olivtana ( ), in -Collectanea Francìscana-, 38 (1%8), pp ; sul pensiero

14 PRESTITO, INTERESSE E USURA IN ETA' COMUNALE 35 ca, in cui erano contenuti due. studi, il Trattato sulle compere e sulle vendite e il Trattato sulle usure e sulle restttuziont», probabilmente sollecitato dai mercanti di Firenze, città in cui aveva svolto l'incarico di lettore di teologia presso lo Studium dei Minori per due anni, tra il 1287 e il Il francescano effettuò subito la distinzione concettuale tra la professione del mercante e quella dell' usuraio: il primo procurava indiscutibili vantaggi alla comunità, si sottoponeva a fatiche e rischiava il suo danaro per comperare in paesi stranieri e portare in patria le merci necessarie alla società in cui viveva. Egli esponeva a molti rischi il suo capitale, la vita e la merce comperata e possedeva inoltre una specifica professionalità, consistente nel saper valutare il giusto prezzo delle merci e l'utile che se ne poteva trarre. Infine egli doveva essere necessariamente leale; la lealtà era uno specifico requisito imposto dalla sua professione. Qualora al mercante fosse mancata tale virtù, le popolazioni dei diversi luoghi non si sarebbero fidate di lui, e pertanto la sua professionalità sarebbe stata messa in dubbio. Dunque Olivi poté sostenere: -Da tutto ciò sì conclude che i mercanti possono e debbono riporteologico R. MANSEllI, La -Lectura super Apocalypsim- di Pietro di Giovanni Olivi, Roma 1955; per gli aspetti 'economici' G. TODESCHINI,Oeconomica franciscana. Proposte di una nuova lettura delle fonti dell'etica economica medievale, in -Rivista di Storia e Letteratura religiosa" XII (976), pp ; ID., Oeconomica franciscana, II, Pietro di Giovanni Olivi come fonte per la storia dell'etica economica medievale, ibidem, XIII (1977), pp ; I. KIRSHNER,K. Lo PRETE,Peter fohn Olivi's treattses on contracts of sale, usury and restttution: minorite economics or minor works?, in -Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno-, 13 (981), pp , ora tradotto in italiano in Una economia politica nel Medioevo, a cura di O. CAPITANI,Bologna 1987, pp ; sui problemi relativi agli Spirituali si veda ora l'opera PETRUSJOHANNISOUVI, De usu paupere. Tbe Quaestio and tbe Tractatus, ed. D. BURR,Firenze 1992 (Italìan Medieval and Renaissance Studies, 4), pp. IX-LXI; sul problema dei mercanti e degli usurai, nonché sul concetto di capitale rimando a A. SPICCIANI,Pietro di Giovanni Olivi indagatore della razionalità economica medioevale, in Usure, compere e vendite, cit., pp ; un'agile sintesi della vita, con una aggiornata bibliografia, si trova nei due recenti lavori, PIETRODI GIOVANNIOUVI, Scritti scelti, Traduzione, introduzione e note a cura di P. VIAN, Roma 1989 (Fonti cristiane per il terzo millennio, 3), pp ; e P. VIAN, Pietro di Giovanni Olivi nello sptrtrualtsmo francescano, in Usure, compere e oendtte, cit., pp ) L'edizione del primo trattato in A. SPICCIANI,La mercatura e ta formazione del prezzo nella riflessione teologica medioevale, Roma 1977 (Atti della Accademia Nazionale dei Lincei, Memorie, serie VIII, voi. XX, fase. 3, pp ; l'edizione completa dell'opera in G. TODESCHINI,Un trattato di economia politica francescana: il -De emptionibus et oendittontbus, de usuris, de restttuuontbus- di Pietro di Giovanni Olivi, Roma 1980 (Studi Storici, ), pp ; una traduzione italiana ad opera di A. Spicciani e G. Andenna, in Usure, compere e vendite, cit., pp , da cui si cita.

15 36 GIANCARLO ANDENNA tare un guadagno adeguato» alla loro capacità e serietà professionale, anche aumentando il prezzo delle merci sino ad un certo limite congruo", D'altra parte, a ehi avesse obiettato che Cristo aveva cacciato i mercanti dal tempio, il francescano poteva rispondere che egli li aveva allontanati perché erano in un luogo sacro e non perché essi erano mercanti". Al contrario la figura dell'usuraio palesava una personalìtä ingannatrice ed empia nei confronti del prossimo: -ìnfatti sotto il pretesto della pietà e dell'aiuto a poco a poco, e all'inizio quasi insensibilmente, lo strozzino si prende cura del prossimo e occupandosene si allarga sino a divorare totalmente i suoi beni. Per la qual cosa l'usuraio finge di sentire pietà, là dove sente solo e pricipalmente il proprio lucro. Così l'usura rompe l'amicizia e lo stesso vincolo sociale, poiché l'usuraio in quanto tale non ama nessuno e non si associa a nessuno, se non per causa di guadagno-". Diverse erano dunque sia la struttura della personalità dei due professionisti, sia la funzione sociale delle due professioni ed era giusto che i confessori lo sapessero e ne tenessero conto. Operata questa precisa distinzione che, in contrasto con tutta la cultura classica rivolta verso Yotium, attribuiva nuovo e fondamentale valore sociale al negotium, Olivi affrontò la questione della liceità della distinzione -tra il prestito di una somma di danaro qualsiasi e il prestito di una somma di danaro inserita in modo efficiente, o da inserirsi, nel processo produttivo della mercatura-. La difficile impresa intellettuale fu discussa dopo il nuovo divieto conciliare del 1274 dell'usura, intesa come ricevere di più di quanto si era dato>. La reiterazione della condanna conciliare contro l'usura era stata recepita ad esempio dal Comune -dì popolo» di Brescia, che fece inserire nel suo codice degli Statuti, un capitolo, votato nel 1283, contenente una disposizione secondo la quale era vietato ricorrere al giudice per imporre l'obbligo di pagamento delle usure", Olivi tuttavia, prima di elaborare una dot- 33) Usure, compere e vendite, eit., pp ) Ibidem, pp ) Ibidem, pp ) A. $PICQANI, II capitale del mercante, l'interesse e lo sconto nel pensiero di Pietro di Giovanni Olivi, in ID., Capttale e Interesse tra mercatura e povertà, cìt., pp , in particolare p ) Statuti bresciani del secolo XlII, a cura di F. OOORICI, in Histortae Patrtae Monumenta, XVIl/2, Augustae Taurinorum 1876, c. 1746, n. XCV: -Et hoe habeat locum in sorte tanturn, et non in usuris, curn nostris eivibus non fiat ratio dc usuris-.

16 PRESTITO. INTERESSE E USURA IN ETA' COMUNALE 37 trina economica, volle superare la difficoltà scritturistica, costituita dal divieto di sperare di esigere interessi, o meglio di sperare di ottenere alcunché da un mutuo, contenuto nel celebre passo del Vangelo di Luca: -Mutuurn date, nihil inde sperantes- (Le. 6, 35): Molti teologi intendevano la frase in senso assoluto, affermando che in nessun modo fosse lecito al prestatore sperare di ricevere, o ottenere qualcosa di più di quanto avesse dato. Ma secondo Olivi essi sbagliavano, infatti in quel punto Cristo parla del più alto grado di perfezione e quindi del -prestito dato con assoluta generosità, sia che si tratti di una generosità legata al consiglio evangelico, sia che si tratti di una generosità connessa al comandamento cristiano, che trascende la giustizia e il favore che i gentili si fanno tra di 10ro- 38 Anche questi infatti per fare un favore a un amico possono concedere un mutuo, o un prestito senza interessi; lo fanno non per amore di Dio, né per la speranza del premio eterno, -ma in tutte le opere buone da loro compiute pongono in questa vita la loro speranza-, Proprio contro questo tipo di speranza parla Cristo, quando dice di non aspettarsi nulla dal mutuo. In altre parole, per raggiungere la perfezione cristiana, di cui Cristo sta parlando nel discorso delle beatitudini, non si deve sperare neppure nella restituzione dell'eguale, perché anche i peccatori e i pagani prestano ai loro amici, a cui desiderano fare un favore, per ottenere poi in restituzione la sola somma che hanno dato. Dunque con quella frase Cristo non intendeva parlare del mutuo o prestito a interesse e tanto meno di quello usurario, ma solo indicare ai cristiani la difficile via della assoluta perfezione, che richiede di dare senza sperare di ottenere neppure la restituzione di ciò che si è dato 39 i I 38) Usure, compere e vendite, cit., p ) Usure, compere e vendite, cit., p. 110; nel brano compare uno specifico rimando al Commento su Luca di Olivi, opera inedita, un cui esemplare è contenuto nel manoscritto Vaticano Latino, Ottoboniano Latino, 3302; ai ff. 45r-45v si legge: -Non etiam quod hic proprie loquitur aut de supererogativa perfectione dandi mutuum, aut de iiia quae sie fit principaliter propter Deum, quod non figit finem, nec suam finalem spem in reddìtione aequivalentis, sed potius in premio vitae aeternae. Quod quidem patet primo quia quando promisit "Et si mutuum dederitis his a quibus speratis recipere", subintellexit salurn aequalia, quod patet quia subdit, "narn et peccatores peccatoribus foenerantur, id est commodant seu mutuant, ut recipiant aequalia". Et etiam quia dixit "quae gratia est vobis?", id est quanta et quam sublimis gratia vobis est?; id est quantam gratiam debet vobis Deus aut iiie qui hoc mutuum recipit ut reddat aequale? Licet non aliquam gratiam sibi in hoe faciat, non tarnen tantam quam multi peccatores ex sola humana arnìcitia saepe faciant eam suis amicis. Si nam de usurario mutuo loquerctur tune non dice-

17 38 GIANCARLO ANDENNA Superato questo ostacolo scritturistico, il maestro francescano, in rapporto alle problematiche di natura economica emergenti dal prestito, aderì subito alle tesi di Raimondo di Pefìafort e di Enrico di Susa, per le quali era possibile pensare che il danaro, avviato o da avviarsi verso forme di investimenti commerciali, contenesse in sé una legittima speranza di guadagno economicamente valutabile al momento della pattuizione del contratto di mutuo. Di conseguenza l'interesse che il mercante richiedeva per il prestito si configurava come il risarcimento di un danno e non come una usura e quindi era lecito tra mercanti pattuire nel medesimo contratto di prestito la quantità di interesse da versare al momento della restituzione della somma ceduta. Ma diversamente dai due teologi e canonisti precedenti, per giustificare la sua posizione, egli introdusse il concetto di -capìtale-, che era già in uso, ma con significato diverso, presso i filosofi scolastici. Capitale è per Olivi una somma di danaro -destinata con ferma decisione del suo proprietario a fornire un possibile guadagno-, Così essa -non solo possiede la natura del semplice danaro, ma oltre a ciò ha in sé la virtuale possibilità di un guadagno. Da queste considerazioni appare evidente che quando qualcuno presta a un altro, spinto solo dalla pietà e dalla necessità di quello, del danaro che si era fermamente proposto di investire in operazioni commerciali, con il patto che tutto quanto una simile somma guadagnerà o perderà presso un mercante come lui, altrettanto egli, creditore, si accontenterà di guadagnare o di perdere, non commette usura, ma piuttosto compie un favore, salvaguardando tuttavia la sua indennità-". In altre parole, perché una somma di danaro fosse considerata capitale erano necessarie per Olivi due condizioni: il suo essere destinata agli affari e la ferma decisione del proprietario di utilizzarla in questo senso. Il secondo requisito, legato all'intenzione del mercante, era certaret "quae est vobis gratta?", sed potius dixisset hoc esse contra proximum iniustitiam et inaequalitatem et impiam venditionem gratiae, tanto peiore quanto fieri videtur sub spe gratiae. Secundo patet hoc quia in duobus prioribus non posuit odire et malefacere, sed scilicet diligere et benefacere. Qua et tertium mutuum dare intelligit prout est absque maleficio usurario; verum est quod si in mutuo non usurario prohibet finalem spem et intentionem statuit in redditione aequivalentis, multo magis eo ipso prohibet dare mutuum usurarium; et pro tanto potest eius prohibitio hic includi. Tertia patet hoe quia quando ait "Mutuum date nihil inde sperantes" non dicit in aequale, vel usurarium, sed dicit nihil. Ergo vult quod etìarn nihil aequale inde speretur. 40) Usure, compere e oendtte, cit., pp ; A. SPICClANI, Il capitale del mercante, l'interesse e lo sconto, cit., pp

18 PRESTITO, INTERESSE E USURA IN ETA' COMUNALE 39 mente più importante per Olivi del primo, che avrebbe potuto anche non realizzarsi. Sotto questo aspetto allora era solo la coscienza del mercante, oserei dire la sua leale professionalità, a stabilire la differenza tra usura e legittimo interesse. Non bastava che il contratto fosse in sé formalmente ineccepibile e che in esso non comparisse la forma del mutuo o del prestito, senza le quali non poteva esservi usura. Infatti questo concetto era ben indicato nelle conclusioni del Trattato sulle restituzioni: -Si è spesso sostenuto che il peccato di usura e l'obbligo di restituzione derivano dall'esclusiva intenzione usuraria, quantunque la forma del contratto sia di per sé lecita e priva di ogni vizio di usura; ci si chiede se ciò sia vero, oppure se al contrario occorra che anche la forma del contratto sia usurarìa-. La risposta di Olivi al quesito accentuava in modo molto evangelico e moderno l'elemento intenzionale: un patto commerciale fissato da un creditore poteva non contenere nell'intenzione del prestatore alcun elemento usurario, anche se per ragioni di opportunità la forma del contratto appariva con le clausole caratteristiche dell'usura, soprattutto in rapporto al problema del rischio. Ma seguiamo l'esempio e il ragionamento del maestro francescano. Se uno affida a un mercante cento marchi con il patto scritto su un documento notarile che quegli gli restituisca la metà o due terzi del guadagno, escluso ogni rischio di capitale, e tuttavia ehi concede intende fermamente dentro di sé che tutto ciò che del capitale si perdesse, commerciandolo legalmente, sarebbe sottratto a sé e non al mercante; io chiedo se quella persona sia da considerare un usuraio e se sia tenuta a restituire il guadagno che da questa operazione ha percepito, Che egli non sia tenuto a restituire il conseguente guadagno, derivato dall'operazione commerciale, si può dimostrare in questo modo, Gli atti che generano la morte spirituale traggono tutta l'essenza del loro essere dall'atto di volontà da cui sono causati. Quindi la consegna materiale di quei cento marchi emana da una volontà contraria alla forma esteriore del contratto, in quanto chì dà desidera fermamente che quel capitale sia commerciato a suo rischio, come lo è a suo vantaggio, benché esprima nella forma esteriore del contratto una volontà contraria, perché il mercante non perda in modo fittizio o per trascuratezza il capitale prestatoglì-" La differenza tra usura e prestito a interesse non era allora data, per Olivi, come si sostiene nella società moderna, da un fatto esteriore, cioè dalla quantità di interesse ricevuto, ma dall'intenzione di ehi prestava, 41) Usure, compere e tendite, cit., pp

19 40 GIANCARLO ANDENNA in quanto il prestito a interesse era un atto totalmente diverso da quello usurario, perché procedeva da una intenzione del tutto diversa da quella usuraria. In questo modo, era possibile proibire l'usura e giustificare per i mercanti la corresponsione di una somma maggiore di quella che si era ricevuta. Ma da tutto ciò non si ricavava, secondo Olivi, che qualsiasi somma di danaro fosse un capitale e pertanto non era lecito pretendere un interesse sulla base del semplice possesso di una somma di moneta, come oggi è correntemente accettato dai teologi. Olivi al contrario non voleva dimostrare -la potenziale lucrosità del danaro-, desiderava solo salvaguardare che alcuni atti, formalmente usurari, poiché richiedevano la restituzione di qualcosa in più di quanto si era dato, non erano peccato in quanto dettati da una retta intenzione. Così egli negava la potenzialità economica della semplice moneta, riservandola solo al capitale, danaro già inserito, almeno come progetto concreto, nel processo produttivo" In questo modo fu anche possibile per Olivi superare un altro grave problema, quello dello sconto, di segno opposto a quello dell'interesse. Se viene pagato anticipatamente un debito, il debitore può legittimamente chiedere uno sconto; infatti il capitale con cui viene risolta la pendenza economica, potrebbe essere realmente impegnato dal debitore in altre operazioni commerciali e quindi egli, pagando in anticipo, rinuncia ad un suo diritto, quello di usare con profitto il danaro per tutto il tempo che si era pattuito. Il prezzo di questa vendita, non del tempo, come volevano i precedenti teologi, ma del diritto personale del debitore sul tempo, rappresenta appunto lo sconto" I concetti relativi alla produttività del capitale e alla liceità dello sconto erano ormai chiari nella mente del teologo e di molti mercanti, si trattava di una idea ormai acquisita, ma non lo furono per i contemporanei di Olivi e per i suoi successori, troppo influenzati dal pensiero di Tommaso d'aquino, che su questi argomenti seguiva in modo letterale l'insegnamento dei teologi tradizionalisti e che ad esempio sul problema dello sconto riteneva che usuraio dovesse essere considerato il debitore, in quanto pretendeva di dare un prezzo, ricevendone il controvalore, allo scorrere del tempo" 42) A. SPICCIANI, II capitale del mercante, l'interesse e lo sconto, cit., pp ) Ibidem, pp ) A. SPICCIANI, Pietro di Giovanni Olit'l indagatore della razionalità economica, cit., p. 69.

20 PRESTITO, INTERESSE E USURA IN ETA' COMUNALE 41 Per queste ragioni teologiche e per le condanne che Olivi subì, come 'spirituale' sia da vivo sia da morto, ivi compreso l'ordine di bruciare tutti i suoi libri, le sue idee economiche non si diffusero; per caso furono conservate sotto diverso nome, quello di fra Gerardo da Siena, in codici trecenteschi, che furono trascritti nei primi decenni del XV secolo da Bernardino da Siena, Dall'opera del predicatore francescano a sua volta li copiò il grande vescovo Antonino da Firenze, la cui Summa moralis diffuse le idee dell'olivi entro la società toscana e italiana, ma come espressione del pensiero del grande francescano osservante senese". Era il primo passo per giungere ai Monti di Pietà della seconda metà del Quattrocento, influenzati da problematiche diverse e da una differente temperie storica, di cui non è mio compito qui trattare. Solo nel 1953 il francescano Dionisio Pacetti, a cui era stato affidato il lavoro preparatorio per l'edizione dell'opera omnia di Bernardino da Siena, ricomponendo la biblioteca privata dell'osservante senese, fu in grado di attribuire a Pietro Olivi" i trattati relativi alla figura e alla professionalità del mercante, ai concetti di giusto prezzo e di capitale, nonché alla liceità del prestito a interesse e dello sconto, che costituiscono, come ha scritto Raoul Manselli, uno dei pilastri nel quadro della cultura dell'occidente medievale" 45) R. DE ROOVER, San Bernardino of Stena and Sant'Antonino of Plorence. Tbe Two Great Economie Thinkers of the Mtddle Ages, Boston, Mass., 1967; A. SPICCIANI, Sant'Antonino, san Bernardino e Pier di Giovanni Olivi nel pensiero economico medioevale, in -Economìa e Storìa-, XIX (1972), pp ; ID., Note su sant'antonino economista, in -Econornia e Storia-, XXII (1975), pp ) D. PACE1TI, Un trattato sulle usure e le restituzioni di Pietro di Giovanni Olivi falsamente attribuito a fra Gerardo da Siena, in -Archìvum Franciscanum Hìstoricum-, XUV (1953), pp ) R. MANSEW, Il pensiero economico del Medioevo, in Storia delle idee politiche, economiche e sociali, diretta da L. FIRPO,Il, Torino 1983, pp t18, 865.

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