Non essere. Giuseppe Barzaghi Paul Clavier Franca D Agostini Massimo Donà Olga Lizzini Paolo Pagani

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4 Anno maggio/agosto Non essere Contributi di Giuseppe Barzaghi Paul Clavier Franca D Agostini Massimo Donà Olga Lizzini Paolo Pagani Gaetano Rametta Carlo Scilironi Davide Spanio Luigi Vero Tarca Mauro Visentin

5 ISSN Periodico quadrimestrale dello Studio Filosofico Domenicano, della Provincia San Domenico in Italia Via dell Osservanza, Bologna BO Tel Fax acquisti@esd-domenicani.it Autorizzazione del Tribunale di Firenze del 19 aprile 1948 n. 13 Direttore: MARCO SALVIOLI - divusthomasdirettore@esd-domenicani.it Comitato editoriale: Alberto Ambrosio, Giuseppe Barzaghi (direttore responsabile), Giovanni Bertuzzi, Giorgio Carbone, Diana Mancini, Flavio Mi noli, Tommaso Reali. Collaboratori: Fernando Bellelli, Erio Castellucci, David Černý, Alberto Cevolini, Marianna Rascente, Claudio Testi. TUTTI I DIRITTI SONO RISERVATI Edizioni Studio Domenicano - Grafica di copertina: Domenico Gamarro I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale con qualsiasi mezzo, compresi i microfilm, le fotocopie e le scannerizzazioni, sono riservati per tutti i Paesi. Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% del volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall art. 68, commi 4 e 5, della legge 22/04/1941, n Le riproduzioni diverse da quelle sopra indicate, e cioè le riproduzioni per uso non personale (a titolo esemplificativo: per uso commerciale, economico o professionale) e le riproduzioni che superano il limite del 15% del volume possono avvenire solo a seguito di specifica autorizzazione scritta rilasciata dall Editore oppure da AIDRO, Corso di Porta Romana 108, Milano, segreteria@aidro.org L elaborazione dei testi, anche se curata con scrupolosa attenzione, non può comportare specifiche responsabilità per eventuali involontari errori o inesattezze.

6 DIVUS THOMAS Rivista quadrimestrale ABBONAMENTI 2016 un anno due anni Italia ordinario biblioteche, enti, agenzie ecc. 100,00 160,00 Italia ridotto persone fisiche e privati 60,00 100,00 Estero ordinario biblioteche, enti, agenzie ecc. 190,00 330,00 Estero ridotto persone fisiche e privati 150,00 240,00 Serie completa , sconto 80% 4.838,00 967,60 Serie completa , sconto 50% 1.398,00 699,00 numero singolo 30,00 I singoli quaderni si possono acquistare anche pres so l Editore. PAGAMENTI Bonifico bancario c/c numero tenuto presso Poste Italiane SpA intestato a Edizioni Studio Do me ni cano IBAN IT 49 W BIC B P P I I T R R X X X Bollettino postale ccp intestato a Edizioni Studio Do me ni cano Non si accettano assegni. Il contratto di abbonamento ha durata annuale e si intende cessato con l invio dell ultimo numero di annata. Il rinnovo utile ad assicurare la continuità degli invii deve essere effettuato con versamento della quota entro il 31 gennaio del nuovo anno. Si prega, ad ogni versamento, di indicare sempre il codice di abbonamento assegnato e l anno di riferimento del canone.

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8 7 SOMMARIO INTORNO AL NON ESSERE Studio Filosofico Domenicano Bologna MATTIA CARDENAS DAVIDE SPANIO Presentazione 15 FRANCA D AGOSTINI Il nulla e altri esistenti impensabili: una rilettura del De nihilo et tenebris L importanza del De nihilo et tenebris Analisi del testo Dall antifrasi all elenchos Videtur Ragione o rivelazione? Dal nome alla cosa La creatio ex nihilo La limitazione della conoscenza Le due tesi conclusive La pensabilità del nulla: osservazioni preliminari 31 Riassunto 41 Abstract 42 GAETANO RAMETTA Non-essere e negazione nella Logica di Hegel 43 Riassunto 73 Abstract 73

9 8 DAVIDE SPANIO Nihil, ex nihilo. Un percorso filosofico Parmenide: Essere, Non essere Mythoi e logoi Essere L aporia del nulla. Sospensione ed esito Essere determinato La determinazione dell essere Il passare dell essere Il nulla della determinazione Ambiguità del non essere Il teorema ontologico Gentile. Evocare il mondo, pensare il mondo Il precipizio ontologico Il futuro del mondo Identità e non contraddizione L interlocuzione originaria Gentile: ex nihilo Logica e fenomenologia del nulla Autoctisi del nulla? 98 Riassunto 100 Abstract 100 GIUSEPPE BARZAGHI Creazione dal nulla o relazione fondativa 102 La prospettiva 102 L esigenza dell oltrepassamento 105 La visione ex parte Dei 108 La struttura 109 Sub specie aeternitatis 110

10 9 La dialettica 111 Il teorema di creazione 112 L originario 116 Le vie teoretiche della fondazione 119 Riassunto 121 Abstract 121 LUIGI VERO TARCA Verità del non essere Confusionis confusio : la paradossale natura dei problemi filosofici I problemi filosofici come problemi esistenziali Le due facce, quella positiva e quella negativa, della proposizione filosofica Il tratto negativo della verità filosofica e il ruolo del non essere: la giustificazione dell innegabilità della verità dell essere Problematicità della verità innegabile: la trappola del negativo I due sensi della fondazione e i significati della negazione La distinzione tra la differenza e la negazione dell identità: la pura differenza La riformulazione della proposizione filosofica e la verità del non essere Il significato etico-esistenziale della testimonianza della verità del non essere 145 Riassunto 150 Abstract 151

11 10 PAOLO PAGANI Ex nihilo A che cosa ci riferiamo con il termine non-essere Essere, non essere, pensiero La funzione semantizzante del non essere Discussione dell aporia del nulla L aporia del nulla in Anselmo La questione del non-essere nella metafisica della trascendenza e della creazione La differenza meontologica Indicazioni sulla creazione Premessa Introduzione alla via del divenire Il punto di partenza di una via del divenire Primo passaggio argomentativo Secondo passaggio argomentativo Terzo passaggio argomentativo Quarto passaggio argomentativo Esito della sequenza argomentativa La questione dell ex nihilo Filone di Alessandria L ex nihilo in Agostino Il contributo di Anselmo Il contributo di Tommaso Nota su Suarez Approfondimenti sul nihil dell ex nihilo Necessità di introdurre l ex nihilo Una considerazione dialettica del positivo Lo statuto del nihil dell ex nihilo Superamento di un equivoco 186

12 Sulla positività del finito Una falsa dialettica Accuse arbitrarie alla teoria della creazione Nota sulla contingenza 189 Riassunto 190 Abstract 191 MAURO VISENTIN La negazione e il nulla 192 Riassunto 207 Abstract 208 NON ESSERE VARIAZIONI FILOSOFICHE SUL TEMA Venezia PAUL CLAVIER Ex nihilo 211 Riassunto 222 Abstract 222 OLGA L. LIZZINI Nihil ed ex nihilo: note sul senso dell agire divino nella metafisica di Avicenna 223 III. Creatio ex nihilo: una ridefinizione 227 III. La ridefinizione nella Metafisica (al-ilāhiyyāt) 236 III. Non essere e totalità dell essere 242 Riassunto 244 Abstract 245

13 12 MASSIMO DONÀ Un gesto estremo. Il volto materiale del ni-ente 246 Sulla materia : una premessa filosofica 246 Sulla materia : un altra possibilità 250 Sulla materia... e il suo ni-ente 254 Riassunto 257 Abstract 257 CARLO SCILIRONI Del nulla o dell inintelligibile 258 Premessa Il pensare trascende il dire Il nulla non è la negazione Impensabilità del nulla: il nulla è l inintelligibile Nulla e concetto limite Nulla e finitezza 268 Riassunto 270 Abstract 270

14 INTORNO AL NON ESSERE Studio Filosofico Domenicano Bologna

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16 DT 118, 2 (2015), pp PRESENTAZIONE Sono qui raccolti gli atti del Seminario di Filosofia teoretica Intorno al non essere (3-4, giugno 2014), promosso ed organizzato dallo Studio Filosofico Domenicano di Bologna e dal Dipartimento di Filosofia e Beni culturali dell Università Ca Foscari di Venezia. Il volume, arricchito dagli interventi della Giornata internazionale di studi veneziana Non essere. Variazioni filosofiche sul tema (20 novembre 2014), ideale prolungamento del Seminario bolognese, segue e accompagna il fascicolo monografico di Divus Thomas 2/2014 dedicato alla questione dell essere. Queste ed altre attività sono il segno di una rinnovata, vivace e concreta testimonianza a favore della filosofia. Malgrado le non poche difficoltà che ostacolano il cammino di coloro che intendono svolgere la loro attività di ricerca a partire dagli exempla della classicità ed in alternativa alle mode nazionali (e non), riteniamo che il progetto volto ad inaugurare un comune spazio di incontro e di dialogo intorno ai temi essenziali della filosofia abbia trovato in queste giornate il proprio luogo d elezione. Occorre più che mai proseguire lungo questa direzione ed il volume, nonché le diverse iniziative già intraprese, esprimono con vigore tale sforzo collettivo che ben richiama il senso del συµφιλοσοφειν. L augurio dunque non può che essere uno: che tale rara e preziosa esperienza di filosofia mantenga il suo spirito originario e che coinvolga sempre più maestri e giovani studiosi. Ad essi va infatti la più sincera gratitudine per la dedizione con cui hanno affrontato l impegnativo lavoro seminariale, dedicato ad uno dei problemi fondamentali del pensiero filosofico. Un particolare ringraziamento, infine, a p. Giovanni Bertuzzi O.P. per il suo prezioso sostegno e a Marina Chirico per il suo infaticabile lavoro di segreteria. Mattia Cardenas Davide Spanio

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18 DT 118, 2 (2015), pp IL NULLA E ALTRI ESISTENTI IMPENSABILI: UNA RILETTURA DEL DE NIHILO ET TENEBRIS FRANCA D AGOSTINI * Pensiamo cose che non esistono, ed esistono cose che non pensiamo. Da ciò Gorgia, nello scritto Sul non essere, deduceva l irreparabile divergenza di essere e pensiero. Evidentemente però abbiamo ragioni per sostenere che esistono anche cose che pensiamo, e almeno in alcuni casi quel che pensiamo risulta esistente. Dunque l argomento di Gorgia non sembra essere così vincolante. Più interessante, quanto al rapporto tra essere e pensiero, sembra il caso degli oggetti che risultano impensabili o inconcepibili (per almeno alcune nozioni di pensiero e concepibilità) e (per alcune nozioni di esistenza ed essere) risultano invece esistenti. In altre parole: gli esistenti impensabili (EI). L obiezione fondamentale è che per sapere (o credere di sapere) che esistono occorrerà pensarli, ma ciò su cui vale la pena riflettere è appunto quale tipo di esistenza e di pensiero siano in gioco nel caso di oggetti (presumibilmente) esistenti, che rappresentano però una sfida per il pensiero. Si può ragionevolmente sostenere che il nulla, l oggetto-nulla (posto che davvero esista questo oggetto, almeno come concetto), è un caso di EI. Ed è questa sostanzialmente la tesi dell epistola * Insegna Logica e Filosofia della Scienza all Università Statale di Milano e al Politecnico di Torino. Tra i suoi libri: Analitici e Continentali (1997), Disavventure della verità (2002), Verità avvelenata (2010), I mondi comunque possibili. Logica per la filosofia e il ragionamento comune (2012).

19 18 F. D AGOSTINI De nihilo et tenebris di Fredegiso di Tours. Fredegiso sostiene che il nulla è un concetto irriducibile, perché chi nega la sua esistenza si contraddice. Lo stesso essere dicibile del nulla, il suo emergere nel linguaggio come nomen e vox significativa, ci dice che il suo esistere (esserci) è necessario, visto che non riusciamo a disfarcene. Fredegiso sostiene anche, però, che dire che cosa sia il nulla e come sia fatto realmente non ci è dato: come non ci è dato dire né capire come siano fatti gli angeli, o le anime degli uomini. Sappiamo dunque, indubitabilmente, che il nulla c è, ma non sappiamo né possiamo sapere come sia 1. In quel che segue, presenterò brevemente l epistola e le ragioni per cui è particolarmente importante per la storia della metafisica, e della riflessione filosofica in generale ( 1), quindi offrirò un esame dettagliato del testo ( 2), infine cercherò di valutare le tesi di Fredegiso nella prospettiva delle teorie contemporanee sulla natura e la pensabilità del nulla ( 3). 1. L IMPORTANZA DEL DE NIHILO ET TENEBRIS 2 Nel mese di marzo dell anno 800, mentre Carlo Magno presidiava le coste della Normandia infestate dai pirati, al palazzo di Aquisgrana il diacono Fredegiso, uno degli amici e discepoli che Alcuino aveva portato con sé da York, presentava agli amici della corte palatina l epistola De nihilo et tenebris, o De substantia nihili et 1 L argomento dell Epistola ci offre dunque anche un indicazione circa il problema della priorità di ontologia, come risposta alla domanda che cosa c è?, e metafisica come risposta a come è fatto ciò che c è?, suggerendo che almeno nel caso del nulla si possa rispondere alla prima senza avere una risposta precisa circa la seconda. In questo senso, Fredegiso è d accordo con A. VARZI, On Doing Ontology without Metaphysics, «Philosophical Perspectives», 25, Riprendo qui in parte e in forma rinnovata alcuni argomenti che ho presentato nel lungo saggio premesso alla mia traduzione del De nihilo: F. D AGOSTINI, Il nulla e la nascita filosofica dell Europa, in FREDEGISO DI TOURS, Il nulla e le tenebre, il Melangolo, Genova 1998.

20 Una rilettura del De nihilo et tenebris 19 tenebrarum 3. L Epistola è uno dei documenti più noti e discussi dell alto medioevo. Ne esistono quattro codici e sei edizioni critiche 4. Nonostante l estrema brevità e le molte perplessità che ha suscitato, il De nihilo et tenebris resta uno dei punti di riferimento essenziali per la valutazione della rinascita carolingia, ed è tra i primi testi filosofici originali della transizione dall età tardoantica al medioevo. Nel testo Fredegiso prende posizione su un tema che era all epoca frequentemente dibattuto: la natura e il significato dei termini indicanti privazione, come appunto nulla e tenebre. Usando argomenti logico-grammaticali ed esegetici, Fredegiso dimostra che parole come nihil e tenebrae designano cose effettivamente esistenti. Nel dire nulla noi ci intendiamo, comprendiamo il significato della parola: dunque deve esistere qualcosa che indichiamo con questo termine; allo stesso modo diciamo tenebre, non ci limitiamo a dire non luce, dunque dovrà anche in questo caso esistere un designato. Inoltre ripetutamente la Bibbia e i testi dei Padri si riferiscono al nulla e alle tenebre, alludendo a qualche sostanzialità o realtà dell uno e delle altre: il mondo è stato creato ex nihilo; Dio separò le tenebre dalla luce; le tenebre «erant super faciem abyssi» Sarebbe colpevole, avverte Fredegiso, non credere ai testi sacri, o pensare che essi cadano in errore. 3 La lettera ci è stata tramandata con i due titoli. C. Gennaro, nella sua edizione critica (C. GENNARO, Fridugiso di Tours e il De sub stantia nihuili et temnebrarum, Cedam, Padova 1963), sceglie De substantia nihili et tenebrarum, io preferisco l altro titolo, e ne spiego le ragioni storico-filosofiche in F. D AGOSTINI, Il nulla e la nascita filosofica dell Europa, in FREDEGISO DI TOURS, Il nulla e le tenebre, il Melangolo, Genova I codici sono: Pat. Nat. Lat. 5577, ff. 134r-137r [P]; Vat. Reg. Lat. 69, ff. 90v-93r [V]; Bruxelles, Bibl. Royale de Belgique 9587, ff. 51v-53r [B1]; Bruxelles, Bibnl. Royale del Belgique 9587, ff. 168r-170-r [B2]. Le edizioni critiche più recenti sono: E. DÜMMLER, Epistolae Krolini Aevi, in Monumenta Germaniae Historica, Weidman, Berlin 1895 [il testo che ho seguito nella traduzione]; F. CORVINO, Il De nihilo et tenebris di Fredegiso di Tours, in «Rivista critica di Storia della Filosofia», 1956 (11), pp ; C. GENNARO, Fridugiso di Tours e il De substantia nihili et tenebrarum, Cedam, Padova 1963, pp

21 20 F. D AGOSTINI Più avanti presenterò in dettaglio lo sviluppo delle tesi di Fredegiso, ma vorrei ora indicare in sintesi le ragioni per cui ritengo che la lettera costituisca un documento importante, non solo per la storia della filosofia, ma per la riflessione filosofica in generale. Le ragioni sono essenzialmente tre. La prima ragione è che nella lettera si esprime quel tipo di argomento confutatorio (elenctico) che è la scoperta filosofica della Grecia classica, e che gli intellettuali della corte carolingia chiamavano Usia Graeciae, il modo dei greci 5. Ritroviamo l argomento in particolare nel Proslogion di S. Anselmo. Chi dice che Dio non esiste implica, per le peculiari caratteristiche del concetto di cui parla, che Dio esiste, dunque si contraddice. L argomento di solito viene usato in funzione fondazionale, e più precisamente per confermare l innegabilità (o irriducibilità) di concetti fondamentali, come verità o realtà o bene (che si possono chiamare concetti an-elenctici, refrattari alla confutazione). Così viene usato da Socrate nei dialoghi di Platone, e da Aristotele nel IV libro della Metafisica. Sull argomento esiste una letteratura sterminata 6. Quel che è interessante nell Epistola è che un abbozzo di argomento confutatorio viene usato non per dimostrare l innegabilità della realtà, della verità, di Dio, come ens supremo e perfettissimo, ma appunto l innegabilità del nulla. Da questo punto di vista diventa interessante ed emblematico l accostamento con S. Anselmo, il quale conosceva senz altro l Epistola 7. La tesi di Fredegiso è che nel suo essere nominato e pensato, il nulla si rivela esistente. Anselmo nota che nel suo semplice essere pensato e detto Dio rivela il suo indubitabile esistere. La formulazione stessa è molto simile: «non appena [il negatore del nulla] 5 Cfr. J. MARENBON, From the Circle of Alcuin to the School of Auxerre. Logic, Theology and Philosophy in the Early Middle Ages, Cambridge University Press, Cambridge Una sintesi si trova in F. BELLISSIMA e P. PAGLI, La consequentia mirabilis, Olschki, Firenze La continuità tra il De nihilo et tenebris e la formazione della logica e della filosofia del linguaggio anselmiane è stata sottolineata da più autori, e in particolare da I. SCIUTO, La semantica del nulla in Anselmo d Aosta, in «Medioevo», 15, 1989.

22 Una rilettura del De nihilo et tenebris 21 dice nihil», scrive Fredegiso, deve ammettere che il nulla esiste; «non appena l insipiente sente il nome di Dio», scrive Anselmo, deve ammettere che Dio esiste: dum dicit nihil cum audit nomen Dei; dum dicit, cum audit, sono precisamente le due formule evidenziali con cui i due autori presentano la stessa struttura argomentativa. La seconda ragione è legata alla metodologia di Fredegiso. Gli argomenti dell Epistola, sia per il nulla che per le tenebre (ma qui ci occuperemo solo del nulla), sono, come si è detto, di due tipi: esegetici, e linguistici. Si potrebbe anche dire: ermeneutici, e di analisi del linguaggio. Come sappiamo, l impostazione ermeneutica e quella analitica sono le componenti principali della «filosofia linguistica» del Novecento. La prima è stata caratteristica di una parte consistente della filosofia continentale, europea, mentre la seconda si colloca alle origini dello stile analitico, diffuso specialmente in America e in generale nei paesi di lingua inglese. Le due impostazioni hanno avuto uno sviluppo parallelo e in buona parte non comunicante, e sono state a lungo considerate (e in parte sono considerate tuttora) incompatibili. Nell Epistola si esprime invece un ipotesi di integrazione. L autore usa consapevolmente l analisi logico-grammaticale dei concetti e l interpretazione testuale, allo scopo di confermare la sua tesi. Le risorse filosofiche del linguaggio sia come fatto testuale che come fatto logico-grammaticale sono ampiamente sfruttate: e si vedranno le interessanti conclusioni che Fredegiso riesce a trarne. La terza ragione riguarda più da vicino il tema del nulla, un tema che ha un importanza del tutto particolare per la filosofia carolingia e l alto medioevo in generale, ma costituisce anche un filo conduttore che collega gli interessi metafisici dei carolingi (mutuati da Boezio, e dalla tradizione stoica e agostiniana) alla riflessione ontologico-metafisica contemporanea, di ogni orientamento. L esistenza delle cose designate dai termini non denotanti è infatti un tema cruciale per tutta la tradizione analitica, e anzitutto per un autore che i filosofi analitici più tradizionali hanno considerato soprattutto per prenderne le distanze, e che oggi ha invece ricevuto nuovo interesse. Si tratta di Meinong, la cui tesi basilare è:

23 22 F. D AGOSTINI ci sono oggetti che non esistono 8. Questa tesi, in fondo, non è molto scandalosa, se si ricorda che proviene dalla lettura che Brentano (maestro di Meinong) fece della Metafisica di Aristotele, sottolineando la questione della multivocità dell essere. La tesi del meiningismo è: l essere si dice in molti modi, ma come Aristotele stesso riconosce si dice anche del non essere, di ciò che non esiste. Le ricadute di questa tesi sul piano logico, metafisico, semantico, sono importanti. E salta agli occhi immediatamente l affinità con gli argomenti di Fredegiso. I carolingi non conoscevano le opere ontologiche di Aristotele (e conoscevano solo in parte quelle logiche), ma l impostazione che Fredegiso dà al problema ha, come vedremo, importanti punti di contatto con la tesi meinongiana. D altra parte la riflessione sulla negatività, sia essa intesa, in termini hegeliani, come «l immane forza del negativo» o, in termini nietzscheani, come forza critica del negare, è un elemento essenziale della riflessione ontologica non analitica, tanto nell ermeneutica quanto in altre correnti. Questa riflessione nella filosofia continentale si è concentrata in modo intenso (e quasi esclusivo, per un certo tempo) proprio sulla problematica del «nichilismo europeo». Le riflessioni carolingie sulla natura del nulla, dunque, costituiscono un singolare aggancio dei primordi della filosofia europea nascente con la sua fase terminale, e (a detta di molti) critica. 2. ANALISI DEL TESTO Siamo di fronte a una questione «indiscussam inexaminatamque», oppure considerata «impossibilem ad explicandum»; i «molti» che se ne sono occupati non sembrano essere pervenuti a un risultato definitivo. Dopo averla svolta a lungo «tra me e me», confessa Fredegiso, ho deciso di sciogliere i nodi da cui era avvinta e consegnare infine la mia soluzione alla posterità. La questione da risolvere è così formulata: «nihilne aliquid sit, an non»: se il nulla sia qualcosa o non lo sia. Il discorso si sviluppa 8 Una recente ricostruzione del dibattito è offerta da F. BERTO, Existence as a real property. The ontology of meinongianism, Springer, Dordrecht 2013.

24 Una rilettura del De nihilo et tenebris 23 in due fasi. La prima è dedicata alla soluzione del problema in senso stretto, ossia la risposta alla domanda: il nulla esiste, ovvero è una cosa, è qualcosa? La seconda è dedicata all indagine su che cosa è e come è il nulla. Conviene subito notare (circostanza forse non adeguatamente rilevata dalla critica) che, come vedremo, alla prima domanda l autore dà una risposta affermativa, mentre alla seconda non dà alcuna risposta, o meglio dichiara che è impossibile rispondere: così il nulla, ad avviso di Fredegiso, è qualcosa (aliquid) di esistente, ed esiste (o meglio è esistito), ma non si può dire con esattezza che cosa sia (sia stato) Dall antifrasi all elenchos L esordio dell Epistola è l antifrasi del nulla 9. Il negatore del nulla, mentre dice (dum dicit) «il nulla non esiste» o «il nulla non è nulla», al tempo stesso conferisce al nulla un esistenza, dunque simultaneamente ottiene il contrario di quel che intende ottenere con le sue parole: afferma invece di negare, assegna, invece di togliere, l esistenza al nulla. Fredegiso sta qui riferendosi a un problema di sintassi logica del linguaggio, che interpreta come impossibilità di negare il nulla. Altri testi provenienti dal circolo di Alcuino, proprio in quegli anni, affrontavano lo stesso argomento. La premessa si trova nel gioco lanciato da Agostino nel De magistro, che è una delle fonti molto probabili dell Epistola: Transeamus ergo inc, quomodo se habet, ne res assurdissima nobis accidat. Quae tandem? Si nihil nos teneat, et moras patiamur. («Sorvoliamo dunque su questo argomento, affinché non ci accada una cosa totalmente assurda. Che cosa? Che nulla ci trattenga, e tuttavia siamo trattenuti» [dal nulla, appunto]). 9 Definibile come un espressione che significa il contrario di quel che dice, l antifrasi viene a volte anche definita «ironia a una sola parola» (cfr. B. MORTARA GARAVELLI, Manuale di retorica, Bompiani, Milano ). Un esempio tipico di antifrasi è il quadro dal titolo L Allegria raffigurante un paesaggio di estrema desolazione autunnale.

25 24 F. D AGOSTINI Le testimonianze della presenza dell antifrasi nell ambiente frequentato da Fredegiso sono moltissime. Nella Disputatio Pippini Alcuino proponeva l indovinello: quid est quod est et non est? Che cos è ciò che è e non è? E il figlio di Carlo rispondeva: nihil (nulla), intendendo tanto: il nulla è e non è nello stesso tempo, quanto: non c è nulla che sia e non sia nello stesso tempo. Il componimento in versi di Teodulfo di Orlèans, dal titolo Delusa expectatio, presenta un fanciullo che racconta al padre di aver sognato un bue capace di parlare, e quando il padre chiede che cosa mai il bue gli abbia detto, il fanciullo risponde: nihil. Se ha detto la parola nulla ha parlato, ma se è nulla ciò che ha detto, allora non ha parlato affatto. D altra parte, come ha mostrato d Onofrio (1991), il De nihilo et tenebris appartiene alla tradizione delle teorizzazioni prearistoteliche sui termini negativi: una tradizione che va da Agostino ad Alcuino, Fredegiso e Teodulfo, da Scoto Eriugena a Pier Damiani e Anselmo. E si può pensare che uno snodo cruciale in questa tradizione sia proprio dovuto all Epistola di Fredegiso, visto che, come scrive Marcia Colish, i dibattiti sul nulla e concetti affini «agitarono i maestri carolingi dall 800 fino almeno all 860» 10. L eccentricità di Fredegiso è però evidente, e non si tratta soltanto, come è stato detto, di una «ingenuità» del nostro autore, che prende sul serio le nominalizzazioni, non vedendone il carattere di gioco verbale 11. In particolare, mentre in Agostino e negli altri autori la nominalizzazione del nulla genera una contraddizione (niente ci trattiene, e perciò siamo trattenuti; dico nulla e perciò dico nulla e qualcosa nello stesso tempo), in Fredegiso il gioco antifrastico si trasforma in una affermazione elenctica di innegabilità; il quod est et non est non è uno scherzo, semplicemente perché consiste nel presentarsi di un problema. L impossibilità di negare il nulla costituisce infatti la prima evidenza, il primo enigma che dà l avvio al discorso. Se non è possibile o è difficile per ragioni logico-grammaticali 10 M. L. COLISH, Carolingian Debates over Nihil and Tenebrae: A Study in Theological Method, «Speculum», 59, 1984 (4). p Come sostiene SCIUTO (La semantica del nulla in Anselmo d Aosta, cit.), la differenza tra l argomento di Fredegiso e quello di S. Anselmo consisterebbe nel fatto che il secondo avrebbe una più chiara visione del carattere linguistico e non ontologico del fenomeno.

26 Una rilettura del De nihilo et tenebris 25 negare l esistenza del nulla; se il nulla è nel linguaggio quod est et non est, ciò che nello stesso tempo è e non è, allora occorrerà prendere una decisione al riguardo, tentare una dimostrazione razionale che permetta di uscire dall impasse Videtur Nel passaggio dall antifrasi all elenchos un ruolo cruciale è svolto dal videtur. Con un leggero slittamento dal piano iniziale, l autore precisa che già nel mi sembra della formula mi sembra che il nulla non sia è incluso un qualcosa oggetto d esperienza. L esperienza è comunque e sempre esperienza di qualcosa, dice ragionevolmente Fredegiso, ciò che assolutamente in nessun modo è non può essere esperito, neppure come assente. «Quod si aliquid esse videtur, ut non sit, quodammodo videri non potest» 12. Occorre prestare attenzione a questo scarto, perché mette in campo implicitamente una seconda figura dell argomentazione, una figura che si potrebbe chiamare la continuità dell esperienza. L esperienza continua a essere esperienza di fronte al nulla, e alla mancanza; anche il negativo sta dentro all esperire: esso appare fenomenicamente come qualsiasi altra cosa. Siamo di fronte a un elenchos analogo a quello che Agostino mette in campo nei Soliloqui per dimostrare l innegabilità della verità: «se tutto il mondo perisse e con esso la verità stessa, sarebbe vero che il mondo e la verità stessa sono periti» («verum erit veritatem occidisse», II, 3). La verità `fa orizzonte, diventa luogo onniabbracciante, e include anche la fine della verità; allo stesso modo, l esperienza è l orizzonte onnicomprensivo in cui si manifesta anche l esperienza del nulla, dell assente. Ora Fredegiso aggiunge: fino a quando il negatore del nulla si mantiene alla proposizione semplice il nulla non esiste, vale l argomento, ma se egli si spinge ad affermare il seguente enunciato complesso: mi sembra che il nulla sia nulla e non sia qualcosa ( Videtur mihi nihil nec aliquid esse ), allora le cose cambiano: non c è propriamente autocontraddizione. Si può tuttavia affermare senza esitazioni una tesi di questo tipo? Che cosa mi sembra nel sembrarmi del nulla? 12 Cito dai Monumenta Germaniae Historica (cit.),

27 26 F. D AGOSTINI 2.3. Ragione o rivelazione? A questo punto, avverte Fredegiso, sarà necessario mettere in campo, per lo scioglimento dell enigma, due nuove istanze: anzitutto la ragione, quindi l autorità delle Scritture. La struttura dell argomentazione è ben ripartita: tre tesi vengono addotte a partire dall indagine razionale, due tesi vengono derivate dalle Scritture. Il primo gruppo di argomenti risolve il problema ontologico, o referenziale (esiste un referente della parola nulla?), il secondo risolve (o meglio dissolve) il problema attributivo (che genere di cosa è il nulla?). La questione delle autorità in gioco è stata per un certo tempo un punto controverso. I codici P e V, infatti, davano una identificazione di ragione e auctoritas: «deinde auctoritate, non qualibet, sed ratione duntaxat, quae sola auctoritas est». Ciò faceva di Fredegiso uno straordinario ed estremo razionalista: una posizione curiosamente in contrasto con la sua ostinata fedeltà alla lettera delle Scritture. Per risolvere l enigma si sono avanzate varie proposte, fino a quando la scoperta del codice B1, dove al posto di ratio compare divina, ha permesso di chiarire l enigma: non qualunque auctoritas, ma l autorità divina. L autorità divina agisce come discrimine razionale: in caso di dubbio, abbiamo a disposizione questa fonte di primaria importanza. Il fraintendimento è però interessante, perché ci fa capire una peculiarità dell Epistola: il mantenersi fedele al linguaggio, alla materialità e letteralità del testo, colloca Fredegiso, in certo modo, al di là dell antagonismo tra ragione e rivelazione. Nella rivelazione stessa Fredegiso trova elementi di conferma di ciò che la semplice razionalità linguistica dei carolingi (a cui lui anzitutto si appella) è in grado di scoprire Dal nome alla cosa Fredegiso passa quindi a svolgere l argomento che definisce «razionale». Egli osserva che, in primo luogo, quando pronunciamo un nome, per esempio uomo, pietra, albero, comprendiamo la cosa da esso designata. In secondo luogo, nulla è un nome finito (ut grammatici asserunt), e come ogni nome finito significa qualcosa, cioè si riferisce (refertur) a qualcosa (esattamente: la cosa che comprendiamo ). In terzo luogo, nulla è una vox significativa, è un

28 Una rilettura del De nihilo et tenebris 27 suono dotato di significato. Ogni significato si riferisce a ciò che significa come a qualcosa di esistente, ed è impossibile che il qualcosa così designato non sia: «Ex hoc etiam probatur non posse [nihil] aliquid non esse», conclude Fredegiso. Poiché la significazione, il designato del nulla, è qualcosa, questo qual-cosa deve (non può non) essere esistente. In questa teoria realistica del riferimento si concentrano alcuni concetti-chiave delle teorie semantiche diffuse all epoca di Fredegiso. Anzitutto, il concetto aristotelico di nomen finitum: presente tanto nel commento boeziano alle Categorie, quanto nello scritto pseudoagostiniano Categoriae decem, molto citato da Alcuino, che era forse il più diffuso testo di logica negli anni in cui Fredegiso operava. Inoltre il concetto ricorre nei manuali di grammatica, e i gramatici a cui accenna Fredegiso sono quasi certamente Donato e Prisciano, oltre ad Alcuino stesso 13. Secondariamente, va considerata la nozione di origine stoica di vox significativa o semantiké phoné, di cui si serve ancora Boezio nel Commento alle Categorie, e che di nuovo figura nel Categoriae decem 14. L accenno al dato fenomenologico, cognitivo ( comprendiamo ), che apre l argomentazione, ricalca l intellectus, terzo elemento del processo significativo che si trova nella letteratura altomedievale dedicata alla categorialità. A partire dunque dalle disponibilità logiche della sua epoca Fredegiso poteva facilmente inferire l esistenza del nulla come res designata dalla vox significativa. Molti commentatori hanno sottolineato i limiti della semantica qui proposta da Fredegiso. Il nostro autore non contempla l eventualità che l aliquid designato da nihil possa essere esclusivamente mentale: una parola senza cosa, come suggerisce Alcuino stesso nella Disputatio Pippini ( nomen est et res non est ). L idea di un referente esclusivamente mentale, nota Marcia Colish, è d altronde presente in tutte le teorie semantiche dell epoca. Perché Fredegiso non tiene conto di questa soluzione? L opinione di Colish è che egli avesse dimenticato o letto troppo affrettatamente il De dialectica di Alcuino. 13 Lo confermano tanto MARIO MIGNUCCI (Tradizioni logiche e grammaticali in Fredegiso di Tours, in Actas del V Congresso internacional de filosofìa medieval, Nacional, Madrid 1979, vol. II) quanto COLISH (Carolingian debates, cit.). 14 Cfr. F. CORVINO, Il De nihilo et tenebris, cit.

29 28 F. D AGOSTINI Vi sarebbe dunque nell Epistola un identificazione di essere e linguaggio erronea anche rispetto all insegnamento di Alcuino. Eppure, mantenendoci al testo, ci accorgiamo che Fredegiso sta presentando una posizione del tutto particolare, la cui premessa è precisamente l eliminazione dell intermedio tra essere e linguaggio. Quel che vediamo e in cui stiamo è l essere, quel che vediamo e interpretiamo è il linguaggio: la sfera del mentale è l oscura connessione, senza traccia, che dovrebbe legare l uno all altro: ma ne abbiamo davvero bisogno? Sembra di no. Di questo testualismo di Fredegiso sono interessanti soprattutto le conseguenze sul piano ontologico. Fredegiso dice che il nulla è qualcosa, e qualcosa che possiamo comprendere come tale, ma non specifica la natura del qualcosa di cui si tratta, se abbia un esistenza fisica, spirituale, potenziale, mentale o attuale. Tale dimensione del problema non lo riguarda realmente. Ciò è perfettamente giustificato, se si considera che l epoca in cui Fredegiso si muove è «prearistotelica» nel senso di: premetafisica, perché la metafisica aristotelica mancava ai carolingi. Che tuttavia egli avesse una percezione del problema metafisico, ossia avvertisse la necessità di specificare ulteriormente la res o meglio l aliquid a cui era pervenuto, è dimostrato dal successivo svolgimento del discorso La creatio ex nihilo Considerando dunque dimostrata l esistenza dell aliquid-nulla, si tratta ora di comprendere la sua natura, e a tale scopo è necessario ricorrere all autorità delle Scritture. La lettera del testo biblico ci fa capire, scrive Fredegiso, che il nulla esiste, è qualcosa, e probabilmente (anche se non possiamo dirlo) è una cosa piuttosto grande («etiam magnum quiddam»), poiché la Chiesa dice in modo unanime ed esplicito che tutte le creature furono prodotte dal nulla: «divinam potentiam operatam esse ex nihilo terram, aquam, aera et ignem, lucem quoque et angelos, atque animam hominis». La collocazione del nihil nella scena creazionale è all origine di quella serie di interpretazioni dell epistola che a partire dall Ahner 15 hanno voluto cogliere 15 M. AHNER, Fredegis von Tours. Ein Beitrag zur Geschichte der Philkosophie im Mitteralter, Böhme und Drescher, Leipzig 1878, p. 42.

30 Una rilettura del De nihilo et tenebris 29 nel riferimento alla teoria dell ex nihilo l intento fondamentale dell autore. Diversi passi dell opera agostiniana anticipano su questo punto il testo di Fredegiso 16. Nelle Confessioni (XII, 8), Agostino scrive: «Tu enim Domine, fecisti mundum de materia informi, quam fecisti de nulla re pene nullam rem». L abisso primordiale, egli spiega, «era un tutto assai vicino al nulla, perché era ancora assolutamente informe, pur essendo tale da poter assumere una forma. Tu, o Signore, hai tratto il mondo da una materia informe [Sap., 11, 18], un quasi nulla da te tratto dal nulla, per trarne le grandi cose che noi, figli degli uomini, ammiriamo» 17. Tanto l impostazione quanto la soluzione del problema divergono però profondamente in Agostino e in Fredegiso. Tra il nulla assoluto (increato) e il mondo, Agostino colloca il quasi nulla (prope nihil) della materia, invece Fredegiso non riconosce questa fase intermedia. Egli mantiene la questione creazionale (ossia il nulla prima dell essere ) legata alla dimensione logico-grammaticale: il nulla dentro la frase, il nihil come vox significativa, soggetto di enunciazione, è lo stesso nulla che esisteva prima del mondo. La connessione tra i due piani appare illuminante: così come non è necessario porre un concetto (un entità mentale) quale intermedio tra nome e cosa, allo stesso titolo Fredegiso non reputa necessario porre un quasi-nulla tra il nulla e l essere del creato La limitazione della conoscenza La peculiarità della posizione di Fredegiso si può allora misurare considerando la natura del problema: si tratta di concepire il primadell essere a partire, in definitiva, dai soli strumenti che ci sono dati, i quali appartengono all essere e vi restano profondamente legati. Come pensare e dire il nulla, visto che il linguaggio e il pensiero si svolgono sempre solo riferendosi all essere, e l essere domina il linguaggio? 16 Cfr. in particolare F. CORVINO, Il De nihilo et tenebris di Fredegiso di Tours, in «Rivista critica di Storia della Filosofia», 11, A. AGOSTINO, Confessioni, tr. it. in Soliloqui e Confessioni, a cura di A. Moda, Utet, Torino 1997, p. 673.

31 30 F. D AGOSTINI La soluzione di Fredegiso è inaspettata. Contro l avviso di Agostino, egli ammette che, se il mondo è stato creato dal nulla, il nulla in qualche modo dovrà esistere o, se non altro, essere esistito, ma non si spinge a dire di che cosa si tratti, e come sia: se sia un altro Dio accanto a Dio, se sia increato o creato, fatto di sostanza materiale o spirituale. Dobbiamo dunque riconoscere, per ragioni logico-linguistiche ed esegetiche, che il nulla è qualcosa, ma non ci è possibile dire di che cosa si tratti, e ciò avviene, dice Fredegiso, proprio perché noi stessi, e tutta la creazione, proveniamo dal nulla. Come può un elemento della natura valutare e definire la natura stessa?, si domanda il nostro autore. È interessante notare che, come si è suggerito (cfr. la nota 1), se intendiamo ontologia e metafisica nel senso indicato da Achille Varzi in varie opere 18, per cui la prima sarebbe la ricerca filosofica su ciò che «c è» o esiste, mentre la seconda specificherebbe «come è fatto ciò che esiste», Fredegiso sta sviluppando una ontologia del nulla senza metafisica. Abbiamo una soluzione al problema ontologico: il nulla c è; ma non a quello metafisico: come sia fatto resta non specificato. L acquisizione positiva di cui abbiamo notizia a partire dall indiscutibile giudizio della «Chiesa tutta», cioè la tesi dell originarietà del nulla, è dunque corretta dal ricordo della finitezza della nostra comprensione. Il nulla c è (sicuramente c è stato), ma non possiamo pensarlo-conoscerlo, dunque è decisamente un esistente impensabile: il suo occorrere innegabile nel linguaggio (e nella rivelazione) ci rivela gli strani limiti della conoscenza metafisica: la perfetta (indubitabile) conoscenza di qualcosa che supera le capacità umane di conoscenza. A conclusione del discorso si presenta un passo che è stato giudicato ambiguo, ma che si spiega forse come un ultima offensiva contro il negatore della realtà del nulla. La sostanza della tesi è: se qualcuno volesse appuntarsi sulla incomprensibilità di questo nulla anteriore alla creazione per decretarne l inesistenza e l ineffabilità, dovrà considerare che anche altre cose, di cui comunemente si parla come esistenti, sono incomprensibili e indefinibili. Parliamo di 18 Cfr. in particolare Ontologia, Laterza, Roma-Bari 2005.

32 Una rilettura del De nihilo et tenebris 31 angeli, anima, luce, pur non conoscendone, in fondo, la natura: non perciò decidiamo che la luce, gli angeli, le anime non esistono. Allo stesso modo, parliamo del nulla, pur non conoscendone l entità, la collocazione e le caratteristiche, e d altra parte, se il nulla è l increata origine degli angeli, della luce e delle anime, a maggior ragione non conoscendo quelli sarà difficile sperare di conoscere la natura di ciò che ne costituisce la condizione increata Le due tesi conclusive Possiamo allora ripercorrere gli ultimi passaggi di Fredegiso nel modo che segue. La domanda inespressa è: se il nulla esiste, in che cosa consiste, e come mai non ne abbiamo conoscenza? Fredegiso formula, a quanto sembra, le seguenti risposte: 1. noi proveniamo dal nulla, dunque non possiamo valutarlo, perché nessuna cosa può valutare e capire ciò da cui proviene; 2. in fondo, di molte altre cose non abbiamo una esatta cognizione, per esempio di quelle prime cose che provengono dal nulla, come angeli, anime, luce: perché dunque non dubitiamo dell esistenza delle anime, degli angeli e della luce, se non ne conosciamo la natura con esattezza, non più di quanto comunque conosciamo la natura del nulla? Fredegiso sfiora così una conclusione che solo molti secoli dopo apparirà plausibile. Egli mette in luce che, per rispondere alla domanda sull esistenza, occorre partire dal linguaggio, non c è altro modo. Il linguaggio di cui si tratta è insieme testo e lingua concettuale, logica ed ermeneutica. Tuttavia, il linguaggio nelle sue due dimensioni è solo la voce dell essere, ma non è l essere. Di questo Fredegiso è perfettamente consapevole: e le sue conclusioni sono appunto chiare: il linguaggio (la sintassi logica, i testi) ci dice un modo d essere del nulla, rivelandoci la sua irriducibilità, la rivelazione ci conferma il suo collocarsi nella zona che anticipa l essere (il creato). Ma l uno e l altra non ci dicono nulla di più. 3. LA PENSABILITÀ DEL NULLA: OSSERVAZIONI PRELIMINARI Poiché pensiamo Dio, abbiamo il concetto di Dio e abbiamo il nome Dio, non possiamo né pensare né dire che Dio non esiste.

33 32 F. D AGOSTINI Questo ci dice S. Anselmo. Poiché pensiamo il nulla, e ne abbiamo il nome e il concetto, dobbiamo pensare e dire che il nulla esiste. Questo ci dice Fredegiso. La critica classica a questo genere di argomenti è quella suggerita da Kant, nell Unico argomento per una prova dell esistenza di Dio: dal mero pensiero di una cosa non possiamo dedurne l esistenza; dall esistenza di una parola non possiamo dedurre l esistenza della cosa designata. Un argomento buono (sound) ha premesse vere, e inferenza valida; dunque un argomento si discute mostrando che le premesse non sono vere, o mostrando che l inferenza non è valida (o entrambe le cose). Kant evidentemente discute l inferenza, ossia dà per assodato che abbiamo il pensiero-concetto di Dio, e pensiamo un essere perfettissimo, dotato di tutti i possibili predicati, però sostiene che da ciò non ci è legittimo derivare l esistenza di Dio. Volendo, si può applicare lo stesso ragionamento al nulla: abbiamo il concetto e il nome nulla, ma da ciò non ci è lecito derivarne l esistenza. Ma potremmo anche adottare una diversa strategia, e chiederci se in definitiva non siano le premesse a costituire l errore. Ci chiediamo allora: (a) davvero possiamo pensare il nulla? (b) davvero possiamo nominarlo, ossia: esiste davvero questo nome? Vediamo prima la perplessità (b), e consideriamo due punti di riferimento contemporanei: Carnap e Meinong. (b1) Rudolf Carnap, nel famoso articolo su Il superamento della metafisica mediante l analisi logica del linguaggio, discute Che cosa è la metafisica? di Heidegger, e in particolare critica ciò che Heidegger in quel testo dice del nulla 19. L argomento di base di Carnap consiste nel mostrare che l espressione il nulla è insensata, in quanto viola la sintassi logica del linguaggio. Infatti nulla è solo la negazione dell espressione esiste almeno un che in logica si chiama quantificatore esistenziale. Da questo punto di vista, dire il nulla è come dire l anche, o il purtutta- 19 R. CARNAP, Il superamento della metafisica mediante l analisi logica del linguaggio, tr. it. in A. PASQUINELLI, Il neoempirismo, Utet, Torino 1969.

34 Una rilettura del De nihilo et tenebris 33 via o il benché. Chiedersi se il nulla esista o sia qualcosa è come chiedersi se esistano l anche o il benché. Nell ottica di Carnap i giochi dei carolingi e di Agostino, e naturalmente la stessa lettera di Fredegiso, sarebbero semplici insensatezze, divertissement irrilevanti. Il problema dell esistenza o dell esserci di una cosa o non-cosa chiamata nulla è uno pseudo-problema, e come tale va dissolto. La discussione sul tema è stata in seguito molto ampia 20, ma quel che ci interessa ora osservare è che, se è vero che l antifrasi, come tale, non ha grande interesse sul piano logico-ontologico, è anche vero che, come si è visto, Fredegiso non ha del tutto torto nel prendere sul serio i giochi di Agostino, di Alcuino e dei suoi compagni. Infatti, almeno un argomento contro Carnap è piuttosto decisivo. Non possiamo dire che con il nulla intendiamo qualcosa di esattamente equiparabile a l anche o il benché, perché con l espressione il nulla ci riferiamo a qualcosa che, se l universo (dunque la totalità degli esseri che noi consideriamo esistenti) ha avuto un inizio nel tempo, doveva in qualche modo esserci. Se ciò è vero, c era qualcosa, ossia precisamente il nulla, prima che qualsiasi cosa vi fosse in assoluto. Ma ciò è contraddittorio. Questo significa forse che non si può dire che l universo abbia avuto un inizio nel tempo: ma allora non c è stata creazione. Anche supponendo che l ottica creazionale non sia da noi accettata, possiamo senz altro prendere questa decisione ontologica spensieratamente, e ammettere che l essere che conosciamo non abbia avuto alcun inizio? Se con la parola nulla noi denotiamo il complesso problematico costituito dall idea che l essere è stato creato, ha avuto una storia, una vicenda, allora occorre capire in quale senso c era un prima e un dopo, e in quale senso, invece, prima non c era propriamente nulla, e il nulla stesso non era un essere che in qualche modo vi fosse. Ecco dunque il problema che pone Fredegiso: se c era un prima del tempo, c era un essere che non era (ancora) essere. Questo esserci nel passato di ciò che non è mai stato né mai sarà è linguisticamente e concettualmente problematico: ma perché non dovremmo per l appunto provare a «sciogliere», come dice Fredegiso, l enigma? 20 Cfr., per un quadro aggiornato, M. SIMIONATO, The Metaphysics of the Empty World, Tesi di Dottorato Università Ca Foscari, Venezia 2015.

35 34 F. D AGOSTINI (b2) Posto che il nome nulla sia sintatticamente plausibile, e con esso si intenda il prima dell essere, e l altro dall essere, che senso ha chiedersi se il nulla esista, o sia esistito, o anche: se sia o sia stato qualcosa? Sarebbe come chiedersi che tipo di azzurro ha una cosa che non è azzurra, ovvero: che cosa è ciò che non è? Dobbiamo riferirci ora a una seconda questione, che è senza dubbio uno dei punti cruciali dell Epistola. Si tratta dell esistenza degli oggetti designati dai nomi non denotanti, un problema cruciale per lo sviluppo di tutta la tradizione analitica. Il dibattito sull argomento è dominato da due posizioni che si profilano con una certa chiarezza negli ultimi decenni del secolo scorso: i quineani (da Willard V. O. Quine) e i meinongiani (da Meinong). In estrema sintesi 21, i primi non ammettono una sostanziale differenza tra esserci ed esistere, i secondi invece ammettono che tale differenza vi sia, e che vi siano oggetti che non hanno propriamente esistenza spazio-temporale. Ricordiamo che Quine ha fondato l ontologia analitica più ortodossa identificando il c è del quantificatore esistenziale in logica con l esiste ontologico: quando dico esistono gatti intendo dire che c è qualche x che ha la proprietà G (G = essere un gatto). Questa soluzione sembrava semplificare molto il quadro dell ontologia, permettendo un immediato aggancio della logica (in particolare la semantica dei quantificatori) alla metafisica, e alla riflessione su ciò che esiste e non esiste. Il meinongismo consiste nell ammettere che ci siano oggetti non esistenti, e ciò equivale a liberare il quantificatore esistenziale dal predicato di esistenza, ammettendo che quando diciamo esistono gatti non intendiamo c è qualche x che è G, ma piuttosto: ci sono nel mondo attuale oggetti che hanno la proprietà G o anche: c è qualche x che è un G e sta nel mondo. Ora è abbastanza evidente che l identificazione di c è ed esiste proposta dai quineani lascia aperti molti problemi. Per esempio: ci sono le emozioni? Dal momento che ne parliamo, e le pensiamo e le proviamo, ci sono, ma non possiamo dire propriamente che esistono. 21 Seguo sostanzialmente D. LEWIS, Noneism or allism?, in ID., Papers in Philosophical Logic, Cambridge University Press, Cambridge, 1999; e P. VAN INWAGEN, Metaontology, in ID., Ontology, Identity, Modality. Essays in Metaphysics, Cambridge University Press, Cambridge 2001.

36 Una rilettura del De nihilo et tenebris 35 Ci sono le guerre, ma possiamo dire che esistono, come oggetti determinati in senso spazio-temporale? Forse esistono i singoli eventi di guerra, ma non c è la guerra come tale. E poi c è il mio mal di testa, ma non esiste come fatto fisico, bensì, se mai, come un fatto mentale che «sopravviene» su una collezione di reazioni chimiche cerebrali. Ma se ci fermiamo al c è, tutto questo c è comunque, e non c è alcuna differenza tra l essere mentale, o ideale o funzionale e l essere che esiste. Per questo i quineani tendono a concludere che tutto esiste (o c è): il predicato di esistenza, privo di antiestensione, viene annientato. Come si vede: la semplificazione di Quine sembra generare non poche difficoltà. La soluzione dei meinongiani sembra più plausibile e intuitiva. Consiste essenzialmente nell ammettere che parliamo di molti oggetti, pensiamo molti oggetti, ma non tutti gli oggetti a cui pensiamo e di cui parliamo esistono. Un oggetto è in effetti in logica una qualsiasi entità che possa essere caratterizzata, cioè a cui si possano assegnare predicati. Dal punto di vista meinongiano, un oggetto caratterizzato, sia pure in modo abbozzato e incompleto, c è, dunque diremmo: non è necessario per l esserci dell aliquid designato un nomen finitum. Per esempio, i figli di Kant, posto che Kant non ha mai avuto figli, ci sono, in quanto sono pensati e caratterizzati, la montagna dorata c è in quanto è pensata e caratterizzata; anche il quadrato rotondo c è, in quanto è caratterizzato come qualcosa che è quadrato, ed è anche rotondo. Ma ammettere che questi oggetti ci sono non ci vincola affatto ad ammetterli come esistenti. Kant non ha mai avuto figli, non ci sono mai state nel mondo attuale (a quanto sappiamo) montagne dorate, e la convergenza delle proprietà essere quadrato ed essere rotondo non può darsi in natura. (a) Da questo punto di vista, il problema (b) è risolto: abbiamo il nome nulla, e con questo nome indichiamo semplicemente l altro dall essere. Non soltanto: il nulla c è in quanto oggetto formatocaratterizzato. Il nomen, come ritiene Fredegiso, conferisce l essere (l esserci) al designato. Ma occorre ora passare alla questione (a), e chiederci: posto che il nome esista, esiste davvero un designato, almeno nel pensiero? Pensiamo davvero il nulla, come tale? Fredegiso forse non ha torto a ignorare la soluzione mentalista (o concettualista ), ossia l idea del nulla come un pensato non esistente, visto che in fondo, come vedremo, non sembra essere molto risolutiva.

37 36 F. D AGOSTINI La prima questione da notare è che l esserci del nulla nel pensiero sembrerebbe più simile all esserci del quadrato rotondo che all esserci della montagna dorata. In effetti c è una notevole differenza tra i due oggetti che ci sono ma non esistono. Nel caso della montagna dorata, l oggetto in questione non soltanto c è in quanto caratterizzato, ma c è anche in quanto pensabile, figurabile, o anche: possibile (come i figli di Kant, che non sono mai esistiti ma avrebbero potuto esistere). Invece l oggetto quadrato rotondo c è in quanto detto (nomen est) ma forse non è propriamente pensabile, non soltanto non è una res, ma non è neppure un cogitatum. La domanda si può pensare il nulla? sembrerebbe allora equivalere alla domanda: si possono pensare contraddizioni? In effetti molti tra i meinongiani sono anche logici paraconsistenti, che cioè ammettono contraddizioni, e sostengono che alcune contraddizioni non soltanto sono pensabili, ma sono anche in qualche modo esistenti. Ma il concetto di nulla è davvero internamente contraddittorio? E in quale misura riusciamo davvero a pensare la contraddizione di cui si tratta? (a1) Per capire meglio la questione possiamo riferirci a un altro testo classico, il passo della Scienza della logica in cui Hegel affronta l analisi dei concetti di essere e nulla 22. Lì appare anzitutto che il concetto di nulla va inteso come negazione, non dell essere, ma del qualcosa. Per Hegel con nulla si deve intendere l assenza di ogni determinazione: «Il nulla si suol contrapporre al qualcosa. Ma qualcosa è già un ente determinato, che si distingue da un altro qualcosa, e così anche il nulla contrapposto al qualcosa è il nulla di un certo qualcosa, un nulla determinato. Qui però il nulla è da intendere nella sua indeterminata semplicità» 23. La contraddizione emerge dunque per il fatto che nel voler pensare il nulla noi vogliamo pensare la determinata impossibilità di ogni determinazione; in termini meinongiani: intendiamo caratterizzare l assenza di ogni caratterizzazione. Da questo punto di vista, spiega Hegel, appare con chiarezza che il puro nulla coincide perfettamente con il puro essere. Infatti prendiamo, per esempio, una fragola. La fragola è rossa, 22 G. W. F. HEGEL, Scienza della logica, vol. I, tr. it. di C. Cesa, Laterza, Roma-Bari , pp Ivi, p. 71.

38 Una rilettura del De nihilo et tenebris 37 morbida, dolce, acquosa, dotata di fibre, vitamine, ecc. Se noi vogliamo cogliere l essere puro della fragola, il qualcosa che essa è al di là delle sue proprietà, troviamo il «nudo sostrato qualcosa», una x inespressiva, che come tale è un assoluto nulla. Se poi vogliamo cogliere l assenza, il nulla, ci occorre togliere anche questa x. Ecco dunque il coincidere perfetto dell essere e del nulla: che differenza c è tra nulla ed essere, visto che la x che è puramente, senza proprietà, essenzialmente già non c è, prima ancora che sia tolta? È chiaro che questo c è per Hegel è l esserci del pensabile, o conoscibile, o anche: l esserci filosofico, su cui riflettere e discutere. La metafisica di Hegel è tutta interna al linguaggio della filosofia, non è la metafisica come scienza dell essere in sé, totalmente indipendente dal nostro modo di conoscerlo. In questa prospettiva vediamo che la costituzione trascendentale dei concetti di essere e di nulla è identica: in entrambi i casi noi cogliamo il concetto togliendo le determinazioni che rendono conoscibile il determinato. E in entrambi i casi il risultato è l impensabilità del concetto. Per Hegel però i due concetti non sono indistinguibili: «L essere e il nulla son lo stesso, - questa espressione è imperfetta [ ] il senso sembra essere che la differenza venga negata; mentre invece si presenta anch essa immediatamente nella proposizione» 24. La sintesi dei due concetti è in effetti il divenire, in cui entrambi coincidono, restando però distinti. Ma dal punto di vista della pensabilità rispettiva dell uno e dell altro, per Hegel si tratta essenzialmente di abbandonare l «astrattezza» che separa l uno dall altro, cogliendoli come mutuamente connessi. Il nostro fallimento quando cerchiamo di determinare l essere e il nulla non dimostra per Hegel che essi siano davvero inafferrabili, ma piuttosto che la loro determinazione è di tipo speciale: non è come la determinazione dei concetti empirici, come sedia o bottiglia. Per dimostrare il carattere speciale di nulla ed essere Hegel introduce la discussione dell argomento dei «cento talleri» di Kant. Nell Unico argomento per una prova dell esistenza di Dio Kant aveva distinto concetti semplicemente posti, e concetti posti come esistenti: la prima è la posizione della possibilità, nel pensiero; la seconda è la 24 Ivi, p. 79.

39 38 F. D AGOSTINI posizione assoluta, della realtà senza contatti con il pensato 25. Per esempio: ho il pensiero dei cavalli alati, dopodiché cerco di aggiungervi l esistenza, e fallisco; allo stesso modo i cento talleri da me immaginati differiscono dai cento talleri reali, che eventualmente ho nelle mie tasche. Questa però, secondo Hegel, è una teoria che ha un certo rilievo per quel che riguarda talleri e cavalli, ossia per i concetti di cose sensibili (diremmo: determinate in senso spaziotemporale). Ciò avviene essenzialmente perché queste cose ci servono, e abbiamo interazioni empiriche con esse. I cento talleri reali differiscono dai talleri immaginati in quanto i primi hanno una rilevanza patrimoniale ; la sedia solo pensata è diversa dalla sedia reale, poiché, se provo a sedermi sulla prima, cado per terra. Ma, dice Hegel, questo non vale per concetti speciali, come appunto nulla, essere, Dio. Queste speciali essenze onto-teologiche, infatti, non hanno esistenza extraconcettuale: in esse il concetto coincide perfettamente con la cosa. Ed è in questo senso che tali entità esibiscono la necessità nel loro essere meramente concepite, anche se non sono concepibili se non accanto e insieme al loro opposto. (a2) Anche per Hegel, dunque, il nulla (inteso come altro dall essere e assenza di determinazioni e condizioni) è un inevitabile o irriducibile del pensiero, ed esibisce la sua necessità nel suo mero essere concepito, esattamente come l essere, la verità o Dio. Ma resta sempre la domanda: davvero questa inevitabilità ha un contenuto concettuale, di qualche tipo, un pensabile, distinto dal semplice linguaggio in cui la troviamo? Nella domanda il nulla è pensabile?, dobbiamo allora concentrarci non sul nulla ma sul pensabile: che cosa intendiamo per pensabile? Per esempio, pensare significa in questo caso raffigurare, mentalmente o meno? In The Art of the Impossible Roy A. Sorensen ha promesso un premio di cento dollari a chi gli portasse la raffigurazione di una vera impossibilità 26. Non è una grande somma di denaro, perché Sorensen stesso ha il dubbio che in definitiva si possa trovare una simile figura, 25 Cfr. I. KANT, L unico argomento possibile per una prova dell esistenza di Dio, in Scritti precritici, Laterza, Roma-Bari R. A. SORENSEN, The Art of the Impossible, in T. SZÀBO GENDLER e J. HAWTHORNE, cur., Conceivability and Possibility, Oxford University Press, Oxford 2003.

40 Una rilettura del De nihilo et tenebris 39 e nel seguito dell articolo spiega le condizioni che la raffigurazione dovrebbe soddisfare. Per esempio, dovrebbe essere la rappresentazione di un autentica impossibilità, e non una figura impossibile: le scale di Escher o la sirena rovesciata di Magritte (una donna con le gambe di donna e il busto da pesce) sono figure di cose impossibili-inesistenti, non raffigurazioni di impossibilità-inesistenze effettive. Al termine dell articolo, Sorensen sostiene che raffigurare il nulla è comunque impossibile, perché il nulla è per definizione il contrario di ogni raffigurabile. Sullo sfondo dell articolo opera la convinzione, di derivazione humeana, che pensare un oggetto significhi in definitiva raffigurarlo, e il non raffigurabile, anche se dicibile, è impensabile. È una tesi piuttosto estrema, anche se forse ha le sue ragioni. Possiamo discostarcene leggermente, ipotizzando che pensare significhi almeno raffigurare mentalmente, ossia immaginare, e chiederci: possiamo immaginare il nulla? (a3) Intuitivamente, si può procedere per sottrazione. Guardo ciò che mi sta intorno, quindi elimino progressivamente tutto: i mobili, il pavimento, il soffitto, la casa, la strada, le altre case e strade, poi gli alberi, le colline, le pianure, i fiumi, fino a togliere di mezzo la regione, la Spagna, l Europa, e arrivo a ottenere il globo vuoto del mondo-terra. Ciò non sarà ancora, naturalmente, l assoluto niente: fino a che non avrò eliminato dal quadro anche la Terra, il Sole e i pianeti del sistema solare, e le galassie, non potrò dire di aver davvero immaginato il nulla. Ma non soltanto: alla fine del processo, quando tutto, ma proprio tutto, sarà stato tolto, non sarò in grado di eliminare l immagine, sia pure parziale e vaga, di me stessa, responsabile della sottrazione. Questo famoso argomento di irriducibilità è un correlato sul piano immaginativo dell argomento di innegabilità da cui siamo partiti, l argomento elenctico. Esistono concetti innegabili non soltanto logicamente e linguisticamente, ma anche concettualmente, e tra questi senza dubbio è il concetto di essere. Ci è impossibile immaginare l assenza di essere perché l immaginazione richiede esistenza. (a4) Ma ciò vuol dire che allora non possiamo in nessun caso pensare il nulla? Se si identifica pensare con immaginare in termini figurali forse sì, non è possibile: il nulla non è pensabile né concepibile. Ci sono però molte cose che possiamo pensare e anche trattare concettualmente, anche se non possiamo propriamente figurarle o raffigurarle nella mente. Per esempio: gli oggetti matematici, i grandi

41 40 F. D AGOSTINI numeri espressi da potenze, i numeri decimali periodici, espressi da frazioni, rette non tracciabili espresse da equazioni La matematica è un grande repertorio di esistenti impensabili, e cose che ci sono ma forse non esistono. E forse il nulla è pensabile nello stesso modo. L espressione il nulla equivarrebbe allora all espressione 9/7, che contiene l infinito del periodo 1, «in sé racchiuso», come scrive Hegel nella Nota su La determinatezza concettuale dell infinito matematico 27. Ma come avviene questo processo? L operazione che da 9/7 porta a 1, ci è nota, mentre il passaggio da il nulla al vuoto degli spazi cosmici senza cosmo resta un enigma. Visto che l argomento per sottrazione soggettiva è fallito, proviamo allora un argomento per sottrazione oggettiva 28. Un mondo è una totalità compiuta di fatti o stati di cose. Supponiamo che i fatti di cui consiste il nostro mondo siano in numero n, e ipotizziamo il mondo n 1, quindi n 2, ecc. Evidentemente, il mondo n n sarà il mondo vuoto, il mondo-nulla, quello che c era prima del mondo e avrebbe potuto esserci al posto del mondo. Ma significativamente questo mondo-nulla non sarà neppure propriamente un mondo, mancando in esso la condizione della mondità, ossia la presenza di almeno un fatto. Sarà dunque propriamente il nulla: il mondo senza mondo. Questo modo di pensare il nulla è in realtà un modo di costruire il concetto di nulla. E non si tratta di immaginarlo, né di raffigurarlo, ma di derivarlo per inferenza, attraverso un operazione concettuale. In questo senso, il nulla così costruito esiste, ed è pensabile, esattamente come esiste ed è pensabile, per esempio, la radice di due. In effetti possiamo pensare la radice di due, perché possiamo pensare un triangolo rettangolo di cateto 1: in base al teorema di Pitagora, l ipotenusa di quel triangolo sarà effettivamente la radice di due. Non c è dunque una grande differenza nel modo di pensare il nulla rispetto al modo di pensare entità matematiche più o meno complesse come i numeri infiniti. Ma questo vuol dire che il nulla è un concetto matematico, esattamente equiparabile allo zero? In realtà no, e la differenza tra il concetto di nulla e l inizio non nume- 27 G. W. F. HEGEL, Scienza della logica, tr. it. cit., p È il metodo suggerito da T. BALDWIN, There Might Be Nothing, «Analysis», 56 (4), 1996.

42 Una rilettura del De nihilo et tenebris 41 rico della serie dei numeri naturali ci permette di capire meglio la differenza tra l astrazione matematica e quella filosofica. Tra i concetti matematici, lo zero come la radice di due, e il nulla c è almeno una decisiva differenza di contenuto. L operazione che li vede e li costituisce è simile, ma il risultato differisce profondamente. I concetti matematici, infatti, hanno un contenuto esiguo, che si riduce alla loro costruzione. Il concetto di nulla, invece, come ogni concetto filosofico fondamentale, è ampio e impuro, pieno di implicazioni e risonanze culturali. Ha un contenuto vastissimo, che tocca le radici della nostra civiltà e dei nostri modi di pensare e descrivere la realtà, l esistenza di Dio, e anche, cosa di cui i carolingi erano perfettamente consapevoli, le trappole e le risorse del linguaggio, la rivelazione e l enigma dei testi della tradizione. Aveva dunque ragione Fredegiso nel definirlo «magnum quidam ac preclarum» 29. RIASSUNTO L articolo presenta una nuova interpretazione della lettera De nihilo et tenebris di Fredegiso di Tours: uno dei testi più famosi intorno alla natura del nulla (N) come concetto e dato ontologico. Sulla base di un analisi molto dettagliata della lettera, si sostiene che Fredegiso vi difende l esistenza del N con argomenti insieme logico-semantici ed esegetici, e questo metodo combinato di ermeneutica e analisi del linguaggio gli permette di concludere in modo originale e unico sull argomento. Egli infatti afferma che N è un concetto irriducibile, innegabile: non si può affermare che non esista; però riconosce anche che non possiamo pensarlo: esso è dunque un esistente impensabile. L articolo si conclude illustrando l affinità delle tesi di Fredegiso con alcune posizioni contemporanee circa la natura del nulla e il riferimento dei termini non denotanti. 29 Il discorso sulla pensabilità del nulla non si riduce a queste conclusioni: ho destinato gli sviluppi a un altro mio lavoro: F. D AGOSTINI, The Thinkability of Nothing, in A. BERTINETTO e CH. BINKELMANN, eds., Nichts Negation Nihilismus. Die europäische Moderne als Erkenntnis und Erfahrung des Nichts, Würzbug. Königshausen & Neumann, c.s

43 42 F. D AGOSTINI ABSTRACT The article develops a new interpretation of Fredegisus of Tours letter De nihilo et tenebris, which is one of the most well-known texts about the nature of nothing (N) as metaphysical given as well as concept. On the basis of a detailed analysis of the letter, it is stressed that Fredegisus defends the existence of N with semantic as well as exhegetic arguments, and this combined method allows him to conclude in an original and brilliant way. He claims first that N is somehow an irreducible, undeniable concept: we cannot affirm it does not exist; and second, that, despite irreducible and ontologically necessary, N is unthinkable: we must admit that it exists, but we cannot say what is it like. N is hence an existent-unthinkable thing. The article concludes by indicating the interesting connection of Fredegisus theses with contemporary debates about N and the reference of negative terms, and suggesting that the existence of N is to be intended as similar to the existence of mathematical and fictional objects, but with some subtile and interesting differences.

44 DT 118, 2 (2015), pp NON-ESSERE E NEGAZIONE NELLA LOGICA DI HEGEL GAETANO RAMETTA * In questo intervento, mi concentrerò sul problema del non essere e della negazione nella Logica di Hegel. In particolare, mi occuperò di alcuni passaggi contenuti nella prima edizione della logica dell essere, che Hegel pubblica nel , e nella logica dell essenza, pubblicata l anno successivo (1813) 2. Noi sappiamo che la logica dell essere verrà poi rielaborata e pubblicata nel 1832 come primo volume di una nuova edizione dell intera Scienza della logica, che Hegel non porterà mai a compimento per la morte * Professore di Storia della filosofia presso il dipartimento FISPPA (Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata) dell'università di Padova. 1 Cf. G. W. F. HEGEL, Wissenschaft der Logik, erster Band: Die objektive Logik, erstes Buch: Das Sein, 1812, in Gesammelte Werke, Bd. 11, hrsg. von F. Hogemann und W. Jaeschke, Meiner, Hamburg 1978, pp ; trad. it. Scienza della logica. Libro primo. L essere, 1812, a cura di P. GIUSPOLI, G. CASTAGNARO, P. LIVIERI, Quaderni di Verifiche, Trento Da noi abbreviata con la sigla WdL 1812, seguita dal numero dell edizione tedesca e da quello della traduzione italiana. 2 Cf. G. W. F. HEGEL, Wissenschaft der Logik, erster Band: Die objektive Logik, zwites Buch: Das Wesen, 1813, in Gesammelte Werke, Bd. 11 cit., pp ; Scienza della logica, trad. it. di A. MONI, rev. di C. CESA, tomo secondo: La dottrina dell essenza, Laterza, Roma-Bari 1981, pp Da noi abbreviata con la sigla WdL La traduzione delle citazioni, per ragioni di uniformità stilistica e terminologica, diverge talvolta da quella delle edizioni italiane.

45 44 G. RAMETTA sopravvenuta nel frattempo. Preferisco concentrami sulla prima edizione per mantenere una coerenza filologica e cronologica rispetto al secondo libro costituito dalla logica dell essenza. I passaggi su cui focalizzerò la mia analisi sono quelli a mio avviso fondamentali per la definizione di tre concetti: il concetto di negazione, il concetto di negatività e il concetto di negativo. È inutile dirlo: quando parliamo di Hegel, come di ogni altro pensatore autenticamente originale, è indispensabile comprendere in modo rigoroso i concetti di cui parliamo. In questo senso, prima di tutto cercherò di mostrare in che modo Hegel determina questi concetti, definendone le specifiche connotazioni logico-teoretiche. In secondo luogo, cercherò di sostenere una tesi che contrasta con alcune posizioni che, nell ambito della filosofia contemporanea, sono state tra le più rilevanti, sia dal punto di vista teoretico che da quello storico-filosofico. Nel corso del Novecento, il pensiero di Hegel ha avuto diverse rinascenze, ma io mi limiterò a considerare due modalità di confronto e di critica nei confronti di Hegel, che vanno sotto i nomi di Adorno e di Deleuze. Si tratta di due proposte teoreticamente molto forti, e ambedue questi autori cercano di configurare la loro posizione confrontandosi e smarcandosi radicalmente dal discorso hegeliano. Nel caso di Adorno, la discussione si concentra sul concetto di negativo. Adorno ritiene che Hegel tradisca questo concetto costitutivo della dialettica a favore di un ripristino dell identità. L identità riemerge vittoriosa, come «superamento» (Aufhebung) di quelle tensioni e aporie che sono espresse dal negativo, ma che poi Hegel avrebbe preteso di risolvere in una totalità conciliata. Sono tesi che Adorno argomenta nel corso di tutta la sua opera, ma che emergono con particolare evidenza nei Tre studi su Hegel (1963) e nella celebre Dialettica negativa (1966). Nel caso di Deleuze, invece, la critica investe il nesso tra differenza e contraddizione. In quello che secondo me costituisce uno dei capolavori del Novecento, cioè Differenza e ripetizione (1968), egli sostiene che Hegel, attraverso la sua teoria del negativo, inventa un dispositivo logico potente e al tempo stesso infernale per ricondurre la differenza all identità. Quindi, diversamente da Adorno, Deleuze vede nel negativo una

46 Non-essere e negazione nella Logica di Hegel 45 categoria che sembra in grado di rendere giustizia al movimento delle differenze, mentre in realtà, proprio attraverso il processo innescato dalla contraddizione e dal negativo, Hegel trova il modo di subordinare una volta per tutte il molteplice all unità, e la differenza all identità. Io vorrei problematizzare ambedue queste letture, cercando di mostrare come il pensiero di Hegel possa condurre a una filosofia della differenza, benché in senso diverso da quello sostenuto da Adorno e Deleuze. Questo è il senso teoretico degli attraversamenti di carattere filologico che adesso comincio a presentare. Il mio intervento si suddivide in due parti: la prima riguarda la logica dell essere, la seconda la logica dell essenza. 1. Per quanto riguarda la logica dell essere, mi riferirò in particolare a due sezioni comprese nel capitolo sul Dasein. La prima è dedicata al «Dasein come tale» (WdL 1812, 59-66; 80-90); la seconda, immediatamente successiva, è intitolata «Determinatezza» (WdL 1812, 66-78; ). Il termine Dasein viene tradotto normalmente con «esserci», non nel senso di cui parla Heidegger, ma nel senso di «essere determinato». In effetti, Hegel scrive esplicitamente che l «esserci», Dasein, è bestimmtes Sein, è «essere determinato» (WdL 1812, 59; 80). Vedremo come il concetto di negazione sia costitutivo della nozione hegeliana di essere determinato, nella misura in cui essa è già implicitamente contenuta, come condizione, per la definizione del concetto di determinatezza. Qui mi dispiace dover introdurre un ulteriore precisazione tecnica. È fondamentale distinguere, nella logica hegeliana, tra il concetto di «determinatezza» (Bestimmtheit) e quello correlato, ma differente sul piano teoretico, di «determinazione» (Bestimmung). In ambedue questi concetti opera l idea della negazione, ma, come vedremo, questa operatività si sviluppa secondo linee e modalità profondamente diverse. Dopo queste considerazioni introduttive, concentriamoci finalmente sulla sezione dell esserci «come tale», cioè come essere determinato. Siamo immediatamente dopo le prime battute della logica, perché appunto l essere determinato è ciò che emerge dalla dialettica (su cui non mi soffermo) tra essere, nulla e divenire. Ora,

47 46 G. RAMETTA all interno di questa sezione, troviamo un paragrafo che riguarda la nozione di essere determinato come «realtà» (Realität). Anche qui dobbiamo distinguere tra la realtà intesa come Realität, che si colloca sul piano della logica dell essere, e la realtà intesa come Wirklichkeit («effettualità»), che si colloca sul piano della logica dell essenza. Per il momento, noi ci troviamo all interno della logica dell essere. Quindi, d ora in poi, quando parleremo di realtà, intenderemo sempre parlare della realtà come Realität. Si tratta dunque di comprendere da che cosa sia caratterizzata questa ulteriore concretizzazione dell essere determinato. Hegel la presenta nella forma di una unificazione tra due nozioni, inizialmente antitetiche, costituite dall «essere presso di sé» (Ansichsein) e dall «essere per altro». Questi due momenti sono costitutivi della realtà dell esserci. Ciò significa che l esserci, per acquisire realtà, deve essere determinato in pari tempo come diverso da sé, e dunque, pur trovandosi in prossimità con sé, ovvero appunto «presso di sé» (an sich), presenta un lato che lo espone ad un divenire diverso da sé, cioè «altro». Nell esserci come realtà, non siamo ancora di fronte ad un movimento di positiva affermazione nell esistenza, l esserci non si pone ancora come un esistente singolare. L aspetto del divenir-altro da sé, nella realtà dell esserci, sussiste ancora come indifferente accanto al suo trovarsi presso di sé. Inoltre, Hegel precisa che a questa altezza non siamo ancora di fronte alla relazione tra un esserci e un altro esserci, non siamo ancora al rapporto tra due realtà diverse e indipendenti, ma la relazione tra essere presso di sé ed essere per altro coinvolge un unico e identico esserci. D altra parte, proprio perché l antitesi tra questi aspetti non conduce ad uno sdoppiamento dell esserci, bensì costituisce un approfondimento della determinatezza costitutiva dell esserci stesso, essere in sé ed essere per altro vengono abbassati a semplici momenti nel costituirsi dell esserci come realtà. Come si vede, la nozione di realtà permette di superare la dimensione dell immediatezza, all interno della quale l esserci era stato fino ad ora compreso. Anche se i due aspetti che vengono unificati continuano a sussistere l uno di fronte all altro, anche se non siamo ancora in presenza di una unità negativa, che si pone e si afferma come movimento positivo di posizione e annullamento delle differenze,

48 Non-essere e negazione nella Logica di Hegel 47 la realtà, in quanto espressione dell unità tra quei diversi aspetti, mostra che l esserci è diventato un concetto mediato, nel quale essere presso di sé ed essere per altro si riflettono come momenti di un unica realtà. Per questo, Hegel può designare l esserci divenuto realtà come un «esserci riflesso» (WdL 1812, 63; 86). Questo tipo di dialettica, dal nostro punto di vista, è importante perché ci permette di andare al nodo di questa sezione, che è costituito dal concetto di «qualcosa» (Etwas). Si tratta di una nozione cruciale, perché nel qualcosa, secondo Hegel, è racchiuso un inizio di soggettività. Ciò significa che quando l esserci si determina come qualcosa, cominciamo ad entrare nel vivo della problematica della negazione. Rifacciamo brevemente il percorso compiuto fino ad ora. La sequenza logica ha mostrato che l essere, come concetto astratto, è identico al nulla, e in quanto identico al nulla può esistere effettivamente solo nella concretezza del divenire; quest ultimo precipita nell esserci «come tale»; ma l esserci «come tale», in quanto è essere determinato, si costituisce come «realtà» solo nella misura in cui si pone come «riflesso», cioè come superamento, all interno della propria unità, dell incipiente sdoppiamento tra essere in sé ed essere-per-altro. Ma proprio qui sta il passaggio, dal punto di vista di Hegel assolutamente necessario, dalla dimensione della realtà alla dimensione del qualcosa. Perché l essere presso di sé e l essere per altro possano esprimere i due lati di un unica e sola realtà, quest ultima non può limitarsi ad accoglierli passivamente al proprio interno, come due aspetti che sussistono in indifferenza reciproca l uno accanto all altro, bensì deve scaturire positivamente come unità negativa dal loro reciproco superamento. Ciò significa che tali momenti non si distinguono soltanto l uno dall altro, rimanendo indifferenti l uno accanto all altro, bensì confluiscono dinamicamente l uno nell altro. Ciascuno per differenziarsi pone l altro e si dissolve in esso. La realtà dell esserci diventa dunque qualcosa di positivamente affermativo, ed è proprio questo carattere di autoposizione affermativa che sembra contraddistinguere l esserci come qualcosa dall esserci come realtà: «L esserci scrive Hegel è essere-in-sé (Insichsein), e in quanto essere-in-sé esso è esistente (Daseiendes), ovvero qualcosa» (WdL 1812, 66; 89).

49 48 G. RAMETTA La realtà dell esserci, dunque, sfocia nell affermarsi dell esserci come essente, nel suo porsi esplicitamente come un esistente singolare, insomma nel suo determinarsi come qualcosa. Come si vede, il qualcosa, in Hegel, non è presupposto come un dato, ma è il risultato di uno sviluppo dialettico che presenta una notevole complessità, poiché nel concetto del qualcosa l essere per altro, cioè il coinvolgimento del Dasein in un divenire che lo rende differente da sé, viene nuovamente riassorbito all interno del qualcosa stesso. Scrive a questo proposito Hegel: «L essere-in-sé è la relazione dell esserci a sé nella misura in cui il superamento dell essere per altro è un movimento suo proprio» (WdL 1812, 66; 90). Qui non abbiamo più una relazione di semplice indifferenza tra l essere presso di sé e l essere per altro; questi ultimi non costituiscono più, come avveniva ancora nell esserci in quanto realtà, degli aspetti o lati diversi, che sussistono quietamente l uno accanto all altro. L esserci che diventa qualcosa si pone come esistente in se stesso immanente, è il risultato di un movimento di assorbimento dell alterità in se stesso. Siamo in presenza di un identità articolata, che contiene ed esprime un determinato divenire, una incipiente processualità. È nel qualcosa che la negazione per la prima volta diventa non più soltanto una modalità operativa ed implicita, ma la dimensione fondamentale la struttura portante del concetto. E questo significa, per Hegel, che nel qualcosa noi abbiamo per la prima volta un inizio di soggettività. Soggetto si dà in Hegel sempre soltanto come movimento di ripresa in sé di un esser-altro da sé. È la nozione fondamentale dell Aufhebung. Scrive Hegel: «Nel seguito [della Logica] il qualcosa si determinerà in modo più preciso come essere per sé o come cosa, sostanza, soggetto e così via», precisando che «a tutte queste determinazioni sta alla base l unità negativa» (WdL 66; 90). Ma l unità negativa, che cos è? È «la relazione a sé mediante negazione dell esser-altro» da sé (ibid.): definizione di una pregnanza tale, da rendere azzardata la pretesa di voler aggiungere altri termini, alla quale peraltro non è possibile sottrarsi. Limitiamoci a dire che l unità negativa designa in pari tempo una struttura e un movimento: la struttura attiene alla dimensione del riferimento, il movimento al carattere auto-riflessivo di quest ultimo. Si tratta

50 Non-essere e negazione nella Logica di Hegel 49 infatti di un riferimento che nel ripiegarsi su di sé prevede la necessità di esporsi ad altro da sé, ma che, nell accettare il rischio di questa esposizione, scommette sulla sua «potenza» (la famosa Macht des Negativen), cioè la sua capacità di riassorbirla in sé mediante una dinamica processuale. Così conclude infatti il passo hegeliano: «l esserci dunque nel qualcosa è passato nel negativo in modo tale che questo ormai sta a fondamento di tutti i rimanenti movimenti logici» (ibid.). Proviamo ancora una volta a riassumere. L esserci, abbiamo detto, è essere determinato. Lo sviluppo del Dasein in quanto tale pone esplicitamente in rilievo la dimensione negativa implicita nel concetto di essere determinato. La dialettica dell esserci come tale culmina così nel qualcosa (Etwas) come unità negativa che si pone nell identità con sé solo attraverso un movimento di negazione dell esser altro. Mediante tale movimento, la condizione di esteriorità reciproca tra essere presso di sé ed essere per altro viene superata, ed entrambi vengono abbassati a «momenti» del qualcosa come esistente immanente in sé. Vale la pena di insistere sul significato concettuale della differenza qui in questione. Un conto infatti è essere in sé nel senso di essere an sich, e un conto è essere immanenti in sé nel senso di essere in sich. Ad esempio, tutti sappiamo che Kant, quando parla di «cosa in sé», dice Ding an sich, e questa espressione, forse, si potrebbe tradurre anche così: «cosa presso di sé», perché an indica un rapporto di prossimità che mantiene una esteriorità, una relazione esterna tra i termini in questione. Essere presso di sé, essere in vicinanza e in prossimità con sé, indica certo un rapporto che supera la dimensione della pura contingenza, ma non esprime una relazione di effettiva interiorità, di effettiva immanenza a sé. Nel qualcosa, invece, abbiamo il prodursi di questa relazione di interiorità: non nel senso di un intimità che scava sempre più nelle dimensioni della coscienza, non nel senso di un approfondimento riflessivo che all altezza del qualcosa siamo ancora ben lontani dal poter raggiungere, bensì nel senso di un immanenza affermativa, attraverso cui l esserci si pone come esistente (Daseiendes, scriveva Hegel). È da questo punto di vista che il qualcosa non è soltanto un ente affermato come esistente, ma un ente che, nell affermarsi

51 50 G. RAMETTA come esistente, si afferma in una posizione di radicale immanenza a sé, assurgendo così allo statuto di esistente singolare. Ci sembra che l espressione hegeliana «essere-in-sé» raccolga appunto l insieme di tutte queste determinazioni. L essere in sé del qualcosa emerge come una prima forma di interiorizzazione dell alterità, e dunque di arricchimento contenutistico del concetto, in cui la differenza non appare più come esterna, ma compresa in un movimento che è sia di assorbimento e appropriazione, sia di espressione e di ulteriore articolazione. In questo senso, l Insichsein dell Etwas è il segno di una operatività dirompente, costituita da ciò che in questi stessi brani Hegel chiama «il negativo», e noi abbiamo visto emergere più precisamente come «unità negativa», cioè come unità che si istituisce dinamicamente, implicando una relazione all altro che attua il riferimento a sé tramite assorbimento processuale di ciò che, nella sua immediatezza, appare altro ed estraneo rispetto a sé Tuttavia, il progresso costituito dal qualcosa ha, per Hegel, un limite costituito dal carattere indeterminato del qualcosa stesso. È evidente, infatti, che qualsiasi cosa può essere determinata, in quanto esistente, come qualcosa (un computer, un tavolo, un essere umano tutto, nella misura in cui è concepito come esistente, può essere compreso sotto la categoria del qualcosa). Ora, nella misura in cui il qualcosa è l esito di un processo che ha fatto leva sul carattere dell esserci in quanto essere «determinato», si tratta di portare avanti il movimento della determinazione, in modo tale da superare l indeterminazione costitutiva della determinazione stessa del concetto di qualcosa. Il concetto di determinatezza, che dà il titolo alla seconda sezione del capitolo sull esserci, e segue la sezione sull essere come tale, di cui ci siamo occupati finora, costituisce il primo risultato di questo movimento di ulteriore determinazione, innescato dall unità negativa incorporata nel qualcosa, ma che il qualcosa esprime ancora in maniera astratta, cioè genericamente indeterminata. Il capitolo sulla Bestimmtheit avrà dunque il compito di mostrare come l unità negativa, che si è realizzata nel qualcosa, non possa essere contenuta nei limiti del qualcosa, ma proceda oltre l indeterminata generalità di quest ultimo, alla ricerca di una concretizzazione

52 Non-essere e negazione nella Logica di Hegel 51 che dovrà far perdere al qualcosa la sua genericità di partenza, facendogli acquisire un tratto distintivo tale da distinguerne la singolarità, cioè da determinarlo come differente dagli altri qualcosa. Il culmine di questa dialettica fra determinazione, determinatezza e ulteriore determinazione sarà costituito dal concetto di «dovere», nell accezione kantiana di dovere «categorico» (Sollen). Lo sbocco della dialettica del qualcosa nel concetto di Sollen costituirà il momento, all interno di queste sezioni della Logica, del confronto di Hegel con la tradizione critico-trascendentale di Kant e di Fichte. Proviamo a indicare, schematicamente, quali sono i momenti fondamentali di questa procedura di autodeterminazione del qualcosa. Il primo è costituito dal concetto di «limite». Abbiamo visto come l Insichsein implicasse una dimensione di riferimento a sé, di auto-riferimento da parte del qualcosa. L identità con sé del qualcosa si determinava come negazione dell essere per altro, con il quale l esserci doveva porsi in rapporto per affermarsi come qualcosa. In questo modo, il qualcosa si determinava come un concetto ulteriore rispetto a quello dell esserci «come tale», perché presentava un processo di incipiente soggettivazione, cioè di relazione a sé mediata da una relazione negativa all altro da sé. Ora, il concetto di «limite» è chiamato a esprimere positivamente l unità negativa costitutiva del qualcosa, nella misura in cui esplicita che il qualcosa può porsi come identico a sé solo attraverso il respingimento al di fuori di sé di quell essere per altro, con cui esso è appunto in relazione, ma in relazione strutturalmente negativa. Questa esclusione dell altro, che implica evidentemente una relazione con esso (altrimenti non ci sarebbe nemmeno la possibilità di escluderlo), può avvenire in due modi: o nel senso che l essere per altro è negato perché viene riassorbito nell identità con sé, cioè viene incluso nel proprio Insichsein; oppure nel senso che l Insichsein riproduce questa esclusione, iterando la negazione di tutto ciò che non è compreso nella propria immanenza. Da questo secondo punto di vista, il qualcosa come unità negativa non è soltanto l affermazione del proprio essere in sé mediante inclusione dell esser altro, ma implica l esercizio di una rinnovata negazione di quest ultimo, come esclusione da sé di ciò che il qual-

53 52 G. RAMETTA cosa non è. Ciò che il qualcosa esclude da sé è il proprio non essere, cioè il suo proprio non esser-altro. Però, abbiamo appena visto che il qualcosa non potrebbe affermarsi come esistente senza riferirsi a un esser-altro. Quali sono le conclusioni tratte da Hegel? Che il qualcosa non può esistere senza coincidere con il non essere, che pure esso esclude. Tale non essere costituisce dunque l essere vero e proprio del qualcosa; l essere del qualcosa coincide col proprio non essere. Ciò Hegel afferma, quando scrive: «Qualcosa è ciò che è soltanto nel suo limite (Grenze)» (WdL 69; 94). Allora il limite, nel separare il qualcosa da ciò che è altro rispetto ad esso, afferma in pari tempo che l essere del qualcosa si dà solo come essere negativo, cioè in rapporto a ciò che il qualcosa non è. Questa dialettica tra l essere in sé del qualcosa, e l essere del qualcosa in rapporto ad altro, è quanto viene espresso nella nozione di Grenze. Proviamo a vedere meglio: in un primo momento, il limite emerge come ciò in cui l essere del qualcosa cessa di essere in sé, esponendosi alla presa dell essere per altro; ma allo stesso tempo, esso emerge anche come ciò che custodisce il qualcosa nel suo essere in sé, riparandolo di contro alla presa dell esser-altro. Anche nel linguaggio ordinario, quando diciamo che qualcosa raggiunge i propri limiti, vogliamo dire che oltre quei limiti esso smette di esistere, non c è più. Quindi l essere in sé del qualcosa coincide col proprio limite; ma coincide col proprio limite solo nella misura in cui il limite segna anche il punto a partire da cui il qualcosa smette di essere. Il limite designa sia ciò entro cui l essere del qualcosa sussiste, sia ciò attraverso cui l essere del qualcosa viene meno. E allora, Hegel ha buon gioco nel sostenere che l essere del qualcosa coincide col suo non essere; mentre viceversa, il non essere del qualcosa appare effettivamente come il suo essere vero e proprio. Il concetto di «determinatezza» esprime questa reciproca implicazione, posta nel limite, tra l essere e il non essere del qualcosa. La nozione di determinatezza appare dunque inscindibile dall elemento della negazione, e l elemento della negazione determina il senso da attribuire al non essere, quando riferiamo il non essere alla nozione di qualcosa. Il movimento dei concetti ci ha condotto, dal concetto di qualcosa come esistente indeterminato, al concetto di limite come determinatezza in cui l essere del qualcosa coincide col suo non essere, e

54 Non-essere e negazione nella Logica di Hegel 53 il suo non essere coincide col proprio essere. Abbiamo visto che nell Insichsein la negazione si era affermata come dimensione fondamentale del qualcosa; ma tale negazione, nel qualcosa, restava ancora affatto indeterminata. Ora, la contraddizione tra l essere in sé del qualcosa (come unità negativa) e il suo carattere ancora indeterminato sfocia nella deduzione del concetto di «limite» del qualcosa. Il qualcosa, determinato attraverso il proprio limite, mostra che la sua affermazione come esistente coincide con la sua propria negazione. Il concetto di limite è la forma che l unità tra essere e non essere, la cui prima espressione è la categoria di divenire, assume all altezza del qualcosa. Arriviamo dunque al problema di determinare ulteriormente questa unità dinamica tra essere e non essere, a partire dalla contraddizione che si delinea nella nozione di limite. Nella Logica del 1812, Hegel determina tale unità come «mutamento». Siamo di fronte a un livello di concretizzazione logica superiore rispetto alla dialettica iniziale tra essere, nulla e divenire. All altezza del qualcosa, infatti, l unità tra essere e non essere non si esprime genericamente come divenire, ma dà luogo al concetto di limite. Tuttavia, nel limite tale unità si esprime come contraddizione pura e semplice, il che condurrebbe all auto-distruzione del qualcosa; l espressione della contraddizione immanente al limite deve dunque distendersi dinamicamente, in termini di processualità e movimento. Questa realizzazione dinamica si presenta come alterazione del qualcosa, cioè non semplicemente come suo passaggio dall essere al non-essere e dal non-essere all essere, bensì come trasformazione che investe la sua determinatezza in quanto espressione variabile del suo limite. Il mutamento è la nuova modalità dell unificazione tra gli aspetti dell essere in sé e dell essere per altro, che si raccoglievano nel qualcosa come unità negativa; al tempo stesso, esso è la modalità nella quale il divenire si ripresenta a un livello di concretezza logica superiore, corrispondente al concetto di limite del qualcosa. Il divenire non è più semplice passaggio tra le nozioni indeterminate dell essere e del non-essere, bensì assume la forma concettualmente determinata di mutamento che investe la determinatezza del qualcosa, di cambiamento che necessariamente coinvolge le sue molteplici qualità.

55 54 G. RAMETTA Il mutamento, abbiamo detto, è la concretizzazione del concetto di divenire all altezza del limite del qualcosa. Abbiamo un esempio del movimento a spirale di progressivo approfondimento, caratteristico del metodo dialettico. Riprendendo la metafora del «circolo di circoli», che comparirà nella più tarda Enciclopedia, possiamo dire che l esposizione speculativa, nel percorso che la conduce all instaurazione della filosofia come scienza, ripete in modo differenziale il cammino che ha già compiuto una volta. Ma appunto, nel caso di Hegel, non siamo di fronte ad una semplice ricorsività, ma ad un ritorno che produce uno scarto categoriale, e perciò stesso dà luogo alla produzione di nuovi concetti. Si tratta insomma di una ripetizione che procede per affermazione di differenze, attuando il pensiero come esperienza in divenire che, nel suo proprio modificarsi, si cristallizza in configurazioni di concetti che divengono e si trasformano assieme ad essa. La filosofia dà luogo ad un processo di concretizzazione che trasforma, che sposta i risultati di volta in volta acquisiti: non è mai solo ripetizione, ma è una ripetizione che differenzia, e dunque cambia costantemente i termini del discorso. Ecco perché, come aveva ben visto Adorno, è impossibile comprendere Hegel senza assumersi questo lavoro di ripetizione. Ma dal punto di vista più ristretto del nostro percorso, perché l idea di mutamento è così importante? Perché al termine di questo capitolo, Hegel presenta esplicitamente il concetto stesso di negazione. Abbiamo visto che la negazione, fino a questo punto, ha funzionato come fondamentale categoria metodologica, ma non è stata dedotta come tale, cioè come concetto tematicamente derivato all interno dell esposizione. In questo senso, la negazione è emersa con particolare evidenza nel concetto di qualcosa, ma come una categoria per così dire metalogica, cioè come un concetto di cui Hegel si serve per descrivere il movimento interno al concetto di qualcosa. Al termine della sezione sul mutamento, invece, la negazione non sarà più soltanto un concetto impiegato da Hegel per descrivere il movimento delle categorie, ma emergerà essa stessa come categoria: sarà cioè derivata all interno del movimento di autodeterminazione logica, che essa stessa contribuisce a descrivere e ad articolare. Si tratta dunque di ripensare ciò che la dialettica del limite conteneva implicitamente al proprio interno. Abbiamo detto che il limite

56 Non-essere e negazione nella Logica di Hegel 55 mostra il carattere costitutivo dell esser-altro per l essere in se stesso del qualcosa; Hegel riassume questo punto con una formula ancora una volta assolutamente pregnante, in cui dichiara: «L esteriorità dell esser-altro è la determinazione, essente in sé, del qualcosa stesso» (WdL 1812, 73; 101). Ogni parola meriterebbe un commento analitico. Intanto compare il termine «determinazione» (Bestimmung). Qui Hegel non dice più «determinatezza» del qualcosa; dice che si tratta della determinazione del qualcosa. E vedremo il carattere fondamentale di questo slittamento terminologico; inoltre, dice che questa determinazione è an sich (e non in sich); cioè questa determinazione, in quanto interna al qualcosa, fa emergere un elemento di alterità immanente al qualcosa. Ecco perché, trattandosi di un alterità immanente, Hegel non può usare la proposizione in, nella misura in cui appunto si tratta di evidenziare che in questo in riemerge la dimensione dello an, cioè dell essere presso di sé; e come sappiamo, l essere presso di sé implica un elemento di alterità, che questa volta appare come costitutivo dell interiorità stessa del qualcosa. Ma allora, perché si tratta di determinazione e non più di semplice determinatezza? Bestimmung in tedesco ha due significati fondamentali: uno è quello che abbiamo appena indicato; l altro emerge dal fatto che la determinazione viene intesa come risultato di una processualità, di un movimento. Questo spiega perché il termine Bestimmung possa assumere in tedesco anche il significato di «destinazione»: ad esempio, per quanto riguarda il titolo dell opera di Fichte Die Bestimmung des Menschen, la traduzione corretta è La destinazione dell uomo. Non si tratta infatti di una «missione» legata a una decisione o a una libera scelta, ma di una struttura che investe la natura o l essere stesso dell uomo. Tuttavia, questa struttura non è data come qualcosa di compiuto e già fatto; al contrario, l uomo è determinato in rapporto a un identità che implica un movimento, un percorso. In altri termini, l idea di destinazione esprime un orientamento, una linea di condotta diretta all attuazione di un identità che non possiamo presupporre, ma si può istituire solo nel divenire del suo stesso farsi, nel movimento di una processualità libera. Nel nostro caso, si tratta di capire in che modo questa stratificazione semantica del concetto di Bestimmung operi in rapporto all Etwas. In un primo momento, Bestimmung sembra indicare la

57 56 G. RAMETTA pretesa dell Etwas di chiudersi rispetto all esser-altro, di restringersi all interno del proprio limite. È il tentativo di costituire un identità auto-consistente, separata da tutto ciò che è differente da sé. L importanza di questi passaggi sta nel mostrare il carattere totalmente illusorio di questa pretesa. Vorrei sottolineare, per inciso, le implicazioni etiche di una logica di questo tipo, che mostra il carattere immaginario dell aspirazione a costituire un identità chiusa all interno del proprio limite. Il qualcosa che si chiude all interno del proprio limite, per difendersi contro l irruzione dell altro, proprio nel suo limite mostra di essere già catturato in una relazione con l altro. Di qui l innesco di una nuova dialettica, in cui il limite, da criterio costitutivo e auto-affermativo dell identità con sé, diventa luogo di una contraddizione che spinge l Etwas ad oltrepassarlo, facendosi altro da sé. In questa nuova figura, il limite non rappresenta più la linea di confine che protegge e ripara, ma si trasforma in Schranke, cioè in una «barriera» che impedisce al qualcosa di realizzare la propria destinazione. Nel limite, il qualcosa non trova più il suo essere, ma il suo non essere; il limite non è più simbolo di accertamento e rassicurazione nell identità, ma è la sua negazione. Anche se resta implicito, appare evidente il riferimento a Fichte: in effetti, tutta la dialettica tra io e non io è legata alla percezione, da parte dell io, di un «impedimento», di un «ostacolo» che emerge proprio nella misura in cui il limite è sentito come limitazione, spingendo il soggetto al suo oltrepassamento. Ma allora dobbiamo chiederci: qual è la condizione in base a cui la Grenze si trasforma in Schranke? Come facciamo a sentire qualcosa come uno sbarramento e un ostacolo? Evidentemente, se il limite, in rapporto all Etwas, assume il significato di barriera che impedisce il movimento della determinazione, vuol dire che in esso qualcosa è già andato oltre quel limite. Quest ultimo subisce dunque una trasformazione in senso dinamico, correlativa a quella che segnava il passaggio dalla «determinatezza» intesa come qualità data, come naturalità presupposta (concetto statico), alla «determinazione» come movimento di attuazione, da parte del qualcosa, della sua «destinazione» (concetto dinamico). Il limite diventa in questo senso limitazione: non è più un confine tracciato una volta per tutte, staticamente dato, ma uno sbarramento suscettibile di essere sca-

58 Non-essere e negazione nella Logica di Hegel 57 valcato, un ostacolo che può e, come vedremo, deve essere costantemente spostato. Ecco allora perché, da una parte, nel qualcosa è contenuto un germe di soggettività, l inizio del soggetto; dall altro, perché questa figura ancora elementare del soggetto ha come suo concetto centrale l idea di Bestimmung. All interno del concetto di Bestimmung, infatti, emerge una strutturale ambivalenza, che costituisce la radice inestirpabile dell inquietudine (Unruhe) che contraddistingue il qualcosa come «unità negativa». L inquietudine del qualcosa sta nel fatto di essere e non essere il proprio limite, di essere al di qua e al di là del proprio limite; di avere nel limite la condizione della propria identità e al tempo stesso la barriera che lo separa da essa. La Bestimmung è il concetto espressivo di questa ambivalenza, di questa assenza di pacificazione. Siamo in presenza di una nuova contraddizione, di una nuova figura del «negativo». Il concetto che esprime l aporeticità contenuta nella «determinazione» del qualcosa è quello del Sollen, del «dovere» inteso come dovere «categorico». E qui, trattandosi del Sollen, il riferimento a Kant e a Fichte diventa ancora più marcato. Proviamo ancora una volta a riassumere. Da una parte, l Etwas è presso di sé, acquietato nella propria Grenze; ma al tempo stesso, poiché la Grenze, lungi dall essere la positiva determinazione del qualcosa, è una limitazione e una barriera che lo separa dalla sua destinazione, anche la nozione di Bestimmung diventa espressione di una costitutiva negatività, facendo insorgere la nozione del Sollen, cioè di «dovere». Al termine di questo movimento, dunque, il Sollen emerge come la Bestimmung del qualcosa. Siamo in presenza di una nuova dialettica: tutto si decide nelle relazioni tra Sollen e Schranke. Il dovere è emerso come determinazione del qualcosa, nel senso che in esso l essere del qualcosa si esprime come qualcosa che ancora non è. Il qualcosa è un ente che ancora non è, ma che attende di essere; e viceversa, in ciò che esso è, nella sua propria «costituzione» o natura, non si esprime l essere del qualcosa, ma il suo non essere. Ciò che il qualcosa è di fatto non costituisce il suo essere, bensì al contrario il suo non essere, perché nega la determinazione espressa dal dovere come destinazione del qualcosa. La Bestimmung, come dovere, è quindi l unità contraddittoria di determinatezza e destinazione, ed è destinazione solo perché la deter-

59 58 G. RAMETTA minatezza, lungi dall essere qualificazione positiva del qualcosa, ne costituisce l immanente negazione. D altra parte, la determinatezza, come definizione positiva del qualcosa mediante il suo limite, costituiva appunto il qualcosa nella sua peculiare realtà. Se ora questa realtà mostra di esistere soltanto come determinazione negativa, cioè come barriera, ciò significa che la verità del qualcosa non è costituita dalla sua realtà, ma dalla negazione della sua realtà nella sua pretesa di corrispondere all essere del qualcosa. In proposito, scrive Hegel: «La determinatezza è negazione in generale» (WdL 1812, 77; 106). Ma più precisamente questa negazione è duplice, perché racchiude in sé sia il momento della determinatezza come ostacolo, sia il momento del dovere come negazione della determinatezza in quanto prima negazione. Ecco allora il carattere logicamente decisivo del Sollen, nella misura in cui esso costituisce la prima figura del concetto hegeliano di negazione della negazione. Scrive Hegel: «La negazione in quanto Sollen è negazione della negazione e dunque negazione assoluta» (WdL 1812, 77; 107). Negazione assoluta perché, nel negare ciò che il qualcosa è di fatto, il dovere si afferma come negativo e quindi ripristina un unità e una identità con sé proprio attraverso la negazione di quella prima forma di negazione che era la determinatezza. La negazione è assoluta, perché si dispiega in un movimento di negazione attiva (cioè come negatività) nei confronti di ogni momento inizialmente presupposto come positivo, che attraverso il movimento stesso della negazione si dimostra come negativo. Hegel sottolinea come la verità del movimento tra i due aspetti della negazione sia costituita dal Sollen, proprio perché il Sollen incorpora al proprio interno il movimento di affermazione della negazione come movimento della negatività. «Negatività» infatti non è semplicemente negazione, ma è il movimento di affermazione della negazione, è il processo in cui la negazione si dispiega come potenza del negativo. A questo punto, penso di poter omettere alcuni passaggi, e di arrivare alla conclusione di questa prima sezione del mio intervento attraverso la citazione di un altra frase, da cui emerge il rapporto dell idea di negazione con il concetto della realtà. Scrive Hegel: «Nel Sollen la negazione si afferma come ciò che è veramente reale

60 Non-essere e negazione nella Logica di Hegel 59 e come ciò che è veramente in sé» (ibid.). La negazione è l autentico reale ed essere in sé. Quindi in tutto questo movimento la logica hegeliana emerge come una logica della negazione. D altra parte, questa negazione si esprime in termini di negatività, sia perché è un processo di affermazione attiva della negazione, sia perché è una processualità che non conduce la negazione a generare qualcosa di diverso da sé, ma a ripristinarsi in identità con se stessa. Abbiamo visto che la negazione, nel Sollen, nega la determinatezza come prima negazione, e si afferma come negazione della negazione. Questo movimento è espresso dal termine di negatività, e a proposito della negatività Hegel scrive: «Questa negatività è la base astratta [base astratta qui significa base generale] di ogni idea filosofica e del pensiero speculativo in generale» (ibid.). E poi, sempre in riferimento implicito a Kant e a Fichte, egli aggiunge: «Del concetto di negatività noi dobbiamo dire che è soltanto l età moderna che ha cominciato a comprenderlo nella sua verità» (ibid.). Quindi sembra che il carattere essenziale dell età moderna sia costituito proprio dall aver posto al centro delle sue riflessioni questa nozione di negatività. Naturalmente, Hegel dice che l età moderna ha cominciato a comprendere, perché Kant e Fichte hanno posto il problema della negatività, ma non lo hanno compreso nella sua autentica verità; e siccome Kant e Fichte sono i pensatori del Sollen, del dover essere, è chiaro che Hegel ci sta dando un indicazione sul fatto che il dovere è sì negazione della negazione, è sì espressione della negatività, ma evidentemente in questo concetto c è ancora qualcosa che non funziona. Che cos è che non funziona, che cos è che costringe il pensiero ad andare oltre il Sollen? La risposta di Hegel consiste nel mostrare la forma specifica di riferimento a sé che la negazione instaura mediante il Sollen. In effetti, nel momento in cui diciamo che il Sollen è negazione della negazione, sembra di essere arrivati ad una totalità compiuta. E allora, perché dovremmo andare ancora oltre, se siamo in presenza di una negatività che è già «assoluta»? È chiaro che il problema riguarda il tipo di autoriferimento che il Sollen introduce rispetto al qualcosa. Quale sarebbe dunque il difetto del Sollen? In estrema sintesi, possiamo dire che il Sollen, per Hegel, presuppone ancora come data la determinatezza che nega.

61 60 G. RAMETTA Il dovere è in presenza di una determinatezza, di una certa «costituzione» che esso nega, ma che da parte sua non ha posto. Per esempio, la natura determinata che ciascuno di noi si trova ad essere la determinazione sessuale, il luogo della propria nascita, l ambito della propria famiglia, della propria cultura, del proprio status è inizialmente qualcosa di dato. Il dovere ha a che fare con questo insieme di determinazioni, che non sono state prodotte attivamente dalla soggettività. Esso si limita a negare la corrispondenza tra ciò che è dato come nostra natura e la nostra destinazione più alta, il nostro essere autentico. In questo modo, il dovere attiva il movimento della costituzione di sé, che si esprime nel concetto di Bestimmung. Ma il punto di partenza è qualcosa di dato, di passivo, che deve essere assunto come tale. Ecco perché il Sollen non permette di pensare, secondo Hegel, in modo veramente concreto il concetto dell auto-riferimento, cioè la struttura del soggetto come relazione di sé con sé. Questo riferimento a sé si trova sempre impedito effettivamente da un dato che compare in qualità di presupposto. In conclusione, la dialettica del Sollen e il concetto della Bestimmung non riescono a liquidare la nozione di presupposto, costituito dall essere la natura del qualcosa assunta come data, cioè come mera Bestimmtheit come un essere determinato in un modo o in un altro, ma comunque in modo indipendente dall attività del qualcosa. Per questo, anche se il Sollen cerca d innescare un movimento di auto-costituzione da parte del soggetto, tale movimento si trova perennemente inceppato dal sorgere di ostacoli sempre nuovi. Quindi è chiaro che se il dovere esprime il movimento della negatività, questa negatività rimane condizionata da un elemento che, in quanto determinatezza, è meramente dato, e dunque destinato a riprodursi incessantemente al cuore di quella stessa negatività che lo nega. Ecco allora che la Schranke, che il dovere aveva come obiettivo di superare, si rivela costitutiva della nozione stessa di dovere. Il Sollen, che doveva porre il qualcosa come ulteriore rispetto alla Schranke, rivela di essere la Schranke che limita il soggetto: rivela cioè di essere l altra faccia di quella determinatezza assunta come puramente data, che impediva al qualcosa di porsi in maniera conforme alla propria idea, di realizzare compiutamente la propria destinazione. L unità del dovere e della barriera, la scoperta che la

62 Non-essere e negazione nella Logica di Hegel 61 barriera che c impedisce di essere è costituita proprio dal dovere, nel cui compimento avevamo riposto la nostra destinazione, costituisce il contenuto del concetto di negazione, col quale termina la sezione sulla Bestimmtheit. A me premeva mostrare, in questa prima parte del mio intervento, come lavorano e come emergono i concetti di negazione e negatività all interno della logica dell esserci e del suo limite. 2. Abbiamo visto come la negazione, nella logica dell essere, svolga un ruolo cruciale. Tuttavia, anche nel concetto in cui diventava negazione «assoluta» e movimento della «negatività», cioè nel Sollen, essa restava condizionata da una determinatezza che non aveva posto. Ora, nell essenza questo limite viene tolto. L essenza, infatti, non è più semplicemente negazione di ogni determinatezza, ma è anche il movimento della loro posizione. Essa conserva in sé, e anzi potenzia, il carattere negativo del Sollen, ma questa negatività non si limita a togliere l esser-altro, bensì toglie l esser-altro in quanto esso è posto dall essenza stessa come complesso delle sue determinazioni. Il movimento dell essenza è caratterizzato da un porsi nelle proprie determinazioni, che però, nel momento stesso in cui vengono poste, restano determinazioni proprie dell essenza. L unità dell essenza, dunque, è un unità negativa perché è un respingersi da sé, un negare la propria iniziale semplicità e un determinarsi nelle proprie determinazioni; ma è al tempo stesso un ripristinarsi nella semplicità, attraverso il riassorbimento delle determinazioni poste. Per questo, la negatività dell essenza assume un carattere diverso rispetto a quella dell essere. Nel caso dell essenza, non abbiamo più semplicemente un divenire o un passare da una determinazione all altra, ma ogni determinatezza resta compresa nel movimento dell essenza che la pone. Perciò Hegel scrive che, a differenza di quanto avveniva nell essere, «nell essenza la determinatezza non è. Essa è posta solo mediante l essenza stessa» (WdL 1813, 243; 435): essa non viene presupposta come essente, ma esiste solo in rapporto al movimento dell essenza che la pone e, ponendola, si congiunge in unità con se stessa. Hegel insiste su questo movimento per cui la determinatezza è posta, e non viene semplicemente presupposta. Ciò non soltanto

63 62 G. RAMETTA distingue la logica dell essenza dalla logica dell essere, ma comporta una differenza nello statuto concettuale della determinatezza stessa. Essa infatti, risultando dal movimento di autodeterminazione proprio dell essenza, nel momento stesso in cui viene posta, è anche negata come qualcosa di indipendente, cioè risulta appunto determinatezza meramente posta. È per questo che l essenza, nel movimento con cui pone le sue determinazioni, le nega immediatamente nella loro presunta autonomia e le ricomprende nel suo proprio movimento. Il fatto che ogni determinatezza sia semplicemente posta, e non assunta come già essente, comporta dunque una nuova forma di negatività, cioè la forma di negatività specifica dell essenza. Mi sia qui permessa un osservazione incidentale: come ogni lettore sa bene, per capire Hegel è fondamentale comprendere come i concetti che egli impiega non possano essere definiti indipendentemente dal contesto in cui operano. Il concetto di negatività è già apparso nella logica dell essere, ma, anche se il termine è lo stesso, il contenuto espresso dallo stesso termine non è lo stesso, perché è il risultato di un processo di concretizzazione prodotto dal concetto stesso. Quindi la negatività dell essenza non è identica alla negatività dell essere, anche se entrambe condividono la struttura formale costituita dal movimento di negazione e ripresa in sé dell essere altro da sé. Ora, come esprime Hegel la forma specifica di negatività propria dell essenza? Egli la determina attraverso il concetto di «riflessione» (Reflexion). La negatività dell essenza è riflessione, scrive Hegel; e le determinazioni dell essenza sono determinazioni «riflesse», cioè poste dall essenza e tali da rimanere nell essenza in quanto «superate» e riassorbite nel movimento dell essenza stessa. Qui ci troviamo di fronte a una serie di determinazioni assolutamente originali, rispetto a quelle dominanti nella tradizione filosofica precedente a Hegel. L essenza, infatti, non designa un sostrato, ma un movimento o una processualità; e la riflessione, a sua volta, non è intesa come un esercizio di pensiero soggettivo, ma è una struttura oggettiva dell essenza. Non si tratta di qualcosa che avrebbe luogo nella mente dell uomo, ma è la procedura costitutiva del processo di autodeterminazione dell essenza. Quindi si produce una dislocazione radicale rispetto alla nozione di riflessio-

64 Non-essere e negazione nella Logica di Hegel 63 ne operante in Kant e in Fichte, e lo stesso vale per il concetto di essenza rispetto alla tradizione metafisica precedente. Ora, riguardo a questo concetto di negatività, vorrei indagare e discutere il problema del negativo e quello della relazione fra differenza e contraddizione. Sono le questioni che avevo anticipato all inizio e che in qualche modo costringono chi affronta questi problemi a confrontarsi con l interpretazione di Adorno in rapporto al concetto hegeliano di negativo, e con la critica di Deleuze nei confronti del nesso istituito da Hegel tra i concetti di contraddizione e differenza. Abbiamo detto che la negatività dell essenza sta nel fatto che le determinazioni da essa poste manifestano la loro insussistenza nei confronti dell essenza stessa, e che nel loro emergere dall essenza esprimono semplicemente il rapporto che l essenza intrattiene con sé. Il senso di questo movimento è determinato da Hegel mediante il concetto di «parvenza» (Schein), secondo cui le determinazioni dell essenza, a questo stadio di sviluppo logico, hanno il significato di semplici apparenze. Ciò vuol dire che, inizialmente, il movimento di autodeterminazione dell essenza è un movimento di pura e semplice auto-riflessione, perché i momenti specificamente determinati in cui si articola sono soltanto il riflesso di un processo, in cui l essenza si pone in esclusiva relazione con se stessa. Quindi, nell essere poste dall essenza, è chiaro che le determinazioni perdono ogni statuto di consistenza ontologica, rivelandosi come parvenze (con termine contemporaneo, forse, si potrebbe azzardare la traduzione di «simulacri») dell essenza medesima. Questo concetto evidenzia una volta di più il cambiamento subito dalla nozione di Bestimmtheit, su cui però penso di avere insistito abbastanza: la determinatezza è presupposta, la parvenza è posta. Abbiamo detto anche che la nozione di «riflessione» assume la sua specifica connotazione hegeliana proprio in rapporto a questo scheinen, a questo apparire dell essenza in rapporto a se stessa. Quindi la caratteristica fondamentale della parvenza è l identità tra immediatezza e negatività; la parvenza indica il nesso posto dall essenza tra queste due determinazioni contraddittorie. L essenza si pone in una Bestimmtheit, ma questa Bestimmtheit, in quanto viene posta dall essenza, è posta come immediatamente

65 64 G. RAMETTA negativa, cioè appare come qualcosa che si dissolve nel suo stesso sorgere. In tal modo, essa è subito ricompresa nel movimento dell essenza, che nel porla la nega e si ripristina in identità con sé. Perdendo l immediatezza che la contraddistingueva come presupposto, la determinatezza perde la sua immediatezza, diventando simulacro o «parvenza», così come la negazione che si afferma nella riflessione dell essenza non è più la negazione apposta a un essere, bensì è una negazione che si riferisce immediatamente ad una negazione. La negazione della negazione che si afferma nell essenza è tutta interna al movimento di mediazione che l essenza instaura con se stessa: non c è più nulla di immediato, ma tutto è compreso nel movimento infinito con cui l essenza si pone nella parvenza e nella parvenza si riferisce non a qualcosa d altro da sé, ma soltanto a se stessa. Perciò Hegel può scrivere che l immediatezza è soltanto questo movimento, cioè il movimento dell essenza che si pone nella parvenza e annullando la parvenza si ripristina in identità con sé. Hegel designa questo processo come un «movimento che procede dal niente al niente ed in questo modo ritorna a se stesso» (WdL 1813, 250; 444). L essenza è il movimento che dalla parvenza, in quanto determinazione negativa uguale a niente, ritorna a sé come processo di nientificazione di quel niente, che la parvenza è in sé. L essenza dunque è niente, ma è niente in quanto movimento di nientificazione attiva, che pone la parvenza, ma, ponendola in quanto mera negazione, la pone come uguale a niente, e dunque la nega nel momento stesso in cui la pone. Nell annientare la parvenza, l essenza si afferma come potenza nientificante o negatività, cioè come movimento che, dal niente posto come parvenza, ritorna a sé come niente, che ha annientato quel primo niente, e si è dunque ripristinato in unità negativa con se stesso. È chiaro che la riflessione, come movimento infinito dell essenza, rischia di far precipitare il tutto in una nuova forma di immediatezza, coincidente con la negatività assoluta dell essenza stessa. Finché si limita alla produzione della parvenza, l essenza rischia di precipitare nel niente non solo la parvenza, ma anche se stessa in quanto movimento riflettente puramente negativo. Attraverso pas-

66 Non-essere e negazione nella Logica di Hegel 65 saggi che qui non possiamo seguire, Hegel mostra come proprio il movimento di nientificazione, in cui sembra esaurirsi l annullamento della parvenza, comporti la negazione della negatività, o meglio l affermazione della negatività come eguaglianza con sé. La negazione della parvenza operata dall essenza, infatti, non è una negazione esteriore rispetto alla parvenza, ma è negazione operata su di sé dalla parvenza stessa. La negazione che l essenza esercita sulla parvenza è l autonegazione di quest ultima, ed è proprio questo scambio del negativo con se stesso che Hegel designa come «assoluta riflessione» dell essenza. In questo modo, la negatività che si riferisce a sé si converte in una negazione di se stessa in quanto mera negatività. Hegel può così sostenere che la dialettica della parvenza consiste tanto di una negatività «superata», quanto di una negatività pura e semplice. La negatività dell essenza in quanto movimento riflettente realizza il superamento di tale negatività, ripristinando l essenza in positiva identità con sé. Ma viceversa, la negatività si dà come superata solo nella misura in cui si esercita e si dispiega come negatività in movimento. Questi due lati sono inseparabili l uno dall altro. Non deve sfuggire il fatto che in questi passaggi gioca un ruolo fondamentale il concetto di «negativo». Il negativo compare nell essenza in quanto riflessione assoluta all altezza della parvenza. Il negativo è la parvenza che in quanto parvenza si nega immediatamente nel momento stesso in cui si afferma, e viceversa per affermarsi come parvenza non può non affermarsi come negativa e quindi negarsi. Quindi il negativo determinato all altezza dell essenza è questo movimento simultaneo di autoposizione e di autonegazione della parvenza; proprio in questo modo il negativo si nega come negativo. Nel negarsi come negativo, infatti, esso è ancora in presenza di se stesso, come negativo che si è appena negato. Dunque attraverso il negativo si ripristina una forma di positiva eguaglianza con sé, che però è pur sempre quella del negativo, dunque si rovescia ancora una volta in un eguaglianza negativa di sé con sé. Il risultato della dialettica della parvenza porta ad uno dei capitoli più importanti dell intera Scienza della logica, quello sulle cosid-

67 66 G. RAMETTA dette «determinazioni della riflessione», su cui ci concentreremo per quanto riguarda i due punti sopra menzionati. Il primo investe il passaggio dalla differenza alla contraddizione, ed è quello contestato da Deleuze in Differenza e ripetizione; il secondo riguarda il superamento del negativo, contestato da Adorno nei Tre saggi su Hegel e in Dialettica negativa. Per quanto riguarda il primo punto, la posta in gioco è costituita dalla concezione della differenza e dei suoi rapporti con i concetti di identità e contraddizione. La posizione di Deleuze è molto netta. Egli, infatti, legge il passaggio dalla differenza alla contraddizione non come una radicalizzazione della differenza, ma come un suo depotenziamento. In queste sezioni della logica hegeliana, noi assistiamo alla trasformazione della differenza in contraddizione perché il concetto di contraddizione permette di ridurre la differenza, da una molteplicità di elementi dispersi, ad una pura e semplice dualità di termini, che in realtà sono un unico e medesimo termine (= a), concepito ora come positivo (+ a) ora come negativo ( a). In questo modo, la contraddizione diventa il concetto attraverso cui la differenza può essere ricondotta sotto il dominio dell identità, e il molteplice ricompreso all interno dell unità del concetto speculativo. Il risultato di questo movimento, in cui la differenza, attraverso la contraddizione, confluisce nell identità, è dunque il vero obiettivo della dialettica dell essenza, e più in generale di tutto il pensiero hegeliano. Certo, non si tratta più dell identità nel senso della logica formale, ma in quello ben più complesso del concetto speculativo. Tuttavia, proprio questo rende incompatibile la dialettica con una filosofia della differenza, nella misura in cui Hegel, proprio attraverso la contraddizione, imbriglia una volta per tutte il molteplice nella totalità organizzata del suo sistema. Nel caso di Adorno, invece, la posta in gioco riguarda la possibilità di superare il negativo e di produrre una sintesi, che conduca a conciliazione le contraddizioni dalle quali essa stessa pretende di risultare. Adorno contesta che questa operazione sia logicamente sostenibile, visto che il negativo si afferma come totalità di sé e del positivo, e non può dunque essere inglobato in una ulteriore totalità del positivo. L obiettivo di Adorno è dunque comune con quello di Deleuze. Tutti e due i pensatori vogliono salvaguardare la

68 Non-essere e negazione nella Logica di Hegel 67 differenza dalla presa dell identità, e la molteplicità dal suo assorbimento nel sistema. Ciò che li rende radicalmente diversi è la loro valutazione del negativo e della sua funzione. Per Deleuze, il negativo è lo strumento attraverso cui Hegel cerca di ricondurre la differenza all identità; per Adorno, invece, il negativo è l elemento a cui è affidato il compito di salvaguardare la differenza nella sua irriducibile alterità. Per Deleuze, voler affermare la differenza potenziando il concetto di negativo è una contraddizione in termini, poiché il negativo è lo strumento con cui la dialettica nega la differenza e il molteplice ad essa collegato; per Adorno, invece, se vogliamo affermare il molteplice contro l unità imposta dal sistema, dobbiamo potenziare il negativo, utilizzandolo contro la pretesa hegeliana di «superarlo» in una totalità conciliata. Ora, per noi si tratta di capire se effettivamente nella logica di Hegel si produca questo processo di riduzione delle differenze all identità, e del molteplice all unità. Come avviene il passaggio dalla differenza alla contraddizione? Che cosa significa Aufhebung del negativo? Rispetto al passaggio dalla differenza alla contraddizione, dobbiamo scandire l argomentazione in due momenti, perché la differenza passa alla contraddizione attraverso il concetto di opposizione. Quindi, per seguire l esposizione hegeliana è opportuno introdurre un termine medio (il concetto di opposizione), per cui la mia ricostruzione tratterà in una prima fase il passaggio dalla differenza all opposizione, e in una seconda fase il passaggio dall opposizione alla contraddizione. La mia tesi è che, anche se Hegel, dal punto di vista della sequenza argomentativa, introduce la categoria di differenza dopo quella di identità, dal punto di vista logico è la differenza a costituire la struttura portante dell identità: ciò significa che l identità deve essere pensata a partire dalla differenza, e che la differenza è concettualmente anteriore all identità. Il motivo è da ricercare ancora una volta nel ruolo della negazione e nel carattere negativo dell essenza. Che cos è infatti, per Hegel, l identità? È il risultato del movimento riflessivo dell essenza, che ritorna in sé attraverso la negazione delle determinazioni da essa stessa poste. L identità presuppone dunque: 1) la posizione di differenze nell essenza da parte dell essenza; 2) la negazione di queste differenze in quanto differenze dell essenza, e perciò supe-

69 68 G. RAMETTA rate nel movimento riflessivo dell essenza stessa. Di conseguenza, non è possibile pensare l identità senza un movimento di differenziazione che procede dall essenza e ritorna all essenza, e Hegel può scrivere: «Siamo dunque di fronte alla differenza che si riferisce a se stessa, alla differenza riflessa, ovvero alla differenza pura e assoluta» (WdL 1813, 262; 459). In questa frase, il ruolo della differenza emerge in modo indiscutibile: il nucleo della identità è la differenza. La differenza costituisce una forma ulteriore di concretizzazione della negatività dell essenza ed è assoluta nella misura in cui in essa la negatività è riferita esclusivamente a sé. Infatti, poiché anche la differenza appartiene all essenza, si toglie come negativa e si ricongiunge con l identità dell essenza. Ma a sua volta, questa identità è soltanto l identità con sé della differenza, del movimento di differenziazione dell essenza: quindi l essenza coincide col movimento della differenza, che in quanto differenza essenziale si differenzia da sé. Essa si nega come sussistente indipendentemente dall essenza, ma si afferma appunto in questo modo come assoluta differenza, cioè come differenza dell essenza e nell essenza: «Questa differenza ribadisce Hegel è la differenza in sé e per sé, la differenza assoluta» (WdL 1813, 266; 464). Qui è opportuno sottolineare un tratto fondamentale delle categorie dell essenza. Tutti i concetti che appartengono alla sfera dell essenza esprimono nella loro determinazione la totalità del movimento dell essenza stessa; un po come gli attributi della sostanza spinoziana non dividono la sostanza in tante sezioni, ma sono ciascuno tutta la sostanza espressa all interno di un determinato punto di vista. Tuttavia, nel capitolo sulle «determinazioni della riflessione» (come identità, differenza e contraddizione), questa caratteristica emerge in modo particolarmente evidente. Ciascuna di queste determinazioni, infatti, è sia se stessa sia la totalità del movimento di cui fa parte: è sia una parte, sia il tutto che la include al proprio interno. Scrive in proposito Hegel: «La differenza è il tutto e un suo momento» (WdL 1813, 266; 465). Ma allora, se la differenza è al tempo stesso l intero e un suo proprio momento, lo stesso deve valere per l identità. Ciò significa che in ciascuna pulsa il negativo di se stessa, perché ciascuna è al tempo stesso parte e tutto. Ciascuna è dunque in unità negativa con se stessa, ma il problema è:

70 Non-essere e negazione nella Logica di Hegel 69 questa relazione negativa con sé, dov è posta in quanto tale, nella differenza o nell identità? La risposta di Hegel è che essa è posta in quanto tale nella differenza e non nell identità. È solo a partire dalla differenza che l identità può essere intesa come intero e come momento dell intero. Come potremmo infatti concepire l identità come se stessa e come l intero di cui fa parte, senza utilizzare il concetto di differenza, cioè senza porre l identità come differente da sé? Questo significa che solo la differenza consente di differenziare ciascuna delle determinazioni sia all interno di se stesse (come parte e come tutto), sia ciascuna in rapporto all altra. Ora, attraverso un percorso che possiamo esaminare nei dettagli, Hegel, da questa dialettica tra identità e differenza (tra tutto e parte), ricava il concetto di opposizione, e attraverso il concetto di opposizione cerca di mostrare come sia inevitabile fare ricorso al concetto di contraddizione. Quindi il movimento della differenza culmina nel concetto di contraddizione, e questo passaggio è quello contestato da Deleuze in Differenza e ripetizione; mentre, nei termini della logica hegeliana, il passaggio che viene contestato da Adorno è il passaggio che si genera dalla contraddizione all identità del fondamento, come risoluzione di tutte le contraddizioni fin qui esposte. Secondo Hegel, nell opposizione «la differenza è compiuta» (WdL 1813, 272; 473). Ma che la differenza sia «compiuta» (vollendet) non vuol dire soltanto che la differenza è superata, bensì che essa viene dispiegata nel pieno della sua potenza di differenziazione; allo stesso modo, i due momenti dell opposizione, che sono il «positivo» e il «negativo», vengono entrambi determinati strutturalmente dal concetto di negativo, perché il negativo comprende in sé sia se stesso sia la relazione al proprio opposto; mentre il positivo comprende la relazione al proprio opposto solo negando questa relazione, cioè pretende di porsi come positivo senza porsi come opposto. Quindi il negativo, a differenza del positivo, è identico a sé solo nella misura in cui è diseguale da sé e si afferma in quanto diseguale. A differenza di quanto sostiene Adorno, il carattere positivo del negativo non è costituito dal suo superamento, ma dalla sua affermazione come negativo. È proprio perché il negativo è immediatamente se stesso e la totalità dell opposizione che esso è e resta insuperabile. Solo in termini approssimativi si può parlare di un

71 70 G. RAMETTA superamento del negativo nella dialettica hegeliana; e ancora più discutibile sarà leggere tale presunto superamento del negativo come la sua definitiva conversione e affermazione in quanto positivo. Il positivo è assorbito come momento del negativo e il negativo è la totalità dell opposizione, come movimento che produce costantemente la diseguaglianza dell opposizione in rapporto a sé; l opposizione è movimento di produzione del diseguale in rapporto a sé come diseguale. Per questo il negativo è propriamente insuperabile. Ma ricordiamoci cosa diceva Hegel della opposizione: se il negativo è insuperabile, altrettanto insuperabile sarà la differenza, di cui il negativo non è la negazione, ma il potenziamento. Quindi, a differenza di quanto afferma Deleuze, nell opposizione hegeliana non abbiamo l addomesticamento della differenza, ma il suo differire come differire irriducibile all identità, all eguaglianza con sé. In questo senso l opposizione hegeliana è davvero la differenza «compiuta». Non perché in tale opposizione la differenza si attenui fino a scomparire, ma perché in essa la differenza si afferma in via definitiva come momento strutturale e con ciò stesso insuperabile della dialettica. In termini filologici, per quanto riguarda il problema della contraddizione, io mi limito a sottolineare che anche in questo caso Hegel mostra esplicitamente la centralità della differenza. Nella contraddizione, noi abbiamo la relazione antinomica tra positivo e negativo, che, mostrando gli opposti come legati strutturalmente l uno all altro, li riconduce entrambi all identità del loro comune fondamento. In base a questa argomentazione, Adorno sostiene che, attraverso il superamento della contraddizione nel fondamento, Hegel ripristina il primato del positivo; ma Hegel scrive: «Il negativo è l intera opposizione che si basa su se stessa in quanto opposizione, la differenza assoluta che non si riferisce ad altro» (WdL 1813, 280; 483). In quanto totalità dell opposizione, il negativo è l assoluta differenza, che non si riferisce più a null altro da sé; quindi è differenza come puro e incondizionato scaturire delle differenze. La mia tesi, quindi, è che anche il passaggio dalla contraddizione al fondamento confermi una volta di più questo carattere strutturale e insuperabile della differenza. Perciò, vorrei chiudere il mio contributo con alcune considerazioni sul concetto di fondamento.

72 Non-essere e negazione nella Logica di Hegel 71 Ora, il fondamento hegeliano non è qualcosa che sussiste al di là dei fenomeni: come l essenza non è sostrato, così il fondamento non è sostanza. Non è un ente, ma la riproduzione del movimento dell essenza all altezza della contraddizione tra positivo e negativo. Siamo ancora una volta di fronte all identità negativa di sé con sé; l essenza non è mai sostrato, ma movimento riflessivo di autoposizione; il carattere strutturale delle determinazioni, che adesso sono le determinazioni contraddittorie di positivo e negativo, è costituito dal loro essere negative: anche il positivo, in Hegel, è determinazione negativa! Di conseguenza, questo movimento di posizione non potrà che essere un movimento di determinazione di tipo negativo; ciò significa che l essenza si pone nelle determinazioni opposte come movimento di autoesclusione. Nel momento stesso in cui l essenza pone le sue determinazioni, essa si esclude dalle determinazioni che ha posto. Da parte sua, quindi, ciascuna determinazione si pone e si esclude rispetto all altra. Il movimento di posizione dell essenza nelle sue determinazioni coincide col reciproco porsi e negarsi delle determinazioni stesse, ed è solo nella misura in cui l essenza è questo movimento che l essenza si determina come fondamento. Scrive Hegel: «L essenza in quanto fondamento esclude sé da se stessa» (WdL 1813, 282; 485), e proprio perché è sé che essa esclude, si pone come posta da se stessa, cioè si pone nelle determinazioni del positivo e del negativo. È soltanto come essere posta, cioè come identità del negativo con se stesso. L elemento autonomo è il negativo che si dispiega come negativo, una determinazione che contraddice se stessa e perciò torna immediatamente nell essenza come nel proprio fondamento. Da un punto di vista rigorosamente hegeliano, quindi, il fondamento consiste solo nel movimento della negazione di sé come fondamento, qualora questo sia inteso come sostrato, base o supporto. E l essenza è fondamento solo nella contemporaneità del duplice e contraddittorio movimento, consistente nel respingersi da sé nelle determinazioni poste, e nel negare tali determinazioni poste come differenti da sé. La contraddizione dunque si risolve, ma solo nel senso che non si annulla, non conduce ad un risultato pari a zero, bensì costituisce il raccoglimento dell essenza nel fondamento. Questo raccogliersi dell essenza nel fondamento costitui-

73 72 G. RAMETTA sce il primo risultato, cioè il ritorno dell essenza a sé dalle sue determinazioni, in quanto determinazioni meramente poste. Questo ritorno a sé dell essenza, però, coincide con un nuovo movimento di autoesclusione dell essenza da sé, quindi viceversa è proprio in questo ritorno che si ripristina il movimento di produzione delle determinazioni. È questa unità negativa dell essenza con sé, che Hegel determina come fondamento. In conclusione, quando Hegel sostiene che la contraddizione si risolve, non intende dire che si ripristina un primato dell elemento positivo, ma che la contraddizione deve essere concepita come movimento produttivo delle determinazioni che si pongono come reciprocamente differenti le une dalle altre, e solo in questo senso dunque come loro «fondamento». Il fondamento insomma altro non è che il movimento di auto-posizione delle determinazioni dell essenza, in quanto divergono le une dalle altre, e proprio in questo modo si pongono in rapporti le une con le altre. Se vogliamo determinare questo movimento come «positivo», possiamo farlo solo nella misura in cui concepiamo questo positivo come «unità negativa», dunque soltanto nella misura in cui ripristiniamo, all interno del positivo, il movimento di affermazione della negazione come assoluta negatività. Ma la negatività è appunto espressione della potenza del negativo, che nell opposizione si affermava come differenza dispiegata e compiuta. In questo senso, sia le obiezioni di Deleuze sia quelle di Adorno possono venire teoreticamente e filologicamente contestate, mostrando che, se ha senso quello che ho detto, la dialettica può essere letta, se non altro, da un diverso punto di vista, cioè come movimento logico di affermazione della differenza. Allora in Hegel potremmo ancora scorgere un pensatore che non chiude il problema, ma lo ripropone incessantemente proprio in virtù della dialettica, intesa come strutturale apertura e produttività della differenza. La negazione, che aveva fatto la sua prima comparsa nella logica dell esserci, non cessa dunque di sprigionare i suoi effetti fin nel fondamento dell essenza.

74 Non-essere e negazione nella Logica di Hegel 73 RIASSUNTO La Logica di Hegel è stata per lungo tempo interpretata come una logica dell identità. In questo articolo, l autore cerca di mostrare in che modo sia possibile interpretare il pensiero hegeliano come una teoria della differenza. In questa direzione, il saggio presenta alcune critiche alle letture hegeliane proposte da Deleuze e da Adorno. ABSTRACT Hegel s Logic has been interpreted as a logic of Identity. In this article, the author tries to show the movement through which Hegel s thinking can be read as a theory of Difference. A critic of Deleuze s and Adorno s ways of reading Hegel is included.

75 74 DT 118, 2 (2015), pp NIHIL, EX NIHILO. UN PERCORSO FILOSOFICO DAVIDE SPANIO * 1. PARMENIDE: ESSERE, NON ESSERE In Hegel, il rapporto tra l essere e il non essere dipende dal concetto di essere puro, vuoto e indeterminato, da cui scaturisce il divenire che precipita nell essere determinato 1. È noto il legame logica-storia della filosofia istituito dall idealismo hegeliano: la struttura dialettica del reale (la scienza della logica) ribadisce l andamento del percorso storico-filosofico. O anche, rovesciando l ordine degli addendi: il percorso storico-filosofico ritrae la struttura dialettica della realtà destinata a imporsi come l assoluto. La logica, insomma, ripristina astrattamente quello che si è concretamente prodotto nel corso della storia della filosofia, in ragione del vero. Per questo verso, intendo evidenziare il nesso Parmenide-essere che sta alla base del concetto da cui comincia la logica di Hegel. Quando Hegel apre la Scienza della logica con il concetto di essere fa riferimento all essere indeterminato di Parmenide 2. Ma si tratta appunto di non fermarsi all essere, così come per la filosofia si è trattato di non fermarsi a Parmenide. Ora, la prima triade (essere, * Università Ca' Foscari, Venezia. 1 Cf. G.W.F. HEGEL, Scienza della logica, Libro I, Sez. I, cap. I. 2 Si tengano comunque presenti le considerazioni di E. SEVERINO, La morte e la terra, Adelphi, Milano 2011, pp. 209 ss.

76 Nihil, ex nihilo. Un percorso filosofico 75 nulla, divenire) mette in scena l oltrepassamento speculativo di Parmenide, annunciato storicamente dai fisici pluralisti e realizzato speculativamente dal cosiddetto «parricidio» platonico nel Sofista. Concedere, oltre Parmenide, l esistenza del non essere avrebbe infatti significato tradurre l essere (Sein) nell essere determinato (Da-sein), evocando il precipizio in fondo al quale si dovevano raccogliere intanto le figure dell immediatezza ontologica. Ma che cosa dice Parmenide? Le parole del poema suonano: «L essere è, mentre il nulla non è» 3. Quando la filosofia si imbatte in questa breve sentenza, essa va immediatamente incontro a una enorme difficoltà dal punto di vista concettuale. Cosa significa, infatti, questa opposizione (è-non è), precisata da una congiunzione (mentre)? A che cosa ci stiamo rivolgendo, cioè, non appena, con l Eleate, opponiamo l assoluta (in)determinazione (essere) alla propria assoluta (in)determinazione (non essere), sostenendo appunto che, mentre l una è, l altra non è? Che l una, insomma, non essendo propriamente se stessa (pur essendo il proprio non esser propriamente se stessa), non è il proprio opposto (vale a dire il non del proprio non esser propriamente sé)? Si tratta della difficoltà (aporia) che Platone affronta nel Sofista, il dialogo de ente, dove è detto che in molti modi i pensatori del passato hanno trattato il tema ontologico, anche se in modo insoddisfacente. Abbozzando una formidabile storia della ontologia originaria, Platone infatti, ormai alle prese con l essere del non essere (o con il non essere dell essere), invita il lettore del dialogo a riflettere sulla leggerezza con cui i suoi predecessori hanno tentato di dare una risposta alla domanda intorno all essere MYTHOI E LOGOI Ora così si esprime l Ateniese, celato dietro la maschera del misterioso straniero giunto da Elea è venuto il momento di affrontare la questione ontologica con maggiore consapevolezza e serietà: 3 PARMENIDE, fr. 6, 1-2 DK. 4 PLATONE, Soph., 242c4 ss.

77 76 D. SPANIO alle favole (mythoi) devono finalmente contrapporsi gli argomenti (logoi). Sennonché, è proprio il logos a disposizione della filosofia a richiedere un supplemento d indagine. La circostanza aporetica evocata da Platone allude cioè a una complicazione che rinvia a un contesto problematico più ampio: argomentato, l essere, immune dal contagio con il non essere, si mescola al non essere fino a confondersi con esso. In effetti, si trattava di rendersi conto che la confutazione parmenidea del non essere confutava se stessa, costringendo il discorso sull essere a imbattersi in un vicolo cieco (a-poria) 5. L aporia suona: il non essere non è (l essere), oppure l essere (non) è (il non essere). Dire così, infatti (e dire così pare corretto), significa, da ultimo, entificare il non essere che, non essendo, dovrebbe opporsi all essere come al proprio assolutamente altro. Il non essere è l assolutamente altro dell essere (che è, mentre il non essere non è), ma se diciamo che l essere si oppone al non essere, e il non essere appare come ciò che l essere tiene da sempre e per sempre a bada 6, allora trattiamo il non essere come un qualcosa-che-è. Opporre o contrapporre l essere al non essere significa perlomeno esporsi al rischio di entificare quello che, appunto, dovrebbe rappresentare (per non essere) l assenza assoluta dell essere. Interpretare l essere come un opporsi al non essere risulta cioè essenzialmente fuorviante. Ma c è di più: Parmenide ci avverte che, escluso dall essere, il non essere costituisce una via della ricerca filosofica che risulta impercorribile: la via del non essere non è e noi non possiamo condurre noi stessi su una simile via 7. Il non essere appare cioè indicibile, sottratto alla presa del logos. Eppure (ecco la difficoltà più grande e impegnativa) per sottrarre il non essere alla presa del logos (dire, pensare, conoscere), siamo costretti a dirlo, a pensarlo e a conoscerlo come sottratto (esso, che non è) alle sue grinfie. Se l essere è ciò che è detto e pensato, il non essere rimane estraneo alla presa del dire e del pensare, essendo il logos la immediata 5 Ibid., 238a1 ss. 6 PARMENIDE, fr. 7, 1 DK. 7 Ibid., fr. 2 DK.

78 Nihil, ex nihilo. Un percorso filosofico 77 manifestazione dell essere. Dire o immaginare di dire il non essere significa immediatamente esporlo alla sua luce, investendolo con un chiarore capace di farlo risaltare, mentre ad esso non compete alcun risalto. L aporia sulla quale lavora Platone allude cioè alla circostanza per la quale anche per escludere che il non essere sia detto e pensato, siamo costretti a dirlo e a pensarlo, poiché dobbiamo appunto escludere che esso (il non essere) sia detto e pensato. Non lo possiamo né dire né pensare: ma il lo è riferito a qualche cosa (che esso, invece, dovrebbe escludere da sé). Trattiamo ad esempio il non essere come un uno (il non essere, e non i non essenti, anche se Parmenide talvolta adotta la formula mé eonta). Attribuiamo il numero, dicendolo: la singolarità. Per escludere di poterlo dire e pensare, così da tener fermo l essere nella sua fermezza, siamo indotti a dirlo e a pensarlo, intrecciando l essere e il non essere. La cosa più impossibile di tutte 8. Platone rinvia infatti a una vera e propria epallaxis: alternanza o scambio continuo tra (epi-) l uno e l altro (àllos) 9. Uno scambio reciproco: uno stare insieme, scambiandosi il ruolo. L uno (e ciò vale per entrambi) è l altro dell altro: l uno rimanda all altro, l altro all uno, senza mediazioni o indugi. 3. ESSERE Hegel osserva perciò che l essere passa nel non essere, anzi è già passato, poiché non riesce in alcun modo a trattenersi presso di sé, prima di tradursi nell altro da sé. Per questa via, egli ci invita a considerare la necessità di fare i conti con l intreccio platonico, il quale suggerisce che l essere, in qualche modo e in una certa misura, non è, così come, per converso, il non essere, in qualche modo e in una certa misura, è. È insomma, per dir così, la cosa stessa dell essere a palesare le sembianze ambigue della consistenza ontologica. 8 PLATONE, Soph., 241b3. 9 Ibid., 240c4.

79 78 D. SPANIO Del resto, Platone annuncia questo discorso quando comincia a dirottare l attenzione della filosofia dall essere indeterminato all essere determinato. Si trattava cioè di andare incontro a una soluzione per la quale il non essere che è, non essendo, non equivaleva affatto a una impossibilità, ma, semmai, allo sprigionarsi del possibile, atteso (e ogni volta raggiunto) dalla realtà. Dynamis, scrive Platone 10. Possibilità, allora, che corrisponde tuttavia a una impossibilità: all impossibilità da parte dell essere indeterminato di disfarsi del non essere o di resistere alla sua pressione. La quale, evidentemente, è una impossibilità paradossale, apparendo immotivato il disfarsi di ciò che non è e inutile la resistenza esercitata nei suoi confronti. Certo, il non essere non dovrebbe rappresentare alcun genere di pressione, tale almeno da giustificare la necessità di disfarsene, e tuttavia è proprio nel momento in cui diciamo che il non essere non richiede che ci si dia da fare per escluderlo dall essere, che avvertiamo invece la sua pressione e siamo indotti a correre ai ripari per tenerlo a bada. 4. L APORIA DEL NULLA. SOSPENSIONE ED ESITO Quando Platone esibisce questa aporia compie un operazione teorica che rimane in sospeso. Platone, infatti, non risolve l aporia, ma dirotta l attenzione sull essere determinato. Dire e pensare l essere significa dire e pensare l essere determinato. In tal senso, il tratto scoperto dell operazione platonica sembra alludere all insignificanza dell aporia, che l Ateniese vede scaturire da una rappresentazione ingenua dell essere, ritratto in una olimpica solitudine, immune dalla negazione. Ingenua bensì, ma anche contraddittoria, sì che per questo verso l essere determinato pareva piuttosto evocare il concetto in grado di contraddire una contraddizione, additando l imporsi del non essere non più come l assurda irruzione dell opposto dell essere, bensì al modo del suo necessario differire. Si sarebbe trattato cioè di comprendere che l essere non doveva affatto tenere a bada il non essere, poiché il non essere costituiva 10 Ibid., 247e4.

80 Nihil, ex nihilo. Un percorso filosofico 79 appunto l essere che lo aveva già fatto, da sempre e per sempre. Non e essere stavano cioè insieme nella determinazione, essente, ma senza contraddizione. L intreccio dell essere e del non (essere) doveva apparire contraddittorio solo a chi aveva isolato i due dalla implicazione reciproca (symploché) chiamata a esibirne la consistenza. Che l essere fosse il non essere sarebbe cioè apparso l esito incontraddittorio di una filosofia chiamata finalmente a pensare l essere, immune bensì dal non, per essere se stesso, ma anche dall essere, per non essere l altro da sé. Ma cosa avrebbe significato, allora, per l essere, essere e non essere, anzi ormai non essere? 5. ESSERE DETERMINATO La prima triade della Scienza della logica di Hegel mette in scena questo passaggio teorico: all indeterminato, infatti, si sostituisce, gravido della contraddizione, il determinato finito e mutevole. L inquietudine dell essere, suscitata dalla sua indeterminazione, precipita in un risultato calmo: l invincibile oscillazione dell essere, che non è, essendo (epàllaxis), così da rimpallare se stesso da un estremo all altro, è vinta dal suo esserci, che si desta e cessa. Platone dunque attira l attenzione sull essere determinato ed Hegel si fa carico dell operazione con la quale lo straniero di Elea tenta di oltrepassare il divieto parmenideo. Questi, infatti, si espone all accusa di parricida pur di scongiurare la proibizione della dea, esortando così a fare i conti con un essere che non sia più l indeterminato che trasloca immediatamente nell altro da sé, confondendo essere e non essere. Occorreva cioè congedare il non essere puro 11 che si emancipava dall essere, senza riuscire a farlo (o riusciva bensì a farlo, ma confondendovisi). Il non essere indeterminato, indicibile e impensabile, portava infatti fuori strada anche colui che si avviava lungo il sentiero della persuasione, che asseconda la verità. Esortato dalla dea, convinto di dover evitare la via del non essere, l uomo che sa, senza saperlo, abbandona così anche quella dell essere. 11 Ibid., 258e8.

81 80 D. SPANIO L essere, dunque, non riusciva a resistere al non essere, anzi resisteva se non era, e cioè se era il non essere a essere. L essere che si opponeva al non essere si opponeva a se stesso: passava, ma appunto come questo essere passato nel proprio altro. Stando così le cose, allora, si sarebbe trattato di comprendere che l essere si opponeva bensì a se stesso, ma così come l essere determinato si opponeva all essere determinato. L essere che si opponeva al non essere si opponeva al non essere nella misura in cui esso era l essere determinato. L essere determinato, anzi, era questa opposizione. Ciò che non riusciva all essere indeterminato, che sprofondava in se stesso, sprofondando nell altro da sé, riusciva o sarebbe dovuto riuscire all essere determinato, che tuttavia terminava, finito e mutevole. 6. LA DETERMINAZIONE DELL ESSERE Occorre muovere da qui. Vorrei suggerire infatti che molte delle difficoltà che il pensiero filosofico incontra e ha incontrato sul proprio cammino dipendono dal fatto che l aporia del nulla è rimasta taciuta o sullo sfondo 12, perpetuando l ambiguità che la caratterizza. Ci si è invece convinti che con Platone il problema avesse cominciato ad andare incontro alla sua soluzione: l essere non allude al vuoto e indeterminato spessore ontologico del non nulla, nel quale è il mondo a venir meno, ma alla sua determinazione. Del resto, a partire da Aristotele, ma già con Platone, tutta la storia della metafisica occidentale è la storia della considerazione epistemica dell essente in quanto essente (to on). La metafisica allude bensì a un discorso sull essere in quanto essere, ma quando all essere si conferisce o riconosce la consistenza specifica dell essente. Non c è l essere, che non è, bensì l essente. Parmenide avrebbe cioè lasciato il discorso a metà: dire che l essere si oppone al non essere può valere solo in quanto all essere si riconosca la determinazione che 12 Cf. E. SEVERINO, Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano (in part. il cap. I, Ritornare a Parmenide). Ma si veda anche ID., La struttura originaria, Adelphi, Milano , p. 210 (a proposito dell atteggiamento platonico).

82 Nihil, ex nihilo. Un percorso filosofico 81 l Eleate, temendo l irruzione del non, aveva perentoriamente escluso dall orizzonte ontologico. Se l essere resiste al non essere e alla sua pressione, vi resiste così come la determinazione resiste a ogni altra determinazione. Resistere alla pressione del non essere avrebbe allora significato resistere alla pressione dell altro essere determinato (altro come non essere). Quello che esce dal parricidio platonico (e dalla messa in scena hegeliana di questo passaggio filosofico) è dunque l irruzione di una platea di essenti che sono determinati nella misura in cui per rimanere nella metafora resistono l un l altro alla pressione che proviene dal loro essere essenti. Ogni essente è se stesso, non essendo l altro da sé: il non essere, appunto, che l essere, per essere, deve tenere a bada. Tavolo e libro: l uno il niente dell altro, dal momento che la congiunzione maschera l esclusione dei differenti, inclusiva delle differenze. In questo senso, si trattava di rendersi conto che non c era niente nel tavolo che fosse il libro e viceversa, perché il libro fosse libro, e non tavolo, e viceversa. L uno esclude l altro. Ciò tuttavia e daccapo non significava che l escluso (il non essere) non includesse l esclusione, includendovisi al modo della relazione tra i due. 7. IL PASSARE DELL ESSERE Il punto sul quale vorrei attirare l attenzione è il seguente. Mi servirò di Hegel, dal momento che la Scienza della logica hegeliana rappresenta senza dubbio l autocoscienza della metafisica occidentale. Con la prima triade, in particolare, assistiamo alla messa a punto dei termini fondamentali del discorso filosofico, quando il discorso filosofico si fa metafisico. In quel luogo dell opera, Hegel suggerisce che l essere parmenideo passa nel proprio opposto o sprofonda nell altro da sé, poiché frana sotto il proprio peso: il peso della contraddizione. L essere indeterminato, senza terminazione, perde la propria definizione, quasi che la sfera additata dal poema dell Eleate, approssimandosi a sé (ikneisthai eis homon) 13, si gonfiasse 13 PARMENIDE, fr. 8, DK.

83 82 D. SPANIO fino a scoppiare. Nulla contiene la sfera dell essere che, occupando il tutto, non lascia nulla fuori di sé. L essere ut sic è questa espansione di una sfera che si approssima a sé, esplodendo nel nulla. Per resistere all altro da sé, occorre allora che l essere sia il determinato. Ma cosa significa essere il determinato? Tra l essere indeterminato (Sein) e l essere determinato (Da-sein) la deduzione hegeliana insinua la figura fondamentale del divenire (Werden) chiamato a sancire il passaggio dell essere nel non essere come il suo essere già passato. Essere il determinato significa divenirlo, poiché l essere è già da sempre non essere. Il divenire allude infatti a questa oscillazione tra i due: l uno è già passato nell altro, ma l uno non è l altro (nel quale evidentemente l uno non sarebbe già passato). L essere non è il non (essere). La contraddizione che scaturisce da questo rimpallarsi dell essere è una contraddizione poiché l uno non è l altro: Platone, che Hegel eredita e fa fruttare, è d accordo con Parmenide. Il punto va cioè tenuto fermo. Ma il punto può essere tenuto fermo solo quando riferiamo l opposizione al determinato. E cos è (vale a dire: quali sono le ragioni per cui deve essere posto) l essere determinato (dasein)? È appunto il precipitare nella quiete che estingue la sua inquietudine 14. Il risultato calmo, rappresentato dalla determinazione, è così l esito di un passaggio. Cosa significa (anzi: qual è il senso stesso de) l essere? Cosa fa (ma è sul significato di questo fare che occorre fermarsi) l essere? L essere passa. Di più: l essere dell essere è il suo passare, sì che esso fa, propriamente, quello che è. Hegel, dietro Platone, insiste sul fatto originario concernente il passare dell essere in quanto tale: l essere che è, senza esibire qualcosa. Anzi, siccome esso è già passato, occorre rendersi conto che l essere non indugia affatto presso di sé. Piuttosto, si tratta di comprendere che esso indugia presso di sé appunto nell istante stesso in cui, passato, è nulla. È nulla, non essendolo. Daccapo: dal momento che il discorso intorno all essere eleaticamente inteso non sta in piedi, dobbiamo allora dirottare la nostra attenzione dall essere indeterminato all essere determinato. E cosa fa 14 Cf. G.W.F. HEGEL, Scienza della logica, Libro I, Sez. I, cap. I, 3.

84 Nihil, ex nihilo. Un percorso filosofico 83 l essere determinato? Passa! Perché? Perché è già passato: non in quanto esso è il determinato che è, ma in quanto esso è. L essere infatti passa, ma senza che il determinato passi. Il che significa che esso passa in un altro essere determinato. In Platone, ma anche in Hegel, a partire da Parmenide, l essere determinato è l essere che, passando, si imbatte nell altro da sé: non il nulla, bensì l altro essere (qualcosa d altro). Con Aristotele 15, il divenire dell essere è perciò sempre il divenire qualcosa di qualcosa, un passaggio da qualcosa a qualcosa. Non dall essere al nulla, ma da un certo essere a un altro certo essere. 8. IL NULLA DELLA DETERMINAZIONE Tuttavia, se in questo passaggio trascuriamo il fatto che il passaggio da qualcosa a qualcosa ha alle sue spalle il passaggio dall essere al nulla, allora perdiamo ciò che è più rilevante e interessante della sfida metafisica occidentale chiamata a raccolta da Hegel. È il punto su cui cominciano a battere con decisione i moderni. Si tratta cioè di non dimenticare che, da un lato, l essere si oppone al non essere, passando. Poi, dietro Platone, di apprezzare il fatto che l essere che si oppone al non essere, passando, è l essere determinato, il quale diventa altro da sé: il bianco, nero; la guerra, pace; il bene, male e così via. Ma a che cosa si allude quando ci si riferisce a questo passaggio? Si allude appunto al passaggio dall essere al non essere, mascherato così dal passaggio da qualcosa a qualcosa. Occorre cioè non perdere di vista lo sfondo ultimo del discorso platonico, che rimane alle spalle della formidabile deduzione hegeliana. L essere determinato costituisce cioè il lascito di una persuasione teorica essenziale. E del resto, la filosofia indirizza bensì il proprio sguardo alla realtà, ma appunto pensando. Agli occhi del filosofo è sempre la filigrana concettuale dello spettacolo a imporsi. Che si diano gli essenti e il mutamento del mondo, e tutto quello che al suo interno si palesa dinanzi a noi, è ciò che il logos suggerisce e sancisce, in forza di un 15 Phys., I.

85 84 D. SPANIO argomento. Al di qua della filosofia, insomma, non c è se non quello che attende, se verrà, una conferma o una smentita. La doxa. Si tratta cioè di rendersi conto del fatto (il fatto originario della filosofia) che la determinazione ontologica, evocata da Platone e ripensata da Aristotele, rappresenta l esito di una impasse teorica e dunque una risposta teorica al problema suscitato dalla necessità di corrispondere al dettato eleatico, stando al quale è impossibile che l essere non sia. L essere determinato è un eredità filosofica. Cosa eredita, dunque, l essere determinato? Certo, l essere determinato è affetto dalla negazione. Esso passa, muta, si altera, premuto da sé o da (un) altro (se stesso). Tuttavia, occorre chiedersi perché c è, quando c è, questa pressione. Cosa spinge cioè l essere determinato a oltrepassare se stesso? La risposta non poteva che rinviare alla necessità di pensare l essere come questo tenere a bada l altro da sé, divenendo l altro da sé. Sennonché, sia il tenere a bada che il divenire altro trovava la propria giustificazione nella provocazione parmenidea, ambiguamente esposta alla correzione platonica. Cosa pensa infatti la filosofia occidentale, fin da principio? Pensa a un essere che si oppone all altro da sé, divenendo l altro da sé. Parmenide ed Eraclito, per questo verso, appaiono essenzialmente solidali. L essere, insomma, mentre il nulla non è, è il proprio altro nel divenire della determinazione. L essere che non è il non essere si emancipa dal semplice è, divenendo, vale a dire non essendo. Esso, infine, è nulla, ma appunto divenendo. Ciò significa che l essere è il non essere come ciò-che-è (un certo essere), enfatizzando la finitezza e l inquietudine del mondo. Il mondo è e non è, proprio perché suscita la dislocazione degli essenti e la successione degli eventi. Ecco il punto in cui essere e divenire fanno uno, senza contraddizione. Si tratta tuttavia della contraddizione di una contraddizione. L essere, contraddittorio, si contraddice ed è: diviene (e si annienta), per essere, suscitando la determinazione ontologica. Siccome l essere ut sic è passaggio (o essere passato) nel nulla, allora occorre dar luogo alla correzione per la quale l essere diviene, per non essere il non essere. La circostanza, tuttavia, vale soltanto a esaltare la molteplicità delle determinazioni, affidate così alla dislocazione e alla successione. Insistere sul fatto che il divenire affligge le determinazioni, finite e mutevoli, significa allora eviden-

86 Nihil, ex nihilo. Un percorso filosofico 85 ziare il senso dell andare incontro al nulla che l indeterminato non riesce a escludere da sé. La determinazione può andare e va nel nulla, senza contraddizione, a differenza dell indeterminato, costretto a contraddirsi. Ora, andare nel nulla e identificarvisi equivale infatti ad alterarsi, in direzione di sé come un altro. Resta, però, l ambiguità del punto di partenza. L andare nel nulla dell essere è l essere nulla dell essere e l essere essere del nulla. L opposizione rimane cioè ancora un esigenza. Invece di pensare l identità dell essere, immune dal non, la filosofia tenta di pensare la sua contraddizione, convinta che basti traslocare dal piano della indeterminazione a quello della determinazione. Con quale risultato? 9. AMBIGUITÀ DEL NON ESSERE Si trattava intanto di comprendere come la tradizione metafisica occidentale potesse essere ricondotta all ambiguità per la quale l essere resisteva bensì all irruzione dell altro da sé, ma solo a patto di interpretare l altro da sé come un altro essere, altro dal proprio altro. Platone e Aristotele accomunati dalla persuasione che, con Parmenide, si dovesse certamente opporre l essere al non essere vedevano così risolta la contraddizione del divenire: non passaggio dall essere al niente, bensì da qualcosa a qualcosa. Ciò che però doveva pensarsi nel passaggio era il passaggio dall essere al non essere assoluti. Era questo passaggio che rimaneva, come in sospeso, alle spalle dell intera vicenda. Infatti, il qualcosa, in cui il qualcosa passava, differiva dal qualcosa di partenza nella misura in cui non lo era, vale a dire era il suo non essere. Il che dà luogo evidentemente a una contraddizione, anche se per dirla con Hegel si trattava di una contraddizione esistente 16. Ciò che era, dunque, ma non poteva essere di per sé e richiedeva di essere speculativamente sanato. Il divenire delle determinazioni era cioè interpretato come un franare nell altro da sé dell essere che tuttavia non dovrebbe franare. 16 Cf. G.W.F. HEGEL, Scienza della logica, Libro II, Sez. I, cap. III, C, nota III.

87 86 D. SPANIO Sennonché, tradotto il non essere nel qualcosa, la filosofia perdeva di vista proprio la frana dell essere, in cui è la consistenza ontologica a frantumarsi, per mettere gli occhi sulla sua frammentazione. Katakekermatìsthai, scrive Platone 17. Si apriva così la via lungo la quale il non essere finiva col vestire i panni dell essere finito e mutevole opposto a quello infinito e immutabile, per quel tanto che, a differenza del primo, esposto alla violenza del non, il secondo bastava a se stesso, inviolabile e pieno di sé. Per questa via, insomma, la tradizione filosofica avrebbe consolidato la persuasione di dover certamente accompagnare l essere all essere, così da radicare la determinazione in un fondamento assoluto, ma enfatizzando il ruolo della differenza in luogo del differire. Si sarebbe cioè trattato non tanto di mettere in fila gli essenti, uno accanto e dopo l altro, bensì di garantirne l anticipazione essenziale. La differenza, differendo (in sé e dall altro da sé), avrebbe cioè implicato l esistenza del non (un altro essere) chiamato a colmarne il difetto, evocato obliquamente dalla sua finitezza. Non solo. L altro essere, che da ultimo colmava interamente il difetto, sarebbe stato quello di cui il differente avrebbe avuto bisogno per essere quello che era e per divenirlo, scongiurando così l impossibile annientamento dell essere. Ora, percorrendo fino in fondo questa strada, la filosofia si sarebbe preoccupata soprattutto di marcare la differenza tra il mondo e il suo fondamento, per consentire al mondo di differire e al suo fondamento di anticiparne tuttavia gli esiti. Da Platone ad Aristotele a Plotino, su su fino al creazionismo della teologia razionale giudaico-cristiana, è lungo questa linea che si sarebbe mosso il pensiero filosofico. Ma con quali esiti? E non è anzi proprio l insoddisfazione per essi, anche se non per i suoi presupposti teorici, che conduce il pensiero moderno ad adottare una strategia diversa? Non è allora l immanentismo moderno la risposta che la filosofia persegue per rimuovere la difficoltà essenziale del teismo trascendente di marca platonico-aristotelica? 17 PLATONE, Soph., 257c7-8.

88 Nihil, ex nihilo. Un percorso filosofico IL TEOREMA ONTOLOGICO L essere è, mentre il non essere non è. Dunque il differire del mondo si radica nella dimensione eterna e immutabile chiamata a farla essere, anche se sono molti i modi in cui questo fare è interpretato nel corso della vicenda filosofica occidentale. Così suona il teorema ontologico fondamentale. Il differire del mondo, tuttavia, con l andar del tempo sarebbe apparso tale da non differire dal proprio fondamento, come già da sempre raccolto nel grembo accogliente del divino inviolabile e infinito. In questo non differire, infatti, si sarebbe colto il suo autentico differire, ontologicamente rilevante, e perciò svincolato dal vincolo che gli consentiva di essere. Salvo dal nulla, infatti, l essere non rinunciava a sé, ma alla determinazione che, terminando, non era, se non presso di sé, prima e al di qua del mondo, nel dominio eterno e immutabile di una matrice indisponibile. 11. GENTILE. EVOCARE IL MONDO, PENSARE IL MONDO Ma, daccapo, un conto era evocare il mondo, un altro pensarlo. E, pensandolo, la filosofia faceva e avrebbe fatto del mondo un impensabile. Gentile ne era convinto. Ciò che egli rimprovera all intera tradizione metafisica occidentale, e a Hegel, che di essa rappresentava il culmine, è di non essere riuscita a pensare il nulla del mondo. Lasciandoselo sfuggire, infatti, essa lo aveva sempre tradotto in ciò che, interloquendo con l essere, non si sottraeva mai alla sua luce. Dopo Parmenide, certo, lo si era bensì tenuto a bada, ma confondendolo sempre con l altro essere che la determinazione doveva divenire. In questo senso, il discorso filosofico finiva col trascurare il tratto fondamentale dell osservazione platonica, per il quale l essere resisteva bensì all altro da sé, il nulla, ma divenendo (o, meglio, essendo) l altro da sé, nel differente chiamato a esporlo. Certo, la filosofia interpretava questa unità (o identità) dell essere e del non essere come passaggio da qualcosa a qualcosa. Ma era appunto un interpretazione che doveva apparire sempre meno convincente. Gentile, a suo modo, avrebbe cominciato a dire perché.

89 88 D. SPANIO L approccio gentiliano, infatti, a partire da Hegel, mira esplicitamente a mettere in questione il modo in cui la scienza della logica introduce il passaggio dall essere indeterminato, inviolabile ed eterno, all essere determinato, in cui è il grembo originario del mondo a imporsi. Quel modo gli pare essenzialmente scorretto, la scorrettezza dipendendo dal modo in cui la filosofia, con Platone, si persuade di poter evitare il contagio ontologico. Naturalmente, si tratta di non perdere di vista che l essere è altro dal non essere. Pensare il contrario è impossibile, il contrario essendo impossibile. Insomma: tener fermo l essere significa opporlo al non essere, come a ciò che l essere, nella misura in cui è, non è. Ora, anche per Gentile, fedele al suggerimento parmenideo, l interlocuzione tra l essere e il non essere deve esserci l essere, infatti, per l attualismo consiste essenzialmente in questa interlocuzione, ma la circostanza non può in alcun modo alludere a una entificazione del non essere. L interlocuzione, sennò, darebbe luogo a un monologo. Se per Platone la cosa è, senza contraddizione, il non essere che l essere, essendo, tiene saldamente a bada, ciò significa che essa, differendo, altera bensì la propria consistenza, ma senza che ad alterarsi sia l essere. L essere della determinazione è, ma la determinazione, in cui l essere trasferisce se stesso, non è e passa, permanendo tuttavia nella determinazione che, durante il passaggio, ne custodisce la consistenza. In termini hegeliani, la cosa annuncia così le sembianze del determinato, finito e mutevole. Premuto dal nulla, il determinato finisce; anzi, termina: interloquendo con il non essere, l essere diviene altro da sé. In questo senso, tuttavia, l essere determinato eredita l incapacità dell essere di tenere a bada il non essere, anche se solo in quanto è quel determinato che è (casa e non stella, mare, ecc.) e non in quanto tale. In quanto determinato, infatti, l essere permane, nonostante l andirivieni delle sue sembianze, soggette al divenire. Il determinato insomma passa, suscitando il cessare e il destarsi del mondo (vergehen ed entstehen), ma la vicenda mondana non intacca la risorsa ontologica, immune dal non essere. Ecco il destino dell essere determinato. La soluzione platonico-hegeliana, tuttavia, rimane esposta all aporia. E Gentile provvede appunto a sottolinearla. Non senza ambiguità e ritrosie, infatti, la filosofia si convince di poter scongiurare l impossibile intreccio dell essere e del non essere affidandolo al

90 Nihil, ex nihilo. Un percorso filosofico 89 divenire della determinazione. Non essere del non essere: ecco il divenire incontraddittorio, radicato nell essere. Eppure, introducendo il passaggio da qualcosa a qualcosa, imposto così allo sguardo che comincia ad affacciarsi sul mondo, la filosofia è indotta ad anticipare il divenire dell essente all essente stesso. Per questa via, si assiste cioè a una moltiplicazione dell essere che, annunciando la spartizione dello spazio e del tempo, tratta il non della cosa come un altra cosa, come una certa cosa che è. Pensare il divenire delle cose che sono, il loro nascere e morire, significa, da ultimo, interpretare il nascere e il morire come l esser già della cosa che nasce e muore. Dopo Platone, fino a Hegel, divenire significa infatti divenire ciò, che, essendo, consegna il nascere e il morire della cosa all essere che essa è già. 12. IL PRECIPIZIO ONTOLOGICO Accade così che, traducendo l essere nell essere determinato e il rapporto essere-non essere nella relazione tra il qualcosa e l altro, la filosofia interpreti l altro a cui la cosa va incontro soltanto come un essente. Perché? Evidentemente, per scongiurare la contraddizione alla quale l essere che passa va (o rischia di andare) incontro, imbattendosi nell altro da sé. Alterandosi, infatti, la cosa si imbatte in quello che l essere, da cui esso stesso è animato, è già prima di divenire. La determinazione va cioè incontro a una vocazione, che allude a quello che essa è chiamata ad essere (bestimmung). Messa cioè in questi termini, la circostanza rinvia così a un destino (bestimmung) al quale le cose non possono sottrarsi. Le cose del mondo divengono bensì altro da sé, ma divengono ciò che esse, in qualche modo, sono già da sempre, vive e morte. In qualche modo, dato che esse si alterano. Ma che ne è dell alterazione? L ammonimento di Gentile è che se noi concediamo quello che, dietro la grande tradizione metafisica occidentale, concede Hegel, vale a dire il precipizio ontologico richiamato dal passaggio dall indeterminato al determinato, tramite il divenire, noi concediamo quello che, invece di consentirlo, toglie respiro ontologico al mondo. Perché? Perché è questa la traduzione hegeliana si sarebbe trat-

91 90 D. SPANIO tato di rendersi conto che così come l essere, passando nel non essere, diviene, allo stesso modo il divenire diviene, scongiurando l oscillazione originaria. L inquietudine originaria mobilita bensì l essere e continua a mobilitarlo, ma esisterebbe un precipizio sul fondo del quale gli essenti, suscitati da quella mobilitazione, sono costretti a ritrovarsi, inghiottiti da una realtà senza mondo. Si osservi che questa moltiplicazione originaria allude alla moltiplicazione spazio-temporale chiamata a legittimare il progetto originario della filosofia: mettere gli occhi nel nulla. Ecco: la filosofia intende bensì mettere gli occhi nel nulla a cui le cose sono destinate, ma proprio perché mettervi gli occhi significa metterli su quella cosa che la cosa è destinata a divenire. Del resto, il progetto epistemico-metafisico è dettato dal convincimento di potere prevedere l andamento degli eventi, che, non potendo violare l integrità dell essere, sono già originariamente accaduti. Essi sono già originariamente se stessi: ciò a cui l essente va incontro è ciò che l essente è già, vale a dire l essere che lo innerva, impedendogli di colmare la scena diveniente del mondo. Il non essere a cui l essente va incontro è cioè qualcosa: non il niente assoluto, bensì la cosa in cui la filosofia lo ha tradotto, persuasa tuttavia di garantirne così l avvento. Ma a cosa vanno incontro, da ultimo, le cose di questo mondo? Vanno incontro appunto a una cosa: la Cosa che le sovrasta, nella quale è riassunto il loro esser già, sovrastante il nulla. 13. IL FUTURO DEL MONDO Certo, l esser già delle cose non è visibile o presente, anche se l epistéme si incarica di delinearne la fisionomia, ma esso dovrà (se dovrà) sopraggiungere come il già da sempre sopraggiunto. Il progetto di un sapere assoluto appare verosimile e praticabile appunto perché le cose sono già quello che esse diverranno e ha dunque a che fare con la persuasione di poter mettere gli occhi nel futuro della cosa come vocazione. Il filosofo platonico, ossia il dialettico, è colui che riesce a mettere gli occhi nel destino della cosa, perché ha già visto: pre-visto. Non è un caso, del resto, che la filosofia faccia riferimento al dominio ideale: il già visto. È possibile prevedere poiché è possibile rievocare il già visto, dato che ciò che sopraggiunge è, in

92 Nihil, ex nihilo. Un percorso filosofico 91 qualche misura e in un certo modo, già accaduto. Al nulla che l essere non riesce a negare si sostituisce allora, mediato dalla determinazione, un altro Essere o l Essere altro. Essere e non nulla, come nulla della determinazione. Ora, non a caso, il sapere filosofico considera ciò che è, ciò che è stato e ciò che sarà. Theoria. Proporsi di vedere ciò che è stato e ciò che sarà significava allora attribuire al passato e al futuro una consistenza pregressa, interloquendo con il nulla anticipato nelle cose che sono al modo del destino (Bestimmung). Se le cose divengono e non sono, ciò accade perché esse traslocano lì dove sono chiamate a compiere se stesse. Sennonché, è proprio l insistenza sul differire della cosa, in qualche modo e in una certa misura anticipato, a suscitare le maggiori resistenze gentiliane. Per il padre dell attualismo, infatti, la filosofia pare muoversi su un doppio binario: da un lato, essa concede il divenire dell essere, per liberarlo dal nulla; dall altro, si convince che questa liberazione equivalga al darsi di una determinazione che, appunto, termina, suscitando lo scarto anticipabile del mondo. Anticipato, il mondo è già e non diviene. Divenendo, esso non è (ancora o più) e non è anticipato. O essere o nulla. In entrambi i casi, tuttavia, perdendo di vista, con l uno e l altro, il divenire obliquamente chiamato a testimoniare l annullamento dell essere e l entificazione del nulla. L impossibile: da scongiurare o da rimuovere, introducendo speculativamente l alterità essenziale dell Indiveniente. La filosofia, persuasa di chiudere così la partita, non si sarebbe cioè accorta che il termine della determinazione non annullava l annullamento dell essere, ripristinando la sua fisionomia originaria, bensì lo ribadiva, su un altro piano: il mondo. Stando a Gentile, insomma, l idea che il mondo si radica nell essere erediterebbe e insieme farebbe fruttare l eleatismo per il quale è appunto l essere che si libera del nulla, e non le determinazioni che vanno e vengono, inaugurando lo spazio infinito del divenire che gli consentirebbe di farlo. Del resto, l essere non è appunto il lasciare fuori di sé soltanto il nulla e cioè il non lasciare nulla fuori di sé? E che l essere non sia (il non essere) e perciò divenga è Platone a dirlo, per primo, anche se il punto decisivo rimane l intendimento del divenire. Il divenire di ciò che è (se stesso).

93 92 D. SPANIO 14. IDENTITÀ E NON CONTRADDIZIONE Di che cosa parliamo, infatti, quando parliamo della identità (tautòtes)? Rinviamo (anche e soprattutto, in prima battuta) alla custodia del divenire in cui ne va dell essere determinato. Aristotele è esplicito: il principio di non contraddizione sancisce l avvento della molteplicità, consentendo agli essenti di essere quello che sono: se stessi e non l altro da sé. Ciò doveva significare che essi mobilitavano se stessi, sparpagliandosi nello spazio e nel tempo. Parmenide, equivocando il significato dell incontraddittorio, aveva smarrito la compagine degli essenti, dapprima finiti e mutevoli. Sennonché, il logos di cui la filosofia si era servita per lasciar trasparire il mondo, la sua consistenza ontologica e il suo andamento, perpetuava la confusione di fondo tra l essere e il non essere che Platone aveva tentato di comporre nel seno della determinazione. La bebaiotàte arché finiva infatti con l evocare la persuasione che le cose non fossero l altro da sé nella misura in cui indugiavano presso di sé, anche quando traslocavano (o parevano traslocare) nell altro da sé. In fin dei conti, il principio più fermo di tutti rinviava alla differenza delle differenze. Si era appunto trattato di precisare l interlocuzione originaria essere-non essere. L essere è, mentre il nulla non è. Hegel, ma soprattutto, dopo di lui, Gentile che dell hegelismo non si è mai accontentato ci invitano a trattare daccapo questa interlocuzione, esplorando la necessità di complicare la consistenza dell essere (symploché), anche contrastando l arché aristotelica. Non basta infatti tradurre il non essere in un altro essere, finché il significato dell essere altro di un altro resta come in sospeso. Certo, le cose si dice (r)esistono, impedendo al non (essere) di travolgerne la consistenza. Se (r)esistono è perché sono premute, ma appunto (r)esistono, e nulla impedisce ad esse di essere quello che sono. Ma in che senso, allora, c è una pressione? Perché il non essere preme sulle cose? O si dovrà dire che sono esse, come tali, a cedere e non il non essere a insidiarne la consistenza? Il non essere non preme, se non è. Ora, Platone suggerisce che non è l essere a sopportare la pressione del non essere, ma il determinato, che, appunto, non è. L essere non ha avversari, a differenza del determinato (specie se il determinato è la cosa finita e mutevole). Sennonché, si tratta di non

94 Nihil, ex nihilo. Un percorso filosofico 93 dimenticare che l essere tradotto nell esserci non è altro che l essere che si oppone al non essere, non dovendolo fare. La supplenza del determinato avrebbe insomma garantito quella resistenza dell essere che l essere, nonostante Parmenide, non era riuscito a incarnare senza cedere al nulla, confondendovisi. Le metafore belliche (si oppone, tiene a bada, vince, resiste ecc.) di cui si serve la filosofia, sulla scia di Eraclito, alludono o rinviano, con l interlocuzione dei due, al non essere pensato appunto come differente da(e ne)ll essere. Orologio e (non è il) tavolo. L essere determinato, daccapo, è senza dubbio pensato a partire dall oscillazione dell essere che, proprio non essendo il non essere, è il non essere. Ma come interpretare allora questa oscillazione? 15. L INTERLOCUZIONE ORIGINARIA Il punto fondamentale mi pare questo: Gentile, promuovendone la riforma, contesta alla dialettica hegeliana di lasciar precipitare l inquietudine dell essere nel risultato (l esserci o essere determinato) chiamato a estinguerla. Se seguiamo Hegel (e, con lui, l intera tradizione filosofica) così doveva esprimersi Gentile, il non essere è sempre un altro essere, e l inquieta interlocuzione essere-nulla va perduta. Se, insomma, sulla base della incapacità eleatica di fissare l interlocuzione, concediamo il dasein, allora togliamo all essere, come mondo, il nulla di cui esso ha bisogno per emanciparsi concretamente dall altro da sé nel quale, non a caso, Parmenide lo vede (ed è certamente una visione paradossale) svanire. Il nulla assoluto. Non sorprende allora che la filosofia colga nell andirivieni cui è soggetta la physis l imporsi, per via fenomenologica, del momento logico riveduto e corretto. Per questo verso, Aristotele insiste sulla necessità di dare spazio al non essere, concedendo il divenire, ma il divenire (da pensare) è una necessità insieme (e primariamente) logica. Il non essere non è. Consentire il divenire dal non essere e il divenire non essere significa allora evocare il darsi del non come sempre riferito a qualcosa (il freddo, ad es., come il non essere caldo da cui il caldo proviene).

95 94 D. SPANIO Certo, la privazione aristotelica è, per sé, non essere, sì che la differenza ha sempre a che fare con il nulla, ma il divenire dell essere implica l intervento del non al modo della cosa che la cosa, divenendo, è. Sennonché, è proprio su questo insidioso crinale che la filosofia pare a Gentile non essere riuscita a rimanere in equilibrio. Consapevole della necessità di concedere la consistenza dell essere determinato, essere e insieme non essere, la filosofia non sarebbe mai riuscita a pensare il nulla, senza tradurlo in un qualcosa. In tal senso, Gentile doveva sottolineare come la filosofia, per sottrarsi all aporia platonica, testimone della ambiguità del tema ontologico, avesse perciò evocato e insieme rincorso il mondo, lasciandoselo sempre sfuggire. Non riuscendo, anzi, propriamente, a pensarlo, essa lo avrebbe definitivamente perduto, incapace di concedergli (se non contraddittoriamente) la storicità, l innovazione e l incremento (si tratta, evidentemente, di una costellazione semantica alquanto problematica) che pure avrebbe dovuto caratterizzarlo. Si sarebbe cioè trattato piuttosto di assecondare la sua analitica ripetizione, inaugurando, di fatto, l imporsi di un mondo che ripete se stesso. Per questo verso, Gentile invitava a considerare come la dialettica avesse costantemente animato il pensiero filosofico, dopo Parmenide (o già con Parmenide?), ma solo cedendo la signoria del tema ontologico all analitica, la vera erede della dialettica platonica. Certo, le cose mutano, cambiano, ma ciò che sopraggiunge è già, implicito nella cosa sopraggiungente come quello a cui la cosa è già da sempre destinata. Se la filosofia allora consiste nella liberazione dall eleatismo che, incapace di tener fermo l essere, rende impensabile e cancella il mondo, Platone è colui che consegna nelle sue mani il «segreto» 18 di una formula essere e insieme non essere che finisce col tradire e Parmenide e il mondo. La via platonica, ricalcata, da ultimo (ma non per ultimo), da Hegel, risolveva cioè un problema vero con una soluzione falsa. 18 Cf. G. GENTILE, Sistema di logica come teoria del conoscere, vol. I, Sansoni, Firenze , p. 98.

96 Nihil, ex nihilo. Un percorso filosofico 95 Lungo quella via, infatti, il pensiero occidentale avrebbe con sempre maggiore coerenza tolto consistenza a quello che il logos era riuscito a imporre, inventando il mondo. Si sarebbe trattato infatti di consentire o che l essere (della determinazione) si annullasse oppure che la determinazione (dell essere) si entificasse. Ciò che, stando a Gentile, non poteva essere concesso, se non tentando di coniugare, senza più confondere essere e nulla, annientamento ed entificazione nella esperienza. Occorreva cioè finalmente risolversi a concedere non l essere, bensì il mondo consistente nel determinato in cui era l autentica unità dell essere e del non essere a trionfare. Non il mondo come oggetto del pensiero, bensì il soggetto del pensiero come farsi del mondo. Che l essere fosse non poteva cioè significare che esso fosse già, nonostante l andirivieni del mondo. L esser già, semmai, doveva competere al suo divenire, moltiplicando senza resti la propria evenienza mondana. In tal senso, additando un mondo infinito ed eterno, l attualismo avrebbe escluso l entificazione e l annullamento delle cose, spingendo il nulla a significare il loro determinarsi, privo di ogni presupposto. Non l origine del mondo, dunque, bensì la sua definizione. Per questa via, insomma, si sarebbe cioè andati incontro bensì all annientamento dell essere 19, ma per consegnare la consistenza ontologica al sorgere e tramontare della platea degli essenti (non essenti perciò l altro da sé). Divenire, allora, stando così le cose, avrebbe significato andare incontro al nulla che, rovesciato nella determinazione, sopraggiungeva nella forma dell evento mondano, in cui niente era che non fosse sottratto all anticipazione destinata a mortificarlo. 19 «Bisogna muoversi, entrare nel concreto, nell eterno processo del pensare. E qui l essere si muove circolarmente tornando su se stesso, e però annientando se stesso come essere. Qui è la sua vita, il suo divenire: il pensiero», G. GENTILE, La riforma della dialettica hegeliana, Sansoni, Firenze , pp

97 96 D. SPANIO 16. GENTILE: EX NIHILO L insistenza platonica sulla epallaxis del mondo, in cui l altro (àllos) si fa altro di (epi) un altro, non bastava a evitare il suo eleatico tracollo. Lo spazio per l alternanza dell essere doveva concedersi davvero, ammessa la verità dell interlocuzione ontologica. Gentile invitava allora a ripensare l ex nihilo del mondo, per condurre in porto il progetto filosofico occidentale 20. Si trattava infatti di radicalizzare il concetto di creazione, ereditando e facendo fruttare il meglio della tradizione giudaico-cristiana. Perché? Perché (al di là del legame cristianesimo-attualismo rivendicato da Gentile) l ex nihilo, sottratto alle maglie rigide del realismo, avrebbe potuto rappresentare il compimento autentico del discorso avviato da Platone intorno all interlocuzione essere-non essere. Dominare il non essere, testimoniando le differenze del mondo, secondo gli intendimenti della filosofia, significava bensì tener ferme le differenze del mondo, in cui era la vittoria dell essere sul non essere a manifestarsi, ma additando appunto la necessità di intendere il mondo come un provenenire dal niente di sé. Naturalmente, siamo di fronte a una cosa enorme dal punto di vista concettuale. L ex nihilo della creazione Tommaso d Aquino lo sa bene 21 non dice il nulla come il luogo da cui le cose sono tratte. Lo ex non allude a un moto da luogo. Gioberti caro a Gentile ribadirà a suo modo che la formula veicola una metafora. L uomo è originariamente al cospetto della creazione (il fatto divino), ma ciò non significa che egli assista all irruzione del niente («il che fora veramente uno strano spettacolo» 22 ). Si tratta però di non trascurare il fatto che siamo così al cospetto di una impostazione che, nonostante le gravi riserve del pensatore torinese, cattolico a modo suo, ha alle spalle l avvento della modernità. Del resto, se è vero che gli antichi traducono l essere nell essere determinato, sono poi i moderni che provvedono a tradurre l essere determinato nel cogito. 20 Cf. D. SPANIO, L essere e il divenire. L ontologia di Gentile, «Divus Thomas», 117, 2 (2014), pp Cf. S. Th., I, V. GIOBERTI, Introduzione allo studio della filosofia, II, F.lli Bocca, Milano 1941, p. 214.

98 Nihil, ex nihilo. Un percorso filosofico LOGICA E FENOMENOLOGIA DEL NULLA La vicenda filosofica occidentale rappresenta infatti questo doppio movimento: logico-ontologico e fenomenologico-gnoseologico. Lungo questa via, l essere da pensare e il pensiero che pensa finiscono col convergere in una struttura unitaria, in ragione della quale si tratta infine di comprendere che l essere appare, come determinato, originariamente preda di uno sguardo che lo trattiene entro i confini immutabili dell esperienza. Gentile si colloca al culmine di questo percorso, al termine del quale è l orizzonte puro della coscienza attuale a imporsi come unità dell essere e del non essere. L essere è l Io trascendentale in quanto manifestazione del mondo. Ontologia è fenomeno-logia. Se per gli antichi, l essere determinato corrisponde al toglimento dell indeterminato, per i moderni l apparire dell essere determinato equivale al toglimento del determinato che non appare. Si trattava dunque di radicalizzare l immanentismo filosofico, per cui è il mondo, sono la vita e la storia a imporsi, ma, soprattutto, di inaugurare lo spazio metafisico che consentisse di corrispondere alla scommessa platonica. D altra parte, l attualismo di Gentile si presenta esplicitamente come una riforma del concetto di nulla, sulla scia del tentativo spaventiano, che la avvia con decisione, riprendendo da capo il tema del Sofista. Occorreva cioè ancora una volta seguire Platone, alle prese con la riforma del nulla evocato da Parmenide, e da Parmenide escluso bensì dall essere, ma preda, appunto, della sua esclusione 23. Cos è, dunque, il nulla? È scrive Platone il differente dall essere, in cui l essere trova se stesso, opposto a sé come a un altro (ecco il non essere, di cui l essere si libera). Spaventa, dietro Hegel, ma consapevole della necessità di non fermarsi alla lettera del suo idealismo, si rende conto che il non essere non è affatto il concetto che accompagna il concetto di essere (in cui l essere, come che sia, si risolve). Il nulla si riferisce infatti all orizzonte trascendentale che suscita il pensiero o l atto del pensare Cf. G. GENTILE, La riforma della dialettica hegeliana, Sansoni, Firenze , pp , nota Cf. ibid., pp. 20 ss.

99 98 D. SPANIO Si trattava insomma di comprendere che l essere chiamato a divenire l altro da sé, inquietandosi, era appunto quello che l attualismo interpreta come lo sprigionarsi dell Io. L essere era insomma l atto del pensare che non è e diviene. Non l essere che precede l esperienza del mondo, ma lo scaturire del suo processo. Non uno spettacolo a cui rivolgersi, ma per dir così lo spettatore trascendentale deputato a farlo risaltare. Se l essere fosse stato lo spettacolo imposto allo sguardo, esso sarebbe stato quello che era, lasciando fuori di sé il sorgere del mondo, inghiottito dall inerzia del presupposto. E un presupposto, con l essere, rimaneva il reticolo delle forme chiamate da Hegel a imbrigliare la realtà storica, anticipata dalla natura. L essere è non essere, per non essere (già o più), quando è atto del pensare, in cui il già e il non più cedono il passo all istante trascendentale. Di qui l intreccio che, nell attualismo, stringe logica e fenomenologia, in direzione del nulla. 18. AUTOCTISI DEL NULLA? L ex nihilo di Gentile si risolve allora nella autocreazione dello spettacolo trascendentale. Per onorare il nulla, vale a dire la nientità del niente, in cui l essere si imbatte, sorgendo, occorreva che il divenire equivalesse al toglimento di ogni presupposto. Ciò significava concentrare e trattenere la totalità dell essere entro i confini immutabili dell orizzonte attuale. Solo per questa via, stando a Gentile, avrebbe trovato spazio la nientità del niente che Parmenide e, dopo di lui, l intera tradizione filosofica, confondendo essere e non (essere), rendevano impossibile. Si tratta tuttavia di rendersi conto di come Gentile, frenando rispetto al parricidio platonico rievocato dal precipizio hegeliano, nel quale si annunciavano i lineamenti della cosa già essente, miri a custodire la consistenza del mondo, che, oltre Parmenide, Platone esortava a non compromettere, costringendoci a fare i conti con la radicalità di un immanentismo che non rinuncia alle ragioni della trascendenza. Nulla precede il mondo, se il mondo è (il non essere del molteplice) e non è (l essere molteplice), vivo della vita che attualmente lo testimonia.

100 Nihil, ex nihilo. Un percorso filosofico 99 Ma a quale scenario rinvia la provocazione gentiliana, non esente da imbarazzi e ritrosie 25, nel momento in cui esorta a tener fermo il divenire, custode di una consistenza che, infinita ed eterna, traspare nell andirivieni del mondo? In tal senso, la persuasione che nulla precede l essere manifesto dell Io, non suggerisce forse che l essere la formula è gentiliana procede da sé a sé, investito da una luce che non lo abbandona mai? Gentile, facendo tesoro del suggerimento proveniente dalla tradizione giudaico-cristiana, invita a considerare come vincere davvero l essere, testimoniando la consistenza dell essente, significhi creare. Lo sprigionarsi dell esperienza coincide infatti con l imporsi dell essere che è ridotto a niente non appena il sorgere dell essere viene anticipato a se stesso, sorto prima di sorgere. L attualità infatti non contempla un prima che non le appartenga: il prima è sempre un dopo, rispetto all essere che, divenendo, inaugura l orizzonte trascendentale. Ex nihilo. L atto creativo doveva cioè ribadire l esclusione del niente che il sopraggiungere e il dileguare della cosa sarebbero stati, se l essere non fosse equivalso al divenire, in cui non era il nascere e il morire a cambiare di segno. 25 Che l essere si annulli, per essere, non è un problema per Gentile (lo è, semmai, un essere che non si annulla). Si tratterebbe di approfondire ulteriormente il tema. Da un lato, potremmo tornare a osservare come egli sia convinto con Platone che l essere si annulla idealmente non appena lo isoliamo dalle determinazioni attuali chiamate a esibirlo; dall altro, dovremmo renderci conto di come la circostanza lo induca tuttavia a ritenere che l atto del pensiero si annulli realmente, suscitando lo spettacolo del mondo. Occorrerebbe cioè fermarsi più a lungo sulla dialettica dell attualismo, in cui è la concretezza del trascendentale a imporsi, per verificare quali contraccolpi terminologici e concettuali determini il passaggio dal piano (oggettivo) in cui l Essere è a quello (soggettivo) dell Io sono. Per questa via, infatti, ci si convincerebbe di come, dopo Gentile, termini quali storia, incremento, novità, chiamati ormai a designare l autentico oltrepassamento della dimensione temporale, richiedano una introduzione speculativa ad hoc, all altezza di una sfida teorica senza precedenti.

101 100 D. SPANIO Le cose per dirla con una formula tradizionale sono niente senza l atto creativo. È la grande lezione del creazionismo teologico, ma per Gentile si tratta di concedere l atto creativo di un creatore (Io o apparire trascendentale) che coincide col farsi della creatura in preda alla più radicale imprevedibilità. La imprevedibilità di una autoctisi, specchio e riflesso della imprevedibilità del nulla che traspare, come una filigrana persistente, dalla luminosa compagine degli essenti in divenire. Prevedibile, del resto, è solo il nulla che la filosofia si ostina a entificare, prodigo del mondo. Non quello che il mondo non essendo, poiché è ora lascia fuori di sé, consegnato a una alterità irriducibile. Certo, l essere diviene (ed è). Trionfa cioè un divenire in cui nulla finisce e insieme nulla è, per quel tanto che esso si colloca tra l inquietudine dell essere e l inerzia degli essenti, sprigionando l interlocuzione originaria. L essere è, mentre il nulla non è. Ma, dopo Gentile, cosa significa, allora, divenire? RIASSUNTO Il contributo propone un percorso filosofico da Parmenide a Gentile, passando per Platone e Hegel. Al centro dell indagine è l ambigua natura del nulla da cui scaturisce il tentativo filosofico di concedere al mondo una consistenza ontologica. L attualismo di Gentile, contro Platone e Hegel, invita a cogliere la verità del mondo che proviene ex nihilo, senza che nemmeno il nulla anticipi il suo avvento. Trionfa il divenire. Ma di quale divenire allora si tratta? ABSTRACT This paper proposes a philosophical journey from Parmenides to Gentile, through Plato and Hegel. At the center of the investigation is the ambiguous nature of nothing that led to the philosophical attempt to grant an ontological consistency to the world.

102 Nihil, ex nihilo. Un percorso filosofico 101 Gentile s actualism, against Plato and Hegel, invites us to understand the truth of the world that comes ex nihilo, without anything advances its advent, not even the nothing. It triumphs the becoming. But then what means becoming?

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114 102 DT 118, 2 (2015), pp CREAZIONE DAL NULLA O RELAZIONE FONDATIVA GIUSEPPE BARZAGHI * LA PROSPETTIVA Occorre fare una precisazione che non riguarda tanto il tema, quanto ciò che lo precede, cioè la specificazione dell oggetto formale. E cioè ci si chiede: qui si parla dal punto di vista filosofico o dal punto di vista teologico? Questa è la questione, poiché il trattato sulla creazione può essere illustrato secondo questi due quadri. Nella Scolastica i due quadri sono gli oggetti formali. Un conto è l illustrazione della nozione di creazione nel quadro filosofico propriamente detto, altro è l illustrazione della nozione di creazione nel quadro teologico. È vero che già usando questi due termini si può cadere nell equivoco, perché esiste anche in filosofia una disciplina che si chiama teologia. Ciò che usualmente viene denominato metafisica, per Aristotele era teologia. Quando si riflette sulla nozione di creazione da un punto di vista filosofico, o da quello teologico, questo teologico potrebbe riguardare quella parte della filosofia che si occupa in termini puramente razionali, cioè indipendentemente dalla fede, del concetto di creazione. Per evitare tale equivoco bisogna operare questa distinzione: da una parte la prospettiva metafisica, filosofica o di teologia razionale; dall altra, ciò che solitamente viene definito teologia, lo si chiamerà col termine che veniva utilizzato * Studio filosofico domenicano di Bologna Scuola di Anagogia di Bologna.

115 Creazione dal nulla o relazione fondativa 103 da san Tommaso, cioè Sacra Doctrina. La Sacra Doctrina è la riflessione razionale sul contenuto rivelato e quindi dà per scontata la Rivelazione e la verità dei contenuti rivelati, aspetto che invece non può essere verificato da un punto di vista filosofico. In filosofia, infatti, nulla può essere dato per scontato. Questa distinzione è prima di tutto funzionale rispetto alla presentazione del discorso sulla creazione a partire dalla Sacra Doctrina, non tanto perché è il punto di partenza con il quale, già sul piano storico, si presenta l idea di creazione; d altra parte è la stessa riflessione della Scuola che dice che è un contenuto rivelato, ma che tuttavia non è un articolo di fede. Un articolo di fede è tale poiché può essere accolto solo attraverso la fede e la Rivelazione. La nozione di creazione non è un articolo di fede, dato che è un preambolo della fede. Per quale motivo? Anche se si presenta storicamente con la Rivelazione, la ragione, tuttavia, con le proprie capacità riesce ad inquadrarla e a fondarla. Quindi, essa non è più semplicemente patrimonio della fede, ma è patrimonio del sapere filosofico. Non a caso Gustavo Bontadini parlava del teorema di creazione. Teorema di creazione poiché può essere illustrato e argomentato con la pura luce della ragione, o, come direbbe san Tommaso, mediante la luce naturale dell intelletto. Ciò che ora importa mostrare è che il concetto di creazione ha bisogno di un inquadramento raffinatissimo già nello sguardo di Sacra Doctrina poiché è proprio nello sguardo della Sacra Doctrina che la nostra intelligenza viene sollecitata ad una comprensione di fede che non è psicologica. Cosa vuol dire una comprensione psicologica? La comprensione psicologica è quella che è legata strettamente ed inevitabilmente al giudizio sulle cose partendo da una immersione esclusiva dentro la sensibilità e la temporalità. Questo è l aspetto psicologico, con il senso che questo vocabolo assume nella filosofia scolastica, ovvero la riflessione sull attività della nostra intelligenza in quanto ha per oggetto la quiddità delle cose materiali. Quiddità è l astratto di quid, e quid vuol dire cosa (il quid est sarebbe il ti estì socratico). La cosa rimane cosa, ma appena la sottoponiamo ad un interrogativo è la cosa in quanto è nella nostra intelligenza. In quanto è nella nostra intelligenza si mostra come quid est. Se si opera un astrazione viene la quidditas, che è la natura delle cose materiali in quanto si affacciano nella nostra intelligenza. La psicologia razionale è l inchiesta che si fa intorno alla nostra intelligenza quando si investiga il passaggio

116 104 G. BARZAGHI dalla cosa, così come si presenta nella sensibilità, al suo modo di affacciarsi all intelligenza con l astrazione. È l aspetto psicologico perché, siccome l oggetto proprio della nostra intelligenza è la struttura delle cose materiali o sensibili, essa è legata alla illustrazione di queste cose anche attraverso un patrimonio di vocaboli che è su misura delle cose sensibili. E quindi è su misura delle cose che sono nel tempo. Per cui si parla sempre di tutto ciò che cade sotto il nostro sguardo in termini di composizione e di temporalità. Anche quando si considerano realtà che non cadono nell ordine della sensorialità (per esempio Dio, l anima dell uomo, o realtà puramente spirituali), pur nella consapevolezza che si tratta di realtà non sensibili, tuttavia se ne parla come se esse fossero sensibili. In teologia razionale o metafisica è presente una tesi importantissima quando si tratta di Dio: Dio è assolutamente semplice ed esclude qualsiasi composizione, anche quella che distingue tra il suo agire e il suo essere. L essere di Dio è l agire di Dio, l agire di Dio è l essere di Dio. Ma quando si afferma Dio vuole, si pensa a Dio come soggetto e vuole come azione esercitata nel presente. È possibile anche dire: Dio ha voluto, intendendo l azione esercitata nel passato. Tuttavia, Dio non è nel passato, né nel futuro e l agire di Dio è Dio. Allora, perché si dice Dio vuole, Dio amò o Dio farà? Perché questo è il nostro vocabolario. Eppure si è consapevoli che se si dovesse raffinare al massimo il linguaggio, sarebbe concesso soltanto l uso dell infinito: Dio sapere ; anzi, si dovrebbe dire Dio il sapere. Comunque, questo che dovrebbe essere il raffinamento del vocabolario diventa il massimo del massacro divino poiché ricorda la pubblicità di un enciclopedia per ragazzi! Il nostro modo di parlare delle cose semplici è composto, il nostro modo di parlare delle cose fuori dal tempo è pur sempre nella temporalità. Ciò vuol dire quadro psicologico. Tuttavia, è la stessa Rivelazione cristiana che anzitutto distingue tra il modo di conoscere psicologico e il modo di conoscere spirituale. Anche se, inevitabilmente, la Rivelazione usa il veicolo dell espressività psicologica la Sacra Scrittura utilizza infatti delle metafore, essa pur distingue tra il modo di conoscere psicologico e il modo di conoscere spirituale. Anche se, conviene ripeterlo, si passa attraverso il vocabolario psicologico, cioè strutturato nella temporalità anche per parlare di Dio; ma se è parola di Dio ci si avvia verso

117 Creazione dal nulla o relazione fondativa 105 l oltrepassamento di questa condizione psicologica. È quindi ovvio che il cultore di Sacra Doctrina dovrà prestare particolare attenzione a tali espressioni poiché lo indirizzano verso un quadro che è di purissima metafisica, pur essendo vincolato nell esposizione del pensiero rivelato di Dio. In questa prima parte ci si pone dal punto di vista della Sacra Doctrina. L ESIGENZA DELL OLTREPASSAMENTO Comunque, l esposizione della Sacra Scrittura è imbevuta di modalità psicologiche dovute alla aeternae Sapientiae admirabilis condescensio (Dei Verbum, 13), per la quale le parole di Dio si sono fatte simili al linguaggio degli uomini; ma, a ben vedere, vi sono dei punti in cui tale prospettiva viene fatta saltare. Si consideri la prima lettera ai Corinzi ai capitoli 1 e 2: qui, almeno a livello di sospetto, si comprende che per intendere occorre avere una prospettiva adeguata. Essa non è la prospettiva attribuibile simpliciter all uomo, ma è la prospettiva di Dio. Si comprende, insomma, che la prospettiva non è dalla parte dell uomo, ma è dalla parte di Dio. Esiste una prospettiva divina che esige la simultaneità di tutto. Ciò non significa che l intento sia quello di farci comprendere tutto simultaneamente, poiché quando si cerca di capire tutto insieme si cade inevitabilmente nella confusione. I contenuti che qui sono rivelati e il modo con il quale sono rivelati danno almeno una suggestione di oltrepassamento del quadro che si diceva esser psicologico. In questo brano san Paolo distingue tra l uomo psichico e l uomo spirituale. L uomo psichico non comprende le cose di Dio, mentre l uomo spirituale sì, e non è giudicato da nessuno. La prospettiva psicologica inquadra Dio secondo un antropomorfismo. Ma se Dio non è un uomo ingigantito, dovrà essere inteso come Dio intende se stesso. Ma per poter intendere Dio così come Dio intende se stesso occorre che Dio ci divinizzi. San Paolo afferma di presentarsi non con la sapienza che proviene dagli uomini, ma con la sapienza paradossale che viene da Dio, perché predica Cristo crocifisso. È questo il mistero nascosto da secoli eterni, il Disegno nascosto. Oppone poi a questa divina sapienza la sapienza umana. Si comprende che la sapienza divina è quella che fa dell uomo un

118 106 G. BARZAGHI uomo spirituale e la sapienza umana è quella che fa dell uomo un uomo psichico. La questione interessante è nel capitolo 2: «Tra i perfetti parliamo sì di sapienza, ma di una sapienza che non è di questo mondo, né dei dominatori di questo mondo che vengono ridotti al nulla; parliamo di una sapienza divina misteriosa che è rimasta nascosta e che Dio ha preordinato prima dei secoli per la nostra gloria. Nessuno dei dominatori di questo mondo ha potuto conoscerla, se l avessero conosciuta non avrebbero crocifisso il Signore della gloria» 1. Sono qui presenti aspetti psichici, come prima e preordinato, ma per Dio non c è prima o un dopo. È interessante porre l attenzione su questo punto: san Paolo ha appena affermato che la sua predicazione è la predicazione secondo la sapienza di Dio, che è stoltezza agli occhi degli uomini e che consiste in Cristo crocifisso. Questa sapienza è la sapienza nascosta da secoli eterni e che ha come proprio centro focale Cristo crocifisso. Qual è la sapienza di Dio? Cristo crocifisso. Bisogna concentrarsi sul paradosso qui presente. Ci si chieda: qual è la sapienza nascosta da secoli eterni? Cristo crocifisso. E poi si aggiunga che tale sapienza appartiene a coloro che sono perfetti, ma non è la sapienza di questo mondo, questa sapienza che è Cristo crocifisso è nascosta ai sapienti di questo mondo. I dominatori di questo mondo non hanno potuto conoscerla, se l avessero conosciuta non avrebbero crocifisso il Signore della gloria. Questo è il paradosso. La sapienza eterna è Cristo crocifisso. I dominatori di questo mondo non hanno potuto conoscerla perché, se l avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria. Si sta utilizzando un linguaggio che è dell uomo, ma, nonostante questo vocabolario, è capace di esprimere che questa sapienza, che è Cristo crocifisso, è frutto di un insipienza. Infatti, se l avessero saputo non l avrebbero crocifisso, tuttavia, visto che nel Disegno eterno Cristo è crocifisso, devono esserci anche i suoi crocifissori. Pertanto, l hanno conosciuta o non l hanno conosciuta? Questo è il problema. Si potrebbe pensare che la paradossalità del brano dipenda da questioni legate alla redazione del testo, dei codici o ad una svista del copista. Assolutamente no, questa è scuola paolina, legame immediato con 1 1 Cor 2,6-8.

119 Creazione dal nulla o relazione fondativa 107 san Luca. Si consideri il Vangelo di san Luca: Gesù sulla croce, guardando i propri crocifissori, dice: «Padre perdonali, perché non sanno quello che fanno» 2. Ebbene, mettiamo in relazione i due brani: i dominatori di questo mondo non hanno potuto conoscerla, se l avessero conosciuta non avrebbero crocifisso il Signore della gloria. Perdonali, perché non sanno quello che fanno, se l avessero saputo non avrebbero crocifisso il Signore della gloria. Allora: se loro è la colpa, perché perdonarli? Poiché lo fanno, ma non sanno quello che fanno. Anche l insipienza dei dominatori di questo mondo rientra nel Disegno sapiente di Dio, perché di fatto Cristo è crocifisso ed è tale secondo una condizione di eternità. Se si legge così il Vangelo e il Nuovo Testamento, tutto diventa di un intelligenza straordinaria. Qui non si dice parola di san Paolo, di san Luca o di san Matteo. È parola di Dio. Quindi: o si mette la contraddizione in Dio o si cerca di togliere l apparente contraddizione. Questo esempio era un espediente per far comprendere che vi sono alcune espressioni nel Nuovo Testamento che suggeriscono, con la loro paradossalità, di assumere un punto di vista diverso da quello con il quale usualmente, cioè psichicamente, si intendono le cose. Queste parole devono essere lette secondo un punto di vista che chiameremo divino o secondo quel punto di vista che è lo sguardo di Dio. Così si leggono non solo questi passi, ma l intero Nuovo Testamento. Nel primo capitolo della lettera ai Colossesi (15-17) viene affermato che per mezzo di Cristo tutte le cose sono create, che tutte le cose sono create in vista di Cristo e tutte sussistono in lui. Si annuncia un altro paradosso: come è possibile affermare che per mezzo di Cristo tutte le cose sono state create, se il mondo vi era già ben prima della sua nascita? Per porsi queste domande occorre coraggio, lo stesso coraggio che solitamente hanno i bambini. Quindi, come fa ad essere creato il mondo attraverso Cristo se il mondo c era già quando Cristo è nato, morto, e risorto? Si legga un altro brano, che è stato messo in evidenza con l ultima versione ufficiale della CEI, un passo di Apocalisse (cap. 13, versetto 8): «L adoreranno tutti gli abitanti della terra il cui nome non è scritto nel libro della vita dell Agnello, immolato fin dalla fondazione del mondo». L Agnello è Cristo, immolato fin dalla 2 Lc 23,34.

120 108 G. BARZAGHI fondazione del mondo. Se è immolato fin dalla fondazione del mondo, come può Cristo crocifisso essere un punto spazio-temporale determinato con precisione? Se inventi due Cristi, uno che è tale crocifisso dalla fondazione del mondo e un altro che, invece, appare storicamente come controfigura, si ha la posizione gnostica. La gnosi afferma che occorre sdoppiare Cristo. Il che è una palese eresia. Come è possibile allora intendere il paradosso? LA VISIONE EX PARTE DEI Ci si è limitati ad alcuni passi, ma tutto il Nuovo Testamento è percorso, o disseminato, di queste paradossalità, che invitano a vedere le cose ex parte Dei. I contenuti sono espressi in modo umano, ma non devono essere intesi umanamente, ma pneumaticamente, cioè ex parte Dei. Il punto di vista di Dio è un punto di vista di presente su presente. L espressione presente su presente (ordo praesentis ad praesens) è usata da san Tommaso nella questione De scientia Dei, delle Quaestiones Disputatae de Veritate, 2,12. La scienza di Dio non è una scienza previsionale, perché prima e dopo sono espressioni temporali, cioè valgono per le cose che sono soggette a moto, mutamento, nascono, crescono e periscono. Dio è eterno, non è soggetto a moto, a mutamento. Quindi la scienza di Dio non è previsionale, è scienza di presente su presente. Non c è né il prima né il dopo, c è solo l adesso, tutto adesso. È una conoscenza simultanea della totalità. Allora è questa conoscenza simultanea della totalità che ha bisogno di essere illustrata con la ragione. La ragione intravede dentro quelle espressioni che esse possono essere intese solo e soltanto se si assume una conoscenza, una prospettiva di simultaneità. Occorre intendere che cos è questa prospettiva di simultaneità. Tale prospettiva è indicata nella Sacra Scrittura con l idea di prothesis. Questa nozione che si traduce con il termine disegno, in greco è prothesis. È necessario distinguere, poiché vi sono due modi di intendere questa nozione: da una parte, c è chi dice che è il porre davanti, e quindi, se esiste una prothesis, o un disegno, come ciò che è messo davanti, allora è il disegno che prima si concepisce e che poi si realizza: e si mette così la temporalità in Dio, cioè un Dio che pensa prima quello che avverrà dopo. Invece, è presente su presente: simul. Allora, la traduzione corretta di prothesis non è

121 Creazione dal nulla o relazione fondativa 109 porre davanti, ma al posto di. Qui protesi, disegno, non è da intendere come qualcosa che è stato pensato prima e poi giungerà alla sua attuazione. È al posto di, dunque il Disegno non è l anticipazione di ciò che avverrà nel mondo, ma è ciò che è al posto del mondo. Il mondo in Dio è ciò che chiamiamo Disegno di Dio sul mondo: non è un anticipazione del mondo che verrà attuata successivamente, è il mondo dentro lo sguardo sempiterno di Dio. Si chiama Disegno. Il Disegno, inteso in questo senso, non è ciò che viene messo davanti, prima del mondo, ma ciò che è al posto di ciò che chiamiamo mondo: il mondo, nello sguardo di Dio, si chiama Disegno. Nel tentativo di un linguaggio non psichico, non cronologico. LA STRUTTURA Ordinariamente, se si chiede a qualcuno quali sono i suoi disegni, subito si intendono i progetti per il futuro. La questione non va intesa così. Qui invece abbiamo a che fare con l idea di struttura. Che cosa è il disegno? È un insieme delle linee che descrivono una struttura. Le linee vengono prima o dopo la struttura? Sono la struttura! Sono insieme. Questo Disegno nascosto dai secoli eterni, che è l oggetto di considerazione di Dio, non è un anticipazione del mondo, è il modo con il quale il mondo è nello sguardo di Dio. L insieme delle linee che determinano una struttura è coordinato rispetto ad un punto focale, il punto di fuga: il fondamento. Tolto il punto di fuga, le linee non sarebbero più coordinate e il disegno non sarebbe più. Questo Disegno di Dio, che è la prothesis, cioè il modo con il quale ciò che chiamiamo mondo è nello sguardo di Dio, se è un insieme di linee coordinate, avrà un punto focale come ogni disegno, e questo punto focale si chiama punto di fuga. Si comprende che esso è tale nel disegno compiuto, ma perché possa essere compiuto nel disegno non basta il disegnatore, ma occorre l occhio o lo sguardo del disegnatore perché, a seconda del punto prospettico, lì si costituirà il punto di fuga. Dunque, nel disegno c è un punto di fuga perché c è un punto prospettico e tutto dipende dallo sguardo di colui che considera. In breve: si mostra l esigenza di scoprire un punto prospettico della considerazione che è il punto di vista di Dio, cioè lo sguardo di Dio. Nello sguardo di Dio tutte le cose che chiamiamo mondo sono coordinate secondo un

122 110 G. BARZAGHI centro che è il loro punto di fuga, tale punto di fuga la Rivelazione di Dio ce lo indica in Cristo crocifisso, morto e risorto. Questa è la sintesi di Sacra Doctrina. Si è descritto quello che risulta dalla Rivelazione e che mostra come esigenza il prendere o l avere il punto di vista di Dio poiché la paradossalità del detto è dissolta solo e soltanto se si assume il punto di vista di Dio in cui tutto è simul. È un operazione facile e difficile allo stesso tempo. Complessa perché non si è avvezzi, ma semplice ed è bellissimo perché la strategia della Rivelazione è proprio così. Non è che lo si sappia perché lo si scopre: ti è fatto sapere; ma prima che ci si accorga di saperlo occorre l intervento dello Spirito. Bisogna prendere tutto simultaneamente. La croce gloriosa di Gesù è nell atto creatore. È lo stesso soggetto, quello che è nella fondazione dell universo e quello che è crocifisso in quel momento, in quel tempo e spazio determinati. Prendere questa prospettiva divina, considerare le cose ex parte Dei, questa è l idea di Disegno che ha una sua equivalenza da un punto di vista filosofico. SUB SPECIE AETERNITATIS Adesso si passi all altro sguardo formale, cioè la filosofia, la metafisica. Quello che, in termini teologici di Sacra Doctrina, è il Disegno eterno, cioè l insieme delle linee che strutturano ciò che definiamo mondo nello sguardo di Dio, con punto focale in Cristo glorioso, nel vocabolario della filosofia si chiama intero. Qualche cosa accade al di fuori del Disegno di Dio? Ciò che cade fuori dal Disegno di Dio è nulla. Qualche cosa cade fuori dell intero? Assolutamente no, altrimenti non sarebbe l intero. La parola intero dice qualche cosa di importante, cioè non si limita alla totalità. Non è il tutto l intero. L intero non è la somma delle parti. Non è l insieme delle parti. Se fosse l insieme delle parti lo si dovrebbe definire tutto. Bisogna denominarlo intero invece che tutto perché l intero, oltre alla totalità delle parti, dice anche le relazioni che intercorrono tra queste parti. Le relazioni che legano le parti non sono parti, altrimenti ci vorrebbero altre relazioni che legassero le relazioni alle parti. Quindi questo intero è sì la totalità, ma comprensiva anche dell intelaiatura che connette la totalità. Se si dice che la casa è

123 Creazione dal nulla o relazione fondativa 111 l insieme dei mattoni, il tutto della casa è il tutto dei mattoni. Dove ci sono tutti i mattoni, lì c è la casa. Questa casa è fatta di tutti questi mattoni, ma la totalità dei mattoni che costituisce questa casa c era anche prima che la casa fosse edificata. Quindi tutte le parti ci sono, tuttavia cosa cambia? Che l edificio non è semplicemente l insieme dei mattoni, perché è anche la relazione particolare che c è tra un mattone e l altro. Questa casa è integra, è l insieme di tutti i mattoni, ma la casa prima non era integra. Se si distrugge la casa tutti i mattoni ci sono ancora, ma la casa è disintegrata. L intero dice quindi l integrità poiché afferma, oltre alla totalità delle parti, anche le relazioni che legano queste parti. Si noti che questa idea di intero è simile all idea di disegno, all insieme cioè delle linee che strutturano la realtà avendo un punto centrale, e così, anche per ciò che concerne l intero, non basta affermarne tutte le relazioni, ma occorre dire come esse sono strutturate. La difficoltà che in filosofia si trova nell illustrazione dell idea di intero è quella di poter trovare materialmente quale sia il punto portante, dato che in filosofia si ha il massimo del rigore perché si è nella condizione di un minimalismo enunciativo. Affinché si comprenda qual è il punto strutturante questo intero, ci si deve accontentare della legge di non contraddizione. Qualsiasi contenuto sia dato, la struttura rimane salda perché non contraddittoria. Non si possono dedurre a priori le cose, devo andare nell esperienza per vedere come esse sono. Non è possibile dedurre a priori, o apoditticamente, come è fatta la realtà. A priori si può affermare la simultaneità, si può intendere la struttura formale, ma non i contenuti. La struttura, ma non i contenuti! La filosofia che si occupa dell intero, cioè della struttura formale in qualsiasi contenuto dato, si chiama dialettica. LA DIALETTICA Il termine dialettica è stato usato nella storia della filosofia con una vasta pluralità di significati. Ma se si considera il significato di dialettica, così come vuole essere inteso dall etimologia che lo impronta, da dia-legein, è pur sempre un dire attraverso. La dialettica come logica dell assurdo, in Zenone, è dire il vero attraverso la negazione del falso. La dialettica come logica dell intero, in Platone, è dire una parte attraverso il tutto o il tutto attraverso la parte.

124 112 G. BARZAGHI La dialettica come la intende Aristotele, cioè come logica del probabile, è dire una parte attraverso un altra parte simile o più parti simili. Ma il massimo dell abilità che mette assieme la logica dell assurdo, dell intero e del probabile è la logica della persuasione, che con una immagine sola riesce a coordinare per analogia tutto il resto. Quindi se si prende questo intero, si ha l idea formale di ciò che è il Disegno, e successivamente si tratterà di vedere, nell esperienza, quali sono le strutture specifiche in cui questo intero si declina. Quando si intende vedere la struttura fondamentale, e quindi si tocca il tema della creazione, si deve dire che questa struttura fondamentale non è legata ad una azione con la quale si pensa che Dio, prima che il mondo fosse, lo concepisce e poi dal nulla lo pone, poiché prima che il mondo fosse anche il prima non era. Dire prima che il mondo fosse è tempo. Se il tempo è la misura delle cose in movimento, e non vi sono cose in movimento, il tempo non c è, e dunque il prima non ha alcun senso. Allora, cosa si intende per creazione, se non è possibile pensare alcuna antecedenza del pensiero di Dio rispetto alla posizione del mondo? Per parlare di creazione si utilizza il termine produzione. IL TEOREMA DI CREAZIONE Nella metafisica classica, si dice che la creazione è produzione di tutte le cose dal nulla di se stesse e di un soggetto preesistente e che questa è opera di Dio ovvero, l atto con il quale Dio trae dal nulla tutte le cose. Pertanto, tutte le realtà sono strutturate da questo atto divino, che non può essere antecedente, dato che il tempo non lo ingloba ma ne dipende. Tuttavia, è un atto divino, tanto che lo si definisce produzione dal nulla di tutte le cose. Nella Prima Parte, alla questione 45, della Somma Teologica, san Tommaso cerca di capire in che cosa consista questa produzione dal nulla. Che vuol dire ex nihilo, dal nulla? È una espressione che somiglia eccessivamente al modo psichico con il quale si afferma che l artigiano ha tirato fuori dal legno questa cattedra. Dio non è artigiano, non ha niente di presupposto, poiché trae dal nulla; si noti che quel dal nulla pensato in questo modo ha troppo dello psichico. Oppure si può intendere l ex nihilo non come il nulla precedente,

125 Creazione dal nulla o relazione fondativa 113 ma intendendo il nulla come non da qualcosa. Questo è più raffinato. Non dice l antecedenza di un materiale presupposto, poiché lo esclude. Trae non da qualcosa tutto ciò che è diverso da lui. L analisi che compie san Tommaso non è giunta al termine, poiché afferma che trarre, produrre, è comunque un azione che, se presa sul piano espressivo, vuol dire un mutamento. Dal legno l artigiano trae la cattedra. Prima c è il legno e alla fine dell azione c è la cattedra; il legno precede e la cattedra segue, e tra di esse c è la trasmutazione, cioè l azione dell artefice. Questa è la produzione. Se la si applica a Dio, distruggo Dio poiché non ha alcun presupposto (non c è il legno) e la produzione non è qualche cosa di intermedio tra il nulla e il creato. Anche perché questa che definiamo produzione è l azione di Dio. È noto che per san Tommaso la definizione, o descrizione di Dio, è Ipsum Esse per se subsistens, lo stesso Essere per sé sussistente, cioè l Essere Assoluto, in termini moderni. Se non è sussistente, è per altro; e se non è per altro, è sciolto da altro, cioè assoluto. Allora se Dio è l Essere Assoluto, l agire di Dio è Dio. Non c è un Dio-sostanza e poi il suo agire. L agire di Dio è la sostanza di Dio. Se Dio è immutabile, l agire di Dio è immutabile. Creare è l azione di Dio, quindi anche il creare non implica un mutamento. Non c è mutamento. La parola produrre dal nulla evoca il mutamento, ma almeno dalla parte di Dio questo produrre esclude il moto ed esclude il mutamento; pertanto, l atto creatore è immutabile ed eterno, dato che l agire di Dio è Dio, che è eterno. Non ha tempo. A questo punto si potrebbe dire: si elimina il mutamento dalla parte di Dio, ma lo si afferma ex parte creaturae. Ma è impossibile il mutamento dalla parte della creatura perché ogni mutamento presuppone un mutabile. Se la creatura è dal nulla, prima di esserci non può mutare, e dunque l atto creatore, che è dal nulla, ex parte creaturae esclude il mutamento. Non c è dunque mutamento né dalla parte del Creatore, né dalla parte della creatura. E se allora si prende l idea di produzione che abbiamo usato per definire la creazione, se si esclude dalla idea di produzione il mutamento, cosa rimane? Soltanto la relazione tra il produttore e il prodotto, e quindi la creazione consiste in una pura relazione. Una pura relazione che si definirà così: la pura relazione di dipendenza tutta e totale di ciò che si definirà creato (mondo) dal creatore (Dio). Se esistesse un quando in cui la creatura non dipendesse, la creatura indipendente da Dio non sarebbe più creatura; e siccome

126 114 G. BARZAGHI l opposto di creatura è Creatore, la creatura sarebbe il Creatore. Ma siccome il Creatore per essere tale si riferisce alla creatura, se si elimina la creatura si elimina anche il Creatore. La creazione è una relazione di dipendenza tutta e totale del mondo da Dio. Il tavolo dipende tutto e totalmente dall artigiano? Il tavolo dipende tutto dall artigiano perché non esiste in rerum natura, cioè senza l azione dell artigiano il tavolo è nulla; ma il legno del tavolo non è nulla ed è presupposto all azione dell artefice. Quindi il tavolo dipende tutto e totalmente dall artefice? Tutto sì, ma non totalmente: perché come tale dipende dall artefice, ma non come legno, che è presupposto. La creatura in qual modo dipende da Dio? Non è possibile dire che dipende tutta da Dio ma non totalmente, perché quel non totalmente individuerebbe nella creatura qualcosa di increato, ma ciò che è increato è soltanto Dio; se fosse Dio non sarebbe creatura. Occorre dire che la creatura dipende tutta e totalmente da Dio, senza il quando. In altri termini: se la creatura dipende tutta e totalmente da Dio, la creatura, senza questa dipendenza, è nulla. Senza la relazione di dipendenza la creatura è nulla. Allora la creatura si risolve tutta e totalmente nella relazione di dipendenza. È una relazione fondativa. Non è qualcosa che essendo in relazione dipende, ma è relazione di dipendenza. Risolvere una cosa in una pura relazione di dipendenza è arduo da comprendere, ma d altra parte è l unico modo con cui è possibile esprimere, filosoficamente, il teorema di creazione per significare ciò che la Rivelazione afferma: il mondo è creato da Dio. Questa idea di creazione è indispensabile per riuscire ad intendere quel Disegno di cui abbiamo visto il delinearsi in san Paolo nella prima lettera ai Corinzi e nell Apocalisse di san Giovanni. Una relazione di pura dipendenza tutta e totale, questo vuol dire dal nulla. Si potrebbe anche ricorrere ad un esempio aritmetico. Si prenda il numero 10 e si operi in base decimale. Si considerino tutte le combinazioni possibili a livello numerico, le operazioni che hanno come esito significante il 10. Per cui: 5+5 in base 10 fa 10; 2x5 fa dieci; 7+3 fa dieci; 20:2 fa 10; fa 10 ecc... Queste ovviamente sono tutte operazioni. Ora si prenda Dio come 10, e le possibili operazioni come creature. Ci si chieda: 5+5 fa 10 o qualcosa di simile a 10? 5+5 è 10, non aggiunge nulla a è uguale a 10 e perciò si risolve tutto e totalmente in 10; lo stesso dicasi di 2x5; lo stesso dicasi per Se queste combinazioni numeriche le si definisce creature, si risolvono tutte e total-

127 Creazione dal nulla o relazione fondativa 115 mente in Dio. Non aggiungono nulla a Dio. Si ragioni sul minimalismo: sono nulla come aggiunta a Dio; si è forse detto che sono nulla? Assolutamente no. Si è detto che sono nulla come aggiunta a Dio; vuol dire che per sé non sono un nulla, ma se le si concepisse come qualcosa che è capace di aggiungersi a Dio esse sono nulla. Vuol dire forse che sono Dio? Ci si chieda: 10 è 5+5? Sì, ma non solo; 10 è ? Sì, ma non solo. Allora non è possibile dire che, come la creatura si risolve tutta e totalmente in Dio, così Dio si risolve tutto e totalmente nella creatura, perché se Dio si risolvesse tutto e totalmente nella creatura, Dio non sarebbe più Dio e la creatura non sarebbe più creatura. Questa è l idea che possiamo evocare del concetto di creazione, ovvero un atto intemporale con il quale Dio pone il mondo, il quale mondo è tutto e totalmente nell esser posto se fosse, anche solo parzialmente, al di fuori dell esser posto, quello al di fuori dell esser posto sarebbe presupposto, ma ciò che è presupposto all atto creatore è soltanto Dio, e non la creatura. Quindi quel presupposto sarebbe ancora Dio e non qualcosa della creatura. Dunque la creatura si risolve tutta e totalmente nell esser posta. Se la creatura si risolve tutta e totalmente nell esser posta, se si vuole intenderla propriamente, da quale punto di vista occorre porsi? Dal punto di vista di chi la pone tutta e totalmente, poiché se si cercasse di comprendere la creatura dal suo proprio punto di vista, tratteremmo colui che la pone come un semplice collaboratore. Si ricordi la disputa relativa ai doni di grazia per salvarsi tra domenicani e gesuiti, Molina e Báñez; i molinisti dicevano che la salvezza è opera al 50% di Dio e al 50% dell uomo. Báñez rispondeva che in questo modo non solo hai fatto della creatura qualcosa di simile a Dio, ma hai sostituito Dio con la creatura, poiché se Dio dovesse stare a prevedere l azione collaboratrice dell uomo, si lascerebbe condizionare dal collaboratore e il collaboratore sarebbe più del Creatore. Così, se si pensasse una dimensione di compartecipazione nel modo con il quale la creatura pensa se stessa rispetto all atto creatore, verrebbe dissolto l atto creatore. Occorre intendere l atto creatore ex parte Dei: siccome la creatura è posta è diversa da colui che la pone, dato che si risolve tutta e totalmente nell esser posta, non aggiunge assolutamente nulla a colui che la pone. Siccome è posta è diversa da Dio (Dio non è posto), ma non aggiunge nulla a Dio. Questo è il mistero dell idea di creazione. Un altro modo con cui si può avvicinare questa

128 116 G. BARZAGHI nozione è dato dal fatto che con l atto creatore non si riesce a vedere la specificazione della creatura. Per significare la stessa cosa, gli Scolastici erano soliti dire che quando si parla a proposito della creatura si deve dire che è una composizione reale di essenza e di esistenza. Il cammello che cosa è? Come creatura è composizione reale di essenza e di esistenza, come cammello è un ruminante con due gobbe. E l uomo? Come creatura è composizione reale di essenza e di esistenza, come uomo è animale razionale. E il topo? E il gallo? Per poter intendere la creatura, in quanto creatura, non occorreva specificare la creatura come uomo, come erba, come gallo, ma era soltanto la dipendenza tutta e totale (composizione reale di essenza e di esistenza). Comunque, questo vocabolario poneva la questione su una linea cosmologica, dato che il dire che la creatura è composizione reale di essenza e di esistenza significa dire che l esistenza è uguale per tutti, ma adesso si pone l urgenza di comprendere quali essenze vi siano, e allora prende inizio un discorso fisico: c è l uomo, il colibrì, la stella, il cammello ecc. Però l essenza dell idea di creatura era questa: qualcosa che si risolvesse tutta e totalmente in un atto che è la posizione da parte di Dio, cioè l esser posto da parte di Dio. È una pura relazione di dipendenza che si dirà, sempre mediante il linguaggio della Scuola, reale dalla parte della creatura (è lei che è posta), di ragione dalla parte di Dio, perché se la creatura si risolve tutta e totalmente nell esser posta, l atto di posizione è Dio immutabile; non vi aggiunge nulla la creatura, non lo modifica, e quindi questa relazione di creazione sarà reale dalla parte della creatura, e di ragione da parte di Dio. Di ragione non vuol dire che Dio non si cura delle creature: dato che la creatura è tutta nell atto con il quale Dio la pone, e dal momento che l atto con cui Dio pone è Dio stesso, Dio ama la creatura come ama se stesso. L ORIGINARIO Originario si oppone a originato, ma dice insieme qualcosa di relativo. Il che fa pensare a una sua non assolutezza. La struttura originaria non è Dio in quanto Dio: Dio in quanto Dio è l Assoluto, non è l origine o all origine di nulla. Ma la struttura originaria non è neppure il mondo in quanto mondo, giacché è l originato. La

129 Creazione dal nulla o relazione fondativa 117 struttura originaria è il mondo in Dio in quanto creatore. Se si dicesse semplicemente il mondo in Dio (anche se non è del tutto scorretto), non si farebbe altro che identificare simpliciter il mondo con Dio: tutto ciò che è in Dio è Dio. Questa formulazione coincide con l idea scolastica di Exemplar. Il mondo creato e ogni creatura non sono altro che una realizzazione similitudinaria della stessa essenza Dio, in quanto Dio concepisce se stesso come partecipabile e intelligibile dall altro da sé che egli stesso pone 3. L exemplar non precede il mondo ma è nella sua simultaneità fondativa: relazione fondativa che è l atto creatore. L idea di creazione esprime il fatto che il mondo è nulla come aggiunta a Dio: è nella dipendenza tutta e totale da Dio, cioè nel suo esser posto da Dio; è cioè nulla fuori dall esser posto: è tutto e totalmente nell esser posto. Giacché non vi è nulla di presupposto. Il reale è l atto creatore: «L unico reale è Dio, il Creatore (Dio + mondo = Dio!)» 4. Dentro l atto creatore si struttura il mondo originariamente e questa è la determinazione cosmica indeducibile. Il Disegno è l attività contemplativa di Dio stesso. Dio si contempla come oggetto di contemplazione altrui offerta e causata da Lui stesso. E, nel linguaggio tecnico della filosofia, disegno equivale a causa esemplare. La nozione di causa esemplare deve essere esplorata in un modo più adeguato sul piano speculativo e non semplicemente fenomenologico, dove si riduce a una funzione strumentale. Sotto questo aspetto, l exemplar ha un carattere assoluto. L esemplare raduna in sé la totalità dell ordine causale. Nella rappresentazione esemplare non solo c è la forma che viene infusa nella materia, ma anche la materia adeguata e disposta dall agente così come intende operare per il fine. E vi è anche la totalità rappresentata dal fine e dalle sue concrete circostanze. Perciò, nell esemplare o Disegno rientra anche l agente intenzionale, che concepisce se stesso nell atto di operare con la totalità delle altre cause coordinate nella produzione. L exemplar gode dell assolutezza perché è la stessa totalità 3 Cf. G. BARZAGHI, Dialettica della Rivelazione. Proposta di una sistematica teologica, ESD, Bologna 1996, pp ; ID., L inseità redentiva della creazione, in ID., Lo sguardo di Dio. Nuovi saggi di teologia anagogica, ESD, Bologna G. BONTADINI, Dispense per il corso di istituzioni di filosofia a.a , p. 9. Cf. ID., Per una teoria del fondamento, in ID., Metafisica e deellenizzazione, Vita e Pensiero, Milano 1975, pp

130 118 G. BARZAGHI e non il semplice mezzo ordinato alla produzione di un artefatto. Nella esemplarità entra una dinamica che mostra il collegamento con le altre quattro cause. Ma la sua dignitas supera la dinamica pratica. È l intero, una volta che essa sia sottratta alla utilità. L exemplar, come intero, non è utile, perché ha in sé tutto. È un assoluto: sottratto alla dipendenza e al dominio. Riscattato (ex emo). Non dipendendo è nobile. È l intero come adunanza ordinata di tutte le cause, semplicemente considerata. Così non è semplice progetto utile, ma oggetto di una considerazione teoretica. Entra dentro un quadro di contemplazione. Se nell esemplare c è il tutto, anche nell esemplato c è il tutto. Ma è il medesimo tutto in due modi diversi. L esemplare lo contiene in modo assoluto, mentre l esemplato lo contiene in modo relativo. L esemplato (passivo) si oppone all esemplante (attivo), ma l esemplare non si oppone perché contiene entrambi trascendendoli sul piano della considerazione. Anche se l esemplato dipende dall esemplante attraverso l esemplare; oppure dipende dall esemplare attraverso l esemplante. Questo discorso è a livello funzionale. Sul piano considerativo, invece, l esemplante e l esemplato sono raffigurati nell esemplare. L idea come esemplare, cioè così come l ho descritta, è legata alla legge logica del quarto modo dicendi per se. L exemplar come intero è il luogo in cui a pari titolo si presentano l esemplante e l esemplare. Nell esemplare, l esemplante raffigura anche se stesso nell atto di escogitare l esemplare. La reciprocità tra esemplante e esemplare si fonda sulla causalità dell esemplante. L analiticità massima del quarto modo dicendi per se sta proprio nella reciprocità fondata, cioè non solo il soggetto e il predicato si implicano vicendevolmente (reciprocità come nel primo modo dicendi per se) ma anche la causalità fondativa che va dal soggetto (causa) al predicato (effetto) 5. È il carattere proprio dell autocoscienza. Perciò dico che l esemplare è la struttura originaria. Se si considera l atto creatore, tutto si risolve in esso e l essenza di Dio è l exemplar originario. L assolutezza dell esemplare divino è la stessa essenza divina conosciuta da Dio come imitabile e partecipabile 6. 5 Cf. TOMMASO D AQUINO, In 1 Post., l.10; In 5 Met., l «Ipse enim essentiam suam perfecte cognoscit, unde cognoscit eam secundum omnem modum quo cognoscibilis est. Potest autem cognosci non solum secundum quod in se est, sed secundum quod est participabilis

131 Creazione dal nulla o relazione fondativa 119 Se l esemplare è ciò ad imitazione del quale qualcosa si costituisce per sé secondo l intenzione di un agente che si prefigge un fine, la stessa essenza divina creatrice è l idea o forma esemplare di tutte e singole le creature. Dio, conoscendo se stesso, conosce tutte le possibili realizzazioni similitudinarie della propria essenza, cioè tutte le essenze create e creabili. L universo creato si risolve nell exemplar dell essenza divina creatrice, perché in essa ha il suo carattere d ordine e di partecipazione, ed in questo carattere d ordine può esprimersi nella nostra intelligenza secondo i parametri intelligibili dell analogia. La nozione di exemplar può accogliere in sé le caratteristiche teoretiche dell originario come tutto in tutto, nei modi distintivi dell eminenza e della partecipazione. E consente il toglimento di contraddizione che si rileverebbe nella lettura sub specie temporis di quei testi rivelati. I contenuti del Disegno non sono nella successione ma nella insessione: un idea dentro l altra, una visione dentro l altra. Nell atto creatore c è l atto redentivo e nell atto redentivo c è l atto creatore, secondo specificazione. La centralità di Cristo è strumentale e fondativa allo stesso tempo, così come lo è il centro di una circonferenza. LE VIE TEORETICHE DELLA FONDAZIONE Non si è sviluppata qui una prova della creazione, perché in precedenza si è detto che si sarebbe compiuta una riflessione nel quadro della Sacra Doctrina, con le sue esigenze, per andare a vedere secundum aliquem modum similitudinis a creaturis. Unaquaeque autem creatura habet propriam speciem, secundum quod aliquo modo participat divinae essentiae similitudinem. Sic igitur inquantum Deus cognoscit suam essentiam ut sic imitabilem a tali creatura, cognoscit eam ut propriam rationem et ideam huius creaturae», S.Th. I,15,2. «Et ideo oportet dicere quod in divina sapientia sunt rationes omnium rerum, quas supra diximus ideas, id est formas exemplares in mente divina existentes. Quae quidem licet multiplicentur secundum respectum ad res, tamen non sunt realiter aliud a divina essentia, prout eius similitudo a diversis participari potest diversimode», S.Th., I.44,3.

132 120 G. BARZAGHI nella struttura dell intero come la metafisica classica inquadra quella idea rivelata che è l idea di creazione. Il teorema di creazione si evidenzia quindi secondo queste linee descrittive, ma il modo con il quale, invece, lo si propone come dimostrazione, cioè come preambolo alla fede, può avere tre modi. Il primo è quello evidenziato da sant Anselmo, il quale pone la necessità di trovare una struttura minima: Dio è ciò di cui non si può concepire nulla di superiore, pertanto esiste necessariamente e se esistesse qualche cosa di diverso sarà per partecipazione. Il secondo è quello sviluppato da san Tommaso, che è più affascinato dalla cosmologia, per cui utilizza l idea di partecipazione in due momenti relativamente a Dio: nella quarta via (cf. S.Th., I,2,3), quando dimostra l esistenza di Dio secondo i gradi di perfezione, per cui deve esistere il massimamente perfetto; tuttavia, lo stesso san Tommaso avverte che la prima via è la via più evidente (prima autem et manifestior via), le altre quattro non saranno manifeste come la prima. Si può infatti obiettare: dal fatto che esiste il più e meno perfetto, segue che il massimamente perfetto esiste? Assolutamente no, se non come idea. Ma nella questione 44 della Prima Parte della Somma Teologica, san Tommaso, all articolo primo, discute della partecipazione in modo simile, ma non identico, e ormai ha dimostrato Dio. Lo stesso Essere per sé sussistente può essere più d uno? Evidentemente no, perché per distinguersi o l altro sussistente non sarebbe essere, oppure non sarebbe sussistente. Dunque è uno solo, e allora tutto ciò che è diverso da esso sarà per partecipazione: il che vuol dire per dipendenza tutta e totale da Dio, cioè per creazione. Si comprende che questa volta l idea di partecipazione funziona, perché è per via compositiva o dialettica, e non risolutiva come nella quarta via : qui è fondata. L ultima dimostrazione è quella proposta da Bontadini, il quale affermava che il teorema di creazione si risolve nel principio di Parmenide ad honorem: il non essere che semantizza l essere come non-non-essere è nell esperienza come un assurdo, a meno che non sia un modo astratto con il quale si vede l esperienza: e allora anche questo non essere è come una risultante empirica di un atto metempirico che è l atto creatore, il che equivale ad affermare il divenire come non originario 7. 7 Cf. G. BONTADINI, Per una teoria del fondamento, in ID., Metafisica e deellenizzazione, Vita e Pensiero, Milano 1975, pp

133 Creazione dal nulla o relazione fondativa 121 RIASSUNTO La nozione di creazione come relazione fondativa, e dunque ab aeterno, inquadra l idea metafisica di intero e quella rivelata di Disegno eterno. Essa si configura come nozione indispensabile per poter dirimere le paradossalità di alcune espressioni rivelate, proprio perché esige l assunzione di un punto di vista sub specie aeternitatis. ABSTRACT The notion of creation, as founding relation, and that s ab aeterno, involves the metaphysical idea of the whole and the revealed notion of eternal Design. It presents itself as a necessary idea to solve the paradox of some revealed expressions, namely because it requires the point of view sub specie aeternitatis.

134 122 DT 118, 2 (2015), pp VERITÀ DEL NON ESSERE LUIGI VERO TARCA * 1. CONFUSIONIS CONFUSIO : LA PARADOSSALE NATURA DEI PROBLEMI FILOSOFICI Esordirò, a mo di premessa, con una battuta: se avrete l impressione di capire quello che sto dicendo vuol dire che mi state fraintendendo. Queste parole, oltre che scherzose, possono apparire provocatorie, perché promettono di portare confusione piuttosto che chiarezza; ma, proprio per questo, sono adatte a segnalare le straordinarie difficoltà che si incontrano quando si affronta un tema filosofico in maniera davvero radicale. A volte mi è capitato di dire che la situazione di chi tenta di risolvere le questioni filosofiche può essere espressa così: se hai trovato la soluzione vuol dire che non hai capito il problema. E potrei ora aggiungere, con un po di perfidia, che quella che intendo esporre qui, parlando del non essere, è proprio la soluzione di un fondamentale problema filosofico Tutti questi scherzi paiono destinati a portare al massimo la confusione. Ma forse è anche venuto il momento, in filosofia, di fare un elogio della confusione, almeno quando questa viene condotta a quel limite estremo nel quale essa diventa così totale che i due poli che si con-fondono sono proprio la confusione totale da una parte e la perfetta chiarezza dall altra; perché, giunti a questo punto che possiamo chiamare confusionis confusio la volontà di chiarezza totale precipita nella completa confusione, ma nello stesso tempo, per converso, l assoluta confusione accende l illuminazione della chiarezza definitiva. * Professore ordinario di Filosofia teoretica presso l Università Ca Foscari di Venezia.

135 Verità del non essere 123 Per cercare di rendere almeno in parte comprensibili le precedenti affermazioni, potrei dire che la filosofia è caratterizzata dal fatto di cambiare profondamente, radicalmente, il significato delle parole; di tutte le parole, quindi anche di quelle che essa stessa utilizza. Insomma, quando si parla davvero filosoficamente (come, del resto, quando in generale si parla delle esperienze ultime) è come se si introducesse una lingua radicalmente nuova. È un po come se dovessimo insegnare a dei giovani una lingua che essi non conoscono, poniamo l inglese; naturalmente dovremmo fare questo parlando in italiano, e dovremmo spiegare le parole della nuova lingua usando quelle della vecchia. Solo che, in un caso del genere, in linea di massima è chiaro quando stiamo usando l una o l altra lingua: se dico parola sto parlando italiano, se dico word sto usando l inglese. Per la verità anche in questo caso possono crearsi situazioni ambigue. Per esempio, una parola come sale significa cose completamente diverse a seconda che la si intenda come un termine della lingua italiana (che tra l altro già di per sé potrebbe riferirsi a realtà molto diverse: l alimento che usiamo per insaporire i cibi, oppure le stanze di un palazzo, oppure ancora l atto con cui qualcuno ascende lungo una scalinata) o come forma del verbo inglese (to sale) che in italiano significa vendere. Ecco, in filosofia è come se ci trovassimo sempre in una situazione ambigua di questo genere. Con la differenza essenziale che nel nostro precedente esempio le due lingue (l italiano e l inglese) alla fine sono sostanzialmente distinguibili; sicché a un certo punto gli equivoci vengono superati, anche perché si parte dall assunto che il significato delle parole di una delle due (nel nostro caso l italiano) sia chiaro, e, appoggiandoci appunto su di esso, riusciamo a portare chiarezza anche nel significato delle parole dell altra lingua. Ma, appunto, qui abbiamo a che fare con due lingue nettamente separabili e una delle quali ci è nota in maniera sostanzialmente chiara; disponiamo, insomma, oltre che del linguaggio sconosciuto che dobbiamo imparare (l inglese), anche di un metalinguaggio noto (l italiano) mediante il quale insegniamo il primo. Ma in filosofia pare non godiamo di questi vantaggi; anzi, in un certo senso la situazione è rovesciata. In filosofia ogni parola pare essere, a un certo livello, problematica, e qualsiasi significato sembra essere dubbio. Sicché qualunque spiegazione, se risolve un problema, cioè chiarisce un punto, ne genera almeno un altro; perché in filosofia ci troviamo,

136 124 L. V. TARCA per spiegare il vero significato di alcuni termini, a dover usare parole il cui significato a loro volta ci sfugge. È, insomma, come se dovessimo insegnare una lingua sconosciuta mediante questa stessa lingua. È chiaro che in un caso del genere la situazione diventa molto, molto più complessa, e tanto per limitarci al livello comunicativo le possibilità che sorgano equivoci e fraintendimenti crescono in maniera esponenziale e praticamente incontrollabile. Nel nostro caso, quello del problema del non essere, ovvero della negazione dell essere, anche solo per porre il problema noi dobbiamo usare parole della lingua italiana quali appunto essere, non (cioè negazione ) e così via. Di solito affrontiamo tale problema dando per scontato che il significato di almeno alcune parole sia fisso e chiaro, e tendiamo a dimenticare che invece anch esso dipende dalla soluzione che forniamo al problema che stiamo trattando. Infatti tale soluzione modifica il significato delle parole con le quali il problema è stato posto. Ancora una volta la situazione può essere espressa mediante una formula paradossale: i problemi della filosofia sono caratterizzati dal fatto che la soluzione di un problema modifica la natura del problema stesso. Nel nostro caso, accade che la soluzione del problema del non essere modifica anche il significato di parole come essere e non, quindi anche quello di negazione e perciò pure di differenza, determinazione, e alla fine quello di tutte le altre nozioni. Insomma: quando sentiamo porre il problema del non essere, cioè della negazione dell essere, crediamo di capire bene il problema; magari siamo convinti che la questione sia estremamente difficile da risolvere, come quando siamo di fronte a un calcolo matematico complicatissimo, ma siamo sicuri che in fondo i termini del problema siano chiari e la sua soluzione, per quanto complessa, possa alla fine essere espressa in maniera rigorosa e precisa. Ma tutto questo è un presupposto (o, se si vuole, un pre-giudizio), e lo è quindi pure l idea che il problema sia posto in maniera chiara; perché, in realtà, che cosa significhi davvero negazione (e quindi non ), se mai lo possiamo comprendere, lo capiremo solo dopo aver risolto il problema del non essere. Insomma, ci accingiamo a risolvere un problema del quale non ci è chiaro nemmeno il senso, dal momento che il significato delle parole che usiamo per porlo dipende dalla soluzione che daremo al problema. Questo significa che in filosofia tutto

137 Verità del non essere 125 è in questione, quindi anche il significato delle parole con le quali poniamo i problemi; comprese, sia chiaro, parole come questione, problema, significato, filosofia, chiarezza e così via, cioè le parole che sto usando in questo momento per esprimere questa paradossale ed estrema difficoltà. 2. I PROBLEMI FILOSOFICI COME PROBLEMI ESISTENZIALI Sperando, con ciò, di avere portato, oltre che una certa confusione circa la natura della chiarezza che caratterizza il sapere filosofico, anche un po di chiarezza circa il tipo di confusione nel quale ci veniamo a trovare quando filosofiamo, passo a una seconda premessa, altrettanto importante. Quando si parla di tematiche quali l essere, il non essere, e così via, si ha la netta impressione di muoversi in una dimensione esperienziale di natura sostanzialmente formale, logica, razionale, astratta, discorsiva, e naturalmente questo in qualche misura è vero: sarebbe sbagliato negare il carattere logico-razionale di questi argomenti. Ma a questo proposito, aiutati anche dalla consapevolezza che le stesse nozioni di ragione, di astrattezza e concretezza, e così via, diventano problematiche, dobbiamo prestare attenzione al fatto che tutti i formalismi della logica, e tutte le astrattezze della filosofia, nascono dai grandi interrogativi che caratterizzano la vita umana, e dalle fondamentali esperienze che ad essi sono collegati. Del resto le formulette, quando esprimono forme di un certo tipo, sono qualcosa di formidabile, perché compendiano il risultato di un immane lavoro del pensiero. Pensiamo al calcolo della logica formale contemporanea, per esempio alle tavole di verità. Tutto sommato, si tratta di quattro cosette, che almeno nell essenziale si possono spiegare in pochissimo tempo. Eppure questa logica compendia in sé e riassume una sapienza millenaria: secoli e secoli di pensiero, la cui forma, una volta raggiunta, può essere formulata (appunto) in maniera estremamente semplice e chiara. È quanto accade, in generale, nelle scienze; in fisica, per esempio, dove noi impariamo la formula e = mc 2. Recitare questa formula è semplicissimo (l energia è uguale al prodotto della massa per la velocità della luce al quadra-

138 126 L. V. TARCA to), ma capire davvero che cosa essa significa richiede ben altro approfondimento. Così è anche per le formule di fronte alle quali ci troviamo quando parliamo dell essere e del non essere. Queste potranno apparire semplicissime, al limite di una sconfortante banalità ( L essere non è non essere ), ma le avremo capite davvero solo quando comprenderemo da quali profondità concettuali esse scaturiscono e quali abissi di pensiero esse nascondono. In particolare, incominceremo a capirle davvero solo quando ci renderemo conto che, come all interno della semplice formula fisica sopra ricordata sta racchiusa pure la potenza esplosiva dell energia atomica, così all interno delle semplici formule onto-logiche con le quali avremo a che fare è contenuta l infinita energia della millenaria sapienza umana e divina che governa il mondo e l esperienza degli umani. E allora, inevitabilmente, tutto diventa molto più ampio e complesso. Quando parliamo del principio di non contraddizione, della fondazione della verità innegabile e di altre formalità, in realtà stiamo parlando dell Assoluto (di Dio, com egli è [ ] prima della creazione del mondo e di uno spirito finito, per dirla con Hegel 1 ), ovvero di quel perfettissimo del quale ci parla Anselmo, nel suo Proslogion, come di ciò che ci conduce al gaudium plenum 2. Per dare subito una conferma autorevole a quanto appena detto, e nello stesso tempo avviare il passaggio al tema vero e proprio del non essere, possiamo riferirci al Poema di Parmenide. Quando si nomina il grande Eleate viene subito in mente la fondamentale affermazione che l essere è e il non essere non è, e naturalmente anche noi affronteremo questo problema; ma è bene che questa decisiva parola sia letta insieme agli altri passi. Nei versi del frammento B 8 della raccolta Diels-Kranz Parmenide ci dice che: 1 G. W. F. HEGEL, Scienza della logica (1813/1816/1831), trad. italiana di A. MONI, 1925, rivista da C. CESA, Laterza, Bari 1968, Introduzione, p ANSELMO D AOSTA, Proslogion, ed. italiana L. POZZI (a cura di), Rizzoli, Milano 1992, cap. XXVI, pp. 154 ss.

139 Verità del non essere 127 [...] né il nascere né il perire concesse a lui [all essere] la Giustizia [Dike], sciogliendolo dalle catene, ma saldamente lo tiene 3. Abbiamo dunque a che fare con Dike, la giustizia che è la legge del cosmo, la legge del bene e del male, la quale ci dice che non ci è concesso, in quanto siamo essenti, di nascere e di morire. Poco dopo (verso 21) leggiamo infatti: Così la nascita si spegne e la morte rimane ignorata. E ancora, subito dopo (versi 26-33): Ma immobile, nei limiti di grandi legami è senza un principio e senza una fine, poiché nascita e morte sono state cacciate lontane e le respinse una vera certezza. [ / ] poiché è stabilito che l essere non sia senza compimento: infatti non manca di nulla; se, invece, lo fosse, mancherebbe di tutto. Questi versi chiariscono che cosa sia ciò di cui in realtà si sta parlando. Quando diciamo che l essere non è non essere sembra che stiamo parlando del principio di non contraddizione, ovvero di una questione sostanzialmente logica (onto-logica); ma il passo che abbiamo letto ci dice che in gioco qui è ciò grazie a cui l esperienza umana viene liberata dalla nascita e dalla morte. Per chiarire il punto in maniera immediata potremmo dire che abbiamo a che fare con una dimensione molto prossima a quella che si schiude all interno della concezione buddhista del dolore dell esistenza: la parola della dea di Parmenide è quella che ha la pretesa 3 PARMENIDE, Poema sulla natura. I frammenti e le testimonianze dirette, terza edizione, Saggio introduttivo e commentario di L. RUGGIU, traduzione di G. REALE con testo greco a fronte, Bompiani, Milano 2010.

140 128 L. V. TARCA di liberare, più ancora che l umanità, l esistenza stessa dal dolore; dalla totalità del dolore, compresa quella madre di tutti i dolori che è la morte, ovvero da tutto ciò che possiamo chiamare il negativo. 3. LE DUE FACCE, QUELLA POSITIVA E QUELLA NEGATIVA, DELLA PROPOSIZIONE FILOSOFICA Chiarito che la parola di fronte alla quale ci troviamo è quella che annuncia uno spazio libero rispetto alla totalità del negativo ma naturalmente ferme restando tutte le osservazioni cautelative esposte all inizio, per andare subito al cuore della questione vorrei sottoporre all attenzione questa interessantissima formula filosofica: Ogni cosa è ciò che è e non un altra cosa. È una proposizione di Joseph Butler ripresa da George Edward Moore e riportata da Wittgenstein nei Quaderni ma non nel Tractatus logico-philosophicus. In tedesco essa suona Jedes Ding ist, was es ist, und kein ander Ding, e in inglese Everything is what it is and not another thing 5. Chiamo proposizione filosofica questa formula, che indicherò qui anche con la sigla B-W (Butler-Wittgenstein). Rileggiamola: Ogni cosa è ciò che è [/] e non un altra cosa. L ho riformulata in questo modo per evidenziare, mediante l introduzione di una barra di interruzione, la circostanza che tale affermazione consta di due parti ben distinte. La prima dice che ogni cosa è ciò che è ; la seconda aggiunge che [ogni cosa] non [è] un altra cosa [rispetto a quella che è]. Qualche tempo fa ho chiesto a Emanuele Severino, essendo convinto che questa proposizione esprima qualcosa di molto vicino a quanto dice la sua filosofia, che cosa ne pensasse. 4 L. WTTGENSTEIN, Notebooks , ed. by G. H. VON WRIGHT, G. E. M. ANSCOMBE, Basil Blackwell, Oxford 1969, p. 84; trad. it. di A. G. CONTE, Quaderni , in Tractatus logico-philosophicus e Quaderni , Einaudi, Torino, (1961) , pp , p Notebooks, cit., p. 84e; trad. inglese di G. E. M. ANSCOMBE.

141 Verità del non essere 129 La sua risposta è stata, come sempre, chiara e profonda: Bene, perfetto; il problema però è vedere come tale affermazione viene giustificata. Certo, perché anche dire L essere è e il non essere non è è perfetto; ma questa formula esprime davvero la verità (il gioco di parole è voluto) solo se è connessa alla sua giustificazione elenctica. Il valore della proposizione dipende dalla sua fondazione perché il suo significato dipende da tale giustificazione. Insomma, non basta dire la verità, proferire proposizioni vere. Anche sfogliando un dizionario di italiano qualcuno potrebbe mettere insieme a caso le parole L essere è ; quello che conta è ciò che questa formula significa, che cosa con essa si intende. Sono partito da questa proposizione (la formula B-W) perché mi pare che essa evidenzi bene un tratto fondamentale della verità filosofica: la sua duplicità. È, infatti, una proposizione composta di due parti, una specie di Giano bifronte. Utilizzo spesso questa proposizione perché essa richiama praticamente alla lettera, anche se non vi è alcun riferimento esplicito, il verso 3 del frammento 2 di Parmenide, cioè il luogo in cui, parlando delle possibili vie di ricerca, viene istituita la verità dell essere, verso che io traduco così: l una che è, e che non è non essere 6. La struttura formale di questa proposizione è uguale a quella della formula B-W: la verità dell essere è che ogni cosa è, e non è non essere; cioè, appunto: ogni cosa è (ciò che è), e non è ciò che essa non è, il suo non essere. È appunto questa identità formale con la verità parmenidea il motivo per cui chiamo proposizione filosofica quella espressa dalla formula B-W. Il primo punto sul quale riflettere è dunque la differenza, o la distinzione, tra questi due momenti della verità. Posto che questa formula indichi la verità, l assoluta verità, dobbiamo prestare la dovuta attenzione a tale dualità: la differenza tra l affermazione dell essere e la negazione del non essere 7. Fare attenzione alla dif- 6 Traduzione mia. 7 Per l interpretazione qui proposta del testo di Parmenide, chi lo desiderasse può vedere i seguenti miei scritti: a) Parmenide. (Frammento 2, verso 3), in

142 130 L. V. TARCA ferenza tra questi due momenti è cosa ben diversa dal negare che i due poli si implichino l un l altro, però è cosa diversa pure dall affermare che l implicazione che vi è tra l essere e la negazione del non essere goda di una natura privilegiata rispetto a quella che sussiste tra l essere e qualsiasi altra determinazione (altra rispetto alla negazione). Vorrei dire che è proprio per essere coerenti con il motto per cui ogni cosa è ciò che è e non un altra cosa che dobbiamo dire che l affermazione dell essere è ciò che è, e non un altra cosa, in particolare non è la negazione del non essere. Ma restiamo ancora un momento sul testo di Parmenide. Dopo aver letto il verso 3, nel quale si enuncia la verità, leggiamo il verso 5, nel quale si presenta la via dell errore, o la via della non verità: l altra che non è e che è necessario che non sia 8. Questa è la via specularmente opposta alla prima. Anch essa è dunque divisa in due parti. La prima parte dice (all opposto della prima parte della verità) che l essere non è; la seconda parte dice (all opposto della seconda parte della verità) che è necessario che il non essere sia: la negazione dell essere è necessaria. Per chiarire l opposizione tra le due seconde parti possiamo fornire una traduzione leggermente diversa del verso 3 (si tratta peraltro della traduzione più consueta): l una che è, e non è possibile che non sia. Così, la verità dice (nella sua seconda metà) che è impossibile che l essere non sia (e quindi che il non essere sia); per contro la non verità dice che è necessario che l essere non sia (e quindi il non essere sia). La prima parte della verità, dunque, afferma l essere, e la sua negazione (la prima parte della non verità) nega l essere. A. PETTERLINI, G. BRIANESE, G. GOGGI (a cura di), Le parole dell Essere. Per Emanuele Severino, Bruno Mondadori, Milano 2005, pp ; b) L incontrastabile contraddizione parmenidea: la verità del negativo, in L. CORTELLA, F. MO- RA, I. TESTA (a cura di), La socialità della ragione. Scritti in onore di Luigi Ruggiu, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2011, pp ; c) Opposizione e verità: l enigmatica via di Parmenide, in «Peitho Examina antiqua» 1 (4) 2013, pp , consultabile in 8 Traduzione mia.

143 Verità del non essere 131 La seconda parte della verità afferma che la negazione dell essere è impossibile, e la sua negazione (la seconda parte della non verità) afferma che invece essa (la negazione dell essere) è necessaria. Fermiamoci un momento sulla traduzione del verso 3. Le due traduzioni che ho proposto ( l una che è, e che non è non essere, l una che è, e che non è possibile che non sia ) sono entrambe legittime. La seconda presenta però un accentuazione particolare: introducendo la nozione del possibile chiama in gioco anche la dimensione modale. Io credo che la prima traduzione ( e che non è non essere ), più letterale e secca, rispetti maggiormente il testo di Parmenide. Tra l altro, essa richiama immediatamente il principio di non contraddizione, che possiamo qui formulare in questo modo: A = ( A): un altro modo per dire che ogni cosa è la negazione della propria negazione; e quindi, in generale, che l essere è la negazione del non essere. Entrambe le traduzioni comunque sono corrette; e in un certo senso ciascuna delle due dice un aspetto importante di quanto è contenuto nel testo dell Eleate. 4. IL TRATTO NEGATIVO DELLA VERITÀ FILOSOFICA E IL RUOLO DEL NON ESSERE: LA GIUSTIFICAZIONE DELL INNEGABILITÀ DELLA VERITÀ DELL ESSERE La prima parte della proposizione filosofica B-W afferma l esser ciò che è di ogni cosa ( Ogni cosa è ciò che è ); ovvero (ma questo passaggio richiederebbe qualche precisazione) l essere sé di ogni cosa, ovvero anche (con qualche ulteriore precisazione) l identità di ogni cosa con se stessa. Dando per scontate tali precisazioni, che qui però omettiamo, possiamo considerare come equivalenti le tre formulazioni: essere ciò che è, esser sé, essere identica a sé. La seconda parte della proposizione B-W ( [...] e non un altra cosa ), nega che una qualunque cosa non sia ciò che essa è, e quindi (ma su questo quindi dovremo tornare) che essa sia una cosa diversa da quella che è, cioè appunto un altra cosa rispetto a ciò che è. Perché la verità consta di queste due parti, rispettivamente positiva (affermativa) e negativa? Quindi anche: perché la prima implica necessariamente la seconda? Rispondere a queste domande significa fare i conti con il punto cruciale della filosofia, cioè la

144 132 L. V. TARCA fondazione ultima della verità. Perché come si diceva il problema non è tanto affermare che l essere è, quanto vedere qual è la giustificazione di questa affermazione, e il motivo per cui essa è innegabile. Nel trattare tale questione mi riferisco qui, sostanzialmente, alla linea di fondazione tipicamente filosofica che trova oggi la propria espressione più radicale nel pensiero di Emanuele Severino, il quale peraltro, anche grazie al riferimento al suo maestro Gustavo Bontadini, si riallaccia, sia pure in maniera anche radicalmente critica, alla grande dinastia filosofica che, partendo da Parmenide, tramite Platone e Aristotele giunge alla modernità hegeliana e quindi al pensiero attuale. In tale prospettiva fondativa una posizione è davvero giustificata come innegabile nella misura in cui risulta affermata persino dalla propria negazione. Nel presente contesto propongo di esprimere l innegabilità della verità mediante questa affermazione: la verità si determina necessariamente mediante la negazione. Ciò è vero almeno nel senso che persino chi volesse negare questa circostanza sarebbe costretto, proprio così facendo, a conferire forma negativa alla verità che intende sostenere, e quindi a confermare ciò che intende negare. Del resto la verità, proprio in quanto è l innegabile, ha essenzialmente a che fare con la negazione, appunto nel senso che la stessa innegabilità istituisce un rapporto con la negazione. In altri termini potremmo dire queste sono le formule alle quali di solito faccio ricorso che il negativo (ciò che si determina mediante la negazione) è innegabile, perché anche chi volesse negarlo sarebbe costretto ad affermarlo, e persino chi volesse negare che esso è innegabile sarebbe costretto a dare forma negativa alla sua verità, e quindi a confermare ciò che intendeva negare. Di solito esprimo tutto questo mediante la concisa formula: (1) (a) Il negativo è innegabile, perché (b) il negativo del negativo è negativo. Ovvero anche: (1.1) (a) Il negativo è innegabile, perché (b) anche il non negativo è negativo.

145 Verità del non essere 133 Alla luce della considerazione che, almeno in qualche senso, la verità ha necessariamente a che fare con la negazione, possiamo comprendere il ruolo che la seconda parte della proposizione filosofica, la parte che abbiamo appunto chiamato negativa, possiede nella costituzione della verità filosofica. Possiamo infatti dire che tale seconda parte, quella che riguarda il non essere, costituisce la fondazione della verità dell essere, la sua giustificazione. L innegabilità della verità dell essere consiste precisamente nel fatto che persino la sua negazione, cioè appunto il non essere, ove (per assurdo) si desse, sarebbe a sua volta essere; e in questo senso si può dire che esso non può assolutamente darsi. Per altro verso, nella misura in cui anche di esso (il non essere) risulta legittimo affermare che è qualcosa (per esempio ove lo si intenda come il positivo significare del nulla, per rifarci alla formula severiniana), pure esso è appunto essere, invece che non essere. Proprio la considerazione della negazione dell essere è ciò che mostra l assoluta innegabilità ed intrascendibilità dell essere. In altri termini, la giustificazione della verità dell essere, cioè la sua innegabilità, consiste nel fatto che persino la negazione di tale verità la afferma, e quindi, così facendo, nega se stessa e pertanto si toglie come negazione della verità. Emerge dunque, nel regno della verità, una dimensione caratterizzata dal fatto che qualsiasi cosa la conferma, e quindi dal fatto che essa è salva rispetto a qualsiasi negazione, perché persino qualsiasi negazione la afferma. Si mostra qui il ruolo fondamentale del non essere per quanto riguarda la verità dell essere. Possiamo infatti dire che, nella proposizione filosofica (la proposizione W-B, che ripete il verso 3 del frammento 2 di Parmenide), la prima metà costituisce l affermazione della verità dell essere, mentre la seconda metà costituisce la fondazione del suo essere verità innegabile. La verità è l essere (ciò che ogni cosa è), cioè l affermazione che è ; la giustificazione della sua innegabilità è data dal fatto che il non essere non può darsi.

146 134 L. V. TARCA 5. PROBLEMATICITÀ DELLA VERITÀ INNEGABILE: LA TRAPPOLA DEL NEGATIVO Il carattere negativo della verità appare del tutto inevitabile; ma nello stesso tempo esso risulta in qualche misura inaccettabile, perché porta ad almeno due conseguenze spiacevoli. La prima è che tutto è negativo; infatti: (2) Tutto è negativo, perché anche ciò che è diverso dal negativo, essendo non negativo, è negativo. La seconda conseguenza, altrettanto spiacevole, è che anche il positivo è negativo. A parte il fatto che, se tutto è negativo, allora evidentemente anche il positivo lo è, nel caso specifico possiamo dire che, nella misura in cui il positivo è definito dal suo essere diverso dal negativo e addirittura opposto ad esso, accade che esso (il positivo) è non negativo, ma quindi, in base alla (1b), è negativo. Possiamo dunque formulare la seguente conclusione: (3) Anche il positivo è negativo, perché, essendo non negativo (in quanto è diverso e opposto al negativo), è negativo. Ci veniamo a trovare, così sembra, in una trappola micidiale. Io credo che, per confrontarsi seriamente con essa, si debbano fare i conti fino in fondo con il carattere negativo della verità e con il suo aspetto micidiale. La sapienza buddhista paragona la situazione dell umano a quella di una scimmia che, avendo visto una trappola, cerca di allontanarla con una zampa, ma proprio questo gesto fa sì che la zampa resti imprigionata. Per liberare questa prima zampa, la scimmia rivolge contro la trappola anche la seconda zampa, col risultato che finisce per avere entrambe le zampe anteriori intrappolate. Allora prova a liberarsi con le zampe posteriori, aggravando ulteriormente la situazione, e infine tenta persino con la bocca, ma a quel punto la povera bestia è definitivamente perduta. Nei confronti del negativo l uomo sembra trovarsi in una situazione molto simile: qualsiasi mossa volta a liberare la verità dal suo carattere negativo è destinata a irretirla più profondamente in esso.

147 Verità del non essere 135 Disinnescare la trappola del negativo è impresa più ardua di quanto si pensi, e difficile da realizzare abbracciando delle facili alternative al pensiero negativo. Spesso capita di sentir muovere delle critiche alla natura negativa del pensiero occidentale, accusato di essere dualistico, o dicotomico, e di vedergli contrapposta un impostazione alternativa (che sia essa genericamente orientale, o buddhista, o mistica ), la quale viene definita come non dualistica. Il problema è che, proprio così facendo, si instaura un dualismo tra la posizione dicotomica (occidentale) e quella non dicotomica (orientale, mistica etc.); in tal modo la posizione che si presume libera dal dualismo viene ad essere a sua volta dicotomica e quindi negativa 9. Dal mio punto di vista si tratta qui, più che di stabilire quale dei due contendenti riporti la vittoria, di comprendere a quali condizioni sia possibile dare un senso autentico a una posizione che intenda davvero distinguersi dalla prospettiva dicotomica/dualistica. 9 Su questo tema può essere interessante vedere il dialogo che si è svolto nel 2004 tra Raimon Panikkar ed Emanuele Severino e che ora è stato pubblicato: R. PANIKKAR, E. SEVERINO, Parliamo della stessa realtà? Per un dialogo tra Oriente e Occidente, Jaca Book, Milano In questo volume si possono vedere anche la mia Introduzione (pp. 9-12) e il mio saggio La rete e il mare. Due diversi modi di testimoniare la verità, pp , i quali fanno riferimento alla mia interpretazione del rapporto tra il pensiero di Panikkar e quello di Severino presentata nei due saggi: a) Raimon Panikkar e la razionalità occidentale, in M. CARRARA PAVAN (a cura di), I mistici nelle grandi tradizioni. Omaggio a Raimon Panikkar, Jaca Book, Milano 2009, pp ; e b) Raimon Panikkar: la giusta visione del mondo nello sguardo di un mistico, in L. CANDIOTTO, L. V. TARCA (a cura di), Primum philosophari. Verità di tutti i tempi per la vita di tutti i giorni, Mimesis, Milano-Udine 2013, pp

148 136 L. V. TARCA 6. I DUE SENSI DELLA FONDAZIONE E I SIGNIFICATI DELLA NEGAZIONE La trappola consiste nel fatto che, dal punto di vista della verità, da un lato la negazione è ineludibile, ma dall altro lato essa è inaccettabile. Ora, questi due aspetti dipendono da due diversi aspetti della verità, i quali vanno quindi distinti. La giustificazione della verità, di cui abbiamo parlato, può infatti essere interpretata in due sensi molto diversi, che corrispondono a due differenti modi di intendere la verità, i quali possono venire espressi rispettivamente dalle seguenti formule: 1) La verità è ciò la cui negazione è autonegazione (cioè contraddizione). 2) La verità è la negazione dell autonegazione (la contraddizione) in cui consiste la propria negazione. Nel caso di Parmenide, l essere può essere inteso: 1) come ciò la cui negazione, cioè il non essere, è autonegazione (ovvero contraddizione), o 2) come negazione del non essere. Entrambe le posizioni pongono una relazione essenziale tra la verità e la sua negazione, ma la seconda, a differenza della prima, attribuisce anche alla verità la forma della negazione. Se ciò che fa scattare la trappola del negativo è il fatto che la verità viene ad avere forma negativa, allora interpretare la fondazione elenctica nel primo senso consente di tenere ferma l innegabilità della verità ma nello stesso tempo di svincolare quest ultima dal suo carattere negativo e quindi dalle sue micidiali conseguenze negative. L ipotesi, insomma, è che le difficoltà alle quali va incontro il pensiero dipendano dal fatto che si identifica l imprescindibile connessione che lega la verità alla propria negazione con l assunzione che la verità in quanto tale ha la forma della negazione della propria negazione. Possiamo avere una conferma di ciò prendendo in considerazione il caso paradigmatico del principio di non contraddizione, che possiamo assumere come un momento essenziale della verità, almeno nel senso che la verità si distingue essenzialmente dalla contraddittoria autonegazione in cui consiste la sua negazione. Ma se, oltre a ciò, interpretiamo tale principio come negazione della contraddizione (la contraddizione in cui consiste la sua autonegativa negazione),

149 Verità del non essere 137 finiamo per imbatterci in situazioni che creano terribili antinomie. Per esempio, quando abbiamo a che fare con una proposizione come quella detta del Mentitore (m): Questa proposizione (cioè m) non è vera, la quale risulta essere contraddittoria (perché la sua verità implica la sua non verità e viceversa), accade che, se pretendiamo di risolvere tale problema negando siffatta contraddizione, riproduciamo il problema, cioè una situazione contraddittoria. Se, infatti, considerando m come una proposizione contraddittoria, la neghiamo, otteniamo di nuovo una proposizione contraddittoria. In un caso come questo risulta evidente che la negazione della nonverità/contraddizione, lungi dal risolvere il problema, lo riproduce, in quanto genera a sua volta una contraddizione. La cosa più interessante, però, è capire che ciò ovvero il fatto che la verità come negazione della contraddizione genera a sua volta una contraddizione dipende proprio dalla struttura della fondazione elenctica della verità innegabile sopra ricordata, per la quale la verità è tale in quanto viene affermata anche dalla propria negazione. Infatti questo è il passaggio decisivo negare la negazione della verità equivale a negare qualcosa che afferma la verità, e quindi a negare la verità. La stessa verità innegabile implica quindi una dimensione rispetto alla quale la negazione della non verità è negazione della verità; ovvero una dimensione rispetto alla quale la verità, in quanto è negazione, è negazione della verità, cioè di se stessa (essendo per definizione, in quanto negazione, negazione della sua negazione, cioè della non verità, la quale a sua volta per la definizione della fondazione elenctica afferma la verità). La verità in quanto negazione (negazione della non verità, o della contraddizione), cioè la verità definita dalla seconda interpretazione sopra fornita, si presenta dunque come verità che si espone al rischio della contraddizione di cui abbiamo appena detto. La verità quale essa è definita dalla prima formula, invece, è salva rispetto a questo rischio, perché, pur restando definita dalla sua relazione alla negazione, lascia per così dire tutta la negatività dalla parte della sua negazione. Questo punto andrà indagato meglio, ma prima è opportuno vedere come anche questo aspetto così formale del discorso faccia tutt uno con una questione esistenziale decisiva. Se noi intendiamo la negazione come una forma di rifiuto, e il rifiuto come un espe-

150 138 L. V. TARCA rienza equivalente a quella del dolore, allora possiamo dire che la negazione (intesa appunto come una forma di rifiuto) costituisce per ciò stesso un esperienza di dolore 10. Insomma, nella misura in cui la negazione è una forma di dolore, anche la verità, intesa come negazione, costituisce una forma di dolore. In altri termini potremmo dire che, nella misura in cui la negazione è una forma di necazione 11, e la negazione da parte della verità è un autonegazione, la negazione della verità è una forma di autonecazione: una forma di suicidio. La questione decisiva, a questo punto, è quella che riguarda il linguaggio che esprime la verità. Perché, se la verità viene espressa mediante una proposizione negativa, essa si espone alla difficoltà implicita nella contraddizione che, dal punto di vista veritativo, inficia ogni negazione. Poniamo per esempio in riferimento alla nostra questione specifica che la seconda parte della verità dell essere venga espressa dalla formula L essere non è non essere. Questa formula, essendo negativa, viene comunque a generare una contraddizione, in quanto sembra negare, e quindi escludere, qualcosa rispetto all essere, cui invece ogni cosa appartiene; oppure, per un altro verso, in quanto sembra attribuire essere a qualcosa (il non essere) che invece non ne può avere. Naturalmente da queste difficoltà si può uscire, ma in ultima istanza ciò è possibile solo distinguendo, all interno della proposizione negativa, l aspetto necativo-rifiutante da quello descrittivo, quello cioè che descrive un fenomeno negativo, un atto di negazione. 10 Chi volesse approfondire questo importante aspetto, che qui può solo essere accennato, può fare riferimento al mio saggio: La trappola del dolore e le vie della liberazione, in M. BIANCHIN, M. NOBILE, L. PERISSINOTTO, M. VERGANI (a cura di), La vita nel pensiero. Scritti per Salvatore Natoli, Mimesis, Milano- Udine 2014, pp Uso questo neologismo, che deriva dal latino nex, necis (morte, uccisione), per sottolineare appunto l aspetto offensivo della negazione. Per un approfondimento del tema si può vedere il mio saggio Chi di negazione ferisce... L unico argomento possibile per una confutazione della verità inconfutabile, in S. SANGIORGIO, M. SIMIONATO, L. V. TARCA (a cura di), A partire da Severino, Aracne, Ariccia (RM) 2016, pp

151 Verità del non essere 139 Questo secondo aspetto è quello per cui la proposizione che esprime la verità viene intesa, in quanto negazione, come la descrizione (puramente differenziale/positiva) dell autonegazione cui vanno incontro la negazione della verità e quindi la negazione di qualsiasi cosa (nella misura in cui la negazione di qualcosa è negazione di una cosa che conferma la verità ed è quindi negazione della stessa verità). Tale descrizione della negazione è distinta da un qualsiasi atto negativo. In tal modo si può per esempio dire: L essere è tale che la sua negazione (il non essere) è negazione di se stessa (e quindi nega il suo stesso essere). Questa interpretazione positiva/descrittiva della negazione è quella che corrisponde alla prima delle due interpretazioni della verità sopra fornite, quella per la quale la verità è ciò la cui negazione è autonegazione. La differenza tra l aspetto attivo (od operativo) della negazione e quello descrittivo è paragonabile alla differenza che vi è tra l atto con cui il giudice emette una sentenza e quello con cui un giornalista dà notizia di tale atto descrivendolo. Si può allora dire che la proposizione negativa è qualcosa di ambiguo, nel senso che può essere una forma di negazione/necazione/rifiuto ma può anche essere semplicemente una descrizione di un fenomeno negativo, una descrizione che, in quanto tale, è qualcosa di diverso da una negazione/necazione/rifiuto in quanto è la semplice posizione del fenomeno negativo (il fenomeno della negazione). Il compito fondamentale consiste dunque, quando si esprime la verità, nel formularla in una maniera che mostri chiaramente quell aspetto per cui essa verità è una descrizione del comportamento della negazione nei confronti della verità, e che distingua quindi chiaramente tale descrizione dall atto necativo in cui l atto negativo consiste. Questo è diverso dal dire che la verità non implica una proposizione negativa. Anzi, si conferma qui che la verità, se vuol essere tale, implica il rapporto con la propria negazione, e precisamente con la circostanza che la sua negazione è autonegazione; e, in questo senso, è corretto persino dire che la verità è negazione della propria negazione Per esempio, si potrebbe dire che essendo la verità la dimensione la cui negazione è autonegazione la proposizione che nega la verità viene esclusa dall ambito delle proposizioni vere. E si potrebbe esprimere questo dicendo La negazione della verità non è vera. Ma questo, da capo, va inte-

152 140 L. V. TARCA Ma resta fermo che la testimonianza autentica della verità esige che sia chiaro che essa enuncia quella dimensione rispetto alla quale qualsiasi negazione è una contraddizione. Un compito filosofico decisivo consiste dunque nel distinguere la proposizione filosofica dalla proposizione negativa; ovvero anche: distinguere la proposizione filosofica negativa (quella che reca in sé, indistintamente, l aspetto operativo-necativo e quello descrittivo-positivo) dalla proposizione necativa, cioè distinguere la proposizione filosofica negativa, al suo proprio interno, in proposizione filosofica rispettivamente necativa e descrittiva. In altri termini: bisogna distinguere la proposizione filosofica positiva dalla proposizione filosofica negativa-necativa. 7. LA DISTINZIONE TRA LA DIFFERENZA E LA NEGAZIONE DELL IDENTITÀ: LA PURA DIFFERENZA Ma ecco un punto decisivo se ogni definizione-determinazione viene operata mediante una negazione, allora anche la proposizione che nomina la verità assolutamente positiva (quella cioè rispetto alla quale ogni negazione è una contraddizione) viene ad essere, in quanto negativa, contraddittoria, o quanto meno ambigua, perché lascia aperta la possibilità di essere interpretata in maniera necativa anziché semplicemente descrittiva. E lo stesso tentativo di definire la proposizione filosofica come puramente descrittiva, distinguendola dunque da quella necativa, è destinato allo scacco se si tiene fermo che ogni differenza è una negazione, cioè che omnis determinatio est negatio (Spinoza e Hegel). so nel senso della descrizione del fatto che chi intende in un ben determinato senso quei termini con ciò stesso esclude dall ambito delle proposizioni vere/non-contraddittorie la negazione della verità. Questa, da capo, è una descrizione di questo fatto, cosa diversa dall essere a sua volta l esclusione di un qualche/qualsiasi fatto. Dal momento che il suo riferimento è l essere onni-includente, la proposizione veritativa è sempre inclusiva, e descrittiva rispetto a ogni possibile negazione/esclusione. Essa è dunque descrittiva/puramente positiva rispetto a qualsiasi (altra) posizione.

153 Verità del non essere 141 Da questo punto di vista il problema filosofico decisivo viene ad essere un problema di composizione e di pratica linguistica, cioè di stile 13. La filosofia pone il problema di un uso della negazione che sia diverso da quello negativo/necativo. La risoluzione dei problemi filosofici richiede un parlare della negazione che sia qualcosa di diverso dall effettuare una negazione (dall operare una negazione). È quindi verosimile che a tal fine essa richieda una gestione del colloquio, e quindi anche dei contesti nei quali la comunicazione accade, che sia diversa da quella negativa/necativa; da questo punto di vista la questione della pratica filosofica diventa assolutamente centrale proprio anche dal punto di vista speculativo. Un momento particolarmente significativo e importante di tale questione è quello che riguarda quel particolare tipo di negazione che è la negazione dell identità, soprattutto in relazione all equivalenza, che viene normalmente posta, tra la differenza e la negazione dell identità. Se la differenza tra due enti viene intesa come negazione dell identità dei due differenti, allora la testimonianza di quell aspetto della verità per il quale questa si definisce come ciò rispetto a cui ogni negazione è una contraddizione viene ad essere una testimonianza negativa e quindi, nel senso visto, contraddittoria (o almeno ambigua). L autentica enunciazione della verità dell essere esige la testimonianza di una differenza che si distingua da ogni negazione, persino dalla non negazione, e che per questo chiamo pura differenza. All interno della prospettiva negativa (quella per la quale la differenza viene posta come negazione dell identità), resta nascosto e oscurato l aspetto per il quale due differenti, in quanto si co-istituiscono reciprocamente, sono la stessa cosa e in questo senso sono identici; pur risultando differenti, e anzi proprio in forza del loro essere differenti. Potremmo forse dire che ci riferiamo qui a qualcosa di simile a quello che lo Hegel della Scienza della logica chiama sintesi immanente [immanente Synthesis] 14, anche se proprio in questo passo Hegel vincola tale sintesi al divenire inteso come sintesi immanente dell essere e del nulla Ho approfondito il problema dello stile in filosofia nel lavoro a quattro mani: I. CANNONIERI, L. V. TARCA, A lezione da Wittgenstein e Derrida. Ovvero come diventa reale un dialogo impossibile, Mimesis Edizioni, Milano-Udine G. W. F. HEGEL, Scienza della logica, cit., p Ibidem.

154 142 L. V. TARCA Se ripensiamo ora alla proposizione filosofica (B-W), ci accorgiamo che l implicazione tra la prima parte ( ogni cosa è ciò che è ) e la seconda ( e non un altra cosa ) risulta necessaria solo a condizione di porre come equivalente l alterità, cioè la differenza, con la negazione dell identità. Possiamo infatti considerare tautologica la circostanza che una cosa sia diversa da un altra cosa: se A è un altra cosa rispetto a B, allora essa è necessariamente diversa da B. Ma che allora A non sia B (non sia identica a B) segue solo a condizione che si ponga la differenza come equivalente alla negazione dell identità; e aggiungiamo qui l identità come equivalente alla negazione della differenza. Sulla base di questa assunzione, infatti, dire che A è differente da B (in quanto altra cosa rispetto a B) equivale a dire che A non è identica a B; e per converso dire che A è identica a B equivale a dire che A non è differente da B. Insomma: l identità coincide con la negazione della differenza, e viceversa la differenza coincide con la negazione dell identità, l una equivale alla negazione dell altra. È sulla base di questa assunzione dell incompatibilità tra identità e differenza ma appunto solo sulla base di questa assunzione che la prima parte della proposizione filosofica (quella affermativa/positiva) implica la seconda (quella negativa). In altri termini potremmo dire: è dal punto di vista della negazione (cioè del negativo) che la differenza tra due cose è la negazione della loro identità, e, per converso, che l identità di una cosa è la negazione della sua identità con altre cose. La testimonianza piena della verità dell essere esige dunque che l affermazione che differenzia la verità dalle altre cose venga distinta dalla negazione dell identità dell una con le altre. Questo aspetto del problema risulta particolarmente importante quando si tratta di parlare della differenza tra la testimonianza della verità e il discorso contraddittorio. Perché risulta allora possibile distinguere chiaramente la differenza tra le due (la verità e la contraddizione) dalla loro negazione reciproca. Risulta quindi possibile anche superare la difficoltà, incontrata a proposito del paradosso del Mentitore, per la quale la negazione della contraddizione riproduce una contraddizione. Infatti, se la verità viene intesa come negazione della contraddizione, accade che proprio tale principio viene ad essere una testimonianza contraddittoria della verità. In relazione al problema del non essere, ciò vuol dire che, ammesso che la negazione dell essere sia una contraddizione, resta

155 Verità del non essere 143 ancora da dimostrare che allora la verità dell essere sia la negazione di tale contraddizione. Da capo, è (solo) dal punto di vista della negazione (cioè del negativo) che tale implicazione scatta automaticamente e inesorabilmente. Che la verità sia differente dalla contraddizione si può facilmente concedere, almeno all interno di determinate assunzioni (per esempio una volta che si sia assunto che la verità sia salva rispetto alla negazione e che la contraddizione consista nella congiunzione di un affermazione e della propria negazione); ma appunto tale differenza si trasforma automaticamente nella negazione della contraddizione solo a condizione che la differenza sia posta come negazione dell identità; e a queste condizioni il principio di non contraddizione viene ad essere una contraddizione. Un problema centrale della filosofia diventa allora quello di elaborare una testimonianza della verità e quindi del rapporto di questa con la sua negazione, e perciò con il non essere che concepisca la verità, piuttosto che come negazione di qualcosa, come una descrizione del fatto che la negazione dell essere (il non essere) consiste in un autonegazione. 8. LA RIFORMULAZIONE DELLA PROPOSIZIONE FILOSOFICA E LA VERITÀ DEL NON ESSERE Alla luce di queste considerazioni torniamo dunque a pensare alla proposizione filosofica dalla quale siamo partiti, che possiamo ora riformulare definendo la verità come segue: (V) Ogni cosa è ciò che è, e si determina mediante ogni (altra) cosa Altre formulazioni appena un po diverse dicono: Ogni cosa è ciò che è, e si determina rispetto a ogni (altra) cosa. O anche: Ogni cosa è ciò che è, ed è costituita (co-istituita) da/mediante ogni altra cosa, Ogni cosa è ciò che è, e si costituisce (si co-istituisce) mediante ogni altra cosa, Ogni cosa è ciò che è, grazie a ogni (altra) cosa.

156 144 L. V. TARCA Questo tipo di formulazione tiene ferma la prima parte della verità parmenidea, quella espressa dalla formula B-W, ma ne modifica la seconda parte. A prima vista sembra che qui l elemento della negazione sia caduto; ma se cade la negazione, non viene meno anche il carattere della innegabilità? In verità la negazione continua ad essere presente, ma come una particolare individuazione del determinarsi di ogni cosa mediante ogni altra cosa: in quanto si determina (si co-istituisce) mediante ogni (altra) cosa, ogni cosa si determina anche mediante la negazione, e quindi persino mediante la propria negazione. La parte negativa della formula filosofica compare qui, dunque, come una particolare individuazione della seconda metà della proposizione filosofica, proposizione la quale può dunque venire completata nel seguente modo: (Vn) Ogni cosa è ciò che è, e si determina mediante ogni (altra) cosa; quindi anche mediante la negazione, e in particolare persino mediante la propria negazione (la quale si determina come autonegazione). Per quanto riguarda il rapporto con la negazione e quindi con la fondazione dell innegabilità della verità, si deve qui osservare che il determinarsi mediante ( rispetto a ) va qui inteso come una conferma di ogni cosa da parte di ogni (altra) cosa. La conseguenza è che ogni cosa viene confermata anche dalla negazione e quindi persino dalla propria negazione. Anche se si volesse obiettare che ogni cosa si determina sì mediante ogni altra cosa, ma si determina negativamente rispetto alle altre cose (e in particolare rispetto alla propria negazione), resta fermo che ogni cosa, in quanto è istituita dalla propria negazione (in quanto questa la determina), viene affermata/confermata persino da questa. In quanto la verità è il costituirsi di ogni cosa mediante ogni altra cosa, cioè l esser confermata di ogni cosa mediante ogni altra (anche mediante la negazione e quindi persino mediante la propria negazione), la negazione di qualsiasi cosa è negazione di se stessa, e in particolare pure la negazione della non verità (cioè della negazione della verità) è negazione di se stessa. Insomma, rispetto alla propria negazione la verità si determina come tale che la negazione della sua negazione (cioè la negazione della negazione della verità) è a sua volta negazione della verità. La

157 Verità del non essere 145 formula filosofica ora presentata, dunque, mostra e fonda e quindi conferma la innegabilità della verità, ma ne precisa il senso sciogliendo l ambiguità insita nella negazione che è presente (per via del prefisso in, che equivale a non ) nella nozione stessa di in-negabilità. La verità è in-negabile nel senso che, essendo il determinarsi di ogni cosa mediante ogni (altra) cosa, mostra il carattere autonegativo, rispetto ad essa, di ogni negazione; e quindi anche il carattere autonegativo della propria negazione (la negazione della verità). Dal punto di vista della fondazione elenctica, la formulazione potrebbe dunque essere la seguente: (Ve) La verità è che ogni cosa, determinandosi mediante ogni (altra) cosa, resta affermata/confermata da (mediante) ogni (altra) cosa; quindi anche mediante la negazione, e perciò persino mediante la propria negazione (la quale si determina quindi come autonegazione). La verità parmenidea, come anche la fondazione elenctica, resta pertanto qui pienamente confermata. Ciò avviene in un senso rinnovato, che possiamo chiamare puramente positivo, perché la negazione figura come una particolare individuazione di ciò che conferma la verità, la quale in tal modo si distingue dalla negazione mediante una differenza che è pura (in quanto si distingue tanto dalla differenza-negazione quanto dalla negazione di questa). 9. IL SIGNIFICATO ETICO-ESISTENZIALE DELLA TESTIMONIANZA DELLA VERITÀ DEL NON ESSERE Tutto questo ha delle conseguenze esistenziali, quindi anche pratiche ed etiche, decisive. Innanzitutto perché da ciò segue che ogni negazione, intesa come atto negativo/necativo, viene ad essere in verità un atto autonegativo/autonecativo. Ogni omicidio, potremmo dire, è un suicidio; ogni aggressione è una forma di harakiri. Ogni condanna è un autocondanna. Ma il punto decisivo è che questa posizione viene qui derivata direttamente dalla verità stessa. Lungi dall essere una scelta etica, magari nobilissima ma in fondo opinabile, questo atteggiamento etico viene qui fondato

158 146 L. V. TARCA secondo verità, e secondo la verità più forte e stringente, quella elenctica. Ritornano qui, in un certo senso, tutti i grandi insegnamenti della sapienza tradizionale e classica, ma giustificati nella loro piena verità. L esempio paradigmatico di ciò è probabilmente il libro I della Repubblica di Platone, laddove Socrate dimostra che ogni danneggiamento inferto a un uomo, sia egli giusto o ingiusto, è sempre un atto di ingiustizia (Resp. 335a6-e6). Nella nostra prospettiva questo vuol dire: ogni condanna è un autocondanna. Il termine condanna è qui particolarmente adatto perché esso tiene insieme l area semantica del danno con quella della negazione. Sfruttando l ambivalenza del termine inglese sentence, che significa tanto proposizione quanto sentenza e condanna, potremmo dire che (all interno dell assunzione che ogni determinazione è una negazione) Every sentence is a sentence 17 ; intendendo tale proposizione in questo senso: Every proposition is a condemnation (a conviction). Ma anche in italiano si potrebbe sfruttare la vicinanza tra proposizione e giudizio (e quindi condanna ) per dire: [Se ogni proposizione è una negazione, allora] ogni proposizione è una sentenza (un giudizio, una condanna). Restando all interno delle opere platoniche, questo può forse essere messo in relazione con il famoso passo del libro VI della Repubblica, dove si dice che il Bene è al di là dell essenza (epekeina tes ousias) (Resp. VI, 509b9). Se intendiamo il regno dell essenza come quello definito dal fatto che ogni determinazione è una negazione (dal momento che la verità consiste in una negazione), allora questa affermazione platonica potrebbe dirci che il bene vero è in qualche modo al di là dell ambito della negazione, del negativo. Ma ne è al di là nel senso che lo eccede comprendendolo. E sempre in riferimento a Platone torniamo qui a fare i conti con il parricidio da lui compiuto nel Sofista nei confronti di Parmenide (Soph. 254b7-259d8). Dal punto di vista che qui presento, l indicazione platonica è essenziale e decisiva: per risolvere l aporia parmenidea del non essere bisogna distinguere la differen- 17 Ma, più precisamente: If every sentence is a negation, then every sentenceproposition is a sentence/condemnation.

159 Verità del non essere 147 za dalla contrarietà, cioè lo heteron (257b4) dallo enantion (257b3 e 257b9). Ma se, come il testo platonico ribadisce, la differenza viene pur sempre espressa mediante una negazione (apophasis: 257b9), cioè mediante particelle negative quali ouk e me (257c1), il problema si ripropone. Perché, se tale negazione si riferisce all orizzonte trascendentale, quello dell essere (rispetto al quale ogni negazione è una contraddizione), allora l aporia parmenidea del non essere si riproduce; se invece essa si rivolge contro qualcosa che è altro da tale orizzonte, allora resta il problema di giustificare perché in questa contesa tra i due contendenti l uno debba prevalere secondo verità. Anzi, in un certo senso questa eventualità resta esclusa a priori, perché noi abbiamo visto che la verità è definita precisamente dal fatto che essa, se si presenta come negazione, allora si costituisce per ciò stesso come contraddizione. Questo problema ritorna, non a caso, nello stesso Aristotele, laddove egli, nel momento in cui istituisce in maniera formidabile la fondazione della bebaiotate arche (Meth. IV, 1005b11-12), cioè del principio innegabile, si imbatte nella questione peraltro evidente, benché in maniera implicita, nello stesso Poema di Parmenide (B 2, 7-8) di come sia possibile sostenere che qualcuno come per esempio Eraclito (Met.1005b25), Protagora (1009a6), Anassagora (1009a27) e Democrito (1009a27-28) abbia mai negato tale innegabile principio (1005b24-26). Ci scontriamo qui con la difficoltà fondamentale del pensiero filosofico. Se esso è definito dal fatto di essere il giudice giusto (cioè discepolo di Dike) che distingue il bene dal male, il positivo dal negativo, e in base a ciò giunge a premiare il positivo e a condannare il negativo, tale pensiero giunge qui a quel limite estremo nel quale la condanna si rivolge contro se stessa. Ovvero: il fondamento della giustezza della sentenza è così radicale che resta esclusa a priori la possibilità che ci possa essere un imputato/condannato; resta escluso a priori che la sentenza possa essere una condanna. Parmenide ci dice che nessuno può percorrere la strada del non essere; e quindi nessuno può, in realtà, commettere il reato filosofico. Aristotele, a sua volta, ci dice che anche coloro che paiono aver contestato tale principio, in realtà hanno fatto ciò solo a parole (1005b25-26); quindi in verità neppure costoro si sono macchiati di questo crimine, il quale è talmente grave che... è semplicemente impossibile che qualcuno possa commetterlo. Da un certo punto di vista la soluzione è chiarissima e a suo

160 148 L. V. TARCA modo semplicissima: ogni negazione è, in verità, una contraddizione; ogni condanna è un autocondanna. Ma da un altro punto di vista restare coerenti con questo assunto è impresa al limite del miracoloso. Una conferma formidabile di tale difficoltà la troviamo proprio in quella parte della Repubblica nella quale la tesi per cui qualsiasi condanna è una contraddizione viene non solo enunciata ma anche dimostrata (Resp. I, 335a6-e6). Dopo avere, appunto, fornito la prova che ogni danneggiamento di un uomo, sia egli giusto o ingiusto, è un atto di ingiustizia, e avendo trovato il consenso dell interlocutore su questo decisivo punto, Socrate dice: Dunque uniamoci, dissi, io e tu, per opporci [Machoumeta... koine ego te kai su] a chi sostenga che questa tesi è stata affermata o da Simonide o da Biante o da Pittaco o da qualcun altro tra i sapienti [sophon] e beati [macharion]. Per me son pronto, disse, ad associarmi alla lotta [koinonein tes maches] 18. Chiedo: non è forse ogni combattere un danneggiare? E, anche ammesso che coloro che qui vengono combattuti siano nel torto e siano quindi, in qualche senso, ingiusti, non accade che danneggiandoli si commetta a propria volta un ingiustizia? È vero che nel caso specifico colui che viene combattuto non è propriamente nemmeno chi sostiene la tesi opposta a quella dimostrata da Socrate, giacché è solo chi sostiene che questa tesi sia stata sostenuta da qualche sapiente o beato 19 ; ma a parte il fatto che queste due posizioni in qualche modo coincidono, almeno nella misura in cui sostenere che una tesi sia stata sostenuta da un sapiente equivale ad affermare la sua verità sta di fatto che, chiunque sia colui che si deve combattere, e comunque costui 18 Resp. I, 335e Traduzione mia. Nel seguito del testo (336a1-8), infatti, si dice che la sentenza che è giusto fare il vantaggio degli amici e il danno dei nemici (336a1-2) non è di qualche sapiente o beato, bensì di qualche altro riccone che crede di avere grande potere (336a6-7).

161 Verità del non essere 149 venga definito, proprio per restare fedeli all insegnamento socratico ci si deve chiedere: non è il combattimento (mache) contro di lui un atto di ingiustizia piuttosto che di giustizia? La cosa straordinaria è che questo incitamento al combattimento appare e si presenta come la legittima conclusione del ragionamento che aveva appena finito di dimostrare una tesi rispetto alla quale quella conclusione risulta essere in contrapposizione frontale. Infatti, immediatamente dopo aver dimostrato diciamo così l ingiustizia di ogni forma di azione rivolta contro qualcuno, coloro che hanno scoperto tale formidabile verità vengono invitati a unirsi nella lotta condotta contro coloro che non accettano tale verità. Come non pensare allora a proposito di questa clamorosa contraddizione a quello che è accaduto quando i seguaci della splendida verità testimoniata da Gesù Amate anche i vostri nemici, pregate per quelli che vi perseguitano (Mt 5, 44) si sono uniti per combattere i nemici di tale meravigliosa parola e, per difendere questa, hanno ucciso, imprigionato e messo al rogo i suoi nemici? E come non ricordare per cogliere l ampiezza e la radicalità del problema anche il fatto che, come Aristotele invoca la coercizione [o violenza: bia] (Met. 1009a18) almeno contro un certo tipo di oppositore, così il santo monaco Anselmo ritiene giusto, almeno con un certo tipo di negatore dell esistenza di Dio, non solo rifiutare il discorso [respuendus] di costui, ma anche coprire di sputi [conspuendus] un individuo così insipiente [insipiens] e impudente [impudens] 20? La verità filosofica verrebbe da dire viene tradita da chi, nel testimoniarla, se ne costituisce difensore, cioè paladino. Almeno nel senso che, nella misura in cui i difensori/paladini si costituiscono (inevitabilmente?) come degli offensori, la difesa della 20 Si tratta di chi non si limita a negare l esistenza di Dio, ma addirittura sostiene di non arrivare nemmeno a intendere o pensare [intelligere aut cogitare] ciò che dice quando usa la formula qualcosa di cui non si può pensare il maggiore [aliquid quo maius non possit cogitari]. Questo peculiare aspetto della questione è trattato da Anselmo d Aosta quando egli risponde alle obiezioni di Gaunilone, in Proslogion, cit., Risposta di Anselmo [a Gaunilone], pp , cap. 9, par. 2, p. 222 (latino) e p. 223 (italiano).

162 150 L. V. TARCA verità si rovescia nella sua negazione. Ovvero anche: la legittimazione di un atto polemico (nel senso del polemos) risulta contraddittoria se essa pretende di appellarsi alla verità e alla sua difesa. La verità filosofica è validamente difesa dalla sua stessa natura: essa semplicemente registra il fatto che tutti coloro che assumono un atteggiamento necativo nei confronti di qualche cosa, negandola, vengono trafitti dal loro stesso gesto. Il compito del filosofo il testimone della verità è dunque quello di enunciare questa verità in una maniera che sia con essa coerente, quindi totalmente positiva e accogliente nei confronti di ogni posizione, anche di quella di coloro che paiono rinnegare la verità. Pure costoro vanno compresi nella loro propria verità, la quale a sua volta va testimoniata anche in quel suo peculiare tratto che riguarda il momento autonegativo della negazione della verità. Il pensiero che libera dal dolore e dalla morte è quello che, pensando il non essere (il negativo), rispecchia la dimensione che è positiva rispetto a ogni forma di negazione/necazione (e in questo senso è libera/salva rispetto a ogni forma di negativo). Che tipo di chiarezza, piuttosto che di confusione ripensando a quello che abbiamo detto all inizio, compete a questo tipo di pensiero? Ognuno è chiamato a rispondere personalmente a questa domanda; ma per favorire la realizzazione di questo compito individuale possiamo provare a esprimerlo di nuovo nel modo seguente. Il pensiero che pensa positivamente il non essere è quello che comprende che ogni cosa è ciò che è mediante ogni (altra) cosa, compresa la negazione (e il negativo) e persino la sua negazione (il suo negativo). È il pensiero che intende che ogni cosa è compiuta/perfetta essendo quella che è, in quanto si compie persino mediante la propria negazione, che, essendo una contraddizione, risulta automaticamente risolta nella dimensione della verità, quella appunto per la quale anche la negazione contribuisce a determinare ogni cosa nel suo essere ciò che è. RIASSUNTO (1) La soluzione di un problema filosofico modifica il significato delle parole che usiamo per porlo; così il problema del non essere è destinato a cambiare il significato di parole come negazione e

163 Verità del non essere 151 differenza. (2) Non si tratta solo di un problema onto-logico, dal momento che esso riguarda la morte e la sofferenza umana. (3-4) Il discorso sul non essere costituisce la fondazione della innegabilità della verità (l essere), perché mostra che persino la sua negazione la conferma. Ora, proprio in quanto innegabile, la verità implica la negazione (persino se volessimo negare ciò saremmo costretti a confermarlo), ma allora (5) pare che ogni ente, e quindi pure il positivo, sia negativo. Per sfuggire a questa trappola (6-8) dobbiamo distinguere l innegabile fatto che la verità implica la negazione dall assunzione che la verità in quanto tale è una negazione. In effetti, proprio l innegabilità della verità mostra quella dimensione per la quale ogni negazione è una contraddizione, dal momento che la verità stessa, nella misura in cui è una negazione, nega qualcosa (la sua negazione) che a sua volta afferma la verità. (9) Testimoniare questa dimensione puramente positiva della verità è il vero, benché difficile e paradossale, compito della filosofia. ABSTRACT (1) The solution of a philosophical problem modifies the meaning of the words we use to put it; so the non being problem is doomed to change the meaning of words like negation and difference. (2) It is not only an onto-logical problem, since it concerns the problem of death and of human suffering. (3-4) The discourse about non being constitutes the foundation of the fact that truth (being) is undeniable, because it shows that even the negation of truth (non being) confirms it. But, just as undeniable, truth implies negation (even if we should negate this we would confirm it), and so (5) it seems that everything, and hence even the positive, is negative. In order to escape this trap (6-8) we have to distinguish the undeniable fact that truth implies negation from the assumption that truth itself is a negation. Indeed, just the undeniable truth shows the dimension for which every negation is a contradiction, since truth itself, insofar as it is a negation, negates something (its negation) which on turn affirms truth. (9) To testify this purely positive dimension of truth is the true, although difficult and paradoxical, task of philosophy.

164 152 DT 118, 2 (2015), pp EX NIHILO PAOLO PAGANI * 1. A CHE COSA CI RIFERIAMO CON IL TERMINE NON-ESSERE Non-essere almeno nella sua accezione assoluta (to me on haplós) è un termine non denotante, ma piuttosto funzionale. Di che cosa parliamo, dunque, quando parliamo di non-essere? 1.1. Essere, non essere, pensiero Se il pensiero ha come suo contenuto l essere (il positivo), parlare del non essere se si vuole che quel parlare sia significante sarà, ancora una volta, un certo modo di parlare dell essere. In che senso, però? Nel senso della ipotesi della trascendibilità dell essere stesso. Non essere è il nome che si dà alla ipotesi della trascendibilità dell essere (questo è il senso appropriato di quella espressione); e insieme è la attestazione della non consistenza di tale ipotesi. A quel senso non corrisponde alcun possibile denotatum: infatti, il tentativo di trascendimento non dà adito ad alcunché (che non sia un positivo, naturalmente). Si può anche dire sinteticamente e paradossalmente che non essere sia un nome dell essere: quello specifico nome che dell essere indica l intrascendibilità. Intrascendibilità guadagnata in due momenti: lo sporgimento ad extra; e il reinvio ad intra, in considera- * Professore ordinario di Filosofia Morale, all Università Ca Foscari di Venezia.

165 Ex nihilo 153 zione del fatto che nella fattispecie si tratta infatti dell essere ogni extra, in tanto in quanto ha consistenza, è un intra, e, in tanto in quanto non ha consistenza, non costituisce neppure un extra. Non essere è dunque quel nome dell essere che evidenzia la convertibilità, reciproca e inevitabile, di essere e pensiero. Anzi, è prima ancora il fattore che introduce la semantizzazione reciprocamente distinguente di essere e pensiero, facendo tra loro in certo modo da terzo. Si noti che élenchos è la movenza argomentativa che, dall interno dell essere, progetta sperimentalmente l evasione (l evasione dalle curvature caratterizzanti, e perciò coestensive, dell essere stesso), e ne constata l impraticabilità: constata cioè che la heterotes, rispetto ad esse (ad esso, dunque), può darsi solo come tautotes 1. La heterotes è la capacità che l essere ha di porsi a distanza da sé per verificare che ciò può accadere solo dall interno dell essere stesso. Pensiero è appunto tale heterotes, che trova nel non essere il luogo ideale della propria collocazione sperimentalmente ulteriore all essere; ed è insieme la necessità del rientro sulla tautotes dell essere stesso, sperimentata come intrascendibile. Il pensiero è il manifestarsi della interiorità della heterotes alla tautotes: tale interiorità significa che il trascendentale si rivela come tale, in quanto è in relazione dialettica col proprio trascendimento posto-come-tolto. Una relazione che trova la sua espressione sintetica nella coppia di essere e non essere, dove il non essere è il paradigma delle violazioni dell essere, cioè è l espressione sintetica del trascendimento impossibile: concepito appunto come impossibile, cioè come incapace di venire alla luce, ovvero incapace di una propria manifestazione autonoma. Da Parmenide in poi, la filosofia è la consapevolezza della originaria immanifestabilità del non essere. Il senso ultimo del divieto parmenideo alla praticabilità della via del non essere sta nella incapacità di quest ultimo a prodursi alla luce del pensiero come un che di autoconsistente, piuttosto che come il nome negativo della assolutezza dell essere 2. 1 Cf. PLOTINO, Enneadi, V, 3, Che cosa significa che il pensiero è manifestazione dell essere? Significa che ne è un nome, cioè che è una sua appartenenza. Significa che l essere non è

166 154 P. PAGANI Ora, il tentativo di andare oltre l essere, per ritrovare alla fine l essere questa dialettica che platonicamente diremmo di movimento e di quiete 3 è proprio ciò che specifica il pensiero rispetto all essere. È la dieresi originaria di pensiero ed essere, i quali vanno appunto semantizzati diaireticamente, essendo originariamente indiscernibili. Si può dire articolando meglio che, se fenomenologicamente non c è occasione per distinguere tra essere e pensiero, élenchos è il luogo della possibile distinzione che, se supera l indiscernibilità, conferma la coestensione; analogamente a come l autocontraddizione è luogo di discernimento tra pensiero e linguaggio La funzione semantizzante del non essere Il non essere viene messo a tema per precisare la natura dell essere. Una semantizzazione dell essere non potrà valersi della riconduzione di questo significato, inestricabile da ogni altro, ad un àmbito più comprensivo entro cui poi lo si possa specificare: tale semantizzazione non potrà realizzarsi, cioè, per genus et differentiam. L essere, dunque, potrà mostrare il proprio significato solo in relazione a se stesso, e più precisamente all ipotesi del proprio toglimento. Il me on haplós nomina tale ipotesi. Dire poi che l essere qualcosa cui il pensiero debba o possa sopraggiungere (da dove, del resto, potrebbe farlo?). Ma, l originaria manifestatività dell essere (e quindi del reale) come si giustifica? Elencticamente come già insegnava Plotino. L originaria noeticità dell essere non è dunque una scommessa: è piuttosto una necessità elenctica. Il non essere niente per nessuno (ovvero, da nessun punto di vista ) è un non essere simpliciter. Nessuno vuol dire nessuna coscienza: cioè, nessuna istanziazione del pensiero, originaria o secondaria che essa sia. Più precisamente, un al di qua (o un al di là) dell essere non c è. E neppure il pensiero può risultare questo improponibile al di qua (o al di là ). Ma anche un al di là (o un al di qua) del pensiero non c è. E neppure l essere può risultare questo improponibile al di là (o al di qua ). In altre parole, essere in quanto essere e pensiero in quanto pensiero sono nomi (reciprocamente convertibili) della presenza. La presenza è la datità del dato (ovvero, l orizzonte in cui il dato ogni dato si manifesta). 3 Cf. PLOTINO, Enneadi, VI, 2, 8.

167 Ex nihilo 155 resiste, si oppone a tale ipotesi non vuol dire non può voler dire che esso debba vincere alcunché di efficacemente o effettivamente minaccioso, che ne precarizzi la stabilità. L ipotesi in questione è almeno in prima battuta consistente, ma ciò che essa ipotizza non è alcunché di sussistente. L aporia del nulla, da Severino intelligentemente ripresa da una lunga tradizione, sta appunto nella rilevazione della consistente predicabilità di un che di assolutamente non-sussistente: il nulla, infatti, rientra nell essere, in quanto termine positivamente significante; ed è viceversa escluso dall essere, in quanto significato intrinsecamente impossibilitato ad attuarsi. In proposito, va ricordato che l ipotesi del toglimento dell essere implica l ipotesi che vi sia una alterità rispetto a esso: ipotesi, quest ultima, che rientra inevitabilmente. E questo è il destino che l essere, non tanto ha, quanto piuttosto è: l intrascendibilità. Il non essere è appunto l indice di tale intrascendibilità. Esso è l orizzonte dell essere, nel preciso senso che è l alterità incostituibile dell essere stesso. Questa situazione osserviamo non deve comunque prospettare alcuna simmetricità tra essere e non essere, né tanto meno alcuna coessenzialità tra le due figure. Piuttosto, se una adeguata semantizzazione dell essere comprende come suo secondo momento l opposizione al non-essere, non si risolve però in essa, pena la tautologicità pura. Più precisamente, una adeguata semantizzazione comprende il momento della rilevazione della apprensione del positivo e, in seguito a quella, la divaricazione del positivo dal negativo, coincidente quest ultima con l istituzione del principio di non contraddizione. Del resto, la stessa rilevazione della impossibilità di definire l essere per genere e differenza indica, con ogni evidenza, che dell essere si ha una nozione (anche alquanto strutturata) ben prima della sua precisazione per esclusione del negativo. Solo nel caso in cui, arbitrariamente, si ritenesse che la mancata considerazione che un certo significato (x) è negazione della propria negazione (non-x) implichi di per sé l identificazione di x e non-x, allora il significare predialettico (ma non a-dialettico) dell essere che solo giustifica la sua opposizione al nulla dovrebbe essere coerentemente escluso come un ipotesi essa stessa autocontraddittoria.

168 156 P. PAGANI 1.3. Discussione dell aporia del nulla La già accennata discussione che Severino dedica alla aporia del nulla 4 ha un aspetto felice e uno decettivo. Ma, per poterne parlare competentemente, occorre anzitutto richiamare le due formulazioni che Severino dà dell aporia: (a) in tanto in quanto il nulla è implicato dalla posizione dell essere (come suo opposto semantizzante), esso è un positivo; (b) in tanto in quanto il nulla è propriamente nulla, allora non è neppure l opposto semantizzante dell essere. La soluzione severiniana dell aporia è ricostruibile, per l essenziale, nei termini seguenti. Il nulla momento (cioè il nulla come assoluta assenza di contenuto) è un che di non-contraddittorio, ed entra come tale nella relazione semantizzante. La contraddizione riguarda il concreto della struttura che è costituita dal nulla momento in congiunzione col suo positivo significare. Si noti che qui, paradossalmente, a risultare contraddittorio è il concreto della struttura. Del resto, per Severino, «il principio di non contraddizione non esige che non esistano significati autocontraddittori, ma che l autocontraddittorietà sia come tolta» 5. Dal punto di vista classico, invece, non è contraddittoria la struttura in questione; semplicemente è contraddittoria l ipotesi che il nulla momento sussista, si dia in atto e non si limiti, dunque, a significare positivamente alcunché. Ma, a ben vedere, non c è contraddizione neppure nella struttura concreta che Severino prospetta, perché lì il negativo e il positivo non sono tali sub eodem. L elemento felice è l articolazione del non essere in positivo significare e nulla momento, dove il non essere come dotato di significato determinato rientra positivamente nell essere, mentre il suo contenuto se ne autoesclude (dal che, poi, Severino trae la 4 Cfr. E. SEVERINO, La struttura originaria, Adelphi, Milano 1981, cap. IV. 5 Cfr. E. SEVERINO, La struttura originaria, p In questo, Severino sembra convenire con Hegel, contro Aristotele.

169 Ex nihilo 157 considerazione per cui il concreto del significato è il luogo della contraddizione, mentre solo una astratta considerazione di quel momento astratto che è il non essere inteso come contenuto, può fare apparire quest ultimo come contraddittorio e questo, nel senso che non dovrebbe neppure darsi, in quanto assolutamente negativo). Il nulla come positivo significare è un certo contenuto dell essere; il nulla momento, invece, è il limite autotoglientesi dell essere. L elemento decettivo sta invece nella posizionalità del non essere, che Severino introduce come condizione orizzontale della posizione stessa dell essere. Questo è un evidente elemento idealistico: classicamente si rileva invece la dissimmetria radicale tra il positivo e il negativo. C è (solo) il positivo; mentre il negativo è o uno dei suoi nomi (non-essere assoluto) o uno dei suoi modi non originari (non-essere relativo) L aporia del nulla in Anselmo La discussione dell aporia del nulla trova un antecedente classico nell anselmiano De casu diaboli (1080) 6. In questo testo, di quattro anni successivo al Monologion (di cui pure diremo), Anselmo riprende distesamente per bocca di un discepolo una aporia là già accennata (al cap. 8). Ecco, nel seguito, i termini di questa ripresa (il riferimento è al cap. 11) O il nihil è un autentico nome (e non solo una vox), cioè è un termine referenziale, e allora non può voler dire quello che pretende di dire: corrisponde infatti a un aliquid e non a niente. Oppure vuol dire quel che pretende di dire, cioè significat nihil, ovvero non è referenziale; e allora non vuol dire alcunché («ut ipsum nomen nihil significet» è infatti diverso da «id est non significet aliquid») Il maestro ipotizza che il significare nihil e il significare aliquid, da parte del medesimo nome, non implichino, qui, contraddizione: evidentemente, perché nella fattispecie ciò non si dà sub eodem. Ecco in che senso. 6 Il testo di Anselmo è qui tradotto a cura nostra sulla base della edizione latina di F. S. Schmitt.

170 158 P. PAGANI Nihil equivale a non-aliquid : nel suo significato comprende dunque l aliquid, cioè il qualunque contenuto positivo che esso removet da sé (contiene, dunque, il positivo in quanto tale). In tal senso, esso significa insieme qualcosa e niente e senza contraddizione: «significat enim removendo; et non significat constituendo». Leggiamo al riguardo: «Per questa ragione, il nome nihil [ ], in quanto annulla [destruendo], non significa nulla, bensì qualcosa; in quanto costruisce [costituendo], non significa qualcosa, bensì nulla. Ecco perché, dal fatto che il nome nihil in certo modo significa qualcosa, non deriva la necessità che il nulla sia qualcosa, ma piuttosto la necessità che il nulla sia nulla; proprio perché il nome nihil significa in tal modo qualcosa» (cioè direbbe Severino il nullamomento è positivamente significante) Il discepolo obietta: «Questo nome ha un significato, ed è propriamente un nome (e non solo una vox) in quanto significa nulla, e non perché significhi qualcosa negandola». Ma, come può il nulla essere referente di un nome? Il maestro osserva a sua volta che è significante, ma non perché sia referente diretto del nome. Ad esempio, se dico che uno ha la cecità, non indico con ciò il possesso di alcunché, bensì la sua mancanza. Eppure, nomino efficacemente quel che intendo, ovvero dico bene quel che ho da dire Dunque: nulla è non-qualcosa ; o è qualcosa solo secundum formam loquendi. Se ad esempio dico che Tizio non ha fatto nulla, voglio dire qualcosa di ben determinato e comprensibile, anche se non indico il nulla come oggetto diretto di referenza. Qui (e altrove) c è in Anselmo l aspetto felice della analisi di Severino; senza, però, l elemento decettivo, che vorrebbe la posizionalità del nulla come inerente alla posizionalità dell essere 7. 7 Anche secondo Jaime BÁLMES (cf. Filosofía Fundamental, in Obras Completas, Editorial Bálmes, Barcelona , vol. XVI, nn ) il non essere è positivamente concepito dall intelletto, come ciò che non è.

171 Ex nihilo LA QUESTIONE DEL NON-ESSERE NELLA METAFISICA DELLA TRASCENDENZA E DELLA CREAZIONE 2.1. La differenza meontologica Lo sviluppo della metafisica occidentale culminante nel teorema di creazione nasce dalla esigenza di evitare contraddizione nella specifica e intensiva forma dell evitare di attribuire sussistenza al non-essere. Più precisamente, l esigenza è quella di evitare di dover interpretare come istanziazioni del non-essere assoluto le forme di non-essere che insidono nel divenire: il non esser più, il non essere ancora; ma anche il non essere ora. La fuggevolezza dell istante (perfettamente esemplificata dalla foglia di un albicocco che tremi alla brezza del pomeriggio) è la cifra stessa del divenire (ghenesis eis ousian); ed è la ragione della paradossale nostalgia che spesso abbiamo proprio di ciò che è presente. Ciò che si dà è, infatti, solo quodammodo un che di dato. In tal senso, la metafisica della creazione consiste nella introduzione critica di una differenza meontologica: quella per cui il negativo che segna il divenire non è il non-essere assoluto; né lo è il nihil implicato dalla creazione stessa. È nota l obiezione di Severino in proposito. «Nichilismo significa affermare che le cose sono niente, ossia che il non-niente è niente. Sin da Platone, la metafisica ha identificato le cose al niente: affermando che escono e ritornano nel niente, afferma che sono state e tornano a essere niente. Il mondo è la dimensione in cui il nonniente è niente, e ove Dio o l Uomo hanno la capacità di operare l identificazione del non-niente e del niente» 8. In realtà, il nihil dell ex nihilo significa semplicemente l esclusione dell ipotesi che qualcosa al di là dell atto creatore faccia da condizione all esserci del finito. 8 Cf. E. SEVERINO, Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982, p. 137.

172 160 P. PAGANI 2.2. Indicazioni sulla creazione Premessa La domanda metafisica, che problematizza l ambito dell esperienza, cioè l essere diveniente aristotelicamente l essere fisico, sporge oltre lo stesso orizzonte fisico, chiedendosi appunto se esso possa o meno esaurire l essere in quanto tale (il trascendentale): per questo è giusto chiamarla domanda metafisica. Meta-fisico è infatti, letteralmente, ciò che va oltre il fisico almeno in senso problematico. Organizzare una risposta alla domanda metafisica significa poi esplorare la possibilità di una via filosofica che giunga a riconoscere l Assoluto 9 in qualcosa di ulteriore e di diverso rispetto all esperienza : in una realtà, dunque, trascendente rispetto ad essa. Porre il problema della trascendenza non significa, dunque, andare oltre i limiti della riflessione ontologica, ma piuttosto significa andare al fondo di questa stessa riflessione. La scansione scolastica tradizionale tra un trattato sull essere in quanto essere (De ente in communi), da una parte, e uno sulla trascendenza (De Deo), dall altra, ha un valore solo convenzionale, e teoreticamente è costretta a saltare. Infatti, approfondire il primo trattato vuol dire trovarsi già nel cuore del secondo Introduzione alla via del divenire Il più tradizionale tentativo di dare risposta alla domanda metafisica è quello che passa attraverso la riflessione sul divenire. L accezione che diamo a questo termine, nel nostro discorso, è la più generica; ed è tale da ricomprendere in sé qualunque forma di mutamento, materiale o psicologico o spirituale che sia. È importante, infatti, che non si vada ad associare il divenire ad una particolare concezione del mondo fisico o ad una particolare metafisica: non c è, in altre parole, un divenire aristotelico, uno tommasiano e 9 Per Assoluto si intende, qui, una configurazione complessiva dell essere che non implichi contraddizione.

173 Ex nihilo 161 uno idealistico 10. Si tratta invece di considerare il divenire in modo spregiudicato: nei suoi termini fenomenologici essenziali. Ritroviamo, ad esempio, una simile elementarità di significato nel termine metabolé usato da Aristotele 11, o nel moveri della tradizione scolastica 12 ; e cercheremo di renderla, tra poco, in termini nostri. Con le riflessioni argomentative che seguono, cercheremo di riprendere in modo essenziale e rigoroso il senso delle riflessioni aristoteliche (pensiamo al Libro Theta della Fisica e al Libro Lambda della Metafisica) e tommasiane (pensiamo alle prime tre vie di Summa Theologiae, I, q. 2, a. 3) che partono dal divenire per arrivare a riconoscere l esistenza di una realtà non diveniente. Lo faremo, naturalmente, con delle preoccupazioni di sobrietà (abbandonando, per esempio, un apparato cosmologico cui non ci si può più rifare), e di precisione (mettendo in rilievo per ogni passaggio la necessità logica che lo impone), che rendano l argomentazione comprensibile e razionalmente condivisibile al di là del suo contesto culturale d origine Il punto di partenza di una via del divenire Il termine via usato volentieri da Tommaso sembra indicare un itinerario escursionistico o alpinistico: un itinerario di ascesa. Prendiamo dunque sul serio questa indicazione, e proviamo a rappresentarci il cammino argomentativo verso la identificazione 10 In realtà, la costante tendenza degli idealisti è stata quella di intendere il divenire in un senso già metafisicamente pregiudicato. Si pensi a Giovanni Gentile, per il quale il divenire (il fieri) è in fondo lo stesso Assoluto: il pensiero che pone incessantemente sé con i propri contenuti. E, prima ancora, si pensi a Hegel, che pone appunto il divenire (das Werden) come l Assoluto stesso che fa se stesso. 11 Cf. ARISTOTELE, Fisica, V, 1-2. La metabolé è comprensiva di tutti i tipi di divenire che Aristotele individua (dunque, è più ampia della phorà, che indica solo il moto locale). 12 Si veda, ad esempio, l uso che ne fa Tommaso in: Summa Theologiae, I, q. 2, a. 3; I, q. 79, a. 4; I IIae, q. 9, a. 4; testo latino dell Editio Leonina.

174 162 P. PAGANI dell Assoluto come una ascensione montana, che parta da un campo-base, segua un sentiero di avvicinamento alla parete rocciosa, e vada poi a superare diversi ostacoli (o gradini), nel tentativo di raggiungere una cima. Naturalmente, la via che cercheremo di percorrere, sia pur dandone una interpretazione per certi aspetti anche nuova, è stata aperta e percorsa nei secoli dai maggiori interpreti della tradizione metafisica. Per questo, non ci sarà difficile riconoscere qua e là le tracce inconfondibili del loro passaggio, specie in quei punti decisivi del percorso, che potranno idealmente essere riferiti a chi tra loro per primo li ha superati (pur non giungendo, magari, personalmente in cima, ma aprendo comunque la strada ad altri). Ora, attestarsi al campo-base della via del divenire significa considerare i seguenti dati. a) Fenomenologicamente, la presenza dell essere è nota nella sua eidetica, ma non nella sua concreta estensione. Certo, la presenza è infinita; ma con ciò non è affatto detto se essa realizzi all infinito il divenire che caratterizza la sua immediata realizzazione (se essa cioè sia solo esperienza ). Immediatamente non è escluso, ma neppure è detto che sia così. Lo husserliano principio di tutti i principi ci avverte di non pregiudicare la presenza con una lettura affrettata del suo manifestarsi. b) La presenza si attua certamente come esperienza ; essa, cioè, è immediatamente presenza di quel presente che grazie al divenire continuamente da essa si distingue. E questo distinguersi, è un negativo: il non esserci (più, o ancora) del presente (cioè, di una certa situazione dell esperienza ). c) Questo non esserci non consta come un annientarsi o come un venir dal niente. E neppure è inevitabile interpretarlo così (cioè nichilisticamente): infatti, per dare senz altro tale interpretazione, occorrerebbe che fosse immediatamente nota la coincidenza tra presenza ed esperienza (contro quanto riconosciuto sopra, al punto (a)); solo in tal caso, infatti, l entrare e l uscire dall ambito dell esperienza dovrebbero essere intesi come l entrare e l uscire dalla presenza simpliciter. d) Interpretato in termini ontologici, il divenire, che non è immediatamente il darsi del non-essere assoluto, è però il darsi di un non-essere relativo. In particolare, esso è il venire all essere e il con-

175 Ex nihilo 163 gedarsi dall essere, da parte di un certo stato di cose 13. Il linguaggio di alcuni filosofi scolastici del nostro secolo, per indicare il negativo che caratterizza il divenire, parla di non essere dell essere 14 (relativo cioè all essere, e non autonomo o assoluto) Primo passaggio argomentativo Con il bagaglio delle precedenti considerazioni, ci si può ora avviare per compiere una prima tappa del percorso. Il sentiero 15 che porta verso la vera e propria ascensione consisterà nella posizione del problema se l Assoluto coincida o meno col diveniente. La domanda, più precisamente, si articola così: l Assoluto è ciò che, se pensato secondo l estensione del trascendentale, non implica contraddizione; ora, l esperienza diveniente può esser pensata come attuazione trascendentale dell essere? In altri termini: il divenire è un nome dell essere? Con la risposta a questa domanda, finisce il cammino di avvicinamento, e inizia l ascesa vera e propria. E la risposta alla domanda è no. Infatti, se l esperienza fosse l Assoluto, si realizzerebbe effettivamente quella situazione in precedenza ipotizzata: cioè, cessare di esser presente nell esperienza vorrebbe dire cessare di esser presente nell essere simpliciter (finendo in nihil absolutum); così come iniziare ad esser presente nell esperienza vorrebbe dire iniziare ad essere simpliciter (venendo ex nihilo absoluto). In altri termini, il non-essere relativo dovrebbe esser interpretato come non-essere assoluto; il che realizzerebbe l autocontraddizione nichilistica: quella per cui il non-essere assoluto verrebbe posto come elemento costitutivo del divenire, ovvero dell esperienza. In realtà, il non-essere assoluto non sussiste; dunque, a maggior ragione, non è né origine né destinazione di alcunché. 13 Diciamo di un certo ente, perché il divenire non è mai un venire o un congedarsi dell ente come tale, visto che la presenza è sempre presenza di un qualche contenuto. 14 L espressione è tipica di Gustavo Bontadini. 15 La metafora del sentiero, per indicare il percorso filosofico, è usata da molti: risale ai Pitagorici, ma, nel nostro secolo, è stata usata da Blondel e da Heidegger.

176 164 P. PAGANI Con ciò si è stabilito che l esperienza non è l Assoluto; o anche, che l Assoluto il cui esserci non è da accertare, ma solo da connotare 16, non è l esperienza. La struttura dell Assoluto, infatti, non può essere omogenea a quella del diveniente: essa pena la contraddizione esclude da sé l eidos del divenire. Dunque, l Assoluto è indiveniente; ma non indiveniente di fatto, bensì di diritto: strutturalmente. Si può dire, allora, che l Assoluto è Indivenibile (immutabilis). Si è così superato un primo gradino, un primo step per proseguire nella allegoria alpinistica. Questo step può essere intitolato a Parmenide, che per primo almeno nella interpretazione più avveduta che dei suoi frammenti si può dare 17 ha vietato l interpretazione nichilistica del divenire. La logica argomentativa che abbiamo seguito è quella apagogica, che possiamo evidenziare nel modo più semplice così: se l Assoluto fosse diveniente (se coincidesse con l esperienza ), ne deriverebbe contraddizione; quindi l Assoluto non è diveniente. Si tratta della stessa logica argomentativa che sia pure in un contesto un po diverso Tommaso applica nella sua terza via, quando dice: «si omnia sunt possibilia non esse, aliquando nihil fuit in rebus» (se tutte le cose fossero divenienti, ad un certo punto dovrebbe comparire il non-essere nella realtà) Secondo passaggio argomentativo Occorre ora determinare quale relazione intercorra tra l Assoluto indivenibile e l esperienza diveniente. Considerando una prima ipotesi: può il diveniente esser pensato come una alterità dialettica dell Indivenibile, come lo è A rispetto al proprio complemento (non-a) nell unità dell esperienza? Si badi che, in quest ipotesi, il 16 Per una introduzione critica di questa tesi rinviamo a: P. PAGANI, Sentieri Riaperti, Jaca Book, Milano 1990, Parte II, cap. IV. 17 Considerando adeguatamente il frammento 9 (D.-K.) si può ragionevolmente ipotizzare che Parmenide non escludesse la realtà del divenire di cui pure vietava una considerazione nichilistica. 18 Cf. TOMMASO D AQUINO, Summa Theologiae, I, q. 2, a. 3.

177 Ex nihilo 165 diveniente e l Indivenibile sarebbero i lati astratti di una struttura comprensiva di entrambi: una sostanza, la quale risulterebbe, a questo punto, essa sì il vero Assoluto. In quest ipotesi, cioè, se il diveniente è A non-a, l Indivenibile sarebbe non-(a non-a) : il suo significato, cioè, si costituirebbe in riferimento a quello del diveniente. È chiaro, allora, che la risposta alla domanda precedente non può che essere negativa; in quanto, accettare come vera l ipotesi in questione vorrebbe dire rinnegare quanto si era già acquisito secondo necessità nel passaggio precedente, a partire dal quale e non a prescindere dal quale possiamo ora far progredire l argomentazione. Infatti, se l Indivenibile venisse pensato in relazione dialettica con il diveniente, sarebbe a sua volta in divenire (in funzione di quello) contro l ipotesi. E, prima ancora, non potrebbe dirsi Assoluto anche qui, contro l ipotesi, in quanto verrebbe posto come l astratto di una struttura, questa sì realmente assoluta. Di conseguenza, occorre riconoscere che c è alterità, non dialettica bensì reale, tra l Indivenibile e il diveniente; nel senso che l Indivenibile è totalmente altro rispetto all organismo dell esperienza. La tradizione metafisica esprime questa acquisizione dicendo che l Assoluto è trascendente rispetto al mondo (cioè, rispetto all esperienza ). Si è così superato un secondo step, che potremmo idealmente intitolare a Platone. Questi, infatti, è il primo filosofo che ha riconosciuto l esistenza di un genere dell essere diverso da quello fisico, e lo ha riconosciuto come assolutamente immutabile, e, per questo, lo ha anche riconosciuto come trascendente rispetto al primo. La logica argomentativa è, anche qui, apagogica. Evidenziamola schematicamente così: se l alterità dell Assoluto indivenibile rispetto al diveniente fosse di tipo dialettico se fosse cioè descrivibile come non-(a non-a), allora l Assoluto indivenibile non sarebbe più indivenibile (e non sarebbe più l Assoluto). Dunque, l alterità in questione è non-dialettica, ovvero è reale, o in termini classici trascendente. Si tratterà poi di verificare se la trascendenza, che vale dall Assoluto all esperienza, valga anche in senso reciproco, oppure no.

178 166 P. PAGANI Consideriamo ora il cammino che abbiamo fatto fin qui, per capire meglio per quale via proseguire verso l alto. Se la cima che dobbiamo raggiungere è l Assoluto correttamente identificato, il criterio che ci ha portati fin qui è il seguente: evitare tutto ciò che ripugna alla autenticità dell Assoluto. Per questo, abbiamo evitato ed eviteremo di considerarci arrivati, ovunque si presentasse qualche connotazione incompatibile con l assolutezza (cioè, con quella normalità ontologica 19 che è propria dell Assoluto). È in base a questo criterio che abbiamo escluso il divenire dall Assoluto, e siamo saliti oltre. Procediamo dunque per connotazioni progressive dell Assoluto, che avvengono via remotionis, cioè rimuovendo dalla sua descrizione autentica (dal suo identikit) tutto ciò che, in un modo o nell altro, implica contraddizione. Questo modo indiretto di connotare l Assoluto è il lato di verità della teologia negativa, cioè della scuola di pensiero secondo cui dell Assoluto è possibile dire solo ciò che non è. È chiaro, infatti, che dietro a ciascuna connotazione negativa dell Assoluto si può leggere la rimozione da esso di un elemento difettivo che compete all esperienza, e quindi una affermazione di positività appunto assoluta Terzo passaggio argomentativo Riprendendo il cammino, occorrerà porsi effettivamente la domanda sopra accennata. E cioè: la trascendenza varrà anche nel senso reciproco a quello già stabilito? In altri termini: può il diveniente (X) esser pensato, a sua volta, come ab-solutum (ovvero indipendente, autonomo nell esistere) rispetto all Assoluto (Y)? In termini simbolici, si tratta di stabilire se (X Y) 21 sia un ipotesi davvero concepibile. 19 Vale a dire, la sua adeguatezza all essere trascendentale. 20 Il procedimento connotativo per rimozione trova la sua configurazione argomentativa nella apagogia, cioè nel procedimento che pone le proprie tesi sulla base della autocontraddittorietà del contraddittorio. 21 È possibile che X stia senza Y.

179 Ex nihilo 167 E, ancora una volta, la risposta è negativa. Infatti, questa ipotesi riproporrebbe sia pure ad un nuovo livello la stessa situazione che ci ha spinto a riconoscere l esistenza dell Indivenibile. Più precisamente, se il diveniente è insufficiente, vuol dire che non può star da sé; e non può star da sé nemmeno se, pur stando a fianco dell Assoluto, risulta irrelato ad esso, e dunque ontologicamente autonomo. A ben vedere, quella qui prospettata è l aporia che affligge il pensiero di Platone. Essa consiste nel riconoscere, da un lato, l esistenza dell Indivenibile, ma nel non saper dire, dall altro, come questa risolva l insufficienza del divenire. La nuova acquisizione è dunque questa: il diveniente non è assoluto rispetto all Assoluto, cioè non può stare (non può consistere) senza l Assoluto. Dunque, (X Y), ovvero (X Y), e quindi R(X Y) 22. Ora, riconoscere che l esperienza non sta indipendentemente dall Assoluto è riconoscere qualcosa di più di una semplice simultaneità: non si tratta, cioè, del semplice fatto che X esiste quando anche Y esiste. Questa è una acquisizione precedente al presente passaggio argomentativo. Quel che qui si è messo in luce è che X sarebbe autocontraddittorio senza Y, cioè che (X Y). Dunque si è messo in luce che Y è conditio sine qua non di X, cioè è ciò senza cui X non ci sarebbe. Si tratta di una connotazione apparentemente molto scarna, ma in realtà rilevantissima, ed espressa secondo il codice più elementare di cui il linguaggio filosofico sia capace, che è non a caso anche quello dei più elementari (e radicali) connettivi della logica simbolica 23. L espressione precedente dice infatti niente meno che la radicale dipendenza ontologica del diveniente rispetto all Indivenibile. 22 Le tre formule si leggono, rispettivamente, così: non è possibile che X stia senza Y ; è necessario che X non stia senza Y ; è necessario che X implichi Y. 23 Ci riferiamo ai simboli della negazione ( ), della congiunzione ( ), e alla loro combinazione, che può indicare il senza. Dalla negazione e dalla congiunzione si possono ricavare anche l implicazione e la disgiunzione. Infatti, l implicazione, cioè p q, si può riesprimere così: (p q); e la disgiunzione in vel, cioè p q, si può riesprimere così: ( p q).

180 168 P. PAGANI Con ciò si è superato un terzo step, che idealmente può essere intitolato a Plotino, come a colui che ha riconosciuto nel modo più esplicito, tra i filosofi greci, il carattere pro-dotto del non-assoluto, e, di conseguenza, il carattere pro-duttivo dell Assoluto. La logica argomentativa seguita è ancora una volta quella apagogica. L ipotesi per cui l esperienza che sta di fatto con l Assoluto possa di diritto stare senza di esso, riproduce la situazione nichilistica, e perciò autocontraddittoria, di un diveniente assoluto. Dunque, l esperienza non solo non sta di fatto senza, ma non può nemmeno stare di diritto senza l Assoluto Quarto passaggio argomentativo a) Per proseguire il cammino, basta chiedersi se valga anche il reciproco di ciò che abbiamo riconosciuto nel passaggio precedente. Vale, cioè, che anche l Assoluto non possa stare senza l esperienza? In termini simbolici, si tratta di vedere se si possa anche porre che (Y X); e quindi, complessivamente, se si possa affermare che (X Y) 24. La domanda, in termini tradizionali, è se l Assoluto non possa non produrre il diveniente, se sia, cioè, necessitato a produrlo. E la risposta è no. Infatti, nella ipotesi ora formulata, si riprodurrebbe sia pure ad un nuovo livello quanto già ipotizzato nel secondo passaggio argomentativo. Più precisamente, se l Assoluto indivenibile implicasse a sua volta necessariamente il diveniente, avremmo la duplice contraddizione, e di un Indivenibile che, posto in relazione necessaria col diveniente, diverrebbe in funzione di questo, e di un Assoluto che non sarebbe più tale, perché nell ipotesi in questione il vero Assoluto sarebbe la struttura comprensiva e dell Indivenibile e del diveniente. b) A margine di quanto abbiamo acquisito con l ultimo passaggio, possiamo osservare che la produzione del diveniente da parte dell Indivenibile può essere sì connotata come un incremento ontologico, ma non come un incremento dell Assoluto. La novità ontologica non è, cioè, nell Assoluto che strutturalmente non 24 Cioè, che sia necessaria l implicazione reciproca di X e di Y.

181 Ex nihilo 169 diviene, ma è piuttosto in forza dell Assoluto. Esso è la ragion sufficiente estrinseca del diveniente. Ora, non c è di per sé contraddizione nella figura dell incremento ontologico, cioè nell esistenza di qualcosa che non sia l Assoluto (ovvero l Originario). Ci sarebbe contraddizione se come prima si è escluso si dicesse che l esistenza del non-assoluto è autonoma dall Assoluto. In tal caso, infatti, essa potrebbe avere la condizione di possibilità del proprio esserci, o in sé, o nel non-essere assoluto. Ma, che il diveniente sia a seipso, è quanto già si era escluso rilevandone l insufficienza. Che poi sia a nihilo è impossibile, visto che il nihil non può sussistere. Non c è invece contraddizione nel pensare il diveniente come esistente ab Immobili, cioè come prodotto dall Indivenibile. Classicamente, la produzione del diveniente da parte dell Indivenibile è detta productio rei ex nihilo sui et subiecti, cioè produzione della realtà (diveniente) a partire dal non essere suo e di ogni eventuale potenzialità preesistente. Va chiarito, al riguardo, che quel nihil sui (quel niente di sé ), a partire da cui il diveniente è prodotto dall Indivenibile, indica semplicemente che il diveniente non esisterebbe se non fosse prodotto dall Assoluto; e non si identifica affatto con il non-essere assoluto, bensì con il non-essere relativo, il cui esserci non è, di per sé, autocontraddittorio 25. Insomma, ex nihilo sui vuol dire ex nihilo rei productae : come a dire che ciò che è fatto sussistere dall Indivenibile è fatto sussistere radicalmente, senza presupposti. E senza neppure il presupposto normalmente ammesso dai greci di una materia prima preesistente. Anche questa, infatti, in quanto diveniente, non potrebbe stare indipendentemente dall Assoluto Indivenibile. Quanto alla figura dinamica indicata dalla preposizione a (che compare nell espressione ab Immobili), essa non è indagabile coi dati di cui disponiamo dalla parte dell Assoluto 26, bensì solo dalla 25 Cf. TOMMASO D AQUINO, Summa Theologiae, I, q. 45. a. 1, ad 3um. 26 Una qualche indagine, da questa parte (ex parte Creatoris), richiederebbe una conoscenza del punto di vista dell Assoluto; la quale è possibile solo alla teologia positiva, che prende l avvio dalla Rivelazione che il Creatore fa di Sé.

182 170 P. PAGANI parte dell esperienza. E quel che si può dire al riguardo, è che l esperienza è ciò che, pur non potendo stare senza l Assoluto, non entra a determinare originariamente il significato di quest ultimo. Ciò non vuol dire, comunque, che l Assoluto non sia connotabile come il produttore dell esperienza : in altri termini, che Y sia ciò senza cui X non potrebbe stare, è qualcosa che appartiene al significato di Y; ma vi appartiene senza introdurre in Y il divenire, cioè senza porre o togliere alcunché nell Indivenibile Y. Nel linguaggio tradizionale della Scolastica, si dice che la asimmetrica relazione che c è tra X e Y, dal punto di vista di Y è una relazione non costitutiva (relatio idealis). Come si può notare, il riconoscimento della asimmetricità del rapporto tra l Assoluto e l esperienza costituisce l autentico superamento della situazione proposta dall idealismo hegeliano. Per Hegel, infatti, il mondo non può stare senza Dio; ma anche Dio non può stare senza il mondo. Nella prospettiva classica, invece, il secondo verso dell implicazione non vale: l esperienza è qualcosa di astratto rispetto all Assoluto (cioè, è autocontraddittoria, se considerata fuori della sua relazione con l Assoluto), ma non viceversa: l Assoluto, dunque, è concreto anche al di fuori della sua relazione con l esperienza Esito della sequenza argomentativa Quello che si è raggiunto con le considerazioni precedenti, non è un semplice gradino lungo la via, ma è la cima vera e propria. 27 Usiamo volutamente termini della tradizione idealistica, come concreto e astratto. Astratto è idealisticamente ciò che è autocontraddittorio se concepito come a sé stante: ciò che, dunque, può stare solo in relazione con un concreto ; concreto, invece, è ciò che può venir concepito come a sé stante ultimamente, l Assoluto. Nella visione idealistica, però, anche il concreto sarebbe astratto se considerato privo degli astratti che gli si riferiscono. Ora, il rapporto di creazione può anche esser descritto come un rapporto tra concreto e astratto, che però procede unilateralmente: nel senso che l astratto qui in questione non può stare senza il concreto, mentre il concreto qui in questione può stare senza l astratto.

183 Ex nihilo 171 L Assoluto che produce il diveniente senza essere necessitato a farlo dunque, potendo non farlo, è libero. A questo punto, si può parlare di creazione, e dire che l Assoluto è creatore del diveniente. La tradizione metafisica, infatti, distingue tra la produzione ontologica necessitata e quella libera, chiamando la prima processione, e riservando alla seconda il nome di creazione. Ora, se Plotino intuì la prima figura, solo i metafisici cristiani riconobbero la seconda. Si può dire di essere, con ciò, giunti al termine della sequenza argomentativa precedente, perché l Assoluto personale che essa ha introdotto sempre sulla spinta della necessità di evitare contraddizione è la risposta adeguata alla domanda da cui eravamo partiti. Si trattava di stabilire se l Assoluto coincidesse o meno con l esperienza diveniente. Ebbene, la risposta è negativa. Infatti, l Assoluto è Indiveniente, Trascendente e Libero Creatore dell esperienza. Volendo completare l allegoria già avviata, potremmo intitolare la cima che abbiamo raggiunto ad Agostino e a Tommaso, come alle figure più rappresentative, rispettivamente, del pensiero patristico e di quello scolastico: cioè, delle tradizioni di pensiero che hanno introdotto la creazione libera come luogo ultimo di soluzione della problematicità del divenire. 3. LA QUESTIONE DELL EX NIHILO Proviamo ora a ripercorrere sommariamente la storia della apparizione della teoria della produzione del mondo ex nihilo nell ambito della filosofia occidentale, limitandoci a citare i contributi fondamentali Filone di Alessandria In Filone d Alessandria, accanto a molte affermazioni di segno almeno apparentemente contrario 28, troviamo i primi contributi teorici in ordine alla produzione del mondo ex nihilo. 28 Si pensi, esemplarmente, a De Providentia, II, 18, dove leggiamo che «tutto ciò che è contrario [al bene] è frutto di una deviazione che risulta sia dalla

184 172 P. PAGANI La principale fonte di difficoltà, per una lettura univoca dei testi filoniani, è il ruolo che vi svolge la materia (a volte hyle, a volte ousia). Non è infatti del tutto chiaro come essa debba essere intesa. Quel che è certo è che, secondo Filone, Dio è causa unica del cosmo: una causa disomogenea rispetto al causato e che, proprio per questo, non ha bisogno di compromettersi con altro da sé (e quindi di progredire e di sforzarsi) nel creare 29. In tal senso, se anche si volesse intendere la materia come un co-principio (cioè come una base preliminare) per la creazione, essa non sarebbe comunque una con-causa creatrice (cioè, andrebbe intesa a sua volta come creata, sia pure secondo uno statuto speciale) 30. Abbiamo comunque dei testi che indicano in modo plausibile la presenza nel pensiero filoniano della creazione in senso pieno. Anzitutto, abbiamo una nota dossografia di Galeno che stabilisce una netta differenza tra la metafisica dei Greci e quella mosaica (cioè, filoniana). Secondo la prima spiega Galeno, «per il demiurgo non sarebbe stato possibile creare da una pietra un uomo, così, in un istante, col solo volerlo. Ed è precisamente questo il punto in cui la nostra opinione, quella di Platone e degli altri Greci che seguono il giusto metodo nell indagine sulla natura, diverge dalla posizione di Mosè. Per quest ultimo sembra sufficiente affermare che Dio semplicemente volle l ordinamento della materia, perché questa si disponesse subito nel dovuto ordine: egli materia, sia dalla malvagità di una natura incontinente; e di queste cose Dio non è causa». Anche in De Agricultura, 129 troviamo che Dio è «causa dei soli beni». Di non facile decifrazione, invece, è la affermazione di De aeternitate, 5 secondo cui «nulla viene dal non essere, né corrompendosi finisce nel non essere»: affermazione che sembra avere portata fisicocosmologica piuttosto che metafisica. (Le opere di Filone saranno qui considerate secondo le traduzioni offertene nell edizione curata da Roberto Radice presso la collana I classici del pensiero, Rusconi, Milano : traduzioni condotte (con occasionali modifiche) sulla base della edizione greca curata da I. Cohn, P. Wendland, S. Reiter). 29 Su questo punto, si veda: R. RADICE, Platonismo e creazionismo in Filone di Alessandria, Vita e Pensiero, Milano 1989, pp Cf. ivi, pp

185 Ex nihilo 173 era convinto che tutto fosse possibile a Dio» 31. La testimonianza di Galeno è interessante perché nella filosofia mosaica egli individua, quali elementi di opposizione alle metafisiche della grecità classica: «(a) il principio della parola creatrice; (b) l assolutezza di Dio; (c) la sua onnipotenza; (d) la simultaneità della creazione» 32. Inoltre, in De somniis, I. 76 troviamo un espressione difficilmente equivocabile 33 come la seguente: «Dio, quando generò tutte le cose, non solo le disvelò alla nostra vista, ma creò quello che prima non esisteva [ha proteron ouk hen, epoiese], non solo comportandosi come un demiurgo, ma proprio come un creatore [ktistes]». E in Legum Allegoriae, II, 2 troviamo un altra espressione che significativamente converge con la precedente: «Come prima della creazione del cosmo non c era nulla insieme a Dio, così a creazione avvenuta nulla v è che sia al suo livello». Nel De opificio mundi, al capitolo IV, si riflette sul fatto che la creazione nella tradizione mosaica è creazione totale, che presuppone una trascendenza totale del creatore rispetto al creato: proprio quella che la tradizione biblica (e giudaica) tanto enfatizza. Più avanti, al cap. VII, si aggiunge che Dio ha creato simultaneamente tutte le cose (panth hama epoiese). Ma anche nel De opificio si propone il problema della materia: ad esempio, al cap. V, dove Filone parla di una ousia (entità) non formata, e disposta a diventare ogni cosa 34. Leggiamo: «Il Padre e 31 GALENO, fr. 376; ed. Stern (vol. II, p. 311 = De usu partium, XI 14). (Trad. it. di R. Radice in Platonismo e creazionismo in Filone di Alessandria). 32 Cf. R. RADICE, Platonismo e creazionismo in Filone di Alessandria, p Per considerare letture alternative a quella da noi proposta, si veda però: ivi, p Quando Filone nel De opificio introduce la figura della ebdomade (il 7 ideale), la scandisce anche in 6 (= diade) + 1 (= monade); dove la diade non ha alcuna autonomia, ma è già originariamente imbrigliata nella monade. Siamo così già al di fuori di un bipolarismo di cooriginari. Si tratta di una specie di inveramento creazionistico della metafisica platonica, sul quale avrebbe a suo modo premuto anche Teone di Smirne (I-II secolo d.c.) nella sua Expositio della filosofia platonica, dove si afferma che in prima battuta sta il dispari o, fuor di metafora, in principio sta l uno.

186 174 P. PAGANI Creatore del mondo [ ] non rifiutò di trasmettere l eccellenza della propria natura a una entità che di per sé non aveva nulla di bello, ma che in potenza [dynamenei] era disposta a diventare qualsiasi cosa» 35. Ora, un simile principio materiale qui come in De plantatione, 3 sembra avere caratteri più stoici che platonici. Gli Stoici usavano il termine ousia per designare la materia come principio passivo, privo di qualità e di movimento 36. Il carattere di passività e ricettività della materia enfatizzato da Filone ha autorizzato alcuni interpreti a intendere tale materia in un senso assimilabile al nihil che gioca nella formula ex nihilo 37. In altre opere di Filone, inoltre, Dio è detto poietés, e la sua azione creatrice è intesa come priva di presuppostii 38. Si può osservare che, se l immutabilità che Filone riconosce a Dio testimonia di una lettura della Rivelazione mosaica che è preoccupata di non rinnegare la ratio platonica, la tematizzazione della creazione totale segna una lievitazione della ratio speculativa che avviene proprio a partire dalla Rivelazione e dalla tradizione giudaica L ex nihilo in Agostino In Agostino troviamo una calibrazione divenuta poi classica dei vari modi del produrre (facere). Egli distingue un produrre da sé, un produrre da qualcosa e un produrre dal niente. Il primo modo coinvolge materialmente il produttore: ed è il generare; il secondo trasforma un materiale preesistente, ed è il produrre propriamente detto; il terzo, infine, non impiegando alcunché del produttore e non presupponendo alcunché all atto del produrre, è il creare in senso pieno che appartiene esclusivamente a Dio. Il testo esemplare per questa scansione è contenuto nella disputa Contra Felicem. Qui leggiamo: «Tutte le cose che accadono, e che qualcuno fa, o sono da sé [de se], o da qualcosa [ex aliquo], o dal 35 Cf. De opificio mundi, V, Cf. R. RADICE, Platonismo e creazionismo in Filone di Alessandria, p Cf. ivi, pp. 352 ss. 38 Di questo si accenna anche in De Providentia, 107-8; in De fuga et inventione, 133; in De plantatione, 3.

187 Ex nihilo 175 niente [ex nihilo]. L uomo, non essendo onnipotente, mette al mondo un figlio da sé [de se]; e, come artefice, produce una cassa dal legno [ex ligno], e un vasetto dall argento. Può infatti fare il vasetto, ma non può fare l argento; può fare la cassa, ma non può fare il legno. Ma nessun uomo può fare che sia ex nihilo ciò che prima non era. Dio invece, poiché è onnipotente, e ha generato da sé [de se] il Figlio, e ha fatto il mondo dal niente [ex nihilo], e dal fango [ex limo] ha formato l uomo, così da mostrare attraverso queste tre potenze la sua capacità di far tutto. Poiché, ciò che ha fatto da sé [ex se], non lo ha propriamente fatto, bensì generato. Invece, ciò che ha fatto da qualcosa (come l uomo dalla terra), non lo ha fatto come se altri avesse fatto la terra da cui trarre l uomo (come Dio ha fatto l argento per l artigiano, perché facesse il vasetto); ma Lui stesso lo ha fatto: ha fatto sia che fosse ciò che non era, sia che fosse di nuovo ciò che già prima aveva creato dal niente. Perciò, così il corpo, così l anima, così l universo si intende essere stato creato da Dio [a Deo], e non generato da Lui [de Deo]» 39. Nelle Confessioni di qualche anno successive il tema viene ripreso, ribadendo la differenza tra creazione, trasformazione e generazione. L Originario, non avendo altro che lo fronteggi, non può produrre alcunché ex aliquo; può solo generare ad intra; e, ad extra, creare ex (o de) nihilo. Agostino si sta interrogando intorno alla natura del divenire, di cui azzarda qualche definizione: «un niente che è qualcosa» (nihil aliquid), oppure qualcosa che «è e non è» (est non est) 40. E conclude: «Ma comunque fosse, qual era l origine del suo essere se non tu, da cui derivano tutte le cose, in quanto sono? [ ] Nel principio che è da te, nella sapienza nata dalla tua sostanza, tu hai fatto qualcosa e l hai fatto dal nulla [de nihilo]. Hai fatto il cielo e la terra, ma non traendoli da te, altrimenti ci sarebbe qualcosa di uguale al tuo unigenito e di conseguenza a te dato che non poteva assolutamente essere giusto che ti fosse uguale qualcosa di non generato da te. 39 Cf. AGOSTINO, Contra Felicem manichaeum libri duo, II, 18. (La traduzione è nostra, sul testo di PL 42). 40 Cf. AGOSTINO, Confessioni, XII, 6.6; curatela e trad. it. di R. De Monticelli, Garzanti, Milano 1990.

188 176 P. PAGANI E non c era altro all infuori di te, da cui potessi trarli, Dio, trinità unica e unità trina, e perciò appunto dal nulla hai fatto [de nihilo fecisti] il cielo e la terra [ ]. C eri tu, altro non c era, e da questo niente hai tratto il cielo e la terra [Tu eras et aliud nihil, unde fecisti caelum et terram], due ben diverse cose: l uno vicino a te, l altra vicina al nulla [prope nihil], così che l uno sopra di sé avesse te soltanto, l altra sotto di sé soltanto il nulla [nihil]» 41. L altro tema che Agostino introduce poco dopo è un corollario dell ex nihilo: la gratuità assoluta dell atto creatore. Ciò che non ha alcun presupposto che stia al di qua dell atto creatore, non ha rispetto a questo alcun titolo di merito che possa raccomandarlo all esser creato; tanto meno potrà dare profitto al Creatore, che, nella sua immutabilità, non ha bisogno di alcunché per completare se stesso Il contributo di Anselmo Dopo che Fredegiso di Tours, nella sua Epistula de nihilo et tenebris, aveva ipotizzato che una certa sussistenza del non essere fosse condizione di possibilità della creazione (se essa è dal nihil, il nihil deve esserci così ragionava Fredegiso) 43, la questione fu competentemente affrontata da Anselmo nella Parte II del Monologion, in particolare nei capitoli 7 e Ecco in quali termini. 41 Cf. AGOSTINO, Confessioni, XII, 7.7. «Infatti tu, Signore, hai fatto il mondo dalla materia amorfa, questo quasi niente che hai fatto da niente [quam fecisti de nulla re paene nullam rem]» (Cfr. ivi, XII, 8.8). 42 «Dalla pienezza della tua bontà la tua creatura acquistò sussistenza, affinché un bene, sia pure a te non proficuo, non venisse meno e non perché la sua provenienza da te lo rendesse pari a te, ma perché per tua grazia era venuto all esistenza. Già, che titolo di merito avevano nei tuoi confronti il cielo e la terra da te creati in principio? [ ] Che titoli di merito aveva la materia dei corpi per esistere anche solo invisibile e informe, tanto che neppure questo sarebbe stata, se non fossi stato tu a crearla? E dunque non poteva, non esistendo, meritare ai tuoi occhi di esistere» (ivi, XIII, 2.2; 3). 43 Il testo di Fredegiso è riportato in: F. D AGOSTINI, Fredegiso di Tours. Il nulla e le tenebre. La nascita filosofica dell Europa, Il Melangolo, Genova Il testo di Anselmo è qui considerato sulla base della edizione latina di F. S. Schmitt.

189 Ex nihilo 177 La totalità delle cose che non sono per sé non può derivare dalla (ex) propria natura. Perché, se così fosse, questa totalità di cose sarebbe in qualche modo per sé e quindi per altro da ciò per cui sono tutte le cose (ovvero la Somma Essenza). E, a sua volta, ciò per cui tutte le cose sono, non sarebbe più, in quest ipotesi, qualcosa di assoluto (solum). Anselmo esclude anche che la creazione sia una emanazione proveniente da una base materiale della Somma Essenza (o Somma Sostanza ); infatti, in tal caso, quest ultima risulterebbe mutevole e, come tale, corruttibile. La creazione dunque se non c è altro, originariamente, che Dio deve essere, appunto, per Summam Essentiam, ed ex nihilo. Ma l espressione ex nihilo non può certo voler dire in forza del niente. E, prima ancora, che cos è il nihil qui in questione? Se il termine nihil è significante, esso vuol dire qualcosa, cioè ha un referente. Ma, se è così, allora il nihil c è (e questa è una contraddizione). Se invece il termine nihil non è referenziale (visto che il nihil non può esserci), allora non può essere significante. Con la prima ipotesi, si verrebbe a dire che il mondo è fatto a partire dal niente come da un effettivo luogo di provenienza o da una materia (cose che la preposizione generica ex non esclude di suo come già rilevava Filone). Con la seconda ipotesi, invece, si verrebbe a dire che non c è alcunché da cui il mondo provenga; incorrendo così nel divieto dell ex nihilo nihil fit, reso canonico da Aristotele in Fisica I. Entrambe le uscite dilemmatiche risultano aporetiche. Ma già sappiamo che la disgiunzione di cui sopra non è completa: il nihil dell ex nihilo è un altra cosa, che sfugge tra le corna di quel dilemma come lo stesso Anselmo avrebbe in seguito mostrato nel De casu diaboli. Bisogna comunque indagare il senso dell ex nihilo o de nihilo. Conviene osservare che Anselmo slitta da una formula all altra, senza, almeno in un primo tempo, metterne in questione la effettiva sovrapponibilità; che viene in seguito da lui giustificata passando attraverso una articolazione preliminare. Ci sono come egli spiega diverse accezioni della formula de nihilo o ex nihilo. (a) Una accezione è quella che vuol dire in nessun modo ; ma essa è palesemente fuori gioco nel caso qui in questione. (b) Un altra è quella con cui si vuol indicare una causa efficiente, quasi che il nihil fosse la causa in forza della quale il creato c è; ma, in questo caso, si avrebbe una

190 178 P. PAGANI impossibilis inconvenientia, cioè una contraddizione strutturale. (c) La accezione valida è invece quella in cui per evitare equivoci lo ex viene consapevolmente riespresso con de. Dunque, de nihilo : dove il de introduce un complemento di provenienza (intesa nella fattispecie come provenienza metaforica e ideale) ed evita il possibile equivoco cui l ex potrebbe indurre: quello di introdurre un complemento di materia. Così intesa, la formula viene a indicare che una cosa è fatta, ma non c è alcunché da cui essa sia derivata: ovvero, è stata fatta senza premesse (premesse diverse dal suo essere fatta). Ciò che prima era nihil, grazie all atto creatore ora è aliquid (ovvero: ciò che prima non era, ora è). Non c è alcuna repugnantia a pensare che le cose siano fatte dal Creatore de nihilo nella accezione ora indicata. Ma questo non va inteso nel senso che, prima dell esserci di quel qualcosa, vi fosse un nihil; né che si realizzi un nihil, cessato l esserci di quel qualcosa Il contributo di Tommaso Nei testi di Tommaso è chiaro che il nihil sui, cioè il niente di sé a partire da cui il diveniente è prodotto dall Indivenibile, indica semplicemente che il diveniente non esisterebbe se non fosse prodotto dall Assoluto; e non si identifica affatto con il non essere assoluto, bensì con un non essere relativo, il cui esserci non è, di per sé, autocontraddittorio 45. Insomma, ex nihilo sui vuol dire ex nihilo rei productae : come a dire che ciò che è fatto esistere dall Indivenibile, è fatto esistere radicalmente, senza presupposti (il che non esclude affatto che abbia antecedenti fisici: essi stessi creati, però, in quanto divenienti). Lo spiega bene Tommaso, quando scrive: «Sicut igitur generatio hominis est ex non ente, quod est non-homo; ita creatio, quae est emanatio totius esse, est ex non ente» (come la generazione dell uomo avviene dal non essere, cioè dal non-uomo, così la creazione, che è l emanazione di tutta l esistenza, avviene a partire dal non essere ) 46. Dove, il non essere è qui chiaramente il non essere rela- 45 Cf. TOMMASO D AQUINO, Summa Theologiae, I, q. 45. a. 1, ad 3um. 46 Cf. ibidem.

191 Ex nihilo 179 tivo: l uomo, ad esempio, è creato a partire dal niente di sé (cioè, totalmente). Qui l attenzione è sulla emergenza di una novitas essendi che sporge ontologicamente rispetto ai suoi antecedenti, ai quali risulta irriducibile Nota su Suarez Occorre premettere che Suarez ha una sua meontologia, il cui perno sta nella figura del nihil negativum (cf. Disp. XXVIII, Sect. III. 15), cioè nella negatività che emerge attraverso l ipotesi di una realtà autocontraddittoria. Se un tale negativo è il tipo dell impossibile, esso si distingue dal nihil absolutum, che è inteso da Suarez come il nulla da cui Dio, creando, trae il mondo. Ora, creare vuol dire produrre qualcosa ex nihilo (cf. Disp. XX, Sect. I). Ma quel sintagma ex nihilo, per specificare l atto creatore rispetto a qualunque altra azione, esclude il concorso della causa materiale e la dipendenza della cosa creata da qualunque subiectum, come bene espone Anselmo nel già citato Monologion: così che è equivalente dire dal nulla e dire da nessun subiectum. Dunque, il creare si distingue da ogni azione che accada per passaggio appunto, in un subjectum dalla potenza all atto Leggiamo al n. 10: «Si può mostrare che non c è alcuna ripugnanza nell ipotesi che qualcosa sia ex nihilo nel senso vero da noi mostrato. Infatti non bisogna immaginare come alcuni ritennero che lo stesso nihil sia la materia dalla quale (ex qua) tale ente divenga (il che evidentemente è contraddittorio); infatti, quella particella ex qui non vuol dire riferimento a una causa materiale bensì a un terminus a quo; e così non c è alcuna contraddizione a pensare che ciò che di suo (ex se) era nihil, incominci ad essere qualcosa per effetto d altri. Perché, se volessimo interpretare quella particella ex come riferita alla causa materiale, dovremmo esporla non positivamente, ma negativamente; così che si dica che accade ex nihilo ciò che accade non per una causa materiale, e neppure in questo si può evidenziare alcuna contraddizione. Infatti, perché mai, se qualcosa può accadere per l azione combinata di potenza passiva e potenza attiva, non può anche accadere in atto qualcosa per la sola potenza di un agente (particolarmente efficace)?». (La traduzione dei testi di Suarez è condotta da noi, sul testo latino stabilito da S. Castellote).

192 180 P. PAGANI Spiega meglio Suarez, nel medesimo luogo (al n. 12), che «con quell ex nihilo si intende dire che è creata del tutto secondo tutta la sua entità l intera cosa [tota res] che di suo e anzitutto fa da termine adeguato dell azione, senza che alcuna sua parte o cosa sia presupposta». Ora si chiede retoricamente l autore, «in che senso implica contraddizione che la cosa tutta, che non era, riceva per tutta se stessa l essere?» 48. E più avanti (al n. 29): «Grazie alla creazione una cosa è fatta per sé e anzitutto secondo l intera ratio entis, così che la creazione non suppone in essa alcuna ratio entis. Infatti, secondo la dottrina di Aristotele, si dice esser fatto per sé e anzitutto ciò che in alcun modo è supposto nella cosa che diviene; diventare ente in quanto ente non è altro che diventare la ratio entis per sé e anzitutto, per effetto di tale azione». Importante (cf. Disp. XX, Sect. 5, n. 1) il legame che Suarez vede tra la productio ex nihilo e la novitas essendi: «Abbiamo infatti detto che la creazione è produzione dal niente; perciò è necessario che la cosa creata, prima sia stata nihil; dunque appartiene al significato della creazione che, prima della creazione, ci sia il non essere simpliciter et omnino di quella cosa che è creata; perciò appartiene al significato della creazione la novitas essendi. Questa ultima conseguenza è evidente, perché tutto ciò che ha l essere dopo il non essere ha avuto a un certo punto un inizio nell essere, e questo significa avere una novità d essere» 49. Al n. 11 Suarez si chiede come debba essere inteso il sintagma ex nihilo («particula ex nihilo in definitione creationis qualiter intelligenda»). 48 Al n. 23 Suarez fa riferimento al frammento di Galeno sulla filosofia mosaica, da noi già citato a proposito della metafisica di Filone: «Unde et Galen., de Usu part., c. 10, reprehendit Moysem, quod dixerit Deum imperio suo omnia produxisse». 49 «Diximus enim creationem esse productionem ex nihilo; ergo necesse est ut res quae creatur prius fuerit nihil; ergo de ratione creationis est ut ante illam praecedat non esse simpliciter et omnino eius rei quae creatur; ergo de ratione creationis est novitas essendi. Patet haec ultima consequentia, quia omne id quod habet esse post non esse habuit aliquando initium essendi, et hoc est habere novitatem essendi».

193 Ex nihilo 181 E così risponde: «Siccome la creazione è detta produzione ex nihilo, quell ex non significa la successione di una cosa dopo l altra, come quando diciamo che la sera viene dal mattino; infatti, [ ] quella locuzione denota anche l ordine per accidens, che accade tra realtà successive in quanto sono successive; ma la creazione non è di suo una emanazione successiva, bensì istantanea e tota simul. Perciò, quell ex nihilo, se è assunto negativamente significa mancanza di causa materiale»; «se invece denota un riferimento al terminus a quo, che deve essere semplicemente non ens, anche così denota solo un ordine di natura, e non di durata, come notava Avicenna nella sua Metafisica (VI, 2)» 50. E così prosegue il testo: «Qui l ordine di natura consiste nel fatto che la creatura di suo non avrebbe in assoluto alcun essere [esse] se non gli venisse comunicato da altri per creazione, e così di suo è nihil negative, cioè non ha l essere da sé [ex se]» 51. In altre parole, l ipotesi della assolutezza dell ente che non sempre è, corrisponde a una contraddizione (nihil negativum). «E per questa ragione [quell ente], anche se fosse creato ab aeterno, sarebbe creato ex nihilo, perché da non avente l essere da sé, diviene avente l essere da altro, così che il suo stesso essere è fatto per creazione (quell essere che, se non fosse fatto, sarebbe nihil)» 52. E allora, 50 «Cum creatio dicitur esse productio ex nihilo, illud ex non significat successionem unius post aliud, ut cum dicimus vespertinum tempus fieri ex matutino; nam praeterquam quod illa locutio est valde impropria et inepta ad definitionem, denotat etiam ordinem per accidens, nisi in successivis quatenus successiva sunt; creatio autem non est de se successiva emanatio, sed momentanea seu tota simul. Illud ergo ex nihilo, vel negative sumptum significat carentiam causae materialis, et ex hac parte nulla est necessitas novitatis essendi, quia creatio, etiamsi esset aeterna, potuit esse independens a materiali causa; vel denotat habitudinem ad terminum a quo, qui debet esse simpliciter non ens, et sic denotat tantum ordinem naturae, non durationis, ut etiam Avicena notavit, Vl suae Metaph., c. 2». 51 «Hic autem naturae ordo in hoc tantum consistit quod creatura de se nullum omnino esse habet nisi ab alio communicetur per creationem, et ita ex se est nihil negative, id est, non habet ex se esse». 52 «Atque hac ratione, etiamsi ab aeterno crearetur, ex nihilo crearetur, quia ex non habente esse ex se fit habens esse ab alio, ita ut ipsummet esse (quod, si non fieret, nihil esset) per creationem fiat».

194 182 P. PAGANI «benché in nessuna durata reale sia vero dire che la creatura non è, o è niente, tuttavia è vero dire che per natura è piuttosto nihil che qualcosa, poiché ciò che è primo in natura non esclude che sia così in qualche durata reale, ma la cosa va spiegata negativamente; nel senso che senza causalità, ovvero senza creazione, la cosa sarebbe nihil» 53. Abbiamo lasciato il più possibile a se stesso il dettato suareziano, considerata la sua sostanziale chiarezza. In ogni caso, il contributo di Suarez è, tra quelli dei classici, l ultimo che ci è parso di dover menzionare in relazione alla determinazione del corretto significato ex nihilo. Anche Kant, a dire il vero, sviluppa una sua meontologia; ma essa non appare specificamente rilevante ai fini della nostra indagine «Et tunc, licet in nulla duratione reali verum sit dicere creatura non est, aut nihil est, nihilominus verum est dicere prius natura esse nihil quam aliquid, quia illud prius natura non excludit ita esse in aliqua duratione reali, sed explicandum est negative, scilicet, quod sine causalitate, quae est per creationem, res nihil esset». 54 Nel Tentativo per introdurre nella filosofia il concetto delle quantità negative (1763), un Kant ancora scolastico propone (al cap. 1) la sua meontologia. Ci sono due generi di opposizione annullante, l una reale e l altra logica. L opposizione logica (autocontraddittorietà) produce il nihil negativum. L opposizione reale produce comunque qualcosa di cogitabile, come lo è la quiete di un corpo bloccato da forze contrapposte: questo niente di movimento è un nihil privativum. La differenza è quella rispettivamente tra un moto-che-non-c è e un moto-non-moto (un moto di grado zero). Ad esempio, diverso è il dire-non-dicendo, rispetto al dire-e-successivamente-disdire: il primo è un non posto, il secondo è un prima posto e poi tolto, o posto e tolto realmente. Il rapporto di contraddittorietà spiega Kant è solo di natura logica. Non si dà infatti una contraddizione reale. Nella Critica della ragion pura (Analitica trascendentale, Libro II, Appendice) Kant distingue, poi, fra quattro tipi del negativo. (1) Il nulla come ens rationis: il niente, inteso come nessuna cosa. Si tratta di un concetto vuoto, senza oggetto, che non ha insita in sé alcuna contraddizione. Una figura, questa, che sembra corrispondere al nulla momento di Severino. (2) Il nihil privativum, che, in questa nuova accezione kantiana, è il concetto della mancanza di un oggetto (ad esempio, l ombra come mancanza di luce e il freddo come man-

195 Ex nihilo APPROFONDIMENTI SUL NIHIL DELL EX NIHILO 4.1. Necessità di introdurre l ex nihilo Il riconoscimento della creazione libera cioè, radicalmente ex nihilo dell ente finito risulta dalla necessità di non rinnegare la perfezione dell Essere originario 55. Se la relazione tra l Essere originario e l ente finito venisse intesa in senso non pienamente creazionistico ovvero nel senso simmetrico che troviamo, in versione antico-medievale, nella relazione causa-effetto, o che ritroviamo, in versione moderna, nella relazione organicistica, il primo non potrebbe più esser tenuto fermo nella sua perfezione ontologica. In quella ipotesi, infatti, l Originario si rivelerebbe omogeneo a quel mondo diveniente che, a seconda dei casi, da esso emanerebbe, o in esso sarebbe implicato. Se non che, anche il finito risulterebbe tradito da una configurazione metafisica che non ammettesse la creazione piena, ovvero libera. In quel caso, infatti, esso dovrebbe venir inteso come il risultato di una caduta dell Essere originario, e quindi come una sorta di realizzazione depotenziata o inautentica dell essere: il che accade nel modello emanazionistico. Oppure dovrebbe venir inteso come un elemento astratto dello stesso Essere originario, come accade nel modello organicistico. canza di caldo). (3) L ens imaginarium: intuizione coerente ma vuota, senza oggetto (cioè forma conoscitiva priva di materia ). (4) Il nihil negativum, corrispondente suarezianamente alla autocontraddizione (si pensi a una figura rettilinea di due lati), e quindi a un oggetto vuoto, privo di concetto. 55 «Infinito in senso proprio è solo l Essere, l Infinito. Quel che impropriamente diciamo tale, propriamente è indefinito, illimitato ecc., cioè una partecipazione finita dell Infinito; né il finito è una diminuzione dell Infinito, né l Infinito un crescere del finito; meno ancora il finito è una parte dell Infinito: tra l uno e l altro corre una differenza essenziale e massima. (Cf. ROSMINI, Teosofia, 726)» (cf. M. F. SCIACCA, Ontologia triadica e trinitaria, Marzorati, Milano 1972, p. 64).

196 184 P. PAGANI Un Originario che avesse qualcosa di (originariamente) potente su di sé, condividerebbe con questo altro fattore la condizione di originarietà, dando luogo ad una originaria bipolarità. Quest ultima è la situazione prospettata dalla metafisica greca, dove l Originario non è mai assoluto rispetto a un qualche tipo di materialità, di diadicità, di alterità necessitante. Si può osservare che il deuteragonista metafisico esercita la propria interferenza intercettando l azione ad extra del principio (Uno, Motore o Demiurgo che esso sia), e non intervenendo sulla sua attività ad intra; il che lascia apparire una bipolarità mai del tutto simmetrica. Eppure di bipolarità, e quindi di una certa simmetricità, pur sempre si tratta, stante la coeternità, e quindi la coevità, dei due poli (nessuno dei quali potrà invocare per sé, a quel punto, l assolutezza). Ma qualcosa di analogo vale anche per le metafisiche moderne della organicità, nelle quali si realizza una analoga bipolarità tra astratto e concreto, tale da compromettere la reale alterità del concreto rispetto all astratto (ovvero la trascendenza). Viceversa, la metafisica della creazione e quindi della libertà produttiva dell Originario garantisce il carattere assoluto dell Originario stesso, il cui altro è da esso posto, potendo non esserlo. In tale prospettiva, l Originario non patisce alcun deuteragonista col quale dover fare struttura, sia pure nell agire ad extra. Più precisamente, l unica figura che possa ambire a candidarsi al ruolo deuteragonistico è il non essere assoluto, della cui obiettiva incandidabilità già abbiamo detto L unica originaria relazione ad extra che, in prospettiva creazionistica, è lecito riconoscere all Originario, è quella verso il non essere assoluto: termine col quale va qui intesa, non un autocontraddittoria entificazione del negativo, bensì la stessa impossibilità (lo stesso autoannullarsi, dunque) di una alterità fronteggiante l Originario. Il non essere, dunque, paga la propria originarietà con la propria assoluta inconsistenza: infatti, solo un negativo che non incominciasse da se stesso, ma che fosse relativo o attinente a un positivo, potrebbe godere di una qualche sia pur indiretta effettività o consistenza.

197 Ex nihilo Una considerazione dialettica del positivo È chiaro che l evidenza della assoluta inconsistenza del non essere si traduce in termini positivi nella attestazione della assolutezza dell Originario, ovvero della impossibilità che esso sia, di suo, relazionato ad altro da sé. In tal senso, il non essere emerge come una figura che se sottratta alle intemperanze dell immaginazione risulta funzionale a una autentica considerazione dialettica dell essere. Diciamo considerazione dialettica, anziché dialettica simpliciter, perché con la prima espressione alludiamo a un movimento della riflessione filosofica sull essere, e non a un movimento dell essere stesso. L esito di tale considerazione dialettica è complesso. Anzitutto, essa rileva che la dialettica che all essere può essere riconosciuta da un punto di osservazione umano (e quindi astratto), è originariamente intrinseca all essere stesso. Se l essere è dialettico, lo è ad intra, per il semplice fatto che l ipotesi di alcunché di altrettanto originario che gli sia effettivamente extra, in modo da dialettizzarlo, appunto, ad extra, si toglie di scena da sé Lo statuto del nihil dell ex nihilo Ulteriore esito della considerazione dialettica dell Essere originario è che ciò che è altro da esso l ente finito e diveniente, che non ha in sé una condizione sufficiente per consistere non potrà avere alcun presupposto ontologico che non sia lo stesso Originario. La posizione del finito, che dovrà essere pensata come posizione assolutamente libera, in quanto ogni ipotetica necessitazione la inscriverebbe nella essenza dell Essere con esiti autocontraddittori, potrà avere, come presupposto ulteriore all Essere, solo il non essere assoluto: cioè nessun presupposto effettivo. Il che potrà anche essere espresso dicendo che, quel che il finito ha di proprio prescindendo dal suo essere liberamente posto (ovvero creato) è precisamente niente. Qui, la dissimmetria originaria si traduce in una dissimmetria originata, ovvero in quella dialettica unilaterale della creazione che classicamente è espressa come relatio idealis, o implicazione a senso unico.

198 186 P. PAGANI Il nihil della productio rei ex nihilo sui et subiecti è il non-essere relativo della res creata, la quale è per così dire tratta dal proprio non essere, cioè dalla inconsistenza che originariamente le appartiene. È chiaro, poi, che tale inconsistenza originaria non è un luogo o una regione, e neppure una condizione, che l atto creatore dovrebbe presupporre per poter operare: non è, cioè, in alcun modo un qualcosa, ovvero una contraddittoria entificazione del negativo. Piuttosto, lo statuto di un tale nihil (che Suarez diceva absolutum ) è solo indirettamente ontologico, come lo è quello del non essere assoluto: il primo, indicando il non poter stare dell ente creato senza l Essere creante; il secondo, indicando il non poter stare originariamente di alcunché accanto, e quindi oltre, all Essere creante. In conclusione, i due negativi indicano l assolutezza del positivo, ed escludono l uno in senso assoluto, l altro in senso relativo una sua originaria relazione ad extra. Il nihil dell ex nihilo è dunque una specificazione del più generico non essere : è il non essere, considerato in relazione all ipotesi che qualcosa faccia da condizione all esserci del finito, al di là dell atto creatore che è proprio dell Essere originario Superamento di un equivoco La libertà del creatore fa sì che la creatura, che di suo cioè nell ipotesi di una sua autonoma consistenza è niente, possa tornare a esserlo. Più precisamente, la creatura può per suo statuto essere nuovamente condotta a identificarsi, non con un improponibile non essere assoluto, bensì col proprio non essere relativo, stante che il suo non esser più presente (il suo non esserci più) non comporta contraddizione. Infatti, il venir meno della creatura non comporta il realizzarsi, in suo luogo, di qualcosa come un vuoto d essere, ovvero un entificarsi del negativo; e ciò per la stessa ragione per cui il venire all essere della creatura non presuppone qualcosa come il riempimento di un precedente vuoto d essere. Non esiste alcunché che faccia da antecedente e da conseguente al positivo creaturale, oltre all Essere creatore; il quale, peraltro, non può patire incremento o decremento dal divenire del finito.

199 Ex nihilo Sulla positività del finito Se il non essere assoluto risulta un paradossale nome dell essere, indicante l assolutezza di questo per via della sua impossibilità di avere un qualche referente originario, il nihil dell ex nihilo è una specificazione del non essere, riferentesi alla realtà creaturale come già osservavamo. La finitudine è la positività non originaria: quella che, al netto dell atto creatore, equivale appunto al non essere ; e, ciò non di meno, è positività. E positività altra dall Essere originario: da questo posta come tale, e perciò instaurata nei limiti che la costituiscono come altra. Lo statuto del finito, però, non va frainteso: il finito non ha e non è solo quello che non gli è dovuto; tanto che, se l avesse, cesserebbe di essere il positivo che è. Si può parlare, dunque, non solo di una positività, ma anche di una perfezione del finito. Più precisamente, l atto creatore costituisce la creatura proprio nel limitarla. E ciò accade in due sensi: da un lato, la determinata realtà finita (A), per essere se stessa, non potrà essere insieme anche la realtà finita diversa da sé (B, C, o altro ancora); d altra parte, tale realtà non potrà neppure coincidere con lo stesso Essere infinito. Dunque, il limite le è, in più sensi, essenziale. Liberarsi del proprio limite vorrebbe dire allora, per la realtà finita, liberarsi di sé: nientificarsi, al limite; di fatto, perdersi Una falsa dialettica Più precisamente, il limite è tutto il non-essere che è consentito dalla essenziale positività dell Originario: tant è vero che il non essere proprio del limite si costituisce sempre come alterità, cioè come un che di positivo. La privazione, invece, è da mettere su di un diverso conto; che non è più, almeno formalmente, quello riconducibile all atto creatore. 57 Su questo punto rinviamo alle importanti riflessioni contenute nel già citato: M. F. SCIACCA, Ontologia triadica e trinitaria.

200 188 P. PAGANI Se l autentica dialettica ad extra dell Originario è la creazione, cioè l atto in cui il secondo termine della relazione è posto integralmente, e perciò liberamente, dal primo, la falsa dialettica è quella che vedrebbe impegnato l Originario in una autoctisi, in cui l ad extra diverrebbe costitutivo dell ad intra. Così, i sistemi dell Idealismo sarebbero le più complete espressioni di una tale falsa dialettica. Si può dire che falsa dialettica è quella in cui il non essere assoluto, da figura funzionale a una considerazione dialettica dell essere, viene elevato a figura autenticamente speculativa, cioè a deuteragonista dell Originario 58. Il finito ha di suo al netto dell atto creatore il non essere 59. Naturalmente, il non essere non va qui inteso come l impossibile deuteragonista dell Essere originario e sostantivo, bensì come il nihil absolutum che Suarez distingue dal nihil negativum: cioè come il non essere da cui l ente è idealmente tratto, ovvero la assoluta non preesistenza di questo, rispetto all atto creatore Accuse arbitrarie alla teoria della creazione Arbitraria risulta, in tale prospettiva, la tesi per cui il mondo sarebbe svuotato di ogni consistenza ontologica e semplicemente consegnato all orizzonte ontico, se inteso come creato; cioè, se riferito all atto di un Super-Essente 60 che gli conferisca sussistenza 58 Allo stesso scenario della falsa dialettica appartiene la domanda tipica di certa modernità che chiede come mai ci sia l essere piuttosto che il niente. Si tratta di una domanda imbarcata, in quanto già implica per sé una collocazione nichilistica, e più precisamente uno scenario in cui l originarietà può venire indifferentemente (e contraddittoriamente) attribuita al negativo piuttosto che al positivo. 59 «Esse autem non habet creatura nisi ab alio sibi autem relicta in se considerata nihil est: unde prius naturaliter est sibi nihilum quam esse» (cf. TOMMASO D AQUINO, De aeternitate mundi contra murmurantes, 7; testo latino dell Editio Leonina). 60 In realtà, l identificazione onto-teologica dell originario che Heidegger attribuisce alla metafisica scolastica è estranea alla migliore tradizione metafisica: basti pensare a Tommaso d Aquino e a Rosmini.

201 Ex nihilo 189 e valore. Com è noto, a partire da questo assunto Heidegger valorizzava la sentenza nicciana sulla morte di dio, intendendola dialetticamente come la negazione del più radicale nichilismo: quello insito, a suo avviso, nella metafisica della creazione 61. È chiaro, d altra parte, che invocare il riconoscimento di una consistenza ontologica (e quindi assiologica) originaria per il mondo, sottintende una tesi metafisica quella per cui il mondo sia alcunché di originario : tesi ovviamente alternativa a quella creazionistica; e che richiederebbe, a sua volta, una introduzione adeguatamente critica, e non meramente esigenzialistica. Come già si accennava, il venire all essere del finito non riempie un precedente vuoto d essere, né il suo venir meno ne pone uno. In prospettiva creazionistica, dunque, il venire all essere e il cessare d essere non danno luogo a contraddizione tanto più che il creatore non patisce incremento o decremento da tali eventi da Lui stesso posti. Che il nihil evocato dalla formula della creazione ex nihilo non coincida in alcun modo con un non-essere assoluto, è a sua volta considerazione decisiva per disinnescare la ormai vulgata critica severiniana alla creazione, che la intende quale figura paradigmatica del nichilismo occidentale Nota sulla contingenza Ma l inerenza del non essere al finito si declina anche come contingenza: corollario della libertà che va riconosciuta al Creatore. La contingenza ha un volto positivo, che corrisponde al correlato alternativo, e latente, che ad ogni positivo creato si accompagna; e ha poi un volto negativo, che corrisponde al niente di autonomia ontologica che ad ogni positivo creato compete. Ovvero, se nella contingenza di p si congiungono la possibilità di p e la possibilità di non-p, questa seconda possibilità negativa può essere letta 61 Un riferimento emblematico, al riguardo, può essere quello a: M. HEIDEGGER, Nietzsches Wort «Gott ist tot», in ID., Holzwege, Klostermann, Frankfurt a.m La critica in questione è rinvenibile in: E. SEVERINO, Poscritto (1965), in ID., Essenza del nichilismo.

202 190 P. PAGANI sia in senso positivo come una alternativa alla sua correlata (come dimensione latente, cioè, dell atto che crea p), sia in senso negativo come la non-necessità di p ad accadere: ovvero come il fatto che p è tratto da un niente di essere. Non a caso, la contingenza può essere espressa anche formalisticamente sia come la congiunzione della possibilità di p con la possibilità di non-p, sia come la congiunzione della non-necessità di p con la non-necessità di non-p. Volto ultimo della positività della contingenza è la gratuità. Che il finito sia contingente vuol dire che l Essere sostantivo non ne ha bisogno per costituirsi. Quindi, se lo pone in essere, lo fa, non per completare se stesso (ovvero, non lo fa nel segno di una relazione di signoria-servitù), bensì per incontrare altro (altri) da sé nel segno della amicizia. In ogni caso, la contingenza significa, per il creato, alterità reale rispetto al creatore. Perciò la creazione del finito può essere legittimamente intesa sia pure ad honorem come la vera dialettica ad extra dell Essere originario: vera, in quanto dà conto della relazione col finito, escludendo da essa la contraddizione. Falsa dialettica è invece quella prospettata dall idealismo trascendentale, in cui il non essere da figura funzionale alla semantizzazione dell essere, e quindi da indiretto e paradossale nome dell essere viene elevato, contraddittoriamente, a suo deuteragonista. RIASSUNTO Il non essere (nel senso assoluto dell espressione) è un termine non denotante. Esso ha però una duplice funzione: quella di distinguere essere e pensiero e quella di determinare il significato di entrambi. Invece, il nihil che compare nella classica espressione productio rei ex nihilo sui et subiecti è qualcosa di relativo alla realtà che viene creata: per questo, esso non indica alcuna situazione autocontraddittoria. Alla sua determinazione, così come alla determinazione del teorema di creazione, hanno contribuito i principali interpreti della metafisica occidentale come il testo che qui si presenta cerca di mettere in luce.

203 Ex nihilo 191 ABSTRACT Not being, considered in its absolute meaning, does not denote anything. But it performs a double task: that of distinguishing being and thought and that of determining the proper meaning of both. The meaning of the term nihil that appears in the well-known expression productio rei ex nihilo sui et subiecti is very different, because it is concerned with the reality created by God. Thus this is not an inconsistent expression. This work aims at pointing out some major contributions of the classic metaphysical tradition to the understanding of the proper meaning of this expression, which is clearly involved in the metaphysical theory of creation.

204 192 DT 118, 2 (2015), pp LA NEGAZIONE E IL NULLA ** MAURO VISENTIN * È una constatazione fin troppo ovvia e facile da fare quella rappresentata dall osservazione che il linguaggio corrente si serve con molta frequenza, oltre che in modo abituale e irriflesso, della parola nulla. Con questo termine tale linguaggio intende esprimere significati diversi. Per esempio, l assenza di qualsiasi cosa. Come quando diciamo: non c è nulla qui che ci interessi. Oppure l evanescenza di qualcosa e la sua pressoché assoluta insignificanza, come accade in espressioni del tipo: quella che ti chiedo è una cosa da nulla, non preoccuparti: non è nulla, è molto suscettibile, se la prende anche per un nonnulla. O, infine, l assoluta mancanza di precedenti o di basi su cui il presente sia fondato o da cui dipenda, come nelle frasi: venire dal nulla, essersi fatto dal nulla. In tutti questi casi, come dicevamo, si esprimono dei significati. Ma quando Agostino, nel De Magistro, cita un verso di Virgilio che contiene il termine nulla (Si nihil ex tanta superis placet urbe relinquit) per mettere alla prova Adeodato (il figlio, che, nel dialogo, funge da interlocutore) chiedendogli il significato delle singole parole che lo compogono, entrambi si trovano in imbarazzo 1 allorché si imbattono nella seconda, appunto nihil. Al riguardo, Adeodato osserva retoricamente che nihil «cos altro potrebbe significare se non ciò che non è?». Ma Agostino è lesto a rispondere che se ammettiamo, ** Questo testo è già comparso nel volume: M. Visentin, Onto-Logica. Scritti sull essere e il senso della verità, Bibliopolis, Napoli 2015, pp * Professore ordinario di Filosofia Teoretica presso l Università di Sassari. 1 Cf. AUGUSTINUS, De Magistro, 2, 3.

205 La negazione e il nulla 193 come sembra necessario fare, che ciò che non è non può essere qualche cosa, occorre anche riconoscere che neppure la parola nulla può essere un segno, visto che un segno deve sempre designare qualche cosa. Quindi, dire che la parola nulla significa ciò che non è, lasciando intendere così di presupporre che essa sia un segno (poiché solo i segni significano), è un affermazione che suscita perplessità 2. La questione ha un retroterra antico. Già Parmenide, nel distinguere il sentiero dell essere, che sarebbe quello della verità (o della persuasione), dal sentiero del non-essere, qualificava quest ultimo come un cammino di ricerca sul quale assolutamente nessuna ricerca poteva essere condotta. Quindi una via di indagine impercorribile. Non, si badi bene, difficile da percorrere, ma proprio impossibile a percorrersi (nel senso metaforico del percorso che si compie ricercando, cioè coprendo un itinerario che si sviluppa, appunto, lungo una δ ς διζ σιος, una «via di ricerca») 3. D altra parte, che via è una via che non si può percorrere? Non sarà forse una non-via, cioè, piuttosto che una via, la sua negazione? E perché, ciononostante, Parmenide la qualifica come via, o, meglio, come sentiero ( ταρπ ς) 4? Ma una volta che il non-essere sia stato evocato, non si sarà comunque, già solo per questo, dato corpo al problema di cui Agostino parla nel De Magistro? Per cui, allora, aggiungere a questo significato/non-significato (o a questo segno non-significante) una 2 Ibid. 3 Cf. DIELS-KRANZ, Die Fragmente der Vorsokratiker, 28, B 2, vv. 2 e 6. 4 Naturalmente, a proposito di questo cruciale frammento del poema parmenideo, le domande non si esauriscono con questa. Basta pensare come all inizio del frammento Parmenide dica che due sole vie di ricerca sono pensabili, dunque anche quella del non essere, che non è, mentre nel frammento 8 dirà che senza l essere non può trovarsi il pensare. Oltre a ciò, non meno singolare e problematico è il fatto che qui si parli di una via di ricerca a proposito della verità, conferendole dei caratteri che sono compatibili solo con la verità, non con la doxa, quando è esclusivamente sul terreno della seconda, non della prima, che sembrerebbe lecito parlare di una via di ricerca, ecc.

206 194 M. VISENTIN qualifica qualsiasi (e connotarlo, appunto, per esempio, come via o sentiero ) non aggiunge e non toglie nulla alla complessità del problema. Non aveva, in fondo, già Platone stabilito una volta per tutte il profilo di questa difficoltà quando, nel Sofista, aveva messo in bocca allo Straniero di Elea le seguenti parole, rivolte a Teeteto: κα µοι λ γε τ µηδαµ ς ν τολµ µ ν που φθ γγεσθαι; (...) λλ ο ν το τ γε δ λον, τι τ ν ντων π τι τ µ ν ο κ ο στ ον. (...) Ο κο ν πε περ ο κ π τ ν, ο δ π τ τ φ ρον ρθ ς ν τισ φ ροι. (...) τ ν δ δ µ τ λ γοντα ναγκαι τατον, ς οικε, παντ πασι µηδ ν λ γειν. (...) ρ ο ν ο δ το το συγχωρητ ον, τ τ ν τοιο τον λ γειν µ ν, λ γειν µ ντοι µηδδ ν, λλ ο δ λ γειν φατ ον, ς γ ν πιχειρ µ ν φθ γγεσθαι? 5 Successivamente, con l avvento del Cristianesimo e il suo innesto sul tronco del pensiero greco, l ambivalenza del termine e del concetto di nulla si è riverberata sul concetto di creazione come provenienza dal nulla o come produzione di qualcosa a partire da nulla. Dove il nulla compare come terminus a quo (ossia come qualcosa), e nello stesso tempo come nulla assoluto (se prima della creazione ci fosse qualcosa, per esempio una materia plasmabile, la creazione non sarebbe tale, o lo sarebbe nello stesso senso in cui può dirsi tale cioè creazione una qualsiasi fattura artigianale). In tutti questi casi, l evocazione del problema è già un problema (nel senso che comporta la messa a tema problematica del nulla). 5 «Dimmi: dobbiamo osare di pronunciare queste parole: ciò che assolutamente non è? ( ) Ma questo però è chiaro: che ciò che non è non si può riferire a qualche cosa che sia compreso fra le cose che sono. ( ) Se dunque non si può riferire a quanto indichiamo con il che è, non sarebbe giusto porlo in relazione neppure a ciò che noi indichiamo col qualche cosa. ( ) Ed è quindi strettamente necessario, come pare, che chi non dice qualche cosa, niente dica assolutamente. ( ) Ma allora non dobbiamo nemmeno ammettere questo: che uno dica qualche cosa e non dica niente; non bisogna invece affermare che nemmeno dice, chi vuol dire l espressione ciò che non è?», Sofista, 237B E, tr. di A. ZADRO.

207 La negazione e il nulla 195 Ma proprio per questo, è anche evidente che il nulla, in ciascuna di queste evenienze, vede prevalere l aspetto per cui esso è qualcosa, ossia l oggetto problematico intorno al quale verte la domanda, implicita o esplicita, che emerge in maniera incomprimibile dallo stesso porsi delle espressioni che accolgono il termine e dal loro offrirsi alla nostra sospettosa curiosità speculativa. Imposta, in modo esplicito e con decisione, il tema in questo senso, per esempio, Fredegiso di Tours. Ma è solo molti secoli dopo, ossia con Martin Heidegger, che la questione dell essere positivo del nulla, anzi del suo essere l essere stesso nella differenza che lo caratterizza rispetto all ente, acquista il suo più autentico profilo filosofico. Nel quale, dal quale e attraverso il quale emerge la vera sostanza del problema, ossia il quesito concernente il rapporto fra il nulla e la negazione: «Gibt es das Nichts nur, weil es das Nicht, d.h. die Verneinung, gibt? Oder liegt es umgekehert? Gibt es die Verneinung und das Nicht nur, weil es das Nichts gibt?» 6. Secondo Heidegger, non solo questo non è stato ancora deciso, ma «la questione non è mai stata neppure esplicitamente sollevata». Per lui, comunque, occorre riconoscere, senza esitazioni, che «il niente è più originario del non e della negazione» 7. E questo per un motivo preciso: perché riconducendo il niente alla negazione dell ente nella sua totalità diventa impossibile porsi il problema del niente (ossia chiedersi che cos è il niente ) senza presupporre in modo indebito, anzi, senz altro autocontraddittorio, che il niente sia il suo proprio opposto, ovvero «qualcosa» 8. Ma ciò che è essenziale per Heidegger non si tratta di respingere un simile legame, ma di invertirne il senso, riconducendo la negazione al nulla piuttosto che questo alla negazione. Per farlo, tuttavia, è necessario sottrarre il problema al sindacato della logica e dell intelletto, per i quali, necessariamente, il nulla può essere indagato solo a partire dalla negazione, come 6 M. HEIDEGGER, Was ist Metaphysik?, in Wegmarken, Frankfurt am Main 2013, p M. HEIDEGGER, Che cos è metafisica, in Segnavia, tr. it. di F. VOLPI, Milano 1987, p Cf. ivi, p. 63.

208 196 M. VISENTIN operazione, appunto, dell intelletto stesso 9. Tuttavia, ciò che dobbiamo in primo luogo chiederci è: che cosa intende Heidegger con l affermazione del rapporto che sussiste tra la negazione e il nulla? Intende due cose, che sembrano essere abbastanza ovvie: in primo luogo che il concetto del nulla debba essere sussunto sotto la «determinazione superiore del negativo», in secondo luogo che esso debba essere ricondotto al ruolo di ciò che è negato 10. Ma quello che è più interessante è il legame che egli stabilisce tra queste due cose: «Hierbei (cioè dall idea che il niente sia la negazione della totalità dell ente) bringen wir doch das Nichts unter die höhere Bestimmung des Nichthaften und somit, wie es scheint, des Verneinten». Quindi, partendo dall idea che il nulla sia la negazione della totalità dell essente, noi conduciamo il nulla sotto la determinazione superiore di ciò che aderisce al non (che ne è imbevuto, compenetrato, pervaso) e con ciò, a quanto sembra, del negato. L espressione tedesca Nichthaften, che viene di norma tradotta con il termine negativo, sta ad indicare qualcosa che trae la sua caratterizzazione essenziale dal non. Pertanto è senz altro legittimo renderlo in italiano ricorrendo all espressione negativo, a condizione di intendere questa espressione secondo una, in particolare, delle due valenze semantiche che essa riveste nella nostra lingua: negativo come opposto di positivo. Ed è per questo che Heidegger aggiunge: «quindi, a quanto sembra, di ciò che è negato». Il negativo inteso come l opposto del positivo, infatti, è il negato per eccellenza: ciò che il positivo nega, ciò che merita o è degno di essere negato, dal momento che è opposto al positivo, ossia a ciò che, invece, deve essere affermato, perché in questo consiste la sua dignità e il suo carattere. L altra valenza semantica del termine negativo lo rende la seconda faccia del positivo, il suo rovescio. Non abbiamo, infatti, detto che il negativo, come opposto del positivo, deve essere negato da questo? E ciò non comporta forse che il positivo sia, per altro verso, negativo? Negativo (in senso attivo, ossia nel senso di ciò che nega) di quanto è negativo (in senso passivo, ossia nel senso di ciò 9 Cf. ivi, pp Cf. ibid.

209 La negazione e il nulla 197 che è negato)? Ma Heidegger intende per caso stabilire qui una separazione netta e incolmabile tra questi due significati del concetto di negativo? Nemmeno per sogno! Heidegger, piuttosto, sottolinea il fatto che quanto si presenta in termini essenzialmente negativi sia naturalmente destinato a rivestire i panni o il ruolo dell oggetto della negazione ad opera del positivo, ma intende questa condizione come una determinazione superiore. Ora, se ci rifacciamo al vecchio detto scolastico, ripetuto da Spinoza, secondo il quale omnis determinatio est negatio, dobbiamo riconoscere che una determinazione non può essere semplicemente negata, ma deve, per poter essere ciò che è, negare, a sua volta, l insieme delle altre determinazioni. In poche parole, la determinazione superiore sotto la quale, partendo dall idea che il nulla sia la negazione dell ente nel suo insieme, il niente deve essere sussunto, è qualcosa di puramente negativo, quanto alla forma (un non-ente, un non-positivo, un non-essere, un non-presente, un non-determinato), ma, quanto al significato, qualcosa di determinato e positivo (sia pure in senso molto astratto e generico) o, più semplicemente, esso stesso qualcosa. Nonostante la sua presa di distanza dalla logica e dal corrispondente intellettualismo, anche per Heidegger il negato è intanto e innanzitutto un negativo, cioè qualcosa. Solo che, mentre per la logica questo rappresenta uno scandalo, per Heidegger non è affatto così, e per valorizzare il significato positivo del nulla (implicito nel fatto che esso debba e possa essere incontrato, begegnet) occorre partire dal nulla esperito attraverso lo stato d animo in cui veniamo posti quando ci troviamo in quella particolare condizione emotiva cui diamo il nome di angoscia. Solo a partire da questa esperienza fondamentale sarà possibile risalire dal nulla così incontrato alla negazione. E questo proprio perché il nulla deve anche essere essenzialmente negato e dunque, a quanto pare, appartenere al genere del negativo. A quanto pare, ossia secondo una connessione che la logica inverte, deducendo l essere destinalmente negato dalla forma della negazione che è propria del negativo. Ma la presa di distanza di Heidegger riguarda solo l Ursprungsordnung: l ordine originario o concernente l origine (come Heidegger annota sul margine della 5 a edizione del testo in corrispondenza del passo in cui definisce il nulla più originario della negazione), non il nesso fra le

210 198 M. VISENTIN due cose. Insomma, Heidegger non dubita del fatto che il nulla sia un negato e come tale un negativo, ma solo del fatto che si possa giungere al nulla partendo dalla negazione anziché percorrere la stessa via in senso inverso. Senza alcun dubbio, la pretesa di Heidegger di affrontare il nulla prescindendo dalla negazione è ricca di stimoli ed è altresì indizio di una acuta percezione del problema che si collega all interpretazione del nulla in termini di negatività. Ma è, nello stesso tempo, anche fuorviante. In primo luogo perché, al pari della tradizione classica nei confronti della quale è critica, questa pretesa mette tra parentesi il nulla assoluto : dopo aver detto che il nulla, così come la tradizione logico-filosofica lo intende, vale a dire come l opposto assoluto dell ente nella sua totalità (e cioè come nulla assoluto, appunto), non può essere posto a tema senza dare luogo ad un corto circuito logico-argomentativo, essa mantiene sullo sfondo l idea che il niente sia anche l assoluta opposizione all ente, senza per questo impostare la questione del confronto con il problema di ciò che assolutamente non è. Come opposto all ente, come ni-ente il nulla è piuttosto l essere, o meglio l espressione della differenza ontologica, della differenza fra essere ed ente. D altra parte, risolvendo il nulla nel ni-ente della differenza ontologica si lascia intendere che del nulla come nulla assoluto non si deve fare questione. E tuttavia, nell implicito di questa pretesa, il nulla assoluto ricompare come ciò di cui non si dovrebbe, appunto, fare questione. Ma come si potrebbe non farne questione, visto il suo ricomparire? Eppure, di fronte a questa domanda la posizione di Heidegger tace. In secondo luogo, la sua pretesa è fuorviante perché, sia pure attraverso un nuovo modo di accostare il problema e la sua originarietà, essa continua a ricondurre il negato alla negazione attraverso la mediazione del negativo. Riguardo al primo punto, occorre sottolineare come sia impossibile disfarsi del problema del nulla assoluto semplicemente accantonandolo, a meno di non voler accantonare anche il problema di questo accantonamento. Ma una simile possibilità può incontrare il favore solo di chi abbia già, per suo conto, rinunciato all idea della filosofia come disciplina senza compromessi. È questa, penso, la

211 La negazione e il nulla 199 ragione per la quale, rivolgendosi all esame del nulla relativo (ossia delle differenze e del loro reciproco implicarsi) dopo aver dichiarato insolubile il problema del nulla assoluto, lo Straniero d Elea, nel Sofista, si appella alla comprensione di Teeteto: «ξεις ο ν συγγν µην κα καθ περ ν ν ε πες γαπ σεις ν π κα κατ βραχ παρασπασ µεθα ο τως σχυρο λ γου». 11 Il secondo punto è quello più delicato. Il rapporto fra la negazione, il negativo e il nulla è, infatti, quello nelle profondità del quale è necessario scendere se si vuole davvero arrivare ad un confronto ravvicinato con questo problema. E riguardo ad esso è intanto necessario sottolineare che l aspetto nevralgico della questione non sta tanto nel rapporto fra la negazione e il nulla, quanto nell identificazione del negativo con il negato. È infatti questo il passaggio intermedio che permette, sia pure in maniera soltanto implicita, a Heidegger di risalire dal nulla, esperito nella situazione emotiva fondamentale contraddistinta dalla signoria dell angoscia, alla negazione. Ora, che il nulla e il negato (l oggetto della negazione) si identifichino non può sorprendere e non può sorprendere neppure che a questa identificazione si associ l idea della negatività attraverso l identificazione di negato (cioè nulla) e negativo: già il conio lessicale del termine che designa il nulla o il niente in tutte le lingue storiche conosciute, vive o morte che siano, comporta quest associazione. Nulla è nessuna cosa, non-ente, non-essere, dunque qualcosa che si oppone, che nega: un negativo, appunto. Eppure, come abbiamo visto, negativo è un espressione ambigua, se non addirittura, almeno nell uso abituale, costitutivamente equivoca: essa designa tanto l opposto del positivo, quanto il positivo stesso. L impiego tecnico della parola in questione da parte della filosofia, del resto, è solo appena di poco meno equivoco di quello corrente, visto che, se la filosofia distingue un negativo attivo, diciamo così, da un negativo passivo, il primo coincidente con il positivo e il secondo con il suo opposto, essa li distingue, appunto, ossia 11 Soph. 241C: «Sarai dunque indulgente e, come hai appena detto, ti accontenterai se in qualche modo, e anche se per poco, ce la caveremo da un discorso così duro?», tr. cit.

212 200 M. VISENTIN li contrappone come due diversi, l uno più e l altro meno determinato. Ma considerando entrambi, in ultima analisi, pur sempre determinati: non-a, il nomen infinitum della Scolastica, è certo un indeterminato, ma solo in senso relativo, solo fino al punto di essere determinato esclusivamente dall opposizione ad A, che consente di includere nel suo spazio semantico tutto, ma proprio tutto, ciò che non è A. Ma questa non è certo un indeterminatezza assoluta. D altra parte anche solo parlare di assoluta indeterminatezza genera il sospetto di un tranello logico-linguistico: non è forse, l assolutamente indeterminato, un in-determinato, appunto, cioè un non-determinato, determinato, perciò, proprio dalla sua opposizione al determinato e alla determinatezza? E non è questa, in fondo, la stessa questione sollevata dallo Straniero di Elea nel Sofista e ripresa da Agostino nel De Magistro a proposito del nulla? Così, ancora una volta, noi siamo risospinti verso il problema del nulla rivestito della forma in cui esso ci è apparso fin dall inizio, cosa che ci induce a sospettare che con tutto il nostro agitarci e riflettere e dannarci l anima al riguardo, non stiamo, in definitiva, facendo altro che girare attorno alla questione, nella quale non riusciamo a penetrare (almeno con gli strumenti che ci offre il linguaggio). Ma le cose non stanno così: rilevare che il negativo anche nella sua forma passiva (o relativamente indeterminata) è un positivo, ci consente di spostare il fuoco del nostro sguardo sulla negazione, domandandoci come sia possibile che il positivo neghi il negativo, o anche come sia possibile che il negativo attivo neghi il negativo passivo. Infatti, se la negazione è reciproca e simultanea, se (come la relazione di diversità) è unica e identica (la negazione di x da parte di y è la stessa negazione di y da parte di x perché, se così non fosse, se le negazioni fossero due e diverse, se si negassero a vicenda, si darebbe luogo ad un regresso infinito, da una parte, e, dall altra, all impossibilità di ricomporre la frattura che in questo caso interverrebbe nella reciprocità dei termini in gioco e quindi nella loro relazione così come e per gli stessi motivi sono identiche la diversità di x rispetto ad y e di y rispetto a x), allora non si comprende come essa possa essere ciò che è, o pretende di essere ed anche deve essere: una relazione di opposti o diversi e non di identici. Ora, per quanto sia senz altro legittimo rilevare che anche

213 La negazione e il nulla 201 l identità, se è una relazione, comporta una duplicità di termini e quindi una differenza, questo non toglie che il circolo che si verrebbe così ad instaurare non avrebbe alcun carattere di virtuosità, ma, semplicemente, ci segnalerebbe che se la differenza e l identità non possono fare a meno di fondarsi sulla negazione, questa non può certo fondarsi o ridursi all una o all altra delle due. E una simile conclusione comporta, in parole povere, che la negazione reciproca, la negazione relativa o di diversità (quella nella quale sono in gioco due identici positivo/negativi) non è la forma originaria della negazione. Questa forma è, tuttavia, quella cui anche Heidegger si attiene 12 quando asserisce che il nulla è più originario della negazione. Rispetto a questa negazione (a questo concetto, non originario, della negazione), potrà anche essere vero che il nulla è più originario (ed anzi, probabilmente, perlomeno in un certo senso, si dovrà senz altro dire che lo sia). Ma questo solo perché la negazione rispetto alla quale il nulla viene dichiarato da Heidegger più originario non corrisponde all autentico concetto originario del significato che essa deve autenticamente rivestire e cui deve essere conforme. Occorre, pertanto, sforzarsi di pensare in modo diverso e maggiormente consono al suo carattere iniziale la negazione, e solo se e quando questo sarà stato fatto sarà davvero possibile decidere a proposito della questione riguardante che cosa, tra la negazione e il nulla, abbia effettivamente la precedenza nell ordine relativo all origine (nell Ursprungsordnung, di cui parla Heidegger). Ora, pensare in modo più originario la negazione, alla luce delle considerazioni che abbiamo appena svolto, può forse voler dire pensare in modo più originario la diversità? No davvero! Se si vuole sul serio pensare la negazione secondo il concetto che le è proprio, occorre pensarla indipendentemente dalla diversità. 12 Come si evince, ripetiamo, dal fatto che anche per lui, a quel che sembra, il negato è un negativo.

214 202 M. VISENTIN Indipendentemente dalla diversità? Non è questa una maniera assai strana, per non dire assurda, di impostare il problema? La negazione non è forse una relazione? Non è l atto per mezzo del quale qualcosa si rapporta a qualcos altro in modo negativo (ossia non per sottolineare un legame, ma il suo contrario)? E negare un legame non è, per un certo aspetto almeno, lo stesso che stringerlo? Vale a dire: non è stabilire una relazione fra una certa cosa e una cert altra, in virtù della quale esse si escludono o si respingono a vicenda? Benché queste domande debbano presupporre, da parte dell interlocutore ideale cui le abbiamo attribuite, un intento retorico, ossia la persuasione indiscutibile che la risposta che esse richiedono non possa che essere affermativa, siamo costretti a disconoscere una simile fiducia e a dichiarare che le cose stanno, invece, proprio all opposto di come questo nostro interlocutore immaginario al quale abbiamo assegnato il compito di impersonare il senso comune ritiene. Vale a dire che nulla di quanto siamo soliti pensare, in proposito, è veramente fuori questione ed anzi che le nostre ben consolidate convinzioni al riguardo sono piuttosto da rovesciare che da condividere. Concepire (o credere di concepire) la negazione come rapporto fra due termini che si escludono a vicenda, significa, infatti, non pensarla sul serio e non poterla pensare. Significa non poter pensare ciò che della negazione è il tratto costitutivo e caratterizzante, l aspetto essenziale: l irreversibilità, la vettorialità, l univocità (che non sono tre aspetti ma uno solo, o tre diversi modi di esprimere il medesimo). Bisognerà allora dire, sfidando il senso comune e una delle sue più consolidate abitudini di pensiero, che negare non significa, in primo luogo e originariamente, negare qualcosa. Occorrerà ammettere che la negazione, se vuole e deve essere una vera negazione, non può rivolgersi a qualcosa, cioè, non può avere un oggetto. Non sappiamo ancora se il nulla, come sostiene Heidegger, sia realmente più originario della negazione o non sia vero piuttosto il contrario, che la negazione è più originaria del nulla. Ma sappiamo con certezza che la negazione è più originaria della diversità. Il che vuol dire: non può esserci diversità senza negazione, ma può esserci (può esser pensata) una negazione senza diversità.

215 La negazione e il nulla 203 Ebbene, che cosa può voler dire che la negazione non implica la diversità, perché non è una relazione tra qualcosa che ne sia l agente e qualcos altro che ne sia l oggetto passivo? Sembra proprio che tutto questo ci abbia finalmente riportati alla questione del nulla assoluto: la negazione senza diversità e senza oggetto, che altro potrebbe essere, infatti, se non la negazione di un nulla assoluto? Ma in tal modo, il nulla assoluto, non diventerà, allora, proprio esso l oggetto della negazione? E d altra parte, se così non fosse, la negazione di nulla (nella quale il nulla, rispettando la conclusione cui eravamo approdati, non fosse un oggetto, cioè non rivestisse questo ruolo) come potrebbe essere ancora una negazione? Non sarebbe, piuttosto, una non-negazione, una negazione che, negando nulla, non nega nulla e dunque non nega (o nega solo apparentemente)? Non è forse vero che due negazioni affermano e che, proprio per questo, negare nulla significa o dovrebbe significare affermare qualcosa, non certo negare? Il tentativo di giungere ad un chiarimento che sia in grado di spingere il suo sguardo, con mossa decisa, oltre l intreccio delle questioni che fino a questo punto hanno dominato la scena e che rinviano reciprocamente l una all altra, in un groviglio così apparentemente inestricabile di difficoltà logiche da affliggere senza eccezione tutti i concetti e le categorie sin qui chiamati in causa, può prendere le mosse proprio da quest ultima domanda. Che il termine nulla abbia una forma negativa è evidente ed è già stato sottolineato. Ma che a questa forma possa e debba corrispondere un significato negativo (o, come sarebbe più esatto dire: un significato tout court), questo è precisamente il punto su cui essenzialmente vertono i nostri dubbi. E un simile punto non può essere dato per universalmente ammesso senza discuterne. Perché se a quella forma (che consiste nel termine o nella parola nulla, che nessuno intende escludere dal linguaggio, non solo da quello corrente, ma neppure da quello filosofico) dovesse per forza corrispondere un contenuto semantico, allora tanto il problema del nulla quanto, stando a tutto ciò che abbiamo detto sin qui, quello della negazione, sarebbero delle aporie insuperabili, e verrebbe meno, nel cammino del nostro pensiero, ogni orientamento riconducibile ad un senso.

216 204 M. VISENTIN La negazione, infatti, proprio questo è e deve essere: un vettore di senso. Che lo sia o no dipende allora precisamente da una circostanza e da questa soltanto: che il negato non abbia, nella negazione, forza e consistenza di negante, che, cioè, non sia un negativo. Sarebbe, tuttavia, oltremodo equivoco ed ingannevole dedurre da questa premessa la conclusione che esso debba, perciò, essere, di conseguenza, un positivo: questo equivarrebbe a misconoscere un aspetto sul quale ci siamo già soffermati, ossia che proprio e solo il positivo è, in sé, negativo, e che esattamente per questo motivo la negazione non potrebbe mai essere un vettore di senso se il suo negato fosse a sua volta negante rispetto a ciò che, nella negazione, lo nega. In tal caso, infatti, i sensi sarebbero due, reciproci e incrociati, e dalla loro composizione non si ricaverebbe una risultante vettoriale, ma solo la neutralizzazione vicendevole dell uno con l altro. Che il negato non sia un negativo (e dunque neppure un positivo) è, pertanto, qualcosa (una negazione) che non può essere ricavabile dal negato, ma dalla negazione stessa e da quanto, nel suo orizzonte, svolge il ruolo di negativo (nel senso attivo di negante, che è, in realtà, come abbiamo visto, l unico possibile per questo concetto). È, però, indispensabile, in proposito, introdurre un chiarimento in assenza del quale molto di quanto si è appena asserito potrebbe dare adito a più di un incertezza. Se il negato non è un negativo, in che senso e in che misura, negarlo significherà, per il negante, anche e nello stesso tempo definirsi? Due negazioni affermano, si è detto (ed è, del resto, una regola applicata in molte lingue storiche), ma se nulla non fosse un concetto negativo, non ci sarebbe neppure una doppia negazione. Dunque ciò che per determinarsi dovesse negare il nulla, se questo non fosse negativo, non potrebbe affatto determinarsi negandolo. Dal momento, tuttavia, che la negazione è stata interpretata da noi come espressiva di un senso, cioè di una determinatezza, come sarebbe possibile che la negazione fosse un senso e nello stesso tempo non consentisse di determinare alcunché? La questione è frutto di un equivoco, infatti è la negazione, non la doppia negazione, che determina (ossia, definisce un senso): la doppia negazione, definisce, casomai, un identità riflessiva. Le due cose non sono affatto coincidenti, o lo sono solo per quegli

217 La negazione e il nulla 205 indirizzi di pensiero (ad esempio l idealismo) che considerano la determinatezza come un astratto, inscindibilmente legato all attività riflessiva della coscienza. Ma, come abbiamo detto, il senso originario della negazione (e quindi anche quello della determinatezza) non si fonda né sull identità né sulla differenza (non si fonda sulla riflessione), sebbene queste non possano costituirsi se non in base ad essa e al criterio che essa rappresenta anche per la coscienza ordinaria Come è noto, alcune lingue europee (in particolare quelle di origine latina) ammettono, in determinati casi e in base alla specifica morfologia che può contraddistinguere, in questi, l espressione negativa, la doppia negazione con valore semantico negativo e non affermativo. Si potrebbe interpretare un simile fenomeno come indizio del senso molto attenuato che la negatività del carattere negativo di alcune espressioni formalmente negative riveste in tali lingue, e ricondurre un aspetto come questo ad una specifica configurazione mentale antropologicamente collegabile ad esse e alle popolazioni che le parlano. Ma per farlo occorrerebbe affrontare due scogli. Innanzitutto, il fatto che un fenomeno del genere è assente nella lingua madre di queste lingue (che è il latino). In secondo luogo, il dato constatabile che, sia pure in una forma indiretta, tale fenomeno si presenta anche nelle lingue che formalmente non ammettono la doppia negazione. Neppure in queste, infatti, la doppia negazione è sempre vietata. Ad esempio, è grammaticalmente lecita e dotata di senso anche per un inglese o un tedesco un espressione come: l essere non è il non-essere ( The being is not nothingness, Das Sein ist nicht das Nichts ). Tuttavia, anche se la loro liceità sembra indicare che tanto in inglese quanto in tedesco ad una simile negazione viene riconosciuto, di fatto, un significato che non equivale semplicemente a quello dell affermazione l essere è l essere (ossia un significato non puramente tautologico), questo aspetto potrebbe essere interpretato più come conseguenza dell impossibilità della lingua e della sua morfosintassi di comprimere e oscurare del tutto il senso dell essere nella coscienza ontica del parlante (di ogni parlante) che come propensione della coscienza linguistica di inglesi e tedeschi a farsi carico della desemantizzazione del nulla (che, in fatti, non è presente in nessun indirizzo di pensiero che si sia affermato in quelle aree linguistiche).

218 206 M. VISENTIN Il negato non è, dunque, altro rispetto al senso della negazione, ma è questo stesso senso. Non è, in altri termini, qualcosa che si aggiunga a questo senso con l intento di integrarlo o renderlo compiuto, ma è il modo in cui questo senso si espone. Esso sta a questo senso e al suo orientamento univoco come il concavo di uno spazio curvo sta al suo convesso: denotandone l inclinazione non reversibile, ossia, appunto, la vettorialità dotata di senso. Che la parola attraverso la quale una simile esposizione rende il suo senso avvertibile rivesta una forma negativa è un aspetto che si può integralmente ricondurre all assenza di alternative, propria dell univocità di un senso, quale risalta solo attraverso la comprensione della sua radicalità. Ciò comporta che ogni tentativo di risalire dalla parola al significato è destinato qui ad arenarsi, visto che la parola, stando alla sua forma, rinvia ad un significato che non può essere quello espresso. Adeodato, messo alle strette dall incalzare delle difficoltà sollevate da Agostino riguardo alla parola nihil, sembra averne, alla fine, un presentimento: tu autem nunc mecum loquendo, credo quod nullum suonum frustra emittis, sed omnibus quae ore tuo erumpunt signum mihi das ut intelligam aliquid; quapropter non te oportet istas duas syllabas enuntiare dum loqueris, si per eas non significas quidquam. Si autem vides necessariam per eas enuntiationem fieri, nosque doceri vel commoneri cum auribus insonant, vides etiam profecto quid velim dicere, sed explicari non possum 14. Adeodato dice di non saper spiegare ciò che intende, ma vuol dire, in effetti, che non sa dare un significato determinato alla parola che ascolta e ascoltando la quale è messo in grado di afferrare un senso, cioè di non saperla interpretare. Proprio perché essa non significa per se stessa o presa per sé, ma solo nel contesto della negazione che anche per mezzo suo si esprime senza alcuna possibilità che il significato così espresso (il significato della negazione) 14 Op cit., loc. cit.

219 La negazione e il nulla 207 possa essere ricostruito interpretativamente a partire dai singoli termini che danno corpo alla forma linguistica che storicamente lo riveste, proprio per questo una tale espressione e un tale significato (l espressione e il significato della negazione, non del nulla) non sono interpretabili: la loro comprensione è immediata, non mediata dalle parole. E questo non nel senso che le parole non siano qui necessarie o che siano, anzi, magari d ostacolo a tale comprensione, che questo significato sia quindi e in definitiva qualcosa di ineffabile e intuitivo, ma, al contrario, in quello che la sua espressione è immediatamente semantica e perciò immediatamente comprensibile, che non c è alcun divario tra essa e ciò che significa. Agostino, perciò, può farsi carico di tradurre la suggestione di Adeodato in una tesi che si avvicina molto alla conclusione cui siamo pervenuti: «An affectionem animi quamdam, cum rem non videt, et tamen non esse invenit, aut invenisse se putat, hoc verbo significari dicimus potius, quam rem ipsam quae nulla est?». Pertanto, siamo ora in grado non solo di rispondere a tutti i dubbi avanzati da ultimo al riguardo, ma anche al problema intorno al quale ci siamo a lungo interrogati, ossia se debba essere accolta o no la tesi di Heidegger secondo la quale il nulla è più originario della negazione. Stando a quanto ci si è mostrato attraverso questo esame del problema, occorre riconoscere che non solo il nulla non è più originario della negazione, ma che esso non è neppure meno originario di questa: solo la negazione è originaria, anzi essa è l originario stesso, come tale, e il nulla (la parola nulla, in quanto priva di significato) è lo sbilanciamento che originariamente ne orienta il senso in modo che questo si proietti nell univocità irreversibile del suo essere vettoriale, grazie all assenza di ogni contrappeso che riequilibrandolo possa disorientarlo. RIASSUNTO Partendo da Agostino (De Magistro) e retrocedendo a Parmenide, il problema del valore semantico del termine nulla viene esaminato sia in riferimento all idea cristiana di creazione sia in rapporto al concetto ontologico del negare. Un attenzione più insistente

220 208 M. VISENTIN viene dedicata alla tesi di Heidegger, stando alla quale «il nulla è più originario della negazione», perché è proprio questo il nucleo tematico di maggior interesse cui la semantica del nulla ci pone di fronte. Da questo nucleo, il saggio ricava una tesi opposta a quella di Heidegger, giungendo a concludere che nulla e negazione sono cooriginari, o meglio che l originarietà ontologica della negazione include quella di un negato privo di contenuto semantico o il cui contenuto semantico si risolve in quello stesso della negazione e del negare, compresi entrambi come espressione originaria dell essere. ABSTRACT Starting from Augustine (De Magistro) and coming back to Parmenides, the problem of the semantic value of the word nothingness is examined with reference to the Christian idea of creation and with regard to the ontological concept of the denying. A more thorough attention is reserved to Hedegger s thesis according to which «the nothingness is more basic than the denial can be», because just this is the most interesting subject in front of which we find us as regards the semantic of nothingness. Beginning from this subject the essay draws a contrary position to Heidegger s thesis and concludes that nothingness and denial are co-original, or rather that the ontological fundamentality of the denial includes that one of a denied without its own semantic content, something that has the same semantic content of the denial and of the denying, that are the fundamental expression of being.

221 NON ESSERE VARIAZIONI FILOSOFICHE SUL TEMA Venezia

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223 DT 118, 2 (2015), pp EX NIHILO 1 PAUL CLAVIER * La dottrina della creazione ex nihilo gode di una cattiva reputazione per almeno quattro ragioni. 1) Stando al verdetto positivista, la creazione ex nihilo è il vestigio di un era prescientifica dell umanità. Si tratta cioè del reliquiario di un epoca nella quale si attribuivano dei poteri a degli agenti soprannaturali per spiegare l esistenza e la struttura del cosmo. 2) La tesi della creazione presupporrebbe la premessa di una durata finita dell universo a parte ante. 3) Nella migliore delle ipotesi, la creazione ex nihilo sarebbe l oggetto di una fede rivelata, senza alcun rapporto con la razionalità. 4) Essa, inoltre, è esposta alla contraddizione, dato l assioma ex nihilo nihil fit. Propongo di discutere e di correggere ciascuna di queste tesi, risalendo dall ultima alla prima, e insistendo sulla delimitazione e la giustificazione della clausola ex nihilo. * École normale supérieure, Paris. 1 Traduzione di Davide Spanio (con la collaborazione di Laura Candiotto).

224 212 P. CLAVIER a) La creazione ex nihilo non designa affatto un processo di trasformazione naturale, ma una relazione di dipendenza ontologica. Essa, dunque, non contraddice l assioma ex nihilo nihil fit. b) La creazione ex nihilo non può scaturire esclusivamente da una rivelazione (revelabile tantum): al contrario, l intera rivelazione soprannaturale, per essere ammessa come tale, suppone l accettabilità razionale della creazione. c) La tesi della creazione rinvia a una questione riguardante l autonomia dell esistenza, e non la temporalità. La giustificazione della tesi della creazione non deve cioè essere confusa con delle considerazioni circa la durata finita dell universo a parte ante. d) L affermazione della creazione è una tesi metafisica, non scientifica. Rappresenta l affermazione che l universo deve la propria esistenza a un agente soprannaturale. Essa può essere giustificata attraverso un inferenza alla migliore spiegazione. a) Se il concetto stesso di creazione ex nihilo è contraddittorio, allora la fede secondo la quale il mondo è creato dal nulla rappresenta definitivamente una superstizione irrazionale. La tesi circa la creazione dal nulla potrebbe apparire quindi come autodistruttiva. Poiché, se creare significa far venire qualcosa all esistenza, allora la creazione dal nulla equivarrebbe a far venire qualcosa all esistenza dal nulla. Ma siccome il principio epicureo pone che dal niente non viene niente, allora non c è niente che possa verosimilmente venire all esistenza dal niente. Dunque, la creazione dal nulla sarebbe creazione di nulla. Ma allora essa sarebbe ancora creazione? Alcuni filosofi appartenenti alla tradizione mistica possono certamente dare un senso alla nullità della creatura. Bonaventura afferma che la creatura ha per se stessa il non essere (creatura de se habet non esse); Meister Eckhart ha coniato la famosa sentenza: tutte le creature sono pura nullità (omnes creaturae sunt purum nihil). Ma allora il significato non essere è puramente metaforico e non corrisponde affatto al nihil messo in questione dall assioma epicureo. Sottolineo tuttavia che il dettato dell edizione veneziana di Bonaventura è più lucido: essa recita creatura de se non habet esse al posto di creatura de se habet non esse, inutile paradosso.

225 Ex nihilo 213 Consideriamo più attentamente il presunto conflitto tra creazione dal nulla e dal nulla non viene nulla. Consideriamo in primo luogo la definizione di creazione: (1) x crea y = Def. X fa venire all esistenza y. Esprimiamo dunque il cosiddetto principio epicureo o lucreziano 2 ex nihilo nihil fit (2) in forma positiva: ( a) ((a viene all esistenza) => ( b) (a viene/scaturisce da b)). Supponiamo ora (3): C crea T dal nulla. Da (1) e (3) otteniamo: (4) C fa venire all esistenza T dal nulla. La circostanza implica un esito interessante: (5) T viene all esistenza dal nulla, che contraddice certamente (2), poiché: T viene all esistenza => ( z) (T viene/scaturisce da z). Stando così le cose, qui si annida una contraddizione, a meno che non abbia senso porre sullo stesso piano z e il nulla. Tuttavia, invece di (5), (4) potrebbe implicare: (6) C, dal nulla, fa venire all esistenza T. In questa interpretazione della creazione dal nulla, qualsiasi stato fisico delle cose suscitato dal nulla da C, rimarrebbe comunque intrinsecamente soggetto al principio epicureo. La circostanza evidenzia il problema circa lo scopo delle clausole nelle proposizioni che includono verbi fattivi. Se io faccio ridere qualcuno senza motivo, uno può domandarsi se io faccio {ridere qualcuno senza motivo} o se {io faccio, senza motivo,} ridere qualcuno. Nel caso della creazione, possiamo cioè distinguere nettamente l obbiettivo della formula dal nulla. Essa non descrive lo scaturire della creatura, ma, al contrario, enfatizza la sua nondipendenza da qualunque substratum preesistente. Fare {venire qualcosa all esistenza dal nulla} non è lo stesso che: fare {venire qualcosa all esistenza} dal nulla. La prima circostanza sarebbe contraddittoria, poiché nulla viene all esistenza dal nulla. La seconda pare invece essere libera dalla contraddizione. Infatti, il fare in gioco, qui, non allude a un evento fisico al quale si applica 2 Nullum rem e nihilo gigni divitus unquam: ciò significa che nessuna realtà è stata mai prodotta da atti divini (De rerum natura, I, 150, cf. nil posse creari de nihilo, ibid., I, ).

226 214 P. CLAVIER il principio che nulla viene dal nulla. La creazione dal nulla non è cioè un evento fisico, non deve essere descritto in termini di condizioni iniziali e non deve essere sottoposto alle leggi (sia deterministiche che statistiche) di natura. Il vero e proprio scaturire di tutto, se è verosimile dire che ciò accada (in un significato differente di accadimento ), accadrebbe perlomeno al di fuori di qualsiasi dominio fisico, poiché consiste nel realizzarsi dell autentico essere di ogni cosa, compreso il dominio stesso, dato che in ogni caso questo dominio esiste indipendentemente dal proprio contenuto. Il principio epicureo della conservazione ontologica può valere all interno del dominio concernente gli eventi e le trasformazioni fisiche (sebbene esso possa essere soggetto a ulteriori qualificazioni). Ma non c è alcuna ragione a priori perché esso debba valere quando sia applicato al dominio stesso. Stando alla celebre riformulazione del principio epicureo, da parte di Lavoisier: In natura, nulla si distrugge, nulla si crea, tutto si trasforma. Si tratta di sottolineare ancora una volta che ciò che vale per la natura, o per ciò che è dato in natura, può non valere per l esistenza stessa della natura. Una proprietà, un predicato o un principio può cioè applicarsi a ciascun membro di un insieme senza tuttavia valere per l insieme stesso. Per analizzare il concetto di creazione dal nulla, seguiamo Peter Geach, il quale, nella sua indagine sul tema, si focalizza sulla nozione di agente-causale 3. Infatti, sarebbe fuorviante concepire la creazione ex nihilo in termini di evento causale, essendo l evento creativo la condizione iniziale, che conduce all evento creato, in accordo con le leggi di natura. Sia x un agente, y un oggetto, A un certo predicato e p una proposizione, noi possiamo esprimere l azione causale come: x ha fatto di y un A oppure x ha fatto sì che p. Per esempio: Fidia ha fatto di un blocco di marmo una forma umana oppure Fidia ha fatto sì che un blocco di marmo assumesse una forma umana. 3 P. T. GEACH, God and the Soul, in Causality and Creation, London, Routledge and Kegan Paul, 1969, pp

227 Ex nihilo 215 Tuttavia, va da sé che nel caso della creazione dal nulla non ci sia un blocco di marmo e nemmeno una materia qualsiasi presupposta, né temporalmente né logicamente (intesa come condizione necessaria), poiché nulla è presupposto dall azione creativa di Dio. Come potremmo definire allora questo strano genere di relazione causale? Sentiamo il suggerimento di Geach. Geach intende mostrare la differenza tra Dio crea un A e Dio fa essere qualcosa un A qualcosa di presupposto alla sua azione. In entrambi i casi, Dio fa sì che x sia un A, ma si danno due modi differenti in cui possiamo introdurre un quantificatore esistenziale per vincolare x in Dio ha fatto sì che x fosse A. Il primo modo è: (I) Dio ha fatto sì che ( x) (x fosse un A) Mentre il secondo: (II) ( x) (Dio ha fatto sì che x fosse un A) Evidentemente, la proposizione (II) implica che Dio faccia un A da qualche entità presupposta alla sua azione. Quindi Geach esprime l ipotesi della creazione di un A da parte di Dio congiungendo (I) con la negazione di (II). Di conseguenza, Dio ha creato un A = Def. (Dio ha fatto sì che ( x) (x fosse un A) & ~ ( x) (Dio ha fatto sì che x fosse un A)). La versione di Geach evita le apparenti difficoltà derivanti «dalle illecite manipolazioni della parola nulla che compare in fatto dal nulla, ma, aggiunge, l idea di creazione non richiede che tale manipolazione debba essere legittimata». Nulla non è la materia di cui noi siamo fatti (eccetto nel caso menzionato in precedenza) 4. La creazione dal nulla deve essere concepita in termini di creazione non da 4 Vedi per esempio: «Creation out of nothing does not mean that there once was a NOTHING out of which God created the world, a formlessness, a chaos, a primal darkness. This idea of creation as the shaping of formless matter, is the content of all creation myths. God is conditioned by nothing, not even a NOTHING. He is self-determining» (E. BRUNNER, The Christian Doctrine of Creation and Redemption. Dogmatics Vol. II. London: Lutterworth

228 216 P. CLAVIER qualcosa (creazione non ex aliquo) invece che come creazione da niente (creazione ex non aliquo). Ed è ciò che precisamente significa la clausola: ~ ( x) (Dio ha fatto sì che x fosse un A). Secondo Geach, «questa analisi evidenzia diversi aspetti del discorso sulla creazione fatto da Tommaso d Aquino: ad esempio, quello che la cosa creata non subisce mutamenti e non è affatto passiva rispetto all azione divina». Creando, Dio non agisce su di un individuo. Né egli agisce sul nulla. b) Naturalmente, non basta che il concetto di creazione ex nihilo sia esente dalla contraddizione perché esso risulti istanziato. E non appena si considera che la creazione ex nihilo non risulta suscettibile di giustificazione razionale, può affermarsi la tendenza a considerarlo come un dogma strettamente religioso, esclusivamente rivelato. Tuttavia, a questo proposito, vorrei qui sviluppare brevemente un obiezione. Per qualcuno, chi accetta una proposizione in quanto rivelata deve in primo luogo ammettere la possibilità di un intervento da parte di un agente soprannaturale nel corso degli eventi fisici e mentali. L intervento, allora, richiederebbe il permesso del Creatore, poiché, se ce n è uno, è proprio lui l agente dal quale dipende, da ultimo, il corso di ogni evento fisico e mentale. Qualunque cosa debba essere accettata come una rivelazione implica l accettazione dell esistenza di Colui che rivela o che permette alla verità di essere rivelata da qualche profeta. L esistenza di Dio come creatore, insomma, rimane ontologicamente ed epistemicamente necessaria come condizione per l evento rivelato e per il suo essere ricevuto come tale. Da un punto di vista ontologico, nessuna rivelazione può prodursi in un Press. 1964, pp. 9-10). cf. A. H. STRONG: «Creation is not production out of nothing, as if nothing were a substance out of which something could be formed. The phrase is a philosophical one for which there is no Scriptural warrant» (A. H. STRONG, Systematic Theology, Valley Forge: The Judson Press, 1967, p. 372). Appare in ogni modo difficile concepire una narrazione che metta in scena un elemento di nulla assoluto. Tutti i miti cosmogonici richiedono uno scenario, una temporalità, per descrivere l intervento di un agente su di un materiale.

229 Ex nihilo 217 mondo increato. La creazione è una condizione necessaria della rivelazione. Epistemicamente, una rivelazione non può essere giustamente accettata se non da chi ha già ammesso che il mondo dipende, quanto alla sua esistenza e al suo funzionamento, da un agente soprannaturale. A meno che non si ammetta l intervento di un potere creatore, l apparire di una qualsiasi rivelazione soprannaturale apparirà cioè destituito di fondamento. Di conseguenza, non è giusto pretendere che la creazione debba essere solo una questione di rivelazione e di pura fede individuale, senza implicazioni di ordine metafisico. Così, almeno la stessa possibilità di concepire la creazione dal nulla deve essere discussa in termini razionali. c) Di diritto, la metodologia delle scienze naturali esclude la considerazione delle entità come Dio o creazione dal nulla. Non può esserci alcuna evidenza empirica circa un agente soprannaturale che interviene nei processi cosmologici o biologici. Non ci sono criteri che consentono di inferire da dati estrapolati da osservazioni un qualunque intervento soprannaturale nel corso degli eventi fisici. Il mero fatto però che possano esserci questioni scientificamente irrisolte non ci autorizza a fornire risposte non scientifiche. Questo però non significa che non siamo autorizzati a investigare le questioni metafisiche collegate alla creazione. Ma questa indagine non ha nulla a che fare col concetto scientifico di produzione causale di eventi o sostanze a partire da una condizione iniziale secondo le leggi della natura. Stando a ciò che Maxwell suggerisce: «La scienza è incompetente quando si tratta di ragionare sulla creazione della materia dal nulla». Questo concetto deve essere descritto in termini di dipendenza ontologica del mondo da un agente soprannaturale. Questo è infatti il concetto classico di creazione, sicuramente a partire da Agostino, Tommaso d Aquino, Leibniz, Brentano. Ancora oggi, teologi come Arthur Peacocke o Ian Barbour ritengono che la dottrina della creazione dell universo sia più fedelmente interpretata quando essa rinvia a un intemporale dipendenza dell universo da Dio, essendo che tale dipendenza non richiede di per sé un evento creativo temporale (non dunque una transizione, bensì appunto una dipendenza).

230 218 P. CLAVIER Ciò è stato già detto per esempio da Tommaso, da Lebniz, ma anche da Samuel Clarke: «[ ] la questione tra noi e gli atei non è se sia possibile che il mondo sia eterno, ma se è possibile che esso sia l essere originario, indipendente e autonomo. Che è una questione del tutto differente. Per i più, chi ha affermato l una ha anche negato del tutto l altra». Torniamo a prendere in considerazione quattro possibilità metafisiche circa il fatto che l universo dipenda o meno da un creatore, MENTRE si suppone che esso sia temporalmente finito o infinito. Come possiamo quindi concepire una creazione dal nulla? Quale concetto di nullità è chiamato in causa nella famosa creazione ex nihilo? Se Samuel Clarke e altri sono nel giusto, il concetto di creazione rinvia a un rapporto di tipo ontologico, non cronologico. A tema è cioè l esistenza autonoma, non la temporalità. d) Come è stato notato in precedenza, la creazione non può essere soltanto un contenuto rivelato. In effetti, per essere ammessa come rivelata essa presuppone l accettazione di una conoscenza naturale della dipendenza degli eventi fisici e mentali da un agente soprannaturale. Ma esiste una via più diretta per mostrare che la tesi concernente la creazione scaturisce dal lume naturale della ragione umana, ed è quella di proporre degli argomenti fondati non sulle condizioni a priori di una rivelazione, ma sulle ragioni che inducono ad affermare, basandosi su premesse razionali, che con ogni probabilità l universo non esiste autonomamente 5. 5 Cf. T. D AQUINO, Super Sententiis, Lib. II, dist. 1, art. 2, Respondeo: «Che ci sia la creazione non è soltanto ciò che è ritenuto per fede, ma anche ciò che

231 Ex nihilo 219 Esistono allora delle inferenze razionali capaci di giustificare il concetto di creazione ex nihilo? Mi pare che la risposta debba essere positiva (ma non positivista!) Occorre tuttavia fare delle precisazioni. Permettetemi di sottolineare questo punto: la tesi metafisica della creazione, essendo quella che concerne la dipendenza ontologica dell universo da un agente soprannaturale, non ha niente a che fare con i modelli cosmogonici delle scienze della natura (d altronde, nessun modello cosmologico permette di affermare: a t 0 non esiste assolutamente nulla; a t 1 c è un universo: la premessa temporale dell argomento cosmologico del kalam non è affatto assicurata). La pretesa di mettere in evidenza nelle scienze della natura (cosmologia o biologia evoluzionista) l intervento di un agente soprannaturale rappresenta una contraddizione metodologica. Le scienze della natura non sono abilitate a far intervenire nelle proprie teorie delle entità soprannaturali come Dio, il disegno divino, ecc. A mia conoscenza, non ci sono degli argomenti che permettono di condurre in modo deduttivo dall esistenza dell universo alla sua creazione. Ma nella storia della filosofia occidentale troviamo una linea argomentativa di stampo induttivo che va da Platone a Brentano, passando per Filone di Alessandria, Calcidio, Tertulliano, Ireneo, Lattanzio, Eusebio, presente anche nella tradizione neoplatonica, in particolare presso Porfirio e Proclo (che non è correttamente rappresentata come dualistica), Avicenna, Tommaso d Aquino, Suarez, Bacone, Leibniz, Bayle, Voltaire, Condillac, Kant compreso, fino a Maxwell. Riprendendo un idea di Herschel, Maxwell afferma: «La perfetta conformità di ogni molecola con tutte le altre della stessa specie (the exact quality of each molecule to all others of the same kind) conferisce ad essa la caratteristica metafisica di un articolo prodotto ed esclude l idea della sua esistenza eterna e autonoma (gives it the essential character of a manufactured article, and precludes the idea of its being eternal and self existent)». la ragione dimostra» (quod creationem esse, non tantum fides tenet, sed etiam ratio demonstrat)».

232 220 P. CLAVIER «Siamo dunque nell impossibilità di attribuire l esistenza delle molecole o l identità delle loro proprietà all azione di una delle cause che diciamo naturali (We are therefore unable to ascribe either the existence of the molecules or the identity of their properties to the operation of any of the causes which we call natural)». Se ammettiamo la premessa che la perfetta conformità delle proprietà strutturali e disposizionali della materia ci impedisce di pensare la sua esistenza autonoma, possiamo allora concludere come fa Maxwell: «Poiché la materia non può essere eterna ed esistente per sé, essa deve essere stata creata (because matter cannot be eternal and self-existent it must have been created)». Ma occorre fare qui due osservazioni: 1 ) Tale inferenza non è assolutamente un corollario scientifico, poiché si tratta di un inferenza metafisica. Lo sottolinea Maxwell: «[ ] la scienza è incompetente quando si tratta di ragionare sulla creazione della materia a partire dal nulla (Science is incompetent to reason upon the creation of matter itself out of nothing)» 6. 2 ) Maxwell non ha bisogno di affermare che la materia non può essere eterna. Il punto decisivo è di sapere se essa può essere considerata esistente di per sé. Ora, l argomento conduce alla conclusione che è improbabile che un demiurgo possa organizzare una materia che egli non ha fatto. Era questa, già in Cicerone, l obiezione dell epicureo Velleio all interpretazione letterale del Timeo di Platone. Velleio metteva in ridicolo l artigiano costruttore del mondo, il dio del Timeo di 6 J. C. MAXWELL, Les molécules, trad. D. MASSART, revue par B. Bensaude-vincent, in Les atomes, une anthologie historique, par B. Bensaude-Vincent et C. Kounelis, Presses Pocket, 1991, p. 202; testo originale in «Nature» 8, (1873) [da D. M. KNIGHT, ed., Classical scientific papers : chemistry (New York : American Elsevier, 1968)].

233 Ex nihilo 221 Platone (opificem aedificatoremque mundi, Platonis de Timaeo deum), domandandosi come egli fosse riuscito a farsi obbedire dagli elementi: «In che modo aria, fuoco, acqua, terra erano disposti a piegarsi alla volontà dell architetto? (Quem ad modum autem oboedire et parere voluntati architecti aer, ignis, aqua, terra potuerunt?). E da dove potevano uscire le famose cinque forme (i solidi perfetti) a partire dai quali è formato tutto il resto, in modo che tutto risultasse così appropriato [ ] (Unde vero ortatae illae quinque formae, ex quibus reliqua formantur, apte cadentes)[ ]». La riconduzione totale e senza condizioni della materia all Intelletto resta un enigma. La creazione ex nihilo è una soluzione possibile: Dio non organizza soltanto una materia potenzialmente ribelle, ma dona l esistenza alla materia stessa 7. Tale è ancora, in Bacon, la considerazione per la quale l atomismo epicureo ha ancora più bisogno della cosmologia aristotelica di fondamento teista. Così, contrariamente allo scenario generalmente inteso come una intrusione del dogma religioso nel territorio filosofico, la tesi della creazione ha potuto giocare il ruolo dell oggetto di una giustificazione razionale. La linea argomentativa principale è la seguente: è più plausibile che gli elementi costitutivi della natura debbano la propria esistenza a un agente soprannaturale piuttosto che a se stessi o al niente, data la ripetizione delle proprietà strutturali e disposizionali che essi presentano. Tale regolarità è spiegata meglio dall ipotesi metafisica di un origine comune che da quella di una spontanea coordinazione di elementi la cui esistenza sarebbe indipendente dal coordinatore o da quella di un organizzazione di materiali esistenti indipendenti dall organizzatore. L ipotesi di un creatore ex nihilo si rivelerebbe dunque più soddisfacente di quella di un demiurgo ex materia. La plausibilità dell organizzazione da parte di un demiurgo di un sostrato materiale che egli non ha fatto è molto debole. Non est architectus mundi qui non sit creator. 7 CICERONE, De natura deorum, I, 18 et I, 19, edizione A. S. PEASE, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1955, pp. 175 et 182.

234 222 P. CLAVIER Tuttavia, rimangono due alternative a una simile inferenza: La tesi della auto-organizzazione di un mondo che esiste autonomamente (una sorta di neospinozismo). Riconoscere l impossibilità di porre o di trattare simili questioni metafisiche, o concedere l incapacità, dalla quale noi saremmo afflitti, di domandarci perché c è qualcosa e non piuttosto il niente. RIASSUNTO La creazione dal nulla è spesso considerata come un lascito del pensiero mitologico e prescientifico o di obsoleti schemi metafisici. Nel migliore dei casi, essa potrebbe riguardare soltanto la fede. Al contrario, intendo mostrare che essa costituisce un presupposto fondamentale di qualsiasi fede rivelata e che non è affatto priva di giustificazione razionale (induttiva), purché essa non si mescoli con le tematiche positive collegate ai problemi della cosmogonia fisica. Si tratta infatti della questione metafisica se le cose siano esistenti di per sé o invece debbano (intemporalmente) la loro esistenza a un creatore. ABSTRACT Talk of creation out of nothing is often viewed like a vestige of mythological and prescientific conceptions, or of outdated metaphysical patterns. At most, it could only be a matter of belief. Contrarily, I intend to show that it is a crucial presupposition of any revealed belief, that it is not short of rational (inductive) justification, as long as it is not mingled with positive issues like the problems of physical cosmogony. It is the metaphysical issue as to whether things are self-existing or owe (tilmelessly) their existence to a creator.

235 DT 118, 2 (2015), pp NIHIL ED EX NIHILO: NOTE SUL SENSO DELL AGIRE DIVINO NELLA METAFISICA DI AVICENNA OLGA L. LIZZINI * Gli studi hanno ormai mostrato con chiarezza come Avicenna 1 riconsideri, trasformandoli, diversi aspetti del pensiero aristotelico 2. La definizione delle seconde intenzioni intelligibili, la teorizzazione di una fondamentale composizione ontologica nelle sostanze del mondo ossia la cosiddetta distinzione o composizione di essenza ed esistenza, la definizione del moto celeste, la concezione dell origine e al tempo stesso dell eternità del mondo, non sono che gli esempi maggiori dell opera di integrazione ed elaborazione cui Avicenna sottopone il materiale aristotelico. È su uno degli aspetti di tale elaborazione i cui principi ispiratori si devono, almeno in parte, al neoplatonismo che intendo soffermarmi in questo contributo, e cioè sulla questione fondamentale in metafisica del non essere e su quella che le è correlata della pensabilità del passaggio dal non essere all essere. In particolare, si tratterà * Vrije Universiteit, Amsterdam. 1 Ibn Sīnā, Il lavoro di Dimitri Gutas Avicenna and the Aristotelian Tradition. Inroduction to Reading Avicenna s Philosophical Works è uscito in una versione profondamente rivista e aggiornata nel 2014 (Brill, Leiden). In italiano è disponibile la traduzione dell edizione del 1988 (integrata con alcuni saggi), D. GUTAS, Avicenna e la tradizione aristotelica. Introduzione alla lettura delle opere filosofiche di Avicenna, Brepols-Pagina, Bari 2007 (traduzione italiana di M. Benedetto).

236 224 O. L. LIZZINI di tornare sulla discussione intorno all origine del mondo ovvero, in termini teologici, sulla creazione 3. Avicenna conduce la propria discussione a partire dal riconoscimento dell impossibilità di qualunque predicazione che pretenda di investire il non essere in senso assoluto 4 e giunge così a concludere che è possibile riferirsi al Principio come a una causa d essere solo in virtù di una ridefinizione dell idea e quindi del termine della creazione: non si può parlare di creazione dal nulla e le categorie concettuali del Kalām, in virtù delle quali la creazione è pensata in 3 Da una diversa angolazione, ho già avuto modo di esaminare la questione della creazione dal nulla in due lavori: O. LIZZINI, Il nulla (al- adam), l inesistente (al-ma dūm), la cosa (al-shay ): note intorno alla terminologia e alla dottrina della creazione dal nulla nel pensiero islamico, in M. LENZI, A. MAIERÙ (a cura di), Discussioni sul nulla tra Medioevo ed Età moderna, Lessico Intellettuale Europeo, Roma 2009, pp ; O. LIZZINI, Fluxus (fayd). Indagine sui fondamenti della Metafisica e della Fisica di Avicenna, Edizioni di pagina, Bari A questi lavori rimando anche per la bibliografia essenziale sulla questione del nulla e della creazione dal nulla. Per i testi di Avicenna qui citati, v. Ilāhiyyāt: IBN SĪNĀ, K. al-šifā. Al-Ilāhiyyāt (Al-Shifā. La Métaphysique), t. I, traités I-V, éd. par G. C. ANAWATI, S. ZAYED, révision et introduction par I. MADKOUR; t. II, traités VI-X, texte établi et édité par M. Y. MOUSA, S. DUNYA, S. ZAYED, revu et précédé d une introduction par le dr. I. MADKOUR, à l occasion du millénaire d Avicenne, Ministère de la Culture et de l Orientation, Le Caire 1960 [ristampa iraniana: 1404 h./ ]; cf. Liber de philosophia prima sive scientia divina, 1. [Livres I- IV]. 2. [Livres V-X ]. 3. [Lexiques]. Édition critique de la traduction latine médiévale par S. VAN RIET, introduction doctrinale par G. VERBEKE, Louvain la-neuve Leiden : Peeters Brill, 1977, 1980, Per il testo della metafisica in traduzione italiana (e le possibili correzioni al testo edito), cf. AVICENNA, Metafisica. La scienza delle cose divine dal Libro della guarigione (Kitāb al-šifā ). Testo arabo a fronte, testo latino in nota. Traduzione dall arabo, introduzioni, note e apparati di O. LIZZINI. Prefazione e cura editoriale di P. PORRO, Bompiani, Milano 2006; AVICENNA, Libro della guarigione. Le cose divine, a cura di A. BERTOLACCI, Utet, Torino Cf. infra, p. 236.

237 Note sul senso dell agire divino nella metafisica di Avicenna 225 relazione all inesistenza del mondo, vanno rivisitate e sottomesse al vaglio della filosofia 5. L esame (o il riesame) di alcuni passaggi permetterà di fermare i punti appena introdotti e consentirà per altro di verificare alcuni elementi dell ontologia avicenniana. Da una parte, si preciserà in quale senso per Avicenna tutto ciò che non è il Principio necessario è in sé un doppio e perciò un composto 6. Dall altra, a partire dalla fondamentale composizione del reale, si confermerà come proprio nella sua negazione si inscriva la definizione del Primo Principio: il Primo intanto è, in quanto è incomposto e uno, ed è cioè solo essere o esistenza, senza alcuna partizione e senza alcuna limitazione essenziale ovvero dipendente dall essenza 7. Infine, anche il senso ultimo della fondamentale coincidenza nel Primo di essere e 5 Cf. O. LIZZINI, Fluxus (fayd), cit., pp Anche la questione del male che occupa interamente la sesta sezione del nono trattato della Metafisica di Avicenna (Ilāhiyyāt IX, 6) è un luogo interessante per la questione del nonessere. A guida dell argomentazione sta anche in questo caso l impossibilità di predicare il nulla assoluto: il male inteso in senso assoluto coinciderebbe, infatti, con il nulla, cosicché si deve concludere che il male assoluto non può darsi. Per questo tema che finisce per assegnare una connotazione etica all emanazione, cf. ancora Fluxus (fayd), cit., pp Ilāh., I, 7, p. 47, Per quanto Avicenna parli di una distinzione e quindi di una composizione, non si può semplicemente concludere che la cosa esistente sia un tutto distinguibile nelle sue parti ; su questo, cf. A. BERTOLACCI, The Distinction between Essence and Existence in Avicenna s Metaphysics: the Text and Its Context, in G. OPWIS, D. REISMAN (eds.), Islamic Philosophy, Science, and Religion: Studies in Honor of Dimitri Gutas, Brill, Leiden Boston 2012, pp ; D. DE HAAN, A mereological construal of the primary notions Being and Thing in Avicenna and Aquinas, «American Catholic Philosophical Quarterly», 88, , pp Sul senso del Principio che è solo esistenza, cf. Ilāh. I e in proposito P. PORRO, Immateriality and Separation in Avicenna and Thomas Aquinas, in D. N. HASSE, A. BERTOLACCI (eds.), The Arabic, Hebrew and Latin Reception of Avicenna s Metaphysics, de Gruyter, Berlin - New York 2011, pp

238 226 O. L. LIZZINI agire dovrebbe chiarirsi. La questione del non essere, infatti, permette di illustrare come Avicenna si inserisca pienamente nell orizzonte neoplatonico il mondo deriva da un Principio da cui è intrinsecamente distinto (mubāyin) e che è rispetto ad esso trascendente 8 e al tempo stesso dia voce a un motivo che, questo stesso orizzonte, lo modula, se non lo corregge. Avicenna si allontana, infatti, da Plotino in un aspetto fondamentale della sua ontologia (e henologia): se per Plotino l Uno è al di sopra dell essere, per Avicenna l uno (il Principio uno) è al di sopra o aldilà della quiddità 9, ma non al di sopra dell essere 10. Così se, da una parte, la metafisica avicenniana consente di iscrivere il rapporto tra il Primo e il mondo in quello dell analogia dell essere (e ciò come alcuni studiosi rilevano in virtù della concezione di una fondamentale univocità dell esistenza) 11, dall altra, essa finisce in un certo modo per affermare l esistenza del Principio come al di sopra o al di là della realtà 12. Vediamo allora di esaminare più da vicino gli ambiti della discussione qui richiamati. 8 Su questo, cf. Ilāh., IX, 4, p. 403, 13 e cf. Ilāh., 257, 10-14, nonché il passo del Libro della genesi e del Ritorno qui citato, cf. infra p. 232 per cui K. al-mabda wa-al-ma ād, A. Nūrānī, Mu assasa Matal at Daneshga Mc Gīl, Tehran 1342h/1984; cf. Genèse et retour: Livre de la Genèse et du Retour. Traduction Française intégrale par J. R. MICHOT, version exploratoire, Bruxelles 1994 [ed. in rete 2002]. 9 Di converso la quiddità è al di sopra dell uno: si veda la discussione sulla quiddità in Ilāh. V, 1: la quiddità non è né uno né molti. 10 Ilāh., VIII, 7, p. 367, (cf. VIII, 4, pp. 343, ; 346, 11-12). 11 Cf. almeno T. KOUTZAROVA, Das Transzendentale bei Ibn Sīnā. Zur Metaphysik als Wissenschaft erster Begriffs- und Urteilsprinzipien, Brill, Leiden-Boston 2009, pp ; A. TREIGER, Avicenna s notion of transcendental modulation of existence (taškīk al-wuǧūd) and its Greek and Arabic sources, in Islamic Philosophy, Science, Culture, and Religion: Studies in Honor of Dimitri Gutas, ed. F. Opwis, D. C. Reisman, Brill, Leiden 2012, pp Sul rapporto tra cosa (šay /res) e quiddità (māhiyya/quidditas), e quindi cosalità/realtà e quiddità, cf. Ilāh. I, 5.

239 Note sul senso dell agire divino nella metafisica di Avicenna 227 I. CREATIO EX NIHILO: UNA RIDEFINIZIONE Pur seguendo Aristotele nell idea fondamentale dell eternità del mondo il tutto è eterno e non ha dunque un inizio temporale, Avicenna accoglie nel proprio sistema la domanda sull origine e dunque l idea di un passaggio dal non-essere all essere 13. In altri termini, il mondo non ha origine nel tempo, ma questo non significa che esso non abbia origine nell essere. Avicenna rifiuta la dimostrazione di un Primo principio che sia un semplice motore del mondo (e ne sia pertanto esclusivamente la causa finale) e insiste sull idea di una causalità efficiente dell essere: il Primo principio in tanto è un Principio, in quanto è causa d essere 14. La questione dell origine (e perciò del passaggio dal non essere all essere) è, del resto, parte integrante dell ambiente filosofico da cui Avicenna proviene. Già i testi del neoplatonismo greco-arabo presentavano il Principio e la sua azione all interno di un disegno metafisico globale, il cui problema di fondo era quello dell origine del Tutto. È anzi proprio la domanda sull origine e la conseguente idea di un Principio efficiente assoluto evidentemente assimilabile all idea monoteista di un creatore a costituire il motivo essenziale della diffusione di cui godettero i testi neoplatonici in ambiente arabo, considerati, come poi sarà per il Liber de causis in ambito latino, come il coronamento della Metafisica di Aristotele e la sua «teologia». Tali testi rivelano un fondamentale riuso degli elementi essenziali della metafisica aristotelica (materia, forma, atto, potenza) alla luce dei principi plotiniani, procliani e come alcuni studi hanno potuto mostrare 13 Su questo cf., almeno, E. BRÉHIER, L idée du néant et le problème de l origine radicale dans le néoplatonisme grec, «Revue de Métaphysique et de Morale», 26, 1919, pp [poi in ID., Etudes de Philosophie antique, Presses Universitaires de France, Paris 1955, pp ]. 14 Secondo un idea del neoplatonismo greco-arabo; cf. almeno R. TAYLOR, Primary Causality and ibdā (creare) in the Liber de causis. Wahrheit und Geschichte. Die gebrochene Tradition metaphhyischen Denkens. Festschrift zum 7-. Geburtstag von Günther Mensching, hrsg. Alia Mensching-Estakhr and Michael Städtler, Königshausen & Neumann, Würzburg 2012, pp

240 228 O. L. LIZZINI almeno in parte dionisiani, e danno così conto di un Principio uno, causa dell essere, e di un universo gerarchicamente orientato 15. Al neoplatonismo va poi accostato l impulso che ad Avicenna deriva dai pensatori che lo precedono e che dagli scritti del neoplatonismo greco-arabo dipendono strettamente: principalmente al- Kindī, i cristiani della scuola di al-fārābī, e lo stesso al-fārābī. Pur se in modi diversi al-kindī, per esempio, rifiuta l idea di un mondo eterno, laddove al-fārābī è perfettamente emanatista la questione dell origine e del Principio quale causa d essere è riconoscibile in tutti questi autori. In particolare, il primo tentativo di attribuire al Principio in maniera esplicita anche se non inequivoca una creazione assoluta e a partire dal non-essere si riconosce nell Epistola sull agente vero di al-kindī 16. A parte vanno poi richiamate le posizioni dei teologi del Kalām con cui Avicenna vi si farà riferimento pare instaurare un vero e proprio dialogo polemico. La principale preoccupazione di Avicenna consiste, infatti, nel pensare l assolutezza dell agire divino in termini filosoficamente coerenti. Già un testo giovanile come il Libro della Genesi e del Ritorno costituisce un buon punto d osservazione in questo senso. 15 Per questi testi, su cui esiste ormai una vasta letteratura, cf. almeno D ANCONA COSTA, La doctrine néoplatonicienne de l être entre l Antiquité tardive et le Moyen Age. Le Liber de Causis par rapport à ses sources, in Recherches, sur le Liber de causis, Vrin, Paris 1995, pp ; C. D ANCONA, La notion de cause dans les textes néoplatoniciens arabes, in G. CHIESA, L. FREULER (éd. par), Métaphysiques médiévales. Études en l honneur d André de Muralt, Génève, Lausanne, Neuchatel 1999 [Cahiers de la Revue de Théologie et de Philosophie, 20], pp ; P. ADAMSON, The Arabic Plotinus, A Philosophical Study of the Theology of Aristotle, Duckworth, London D ANCONA, Avicenna and the Liber de Causis: A Contribution to the Dossier, in «Revista Espaňola de Filosofía medieval», 7, 2000, pp Cf. anche l Epistola sulle definizioni e le descrizioni delle cose. Alcune delle formule di al-kindī si ritrovano in Avicenna, forse per via della comune fonte neoplatonica; per questo e per le difficoltà interne alla definizione della creatio ex nihilo in al-kindī, rimando ancora a «Il nulla (al- adam), l inesistente (al-ma dūm), la cosa (al-shay ): note intorno alla terminologia e alla dottrina della creazione dal nulla nel pensiero islamico».

241 Note sul senso dell agire divino nella metafisica di Avicenna 229 Una volta esposto il processo di intellezione del Principio e mostratane la necessità non meramente naturale (il processo in virtù del quale il Principio intende il conseguire delle cose a partire da se stesso è interno al Principio ma non inconsapevole) 17, Avicenna distingue in questo scritto la propria dottrina da quella che ascrive alla gente comune (al- āmma): l idea comune di creazione si riferisce a un Principio che non è tale da instaurare in assoluto (mubdi ) l esistenza perché, più che un creatore, concepisce l autore di un esistenza nuova (ǧadīd): L esistenza di quel che esiste a partire dal [Principio] è per via di un conseguire [necessario] rispetto all esistenza [del Principio]: segue l esistenza del [Principio] senza che questa sia in vista dell esistenza di una cosa altra [rispetto a Sé]. [Il Principio] è l agente del Tutto nel senso che è l esistente a partire dal quale ogni esistenza fluisce (yafīḍu), mentre la Sua esistenza è per sé ed è distinta da ogni altra esistenza. Quando diciamo Esso è agente del Tutto non intendiamo dire che Esso sia [tale da] dare (mu ṭī) al Tutto un esistenza nuova (wuǧūd ǧadīd), dopo che sul Tutto avrebbe dominato l inesistenza, [e ciò] benché questo sia il significato di agente del Tutto per la [gente] comune che, infatti, pretende che tale agente sia agente o nel senso che da esso è emanata un esistenza (ṣadara an-hu), o nel senso che da Esso l esistenza [prima] non emanava (lam yakun al-wuǧūd yaṣdur an-hu), oppure nel senso dell insieme delle due cose 18. Il significato generalmente attribuito all atto creativo di Dio, che ha creato o crea e prima non creava, assimila l azione divina che dovrebbe essere concepita come unica e assoluta a quella di un qualunque principio agente che, agendo in un tempo distinto dal 17 Mabda, p. 76, 8-14; cf. i passi della Metafisica (Ilāhiyyāt) citati infra; qualche osservazione su questo tema anche in R. ACAR, Talking about God and Talking about Creation: Avicenna s and Thomas Aquinas Positions, Brill, Leiden Boston 2005, pp Mabda, p. 76, 8-14; Genèse, p. 52.

242 230 O. L. LIZZINI prima e dal poi, finisce per esser considerato agente in quanto prima non agiva e poi agisce in atto 19, e perciò secondo il senso principe dell agire aristotelico in quanto può prima agire e poi non più agire 20. Nella concezione comune, cioè, il Creatore è assimilabile al principio agente così come lo esemplifica l immagine del costruttore che precede la propria costruzione nel tempo. Si rivela allora come, con il termine āmma che indica eminentemente il popolo, la massa o gente comune in opposizione all élite 21, Avicenna alluda qui anche ai teologi, la cui concezione della creazione è comunemente accettata, ossia non sottoposta all analisi speculativa (è dialettica e non dimostrativa), e pone l azione divina nel tempo. Nella concezione della teologia, intanto è possibile affermare che Dio crea, in quanto è possibile distinguere un momento ideale in cui il mondo non esisteva da quello in cui se ne afferma l esistenza; lo stesso termine muḥdat, con cui i teologi indicano lo statuto creaturale del mondo, ha un ineludibile connotazione temporale 22. È anzi in primo luogo la posizione della teologia che inserisce l azione di Dio nella continuità del tempo, e ne nega l assolutezza a essere insostenibile sul piano filosofico. E questo per diverse ragioni. In primo luogo, la posizione della teologia finisce per ontologizzare il non-essere: essa assegna, infatti, uno spazio all inesistenza che precede il mondo 23 e le attribuisce quindi un dominio, un potere (questa l immagine che si riconosce nel passaggio del Libro della Genesi e del Ritorno qui riportato e che è evocata da Avicenna anche 19 Cf. Ilāh., VI, 1, p. 263, Si veda ARIST., Metaph., IX, 3-4. L obiezione dei Megarici rivela come il tempo (il prima e il poi) sia necessario ad Aristotele per dimostrare la potenzialità. Su questo, cf. J. BEERE, Doing and Being: An Interpretation of Aristotle s Metaphysics Theta, Oxford University Press, Oxford 2009 (on-line edition 2010). 21 Su questo, cf. le occorrenze in Lane e in Kazimirski, s.v. 22 Ho proposto alcuni riferimenti in O. LIZZINI, Fluxus, cit. Appendice I, pp Per l immagine dello spazio, cf. infra il passaggio cit. in Ta līqāt, p. 138,

243 Note sul senso dell agire divino nella metafisica di Avicenna 231 nella Metafisica) 24. Proprio in quanto pone un agente che sia tale da agire in un certo momento o a partire da un certo momento, l idea teologica della creazione non solo attribuisce un mutamento di stato al Principio (che da non creatore diviene creatore 25 ), ma inoltre sancisce un prima nel quale pone per così dire il non essere che avrebbe preceduto le cose e anzi fa, di questo prima, la condizione della causalità. L inesistenza che precede le cose diventa cioè una condizione della creazione, con la paradossale conseguenza di dover considerare il creatore come tale proprio in quanto (in un certo momento) non crea (e di considerarlo non-creatore in quanto crea): [ ] se [il Creatore] fosse agente perché [prima] non aveva dato l esistenza, allora diventerebbe non agente nel dare l esistenza, cioè [sarebbe agente] in quanto da Esso non si aveva emanazione 26. In secondo luogo, pensare la causalità divina nel tempo significa fare del non essere delle cose una parte integrante del loro successivo essere poste in essere. Ma il non essere e dunque il non essere che precederebbe temporalmente la cosa non può entrare nel rapporto di causalità che definisce la creazione: se [si dicesse che] è agente perché ha dato l esistenza a qualcosa che non aveva esistenza e a cui non la dava, allora [si dovrebbe dire che] l acquisizione (al-fā ida) [che viene] da Esso non riguarda tale inesistenza precedente. Infatti, tale inesistenza non ha avuto bisogno di una causa ma piuttosto dell inesistenza della causa Cf. infra il passaggio citato Ilāh., 342, 15 e sgg. 25 Questo argomento viene da Proclo; cf. almeno J. MCGINNIS, Avicenna, Oxford University Press, Oxford 2010, pp ; cf. Ilāh., IV, 1, pp. 165, 9-166, 9 in cui Avicenna distingue la causa per essenza e la causa possibile. 26 Mabda, p. 76, 15-77, 2. Michot (Genèse, p. 52) espunge il passo e traduce: «S il était agent pour ne pas avoir donné l existence, il deviendrait nonagent en donnant l existence». 27 Mabda, p. 76, 15-77, 2.

244 232 O. L. LIZZINI Come Avicenna precisa nella sua Metafisica, la causalità dell agente investe l esistenza del causato, non la sua inesistenza, e non può quindi riguardare l inesistenza che precederebbe l esistenza del causato: l esistenza [del causato] dopo l inesistenza (wugūdu-hu ba da al- adam) è qualcosa (amr) che non si deve a nessuna causa. Infatti, la sua esistenza non può affatto essere se non dopo l inesistenza e quel che non è possibile non ha causa 28. Per altro, se si potesse considerare l inesistenza nel rapporto di causalità che lega la causa agente divina al mondo causato, la causalità divina ne sarebbe come relativizzata: una causa che causi a partire da un certo momento o in un certo momento, senza avere causato prima, non è infatti sempre in atto, laddove la causa che sia tale in senso assoluto deve essere sempre in atto, cosicché niente preceda la sua azione. Anche in questo senso il tempo è un concetto discriminante per l assolutezza dell agire. Il seguito del passo da cui si è qui partiti è in tal senso significativo: Quando diciamo Esso è agente del Tutto non intendiamo dire che Esso è [tale da] dare (mu ṭī) al Tutto un esistenza nuova (wuǧūd ǧadīd), dopo che sul Tutto avrebbe dominato l inesistenza [ ]. [Se il Primo fosse agente] a) [...] nel senso che da Esso emanasse un esistenza, [in modo tale da non dover] considerare lo stato di inesistenza [che spetterebbe a] tale esistenza, l agente più nobile (afḍal) sarebbe quello a partire dal quale l esistenza sarebbe più continua. [ ] L acquisizione (al-fā ida) [che viene] da parte Sua consiste [ ] nel fatto che per qualcosa di diverso da Sé c è un esistenza, e in ciò sta la nobiltà di questo attributo che si chiama atto [o azione ] Ilāh., VI, 1, p. 260, 7-9. Questo testo è importante. È in questo passaggio, infatti, che Avicenna passa dall inesistenza che precede il causato in senso temporale a quella che appartiene al causato in senso logico-ontologico e che corrisponde in certo modo al possibile. 29 Mabda, p. 76, 8-14; Genèse, p. 52.

245 Note sul senso dell agire divino nella metafisica di Avicenna 233 La discussione coinvolge, infine, la terminologia. Il causare divino può chiamarsi atto ( azione o agire ) fintanto che non si prenda in considerazione l inesistenza che avrebbe preceduto il mondo, facendone un tratto essenziale al rapporto che il Primo ha verso il Tutto. Altrimenti, pur essendo la questione del nome esterna rispetto allo scopo che il filosofo deve proporsi, si sarà costretti a ricercare per questo rapporto un nome che lo superi e che indichi una nozione (ma nā) più eminente di [quella] di atto [o agire o azione ] 30. Avicenna esibisce così la difficoltà intrinseca alla definizione dell agire divino: da una parte, il Principio deve presupporsi agire dal nulla ma, dall altra, non si può includere il nulla nella definizione del suo atto. Il termine ibdā, che comunemente sta a indicare una invenzione nuova che non è a partire da una materia 31, va dunque interpretato. Il significato che i sapienti ossia i filosofi attribuiscono al termine è, infatti, far essere continuativamente qualcosa che, per sé, non è (idāmatu ta yīs mā huwa bi-ḏāti-hi laysa) 32. Tale continuativo far essere non dipende da una causa diversa dall essenza del Primo (lā tata allaqu bi- illatin ġayri ḏāti l-awwali) 33 e non acquisisce il proprio senso in quanto si prende in considerazione ossia si pone un inesistenza nel tempo (l inesistenza è della cosa creata, ossia è ad essa attribuita perché da essa in sé meritata). Ogni mediazione è quindi esclusa: quella di una materia (mādda), di uno strumento (āla), o di un altra qualunque cosa (ma nā) o intenzione (ma nā) 34. Per Avicenna l atto, ossia l agire (fi l) così concepito, è 30 Mabda, p. 76, 8-14; Genèse, p Mabda, p. 77, 9-10; Genèse, p. 53: «l invention nouvelle qui ne se fait pas à partir d une matière». In questo senso comune il significato di ibdā è la messa in atto o la produzione di qualcosa di nuovo che non è a partire dalla materia; torna il significato che Avicenna ha presentato nel paragrafo precedente. 32 Mabda, p. 77, 10 (che ha lays un in luogo di laysa: far essere continuativamente o far perdurare nell essere qualcosa che in sé è non essere ); Genèse, p. 53. Lo stesso termine ta yīs torna in Ilāh., VIII, 3, p. 342, 17 e occorre nel K. al-ḥudūd nella definizione di ibdā (cf. Fluxus, pp ). 33 Mabda, p. 77, 11; Genèse, p Mabda, p. 77, 10-11; MICHOT, Genèse, p. 53: «Quant aux Sages, ils veulent dire par ibdā la continuation du faire-être quelque chose qui, par son essence,

246 234 O. L. LIZZINI migliore o più nobile (afḍal) di ciò che si intende normalmente con azione (fi l). L azione continuativa è, infatti, la sola che possa dar propriamente conto dell assolutezza dell agire del Primo, ossia dell instaurazione o creazione assoluta (ibdā ). La concezione teologica della creazione dal nulla nel tempo (c è un tempo in cui il Principio non crea e il mondo non esiste) va quindi confutata anche perché implicitamente riduce l azione creatrice di Dio allo schema aristotelico tradizionale. Essa, cioè, non sottrae la Causa prima al meccanismo di potenza e atto e ne nega, di fatto, la trascendenza. Rifiutare il tempo significa allora propriamente riconoscere l inadeguatezza delle categorie di potenza e atto a spiegare l agire divino. L idea del passare dalla potenza all atto che seguendo Aristotele Avicenna applica al mutamento in tutte le sue modulazioni (fra queste, l intellezione), non può servire per illustrare l origine dell essere. Questa ha al suo centro la nozione di possibilità che non è, almeno non immediatamente, riconducibile alla potenza. Se, infatti, quest ultima è orientata all atto ed è sempre relativa (la potenza cessa di essere laddove diventa atto), la possibilità (secondo la definizione bilaterale del possibile) si costituisce precisamente a partire dall alternativa tra esistenza e non esistenza; la possibilità, inoltre, resta in sé sempre tale e non è mai relativa: rispetto alla propria essenza, la cosa è sempre possibile, anche quando esiste necessariamente in virtù di altro 35. Si rivela allora chiaramente come l immagine che spiega la creazione non possa essere quella del costruttore 36 ; questa significa l azione, ma l atto divino è continuativo (è sempre in atto) e va rappresentato piuttosto con un altra delle immagini dell agire aristotelico: quella del n est pas, continuation ne se rattachant à nulle autre cause que l essence du Premier, ni à une matière, ni à un instrument, ni à une intention, ni à une médiation». 35 Su questo, cf. Fluxus, cit., pp Cf. Ilāh., IV, 1, p. 167, 1-5. Su un altro piano (quello dell intellezione della forma che precede la cosa), l immagine della causalità divina è invece quella dell architetto o artefice; cf. Ilāh., VIII, p. 363, 6-11.

247 Note sul senso dell agire divino nella metafisica di Avicenna 235 vedere o più esattamente del pensare. L agire di Dio non è un moto o un azione, ma uno stato d attualità o un attività 37. Si chiarisce così il vero motivo della ridefinizione del lessico della creazione che Avicenna mette in opera contro il Kalām. L elemento discriminante tra i due significati del termine instaurazione ibdā quello comune (e teologico) e quello (proprio e) filosofico, è il tempo che determina il carattere dell agire e il suo rapporto con la potenza. Per questo, solo pensata al di fuori del tempo l azione divina è assoluta. Le premesse di Avicenna sono, del resto, le stesse della teologia: se egli discute e ridefinisce il concetto di creazione dei teologi, è perché ne porta alle estreme conseguenze la stessa formulazione. I teologi identificano la creazione con la produzione di qualcosa in assenza di una mediazione materiale 38, ma non si accorgono che la necessità di ricusare qualunque mediazione comporta che si escluda dall agire divino non solo uno strumento, una materia, un intenzione, bensì lo stesso tempo. È la filosofia a capirlo: eliminando la mediazione del tempo, la filosofia attribuisce così continuità all atto creativo divino e concepisce perciò l agire non più nei termini del passaggio dalla potenza all atto, ma nei termini dell agire sempre in atto, ossia dell essere in atto in cui secondo la lettura neoplatonica potere agire, agire e, infine, essere coincidono 39. Con la continuità, Avicenna esprime dunque la necessità di attribuire al Principio un atto assoluto, laddove un azione che si dia come un passare dalla potenza all atto e che sia in un momento o a partire da un certo momento, concepisce un inesistenza precedente e finisce per non essere assoluta. Finché si affermano un momento della creazione e un momento della non creazione, e si delimita perciò stesso un ambito per l agire divino cui è così sottratta l assolutezza che dovrebbe spettargli, non si può dire che Dio crei dal nulla. Al contrario, l instaurazione nel senso filosofico, proprio perché non presume alcun ambito temporale che la comprenda, dà conto secondo Avicenna di un toglimento assoluto dell inesi- 37 Cf. le distinzioni di Aristotele in Metafisica Theta 6 a proposito dell azione continuativa l attività. 38 Cf. supra pp , n. 34, la definizione di ibdā. 39 Su questo, cf. infra, p. 241.

248 236 O. L. LIZZINI stenza (è veramente creatio ex nihilo). L instaurazione assoluta non toglie un non-essere che, precedendo l essere, finisce per assumere contraddittoriamente un proprio spessore ontologico: essa toglie il non-essere perché, coerentemente, non lo pone. La continuità che la filosofia attribuisce allo agire di Dio al di fuori di qualunque connotazione temporale è perciò la vera interpretazione della creazione assoluta e permette, per altro, una definizione dell atto creativo in positivo. Laddove la definizione della teologia si limita, per così dire, a (pretendere di) escludere o negare che vi sia altro rispetto a Dio, senza dar conto di come si produca l atto creativo, la definizione emanatista spiega l emanazione del tutto a partire dall attività del pensiero (l atto di intellezione del Primo) e anche in questo senso dà conto di un vero e proprio processo causale. II. LA RIDEFINIZIONE NELLA METAFISICA (AL-ILĀHIYYĀT) La premessa da cui il discorso avicenniano è sostenuto si rintraccia nel primo trattato della Metafisica del K. al-šifā, il Libro della Guarigione, in un passaggio in cui Avicenna determina chiaramente come predicare qualcosa dell inesistente (ma dūm) significhi farne un esistente (mawǧūd): E quanto al predicato [ossia alla predicazione], esso si ha in quanto esso è sempre [predicato] di qualcosa che ha una realtà nella mente. Dell inesistente assoluto non si ha predicazione in senso affermativo (bi-l-iǧāb), e anche quando se ne ha una in senso negativo (bi-l-salb), nella mente gli si attribuisce un esistenza, da un certo punto di vista. Il nostro dire è (huwa) implica, infatti, una designazione (išāra) e la designazione dell inesistente che non ha forma nella mente, sotto nessun aspetto è impossibile. Come si potrà quindi affermare qualcosa dell inesistente? Cf. Ilāh., I, 5, p. 32, 12-16; Liber de philos. prima, pp : «[...] eo quod enuntiatio semper est de eo quod certificatum est in intellectu. Unde de non esse

249 Note sul senso dell agire divino nella metafisica di Avicenna 237 Avicenna sa che l inesistente che è tale in assoluto non ha neppure un esistenza mentale 41. Dell inesistenza non si può quindi dare alcuna predicazione, né in senso affermativo né in senso negativo. Anche negandola, infatti, le si attribuisce un esistenza. Come si è osservato, parlare di un inesistenza che abbia preceduto la creazione significa attribuire all inesistenza un dominio sulle cose e dar conto perciò di nient altro che di una novità nell essere (un esistenza nuova dopo il supposto e in realtà aporetico dominio che spetterebbe all inesistenza 42 ). Questa stessa idea si riconosce, espressa nei termini tradizionali dell eternità del mondo, in un passo del Libro delle annotazioni in cui i teologi della mu tazila la prima corrente propriamente teologica, detta razionalistica del Kalām sono esplicitamente nominati. L impossibilità che si deve registrare nel negare l esistenza si dimostra analoga a quella con cui si deve rilevare l impossibilità di rimuovere il tempo ; la contraddizione di un tempo rimosso è spiegata da Avicenna con l immagine che si è già evocata dello spazio vuoto: Il tempo non è possibile rimuoverlo nella rappresentazione immaginativa (fī l-wahm). Infatti, se lo si immaginasse rimosso, si avrebbe necessariamente l immagine di un esistenza temporale in cui il tempo sarebbe rimosso. Per questo i mu taziliti stabiliscono un estensione temporale tra il Primo e la creazione del mondo e la chiamano inesistenza absolute non enuntiatur aliquid affirmative. Sed si enuntiatur aliquid negative etiam, certe iam posuerunt ei esse aliquo modo in intellectu. Nostra autem dictio, scilicet est, continet in se designationem. Designari vero non esse quod nullo modo habet formam in intellectu, impossibile est. Quomodo enim de non esse potest enuntiari res?». 41 Ilāh., I, 5, p. 32, 2-3: «Con la cosa, dunque, si vuole indicare questa intenzione, e il fatto che ad essa consegua necessariamente l intenzione dell esistenza non se ne separa mai. Anzi, l intenzione dell esistente la segue sempre: essa, infatti, o è esistente nei singoli [individui] oppure è esistente nell estimativa e nell intelletto. E se non fosse così, non sarebbe una cosa (o non sarebbe nulla )». 42 Per non essere aporetico questo dominio investe la materia; cf. infra, n. 46.

250 238 O. L. LIZZINI (al-lā-wuǧūd). E questo è come se tu stabilissi un vuoto (ḫalā ) in cui sarebbe l esistenza del mondo; immaginando di rimuovere il mondo, si avrebbe necessariamente l esistenza delle dimensioni; ci si immaginerebbe, infatti, sempre uno [spazio] vuoto (faḍā ) infinito; e per questo si immaginerebbe un estensione stabile. E ambedue le cose sono assurde. Nell impossibilità di rimuovere tali due [cose] risiede una prova [che indica] (dalīl) che il tempo è eterno (sarmadī) e il mondo è eterno (sarmadī) e che il Primo li precede entrambi in virtù della Sua essenza, non altro 43. Essenziale alla questione dell assoluto toglimento del nulla è poi un passo all interno della discussione della causalità in Ilāhiyyāt VIII 44. Avicenna stabilisce la finitezza delle cause e da que- 43 K. al-ta līqāt, [ed.] A. Badawī, al-hay a l-mi riyya al- āmma li-l-kitāb, al-qāhira 1973, p. 138, [cf. l edizione S. H. MOUSAVIAN, Iranian Institute of Philosophy, Tehran 1391/2012]; il passo non rientra fra quelli in comune con il testo di al-fārābī. Cf. J. JOLIVET, La répartition des causes chez Aristote et Avicenne: le sens d un déplacement, in J. JOLIVET, Z. KALUZA, A. DE LIBERA (éd.), Lectionum varietates: Hommage à Paul Vignaux ( ), Vrin, Paris 1991, pp ; così Jolivet (La répartition, p. 58): «Un existentiateur (mūǧid) ne donne pas l existence à ce qu il existencie, à l instant où celui-ci n existe pas. Toute la discussion montre qu Ibn Sīnā pense ici aux théologiens qui supposent aux êtres des essences, des quiddités, qui attendent en quelque sorte l acte créateur dont leur viendra l existence, comme si l acte de l agent s exerçait sur le néant: ce sont bien entendu des Mu tazilites, encore qu ils ne soient pas nommés [...] en critiquant la théorie mu tazilite des essences inexistantes, il interdit tout contresens sur la doctrine de la choséité ; elle n implique aucune forme de platonisme, puisque l essence avicennienne n existe pas en elle-même, et que l action de l agent ne porte pas sur le néant». 44 Ilāh., VIII, 342, 6-14 (cf. BERTOLACCI in Le cose divine, p. 640): «A partire da questo [argomento] e da quanto da noi spiegato in precedenza, è quindi evidente che il Necessariamente Esistente è numericamente uno e che tutto ciò che è al di fuori di Esso, se è considerata la sua essenza, è possibile per ciò che riguarda l esistenza ed è un causato; ed è chiaro inoltre che, nel

251 Note sul senso dell agire divino nella metafisica di Avicenna 239 sta deduce ciò che qui più interessa la causalità che deve essere attribuita al Primo: una causalità che deve dare ragione dell essere in assoluto, non di un certo far essere. Il discorso configura anche una vera e propria deduzione del possibile a partire dai caratteri che si devono ascrivere al Principio: se il Primo è necessario, tutto ciò che è diverso dal Principio non può che rivelarsi possibile nell essenza, e quindi causato, in quanto riceve o ottiene (nā il) l esistenza. In poche righe, Avicenna propone così alcuni dei motivi fondanti dell intero suo sistema: l idea che la causalità del Primo, creatore o instauratore (mubdi ) del mondo, consista nel dare l esistenza; la composizione del causato, che in sé non è (laysa) ed è (aysa) in virtù del Principio, e la conseguente fondamentale e problematica corrispondenza tra la possibilità, che appartiene in sé al causato, e l inesistenza, che questo in sé merita o cui ha diritto. È del resto l identificazione tra possibilità e inesistenza a permettere di concepire l anteriorità dell inesistenza rispetto all atto instaurativo del Primo nei termini di un anteriorità essenziale e non temporale 45. [rapporto che consiste] nell esser causato (ma lūliyya), [il possibile] ha senz altro termine nel [Necessariamente Esistente]. A esclusione di quell uno che per sé è uno e di quell esistente che per sé è esistente, ogni cosa acquisisce quindi l esistenza da qualcosa di diverso da sé: è (aysa) in virtù di ciò [che è diverso da sé] e in sé non è. Questo è il significato del fatto che una cosa è instaurata (mubda ) e cioè che ottiene l esistenza da altro da sé: la sua essenza ha un inesistenza che le spetta di diritto, assoluta, e questa non le spetta di diritto solo per la sua forma ma non per la sua materia, oppure per la sua materia ma non per la sua forma: l inesistenza le spetta, piuttosto, per la sua totalità. Quindi, se la sua totalità non è accompagnata dalla necessarietà (īǧāb: o dal far esistere: īǧād) di ciò che la fa esistere, e che si stima che ne sia separato la sua inesistenza è necessaria nella sua totalità. Il fatto che [la cosa] sia fatta esistere, quindi, è a partire da ciò che la fa esistere nella sua totalità: in rapporto a quest idea (ma nā), non c è una parte di essa che preceda la sua esistenza, né la sua materia, né la sua forma, se [la cosa] è dotata di materia e di forma». 45 Cf. Fluxus, cit., pp Un immagine anch essa tradizionale torna spesso negli scritti avicenniani: il movimento della mano che muove la chiave nella toppa della porta è contemporaneo a quello della chiave, ma l intelletto

252 240 O. L. LIZZINI Espresso nei termini della possibilità della cosa, il non essere non è un nulla che esista per un certo tempo prima della creazione. Il seguito del passo riprende, infatti, il riferimento al dominio dell inesistenza che si riconosce già nel Libro della genesi e del ritorno: un inesistenza che preceda nel tempo la creazione ne nega l assolutezza perché, supponendo contraddittoriamente che il nulla abbia un esistenza, gli attribuisce un potere sulle sostanze delle cose. In questo senso, una concezione della creazione che includa il tempo non è in grado di spiegare niente altro che una produzione relativa, ossia non un far essere la cosa in modo assoluto, ma un certo far essere. Una volta posto il tempo, infatti, si deve porre qualcosa che esista nel tempo: un non essere esistente nel tempo ; ma questo non è l assoluto non essere che dovrebbe dar conto della creatio ex nihilo, bensì un non essere solo relativo che darebbe conto non di una creazione, ma di una trasformazione a partire da un sostrato materiale 46. L idea teologica della creazione dal nulla viene così definitivamente dissolta: Il Tutto, dunque, in rapporto alla Causa prima è un instaurato (mubda ) e l atto con cui è fatto esistere quel che esiste a partire dalla [Causa prima] non è certo tale da permettere all inesistenza di avere potere sulle sostanze delle cose. Esso è invece un far esistere che, in ciò di cui si predica l eternità, rende impossibile l inesistenza in assoluto: questa è l instaurazione (ibdā`) assoluta e il far essere (ta yīs) assoluto e non un certo far essere 47. sano stabilisce tra i due una precisa relazione di anteriorità che, non essendo temporale, è ontologica. Ilāh., IV, 1, p. 164, , 9. Cenni all argomento nella tradizione, in MCGINNIS, Avicenna, cit., p. 179 e n. 4 p In Metafisica IV, 2, Avicenna lo dichiara esplicitamente: il non-essere che esiste nel tempo è la potenza legata a un sostrato, ossia la materia. (Ilāh. IV, 2, p. 181, 7-12). 47 Ilāh., VIII, 3, p. 342, 15-17; Liber de philos. prima, p Qui l idea di creazione rimanda al rapporto di causalità che Avicenna delinea nel libro VI (ma cf. anche l esempio della chiave e della mano che muove la chiave nella toppa in IV, 1). Con ciò di cui si predica l eternità Avicenna intende le

253 Note sul senso dell agire divino nella metafisica di Avicenna 241 Il primo Principio è quindi per Avicenna una causa continuativa ed è proprio per questo causa dell instaurazione (ibdā ) o creazione assoluta del mondo. Il Primo non agisce nel senso più comune del termine: se l agire (fa ala) è definito come un atto delimitato da un prima e da un poi, implicando perciò un passaggio dalla potenza all atto, il Primo principio non può essere definito un agente. Il Primo semplicemente esiste e, dalla sua esistenza, consegue il mondo. Questo è il senso in cui Avicenna interpreta l idea neoplatonica per cui essere e agire nel Primo coincidono (un idea che si rivela nella nozione plotiniana di potere: la dynamis del Principio come opposta al to dunamei delle cose 48 ). Il concetto avicenniano di instaurazione (ibdā ) costituisce così a un tempo una presa di distanza (sulla scia del neoplatonismo arabo e in particolare di Proclo) 49 dal modello della causalità aristotelica, e una risposta all idea teologica della creazione. sostanze intellettuali separate ed eterne, le sole ad essere instaurate in senso proprio (per questi temi nella tradizione latina, cf. la sintesi, ancora utile, di L. BIANCHI, L errore di Aristotele. La polemica contro l eternità del mondo nel XIII secolo, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1984). 48 Essere e agire e, in senso proprio, non essere e essere in atto; su questo, cf. l anonimo commento al Parmenide di Platone attribuito a Porfirio da Hadot (cf. P. HADOT, Porphyre et Victorinus, Études augustinniennes, Paris 1968) e cf. P. HADOT, Plotin: Porphyre: études néoplatoniciennes, Les belles lettres, Paris Come rilevato da diversi studiosi, è da Proclo che Avicenna ricava molti degli argomenti con cui fonda l idea di un Principio che sia causa d essere di un mondo eterno; cf. H. A. DAVIDSON, Proofs for Eternity, Creation and the Existence of God in Medieval Islamic and Jewish Philosophy, Oxford University Press, New York Oxford 1987, e soprattutto J. MCGINNIS, What Underlies the Change from Potentiality to Possibility: A Select History of the Theory of Matter from Aristotle to Avicenna, «Cadernos de História e Filosofia da Ciência: Substância e Matéria», eds. F. R. R. ÉVORA, M. A. D. CUSTÓDIO T. M. VERZA 3.17, 2007, pp ; ID., Making something of nothing: Privation, possibility, and potentiality in Avicenna and Aquinas, in «The Thomist», 76,4, 2012, pp ; ID., The Eternity of the World: Proofs and Problems in Aristotle, Avicenna, and Aquinas, «American Catholic Philosophical Quarterly», 88, 2, 2014, pp

254 242 O. L. LIZZINI La riformulazione dell agire divino che la posizione di Avicenna così implicitamente suggerisce e la sua riduzione alla continuità dell esistenza del Principio sono di un importanza cruciale nel sistema avicenniano: costituiscono lo strumento concettuale necessario a sostituire l idea di emanazione a quella di creazione, attribuendo al Principio un atto per così dire totale, unico e originario, e interessano il fondamento stesso dell essere divino e del flusso (fayḍ) che ne deriva 50. III. NON ESSERE E TOTALITÀ DELL ESSERE La nozione di inesistenza assoluta, in se stessa contraddittoria e impredicabile, rimanda più o meno implicitamente alla nozione di tutto e totalità. Il passo già evocato di Metafisica VIII, 3 è in questo senso particolarmente significativo 51 : Avicenna vi presenta l instaurazione o creazione assoluta (ibdā ), utilizzando precisamente il concetto di totalità: la creazione è l atto che pone la cosa in essere nella sua totalità (bi-kulliyyati-hi; per suam totalitatem). Il piano dell essere (e dell origine dell essere) è quello del tutto e dell assoluto che non può andare scomposto nelle parti e che non tollera la posizione di un sostrato (come è la materia) che lo preceda. E tuttavia come va osservato in Avicenna il venire all essere in senso assoluto non è mai veramente indipendente dalla composizione. La composizione ha un senso metafisico forte anche al di là del nesso materia-forma: tutto quel che è prodotto è un doppio 52. Si torna così lo esibisce 50 Negli autori della tradizione medievale latina del XIII secolo questa causalità concepita sulla scia del Neoplatonismo e del neoplatonismo arabo è causa essenziale, cf. A. DE LIBERA, Métaphysique et noétique. Albert le Grand, Vrin, Paris 2005, pp ; A. DE LIBERA, Causa (- essentialis), in S. AUROUX, Les Notions philosophiques, Presses universitaires de France, Paris 1990, vol. 1, p Ilāh., VIII, 3, p. 342, 6-17; v. supra, n. 44; cfr. p. 240 e n Ilāh., I, 7, p. 47,

255 Note sul senso dell agire divino nella metafisica di Avicenna 243 il passaggio sul non essere (laysa) che la cosa merita in sé stessa alla distinzione di essenza ed esistenza. La realtà è, infatti, sempre composizione. Lo è nel tempo, quando a essere considerate sono le cose del mondo sublunare (ed è allora composizione di materia e forma: la stessa possibilità nel tempo diventa materia 53 ). Lo è al di là del tempo (e quindi per forza di cose a posteriori), quando riguarda le cose del mondo celeste, le entità del mondo intellettuale che sono al di là del tempo, o quando riguarda, invece, le cose dello stesso mondo sublunare, una volta che esse siano considerate, non dal punto di vista fisico, bensì da quello metafisico dell analisi dell essere. Sul piano metafisico, infatti, a fare da contraltare alla nozione dell emanazione basta un indeterminato assoluto (a dover essere spiegato è, infatti, il tutto), e tale indeterminato assoluto è la possibilità. L idea di una composizione ontologica in tutto ciò che non è il Primo conduce così a una formulazione conclusiva: al di fuori del Principio, la totalità è composizione, di essenza ed esistenza, e poi di materia e forma. Allo stesso modo, l inesistenza appare in un certo senso duplice o come raddoppiata: è, infatti, sempre e solo relativa. È relativa alla materia (quando si tratta del venire all essere nel tempo; l inesistente è allora tale solo finché non è causato, e coincide in ultima istanza con lo stesso possibile nel tempo, che è tuttavia impossibile in assenza di una causa); è relativa, invece, alla cosa stessa, alla sua essenza, che è sempre esistente solo in dipendenza della causa. La causa, tuttavia, non ha alcun potere sull inesistenza che per sé appartiene alla cosa, l inesistenza è della cosa ed equivale in ultima analisi all essenza di essa (in sé non è: laysa: possibile e inesistente coincidono). Come premesso, l esame dell uso da parte di Avicenna del concetto o non concetto di non-essere o inesistenza 54 permette una conclusione anche per quanto riguarda il Primo che, intanto è incomposto e uno, in quanto è solo essere o esistenza, laddove il suo esse- 53 V. supra, n Un indagine terminologica a partire dai diversi modi di dire il non essere ( adam; ma dūm; laysa; lā wuǧūd; lā šay ) permetterebbe di distinguere i vari sensi del non-essere relativo.

256 244 O. L. LIZZINI re coincide con il suo agire, senza alcuna limitazione dipendente dall essenza. Per Avicenna l Uno (il Principio uno) non è al di sopra dell essere, ma al di sopra o aldilà della quiddità. Tutta la concezione dell essere che non è il Principio e dal Principio deriva poggia in Avicenna sulla scissione e quindi la composizione dei due elementi concettuali che lo compongono: l essenza e l esistenza, riunificati in una totalità che, da una parte, si oppone alla semplicità del Primo e, dall altra, non pone contraddittoriamente il non essere o nulla come fosse una cosa di fronte al Principio 55. RIASSUNTO Uno dei temi in cui più evidente è l elaborazione e l alterazione da parte di Avicenna (Ibn Sīnā, ) del pensiero aristotelico è legato alla questione del non essere. È, infatti, proprio a partire dalla discussione dedicata al passaggio dal non essere all essere e cioè all origine del mondo che si può verificare l originalità di alcuni elementi essenziali dell ontologia avicenniana, in particolare per quel che riguarda il mondo e la sua relazione con il Principio. Il mondo, in sé non necessario, è un doppio e quindi in un certo senso un composto. Proprio nella negazione di ogni composizione si inscrive, invece, la definizione del Primo Principio. La nozione di assoluta semplicità si rivela per altro la chiave per comprendere il senso che Avicenna ascrive all agire divino, non interamente riconducibile alla categoria aristotelica dell atto, e per cogliere quindi il senso ultimo della fondamentale coincidenza, nel Primo, di essere e agire. 55 Ho esaminato un altro senso in cui il mondo dei possibili può essere detto esistere di fronte a Dio, in O. LIZZINI, A mysterious order of possibles. Some remarks on the views of Avicenna and Aquinas on creation: al-ilāhiyyāt, the Quaestiones De potentia and Beatrice Zedler s interpretation, «American Catholic Philosophical Quarterly», 88 (2014), pp

257 Note sul senso dell agire divino nella metafisica di Avicenna 245 ABSTRACT One of the topics that most strikingly reveal that Avicenna (Ibn Sīnā, ) is elaborating and altering Aristotle s thought is related to the question of non-being. The analysis of the transition from non-being to being, and hence of the origin of the world, allows us to highlight the originality of some essential elements of Avicenna s ontology, particularly as regards the world and its relationship to the Principle. The world, which is in itself not necessary, is in itself dual (a duality), and thus to some extent a compound. The negation of any composition is, instead, a salient part of the definition of the First Principle. The notion of absolute simplicity is also the key to understanding the meaning Avicenna ascribes to divine action, which cannot be found in its entirety in the Aristotelian category of act, as well as the ultimate import of the essential coincidence, in the First Principle, of being and acting.

258 246 DT 118, 2 (2015), pp UN GESTO ESTREMO Il volto materiale del ni-ente MASSIMO DONÀ * La materia è statica, l intelligenza dell uomo la definisce, la domina nel calcolo e nell arte e la colloca nell umanità il problema di fare dell arte istintivamente si chiarisce in me, né pittura né scultura, non linee delimitate nello spazio, ma continuità dello spazio nella materia noi ci dirigiamo verso la materia e la sua evoluzione, fonti generatrici dell esistenza credo più a una filosofia del niente la mia arte è tutta portata su questa purezza, su questa filosofia del niente, che non è un niente di distruzione, ma un niente di creazione Da questo nuovo stato della coscienza sorge un arte integrale nella quale l essere funziona e si manifesta nella sua tonalità. Lucio Fontana SULLA MATERIA : UNA PREMESSA FILOSOFICA Già a partire da Platone quella della materia inizia a configurarsi come questione assolutamente centrale per il pensiero filosofico tout court. Centrale innanzitutto va comunque precisato in rapporto alla comprensione della natura della poiesis; o meglio, di quella forma archetipica della poiesis che di tutte le altre costituisce la vera e propria condizione di possibilità. Insomma, Platone fa i conti con la questione della materia proprio là dove ragiona intorno alla vera origine del kosmos. * Università Vita-Salute San Raffaele di Milano.

259 Un gesto estremo. Il volto materiale del ni-ente 247 Là dove si propone di analizzare la struttura del gesto che a tale ordine universale avrebbe dato originariamente luogo: quello del demiurgos divino il quale, nel dare forma al mondo, sempre e comunque secondo precise coordinate matematico-geometriche, non può fare a meno di presupporre una vera e propria datità. Quella della chora; materia indeterminatissima, puro spazio, apertura costituentesi come essere non ancora determinato. Ciò che, solo in forza dell azione demiurgica, appunto, potrà farsi predicato di questa o quella determinazione, di questa o quella forma. È infatti proprio nell è che normalmente viene predicato di ogni determinazione, a trovare sempre e comunque espressione la voce originaria di un essere non ancora reso essente, quale deve esser stato quello presupposto da qualsivoglia inizio determinato. Quello, indipendentemente dal quale nessun inizio avrebbe potuto costituirsi come inizio del mondo. La chora platonica parla dunque di qualcosa che non può che esser concepito quale imprescindibile presupposto dell arché in quanto tale. Di ciò che lo stesso accadere dell inizio determinato istituisce, insomma, quale suo necessario presupposto. Come dire: se il tutto dell essente ha avuto inizio (a prescindere dal nome che a tale inizio si voglia dare: sia esso il Big Bang, sia esso l atto creativo di un Dio, sia esso il gratuito manifestarsi di un mondo in sé perfettamente insensato ), tale inizio deve esser stato possibile. Ossia perché qualcosa (anche il tutto dell essente) sia, esso deve poter essere. Ché, mai è ciò che non può in alcun modo essere. D altro canto, quando si rileva, molto semplicemente, che qualcosa è, ossia che questa o quella forma determinata sono, si dice appunto che l essere è in questo o quel modo formato ; o anche: che una possibilità s è qui attualizzata in questo determinato modo un modo che peraltro non è mai unico o definitivo, stante che tutto ciò che è può sempre essere anche diversamente e sarà diversamente, così come è sempre stato diversamente determinato. Insomma, le forme passano si susseguono l una all altra. Ciò che era formato in un certo modo, in quanto cosa di questo mondo, sarà sempre diverso, ossia assumerà forme sempre nuove, nel corso di un divenire che tutto abbraccia, facendo tutto essere nel modo che ogni volta appare come il suo. Ma il mutamento delle forme implica necessariamente qualcosa di permanente. Un essere che, pur avendo di volta in volta questa

260 248 M. DONÀ o quella forma, non può risolversi in nessuna di esse, perché ogni volta sarà riconoscibile appunto come soggetto permanente delle sue incessanti trasformazioni. Come ciò che, di là dal mutare di tutto, rende possibile lo stesso riconoscimento di identità individuali, di un unica esperienza valevole appunto come la mia e di un unico universo che in ogni esistente individuale sempre si ripropone come il suo (di tale esistente) mondo; insomma, un permanente per dirla con Aristotele: una materia che di per sé non viene meno, ma è necessariamente incorruttibile e ingenerabile (Fisica, I 9, 192 a, 25-30). Perché la materia costituisce per ciascuna cosa il sostrato primo dal quale la cosa si genera non accidentalmente (Fisica, I 9, 192 a, 30-33). Ma, se le forme mutano, e se mutano nel senso di essere incessantemente sostituite da forme sempre nuove (e quindi non nel senso di essere esse, in quanto forme modificate), ad essere modificata, in senso proprio, è sempre e solamente la materia. Ad esser modificato, per il sostituirsi di una forma all altra, è propriamente il permanente il sostrato che mai viene meno. Ciò che è sempre se stesso ossia che è sempre perfettamente identico a sé: appunto come l eternamente mutante. L individuo questo o quello muta sempre; nel senso che esso appare ogni volta diversamente formato, come avente ora questa forma, ora quest altra forma, e così via all infinito. Esso si configura come soggetto di sempre nuove predicazioni formali; e quindi appare sempre diverso da come era. Ma, proprio per ciò, esso deve anche apparire come sempre identico a sé; in quanto manifestantesi appunto come il sempre identico individuo quello che prima era appunto diversamente formato. Come quello stesso insistiamo. Perché l esser diverso appare sempre e comunque come l esser diverso dell identico. Come l esser diverso di ciò che è lo stesso di prima quello stesso che prima era appunto diversamente formato. E che proprio per ciò deve anche apparire come identico a ciò che prima era diverso. Tale identità non è comunque una identità formale; sono le forme a cambiare sempre l abbiamo già rilevato. Ma... cos è allora tale identità? Cosa, se non ciò che il linguaggio rammemora quando, delle forme più diverse, viene rilevato appunto che sono? Ogni volta che di questa o quella forma si dice appunto che è. L esistere, insomma, è sempre il medesimo esso è ciò che rende continuamente riconoscibili anche le cose più visibilmente

261 Un gesto estremo. Il volto materiale del ni-ente 249 modificantesi. È per tale esistere che l individuo, per quanto grandi siano le trasformazioni da esso subite, sarà sempre e comunque riconoscibile come quello stesso che ora è magari radicalmente diverso da come era prima. In ogni individuo esistono dunque, come perfettamente indivisibili, la differenza e l identità. Ché, ad esser sempre diverso da come era, è appunto ciò che dobbiamo insieme riconoscere come lo stesso di prima, e quindi ritenere identico a quello che prima era appunto diversamente. Ad esser diverso è sempre e solamente l identico. Ciò che Aristotele chiamava appunto materia. Per questo, è proprio nella materialità che viene custodita la radice dell enigma per eccellenza: quello secondo cui, ad esser diverso, è sempre e solamente ciò che non è affatto diverso. La materia (hyle) è dunque tale enigma: perché solo essa riesce ad essere sempre modificata, sempre diversamente formata essa ossia ciò che mai smette di costituirsi come il permanente per eccellenza. L unico non mutevole. Vera e propria immutabilità custodita nel cuore di ogni esistente, proprio nella misura in cui di esso si continui a dire che è. Immutabile perfettamente corrispondente (e speculare rispetto ad esso) a quello costituito dalla ben disegnata geometria dell elemento puramente formale. Certo, Aristotele ha fatto franare l utopia platonica di un mondo di forme separato e perfettamente autosufficiente; ma ha al contempo disegnato una nuova anche se meno esplicita utopia. Quella relativa all autosufficienza propria di una materialità eterna e perfettamente incorruttibile, rispetto a cui le forme (peraltro mai isolabili dall esistere loro proprio ossia dalla loro materialità ) sarebbero semplicemente e sempre dipendenti allo stesso modo in cui le forme esistenti erano per Platone perfettamente dipendenti dall immutabilità di un orizzonte puramente formale (rispetto a cui gli esistenti mai si sarebbero potuti rendere autonomi). Perfetta complementarietà, conforme insomma ad una vera e propria specularità rovesciata questa, la cifra del reale rapporto tra Platone ed Aristotele. Come dire che, mentre Platone aveva ipostatizzato la forma, Aristotele avrebbe fatto la stessa cosa con la materia.

262 250 M. DONÀ SULLA MATERIA : UN ALTRA POSSIBILITÀ Una cosa comunque a partire da Platone e Aristotele è rimasta ferma nel corso del tempo, quale fondamento della persuasione caratterizzante il fare dei mortali: che, come il demiurgos del Timeo, anche a noi sarebbe concesso di dar vita a nuovi ordini dell esistente, ma sempre e solamente in quanto produttori di forme. Certo, mentre Platone riteneva che le forme prodotte dai mortali non fossero altro che pallide imitazioni delle vere forme immutabili ad-mirate dal demiurgos, per Aristotele non si sarebbe più potuto far riferimento ad un modello formale perfetto ed immutabile in se stesso, ma esclusivamente a forme che di volta in volta si produrrebbero rimanendo comunque contingenti, ossia legate al destino cui le consegna l immarcescibile potenza della materia quella che, sola, rimane sempre identica a sé, rivelandosi così unica vera e propria realtà immutabile necessariamente implicata dalla stessa evidenza del divenire. In Aristotele, ormai, le forme platoniche sono eterne solo nell orizzonte categoriale istituito da una intellegibilità che nulla ha a che fare con l ontologicamente sussistente. Certo, Aristotele concepisce anche la sostanza sinolo di materia e forma come espressione di una stabile sussistenza. Ma, neppure essa è in verità qualcosa di assolutamente primo ; anch essa rinvia infatti ad un doppio presupposto: da un lato alla materia prima e dall altro a quella forma pura costituita dal Motore Immobile. E le forme di questo mondo nulla hanno a che fare, perlomeno dal punto di vista formale, con il Motore Immobile che tutto muove senza muoversi, appunto. L immutabile con cui l orizzonte dell umana esperienza ha sempre e direttamente a che fare è solo quello materiale. Nel nostro mondo, infatti, solo la materia entra in gioco in ogni forma di produzione mai essendo dato nel medesimo mondo qualcosa come un movente non moventesi. Certo, ogni forma del fare è connessa, nell orizzonte dell umana esperienza, al bisogno di produrre forme sempre nuove volontà di forma l avrebbe definita alla fine del diciannovesimo secolo Nietzsche. Ma, prima di lui, l aveva definita così già Schopenhauer. Volontà di verità che si determina sempre e solamente come volontà di forma che ha a che fare con la materia solo nella misura in cui è comunque quest ultima a consentirle di ri-formare, sem-

263 Un gesto estremo. Il volto materiale del ni-ente 251 pre e di nuovo, l esistente. L uomo vuole forme; ma agisce sulla materia e agisce sulla materia per dar luogo a sempre nuove predicazioni formali. Questo, affinché l esistente possa essere sempre nuovamente e diversamente determinato. Da ciò i problemi relativi alle diverse forme di techne e di poiesis. Da ciò le specifiche questioni messe in campo da quelle forme di produzione che siamo soliti definire artistiche. Quale, dunque, il valore della forma? Questa la domanda estetica per eccellenza. Quale il valore dell immagine artistica? Ché, per tutti noi l arte ha sempre e solamente a che fare con immagini. Quale, dunque, il valore di verità delle immagini artistiche? Insomma, in quale rapporto stanno le immagini dell arte con l Assoluto, ossia con una Verità che si sarebbe sempre più esplicitamente costituita come vera e propria negazione di ogni forma? Da ciò le straordinarie analisi di tanto Ottocento, sino alla precisa consapevolezza manifestata dai grandi protagonisti delle avanguardie artistiche novecentesche Tzara, Kandinsky, Maleviè, Beuys : secondo cui, appunto, la verità non concerne mai la forma. L assoluto verrà rilevato da Kandinsky non ha a che fare con la forma. Da ciò i diversi percorsi che l arte della prima metà del Novecento avrebbe intrapreso, declinando in modi peraltro tra loro molto diversi la medesima questione del rapporto tra forma e Verità (o Assoluto). Da ciò le soluzioni di volta in volta date a tale problema: risolventisi tutte in una forma che dice sic et simpliciter la propria negazione. Ma, insieme a tali vie di ricerca, viene maturando, soprattutto nella seconda metà del Novecento, un altro itinerario coincidente con la lucida consapevolezza del fatto che, davvero, un altra chance (antitetica a quella sinora perseguita) è ancora possibile. E proprio a partire dalle medesime origini platonico-aristoteliche. Ché, sempre nell orizzonte disegnato da questi grandi topoi dell antichità, è possibile prendere coscienza del fatto che a farsi realmente sperimentabile è ormai una strada di segno completamente rovesciato rispetto a quella perseguita da coloro i quali si erano sostanzialmente impegnati in un senso tutto ancora esclusivamente formale. In essa si sarebbe venuta ad esprimere, dunque, non tanto la volontà di sempre nuove forme (quelle che comunque la physis continua di fatto a produrre), quanto un vero e proprio processo a ritroso, grazie a cui si sarebbe dimostrata possibile una vera e pro-

264 252 M. DONÀ pria ricongiunzione all incorruttibile ed ingenerabile materialità (la medesima che in ogni forma si fa di fatto ek-sistente). Nulla a che fare, però, con una produzione per sottrazione. Piuttosto, un produrre che non è un produrre; o meglio, che nega il proprio stesso essere produttivo. Dunque, non una produzione di forme che negherebbero caparbiamente il proprio essere formale, quanto piuttosto un gesto produttore capace di negare il suo stesso essere produttivo. La negazione così costituentesi non è dunque quella caratterizzante le immagini in quanto immagini-negative, ma piuttosto quella intrinseca all atto produttivo stesso, quello che, prima di produrre un immagine negativa, vuole dire la semplice negatività del proprio stesso costituirsi. Dove, cioè, non si dà sottrazione quale effetto di un gesto realmente produttivo, come suo risultato comunque positivo ; insomma come ciò che qualificherebbe questa o quella determinata immagine ma piuttosto come un negarsi, da parte di quel gesto, alla stessa possibilità di costituirsi come vera e propria produzione. Un gesto che vuole insomma tornare all istante del suo stesso costituirsi; un gesto il cui andare avanti sia un vero e proprio tornare indietro (per dirla con le parole usate da Hegel per definire la quintessenza del movimento dialettico). Qui l artista intende cogliere la condizione stessa di ogni produzione; sapendo peraltro che il suo fare sarà comunque destinato a risolversi in una forma, ma cercando disperatamente di attingere il senso ultimo del suo stesso produrre e dandogli proprio per ciò una forma. Dove, la forma è cioè vera e propria rappresentazione di una materia che non solo può essere rappresentata, ma deve esserlo almeno nella misura in cui si voglia davvero definire la verità di ogni forma. Quella verità che già da tempo era stata riconosciuta estranea al limite costitutivo proprio di ogni forma in quanto tale, ma che mai nessuno aveva avuto il coraggio di esprimere nella sua natura originariamente paradossale. Ché, anche nelle forme più estreme dell arte, derivanti dalle avanguardie primo-novecentesche (si pensi agli autori già citati ma si potrebbero aggiungere all elenco anche Klee, Boccioni, Magritte e molti altri), si rimane sempre e comunque all interno della convinzione secondo cui la condizione originaria di ogni forma (la Verità che dice il mistero intrinsecamente custodito da ogni forma in quanto

265 Un gesto estremo. Il volto materiale del ni-ente 253 tale) non può e non deve trovare una forma. Potendo solamente darsi nella de-strutturazione più radicale dell ordine formale a noi comunque familiare. Ma il fatto è che, oltre all immagine-negata, l arte può (e deve ) dar luogo ad immagini che si propongano di dare un volto (costituendo per ciò una vera e propria immagine) alla negazione di ogni immagine. Un proposito positivo, dunque. Che non sottrae l immagine a se stessa, e dunque alla sua stessa necessità; ma che la ipostatizza al punto tale da farla valere come esplicita rappresentazione della condizione di possibilità di ogni produzione di immagini. Qui, cioè, l immagine, ossia la forma, si pone esplicitamente come immagine di quella materialità che aveva sino ad allora costretto proprio in base alla sua natura e al suo ruolo decisivo ogni vera immagine a denunciare la propria negazione attraverso il suo semplice e tragico negarsi, sino a farsi pura azione ossia a consegnarsi (come in Beuys) ad un flusso irrefrenabile originariamente destituente ogni suo peraltro ineludibile precipitato. Qui l immagine e la forma non si limitano a negarsi, dunque ma si affermano con la massima autorità. Si fanno immagini della materia originaria; dicono insomma un altra immagine. Sperimentano una forma assolutamente inedita dell immagine: quella che nessun altra forma potrebbe mai testimoniare, se non attraverso la propria progressiva autocancellazione. Qui l artista si propone di tentare un gesto estremo, quello che gli dovrebbe consentire di superare il possibile e l immaginabile e che proprio per ciò denuncia l originarietà del proprio essere rappresentativo. Ché, vera e propria rappresentazione v è solo lì dove la rappresentazione si dice appunto come rappresentazione ; dicendo per ciò stesso il suo esser altra dal rappresentato. Da un rappresentato che qui vale appunto come originaria negazione della forma. L atto produttivo si propone cioè di dar forma, di rappresentare la pura materialità. Di trovare cioè la forma più adeguata per dire ciò che non-ha-alcuna-forma. Di trovare delle forme che riescano davvero a significare ciò che nessuna forma aveva mai voluto né potuto mostrare positivamente; appunto perché non è un positivo, ma dice piuttosto la pura ed indeterminatissima positività, quella che di tutto viene appunto predicata là dove di qualcosa si dice appunto che è.

266 254 M. DONÀ D altro canto, proprio questo (come abbiamo già visto) vale come la materia : l essere di tutto ciò che è. Perciò, solo questa è un arte che può dirsi ad-tesa all essere; a ciò che di ogni essente costituisce appunto il semplice esistere. Al di là della faciloneria con cui da un po di tempo a questa parte si assegna alle più diverse forme d arte una valenza ontologica; quasi che l opera d arte in quanto tale potesse dirsi voce dell essere secondo un heideggerismo un po troppo a buon mercato (secondo il quale tanto le scarpe di Van Gogh quanto l orinatoio di Duchamp sarebbero testimonianze della verità dell essere), che continua ad offrire buone ragioni al polemismo anti-metafisico di tanti pensatori contemporanei. SULLA MATERIA E IL SUO NI-ENTE Insomma, là dove ri-guarda il suo possest, e si propone di rappresentarlo, l arte è costretta a tentare l intentato; o meglio, a tentare un altro senso del porre-in-immagine. Qui l arte dà forma guardando alla possibilità stessa dell inizio del primo passo, del gesto iniziale, di quello che istituisce l orizzonte stesso delle forme dell origine stessa del kosmos. L arte flette qui il proprio gesto su se stessa ri-flette il senso stesso del proprio dare inizio (icona perfetta dell eterno inizio sempre perfettamente ri-costituentesi). L arte si guarda e si rappresenta portando a determinazione ciò che, solo, merita di essere in qualche modo rappresentato. Se è vero che ogni forma è comunque una rappresentazione dell essere che in essa viene appunto a determinarsi, allora il senso dell arte come rappresentazione trova solo qui una vera e propria ragione. Che non finisca cioè per farla valere come rappresentazione di altre rappresentazioni come forma che rappresenta altre forme (quelle vere, quelle eterne, quelle presenti nella mente dell artista i progetti e le intenzioni, le sensazioni o le affezioni dell anima), o una qualche determinazione dell esistente. Tutto è rappresentazione Schopenhauer docet. Certo, perché tutto dice l essere negandolo ossia, determinando la sua perfetta indeterminatezza. Perché, dunque, rappresentare le forme (ognuna già in se stessa valevole come rappresentazione del proprio essere )? Aveva ragione Kandinsky l Assoluto, l essere non hanno a che fare con la forma. Nella forma essi si negano. Perciò la forma

267 Un gesto estremo. Il volto materiale del ni-ente 255 che voglia dirli in senso proprio deve negare se stessa nei diversi modi in cui ciò è possibile. Perciò l arte delle Avanguardie aveva tentato in diversi modi di dire ciò che ogni forma già di per sé dice; solo, senza pretendere di parlarne direttamente, di significarlo in quanto tale, ma piuttosto lavorando per sottrazione, sì da liberare le forme dalla loro pretesa esplicativa, e mostrando il nulla di determinato nell atto stesso di un lavorìo tutto rivolto alla destituzione del valore rappresentativo proprio di ogni forma determinata. L arte astratta, il surrealismo, ma anche l attivismo di tanto Novecento, hanno lavorato tutti insieme al fine di ricondurre la forma a quella che Aristotele avrebbe definito privazione. Hanno provato tutti insieme a privare, a sottrarre, a negare la determinatezza del positivo di fatto esistente. Pervenendo così, però, non alla materia necessariamente incorruttibile e ingenerabile, ma a quella materia che Aristotele aveva definito appunto privazione. Portando alla luce la forma nella sua privazione nuda cosa, esibita nella sua perfetta insensatezza. Mostrando cose, determinatezze private di tutto di tutto ciò che normalmente le rende appetibili, desiderabili, utilizzabili, possedibili. Laddove, ad essere chiamata in causa, nel nostro caso, ossia in relazione all altra possibilità cui ci stiamo qui riferendo, è invece la materia come essere, come positività come potenza di tutti i determinati. Come ciò da cui, solamente, essi sono resi possibili. E non come ciò da cui essi verrebbero al contrario resi in-efficaci. Come quel ni-ente che in ogni ente dice appunto la sua originaria condizione di possibilità. Un ni -ente ricchissimo, infinitamente ricco, quindi che proprio nell ente determinato casomai si limita... limitandosi appunto nell esistente univocamente determinato. Quello che ci si offre come objectum. Come oggetto di un fare che, solo grazie alla straordinarietà dell artistico, può davvero sfuggire al destino che tutto peraltro sembra costringere alla riproposizione della medesima povertà, della medesima univocità, della medesima determinatezza (quella che ogni rappresentazione in quanto tale finisce per perpetuare). Questa, l arte che mette in gioco l infinità delle determinazioni custodita appunto da un ni-ente che non è mera negazione del determinato (che non dice cioè il nulla-della-determinazione). Questa, l arte frequentata da chi osa il gesto estremo: quello che dovrebbe realizzare la rappresentazione formale del prima di

268 256 M. DONÀ ogni inizio della materia incorruttibile e ingenerabile che sempre permane. L arte in rapporto alla quale il dare forma alla materia non comporta né un allontanamento dalla pura materialità, né il suo ritrovamento nella de-privazione delle forme, ossia in una sorta di sottrazione della loro positiva determinatezza. Ciò significa infatti dire il negativo attraverso una radicale affermazione, da cui quello stesso riesca ad essere aporeticamente rappresentato. Rappresentato nella consapevolezza che tale riduzione del negativo al positivo non può risolversi nella mera proposizione di forme analoghe a quelle già da sempre esistenti; ma deve piuttosto dar luogo ad una vera e propria altra determinazione. Una determinazione che non-sia quella del semplicemente determinato. Insomma, un altro modo del positivamente determinato. Un ni-ente capace di distinguersi positivamente, determinatamente, dall ente. Un ni-ente cui l ente possa guardare trovandovi la durezza di una forma in cui il negativo non risulti negato, bensì radicalmente affermato. Come nei buchi di Fontana in relazione ai quali l artista stesso diceva: Non distruggo, creo. Una vera e propria volontà affermativa muove dunque tutta una serie di artisti che tendono a costruire una nuova determinazione dello spazio ossia, della chora platonica. Quasi a voler di-mostrare che non basta negare il positivo determinato (da cui le diverse forme di sottrazione, di privazione, di destituzione della forma); bisogna ora decidersi ad affermare il negativo, a dare un volto al prima di ogni volto, al suo presupposto essenzializzando la forma sino all estrema determinazione di un suo solo elemento, sino alla messa in forma di un singolo elemento determinante. Conducendola al paradosso che la fa essere come materia. Insomma, sino alla definizione di una materia che sappia dirsi nella forma grazie a determinanti minime, tendenti al semplicissimo : tagli, monocromie, stesure elementari, segni assolutamente in-esistenti nella realtà di quell esistere rappresentativo che tutti ci riguarda. Forme di un ni-ente che l ente nella sua totalità accoglie nel proprio orizzonte d appartenenza, quali cifre di una inesistenza che, proprio in quanto rappresentata, ci costringe a mettere tra parentesi la stessa improbabile dualità di determinato ed indeterminato; perché è la sua stessa alterità la sua alterità rispetto al determinato a rendere l indeterminato sempre e comunque già determinato. Perciò determinarlo non solo è possibile, ma necessario, per rendere ragione del suo vero.

269 Un gesto estremo. Il volto materiale del ni-ente 257 RIASSUNTO In questo saggio abbiamo cercato di mostrare come il Novecento fosse destinato a far emergere un inedito senso del fare; praticato e sperimentato da alcuni artisti in particolare. Un fare volto non tanto alla produzione di un oggetto, e soprattutto di una forma, quanto piuttosto alla produzione di quello che, in quanto inizio stesso di ogni processo, dice la pura materialità. Dare un volto alla negazione della forma: questo, in sostanza, il reale proposito di un modo di intendere l arte che avrebbe saputo frequentare un senso inedito della negazione e del non-essere. Facendosi portatrice di un gesto davvero estremo, volto a far esistere, in senso proprio, l assolutamente inesistente. ABSTRACT This essay is aimed at showing how the Twentieth Century was destined to highlight an original way of the artistic doing practiced and experimented by the artists. This way of acting was not directed to the production of an object or a form, but it was directed to the production of the pure and sheer materiality. The real purpose of this new modality of understanding Art was to shape the denial of Form thanks to an innovative meaning given to the negation and not-being. By doing this, it laid down the conditions of an extreme gesture intended to bring into existence the absolutely non-existent.

270 258 DT 118, 2 (2015), pp DEL NULLA O DELL ININTELLIGIBILE CARLO SCILIRONI * PREMESSA Il titolo di questo intervento esprime in forma secca la tesi che si intende sostenere. Essa verrà svolta mercé cinque momenti: 1) il pensare trascende il dire; 2) il nulla non è la negazione; 3) impensabilità del nulla: il nulla è l inintelligibile; 4) nulla e concetto limite; 5) nulla e finitezza. Due brevi considerazioni in via previa. La prima, in sé pleonastica ma non forse del tutto inutile onde evitare equivoci, è la seguente: il termine nulla, come ogni termine, può essere assunto in accezioni semantiche diverse 1 ; in questo intervento lo si intende nell accezione più radicale, quella che la tradizione ha indicato come il nihil absolutum. La tesi che si viene sostenendo, che il nulla è l inintelligibile, va dunque riferita solo al nulla come nihil absolutum, non ad altre, non meno legittime, accezioni. La seconda considerazione previa si collega alla scelta di trattare del nulla come nihil absolutum, e in certo qual modo ne rende ragione. Può essere espressa nominando esplicitamente colui che * Professore associato di Ermeneutica filosofica presso l Università degli Studi di Padova. 1 Lo spettro più completo è tuttora quello che si può desumere dall ampia e fondamentale ricerca di G. KAHL-FURTHMANN, Das Problem des Nicht. Kritisch-Historische und Systematische Untersuchungen, Verlag Anton Hain, Meisenheim am Glan (I ediz. 1934). Cf. anche S. GIVONE, Storia del nulla, Laterza, Roma-Bari 1995.

271 Del nulla o dell inintelligibile 259 sembra essere il «convitato di pietra» di questi incontri sul nulla: Emanuele Severino. Il riferimento è al quarto capitolo de La struttura originaria e alle sue molteplici riprese e integrazioni nella successiva produzione severiniana, fino al recente volume adelphiano Intorno al senso del nulla 2. Molti se ne sono occupati: da Luigi Tarca a Gennaro Sasso, da Mauro Visentin a Leonardo Messinese, da Massimo Donà a Marco Simionato, ad altri ancora. Ebbene, con la massima chiarezza si prendono qui le distanze dalle molte e varie critiche rivolte a Severino, non però perché si ritenga inattaccabile la sua posizione, ma perché quelle critiche sono tutte giocate sulla «scacchiera» severiniana, e se si gioca su quella scacchiera, è Severino, per dirla con Benjamin, il «nano gobbo» sotto il tavolo dalla mossa invincibile. Se ne comprendono, pertanto, le «rampogne», un po risentite e un po divertite: «Dicono che è di grande rilievo il mio discorso, ma poi vi troverebbero una marea di errori, che loro risolverebbero facilmente!» 3. Pretendere di trovare qua e là un incrinatura che dissolva l impianto de La struttura originaria sul nulla, pare impresa francamente alquanto improbabile 4 ; non per questo, tuttavia, ci si allinea all analisi e alla soluzione di Severino come peraltro il titolo di questo intervento dice in maniera inequivocabile, ma si tenta un approccio al problema del nulla su un altra «scacchiera», non su quella severiniana, e cioè senza muovere dalla semantizzazione severiniana dell essere e dall opposizione di positivo e negativo. Si può osservare a margine che in siffatto approccio non si consente con l identificazione della «scacchiera» severiniana con la scacchiera greca: la Grecità è altro e oltre Severino. 2 Cf. E. SEVERINO, La struttura originaria, La Scuola Editrice, Brescia 1958, cap. IV, pp (Nuova edizione ampliata, Adelphi, Milano 1981, cap. IV, pp ); ID., Intorno al senso del nulla, Adelphi, Milano Il passo, citato liberamente, nel testo di Severino (Discussioni intorno al senso della verità, Edizioni ETS, Pisa 2009, p. 76) è al singolare e riferito a Massimo Donà, ma va da sé che esso sia attribuibile per Severino a molti altri suoi critici. 4 Per la considerazione analitica di alcune critiche (Tarca, Visentin e Sasso) ci si permette di rinviare a C. SCILIRONI, Il nulla nel pensiero contemporaneo, Cleup, Padova 2000, pp

272 260 C. SCILIRONI 1. IL PENSARE TRASCENDE IL DIRE Il pensare trascende il dire, ovvero, per il tema in oggetto, dire il nulla non è pensarlo. La differenza tra pensare e linguaggio, tra intendere e ciò attraverso cui si intende, è la condizione che regge ogni riflessione filosofica fondamentale 5. Anche per il problema del nulla è ad essa che occorre riportarsi. La tesi alla quale si lavora e che verrà in chiaro nel seguito è, pertanto, questa: il nulla non si colloca a livello del pensare (= non si può pensare il nulla, perché il nulla è il non-pensare, e non si può pensare il non-pensare, l inintelligibile, anche se si può credere di pensarlo): il nulla si colloca a livello del dire, del linguaggio, secondo significati che andranno determinati. Il punto da considerare, in prima battuta, è dunque la trascendenza del pensare rispetto al dire. Si rifletta: il pensare si attua necessariamente mercé una forma, e questa forma è la forma proposizionale, che è affermazione e negazione. Ora, ecco l omne punctum ciò che si intende affermando e negando è irriducibile all affermazione e alla negazione, le trascende sempre: è la loro intenzione. Il pensare, l intendere, in senso teoretico, è pura intelligibilità, è concetto, da non confondersi in alcun modo con l elementare accezione psicologica del mero aver presente, con l accezione, cioè, che vale indifferentemente per qualsiasi pensato, per la quale si può allo stesso modo dire «penso la casa», «penso la gondola», «penso Ca Foscari», così come si può dire «penso l ippogrifo», «penso il nulla», «penso la contraddizione», «penso l essere nella sua immediatezza», «penso Dio». Non si tratta di negare che l accezione psicologica del pensare rivesta di sé ogni cosa, si tratta di non confondere siffatta dimensione gnoseologistica e ateoretica con l intelligibilità del reale, con il pensato nella sua intelligibilità, con il concetto. Allora, si può ben dire il nulla anche ora lo si sta dicendo, lo si sta formulando, ma il fatto che lo si dica non attesta in alcun 5 Solo per essa la filosofia prima non può essere la «fisica» e non può risolversi in «positivismo». Di contro, ogni pretesa riduzione del pensare al linguaggio è «fisica» e l esito è il positivismo.

273 Del nulla o dell inintelligibile 261 modo né che lo si stia pensando né che lo si possa pensare, salvo confondere l intelligibilità del pensato con la sua formulazione. Il senso teoretico del pensare è quello che risuona nel fr. 3 di Parmenide: tò gàr autò noeîn estín te kaì eînai, frammento che esprime, lontano da ogni caduta gnoseologistica, l autentica consapevolezza dell identità di pensare ed essere, ovvero la consapevolezza dell impossibilità che del «manifestarsi» dell essere cioè, appunto, del pensare non si predichi l essere ma si predichi il nulla. Per l identità di pensare ed essere, o, che è il medesimo, per l intrascendibilità del pensiero, non può darsi alcun andare all essere al di là del pensiero, come crede ingenuamente il senso comune e con esso l attuale cosiddetto «nuovo realismo». Ciò che si dà è il venir dell essere al pensiero. Ossia la ékstasis dell essere che esce dalla léthe e viene nella «presenza» (alétheia). E ci viene non direttamente, come essere, ma sempre e solo come ente, perché se ci venisse come essere, l essere si convertirebbe in un ente, lasciando con ciò stesso gli altri enti fuori dall essere, ovvero privi di ciò per cui essi sono, sì che simpliciter non sarebbero 6. Ma venire alla presenza indirettamente significa una duplice impossibilità: l impossibilità che l essere venga detto altrimenti che come un ente, e l impossibilità che come un ente venga inteso. Ecco la distinzione di poc anzi: altro è il dire, altro l intendere (il pensare). Se si vuol dire l essere e anche ora lo si sta dicendo, lo si sta formulando, non lo si può dire che come un ente; e tuttavia, se è l essere che si vuol dire, non lo si può intendere come un ente. Ridurre l intendere al dire, è ridurre l essere all ente, la filosofia alla scienza, la metafisica alla fisica. È il «naturalismo» di sempre; è l ontoteologia. Proprio perché, quando si dice «l essere è...», l essere viene necessariamente reso qualcosa (ente), qualcosa di cui si dice, altra possibilità non resta che scindere l intendere dal dire e non pretendere di dire l essere direttamente. 6 Qui si marca la differenza da Severino: (a) contra la pretesa immediatezza dell essere, e (b) contra la pretesa di formulare direttamente l essere.

274 262 C. SCILIRONI 2. IL NULLA NON È LA NEGAZIONE Fissata la trascendenza del pensare rispetto al dire, l altro passo indispensabile alla costruzione della tesi che si va perseguendo è la differenza tra il nulla e la negazione. Differenza essenziale, si precisa, ché, se la negazione fosse il nulla, non sarebbe possibile negare, e, di converso, se il nulla fosse la negazione, non sarebbe il nulla. Si è già rammentato che il pensare si attua mercé la forma proposizionale, attraverso l affermazione e la negazione. Ora si chiede: la negazione è il nulla? Si osservi che domandare se la negazione sia il nulla, è quanto domandare se l affermazione sia l essere, e dunque se l opposizione di essere e nulla sia l originario. È importante non perdere di vista che nella domanda sul nulla e la negazione ne va dell opposizione di positivo e negativo come struttura originaria. Ciò che ci si propone di mostrare è precisamente che l opposizione non costituisce in alcun modo la struttura originaria: è la struttura del «dire», che non è l originario; è la forma del pensare, non la sua intelligibilità; è la modalità attuativa dell intendere, non l originaria struttura di esso. Il punto di partenza per la riflessione non può che essere la forma proposizionale, l affermare e il negare, ma con un avvertenza che viene dalle considerazioni svolte sopra, l avvertenza che non è il dire l intelligibilità del pensare, ma il pensare (l intendere) l intelligibilità del dire. Non sono l affermare e il negare, cioè la forma proposizionale, l intelligibilità del pensare, ma è il pensare (l intendere) l intelligibilità dell affermazione e della negazione 7. Orbene, per poter rispondere alla questione se la negazione sia il nulla, si domanda: che cos è la negazione? 8 Non si chiede come la negazione funzioni, come operi, a quali regole obbedisca, ma che cos è; si chiede l intelligibilità della negazione, cui nessuna descrizione funzionale o operativa, per raffinata e precisa che sia, può rispondere. 7 In questo «rovesciamento» sta il contra più vigoroso rispetto all accattivante e rassicurante riduzionismo di certa filosofia del linguaggio e di certa logica. 8 Per le riflessioni che seguono cf. soprattutto G. R. BACCHIN, Nota sulla negazione, in «Rivista di teoretica» 2 (1986), pp

275 Del nulla o dell inintelligibile 263 Riguardata per la modalità, la negazione si presenta secondo la forma proposizionale. Non però come il disporre di una proposizione, bensì, sempre, come il disporre di due proposizioni rispettivamente «x è» e «x non è», ciascuna delle quali è negazione dell altra. La comparsa linguistica del «non» in una proposizione sola non ha alcun rilievo, giacché ciascuna proposizione toglie l altra, ciascuna, cioè, è il «non» dell altra. Riguardata dunque per la forma, la negazione è l opposizione tra proposizioni. Riconoscere questo è riconoscere che ognuna delle due proposizioni è tanto affermazione quanto negazione: ognuna pone se stessa e toglie l altra, ognuna afferma e nega, ognuna è negante e negata. Ma ed è il punto essenziale se l opposizione c è, significa che in realtà nessuna delle due proposizioni riesce ad essere veramente negante, perché se ci riuscisse non ci sarebbe più l opposizione. L opposizione effettiva, infatti, non è quella di una proposizione all altra proposizione, ma quella di una proposizione a che l altra si ponga. Ecco allora il punto: per il dire, che è proposizionale, la negazione è opposizione tra proposizioni poste; per l intendere (per il pensare) la negazione è opposizione a che le proposizioni opposte si costituiscano. In altri termini, per il linguaggio per il dire, per la forma del pensare ogni posizione («x è») è negazione della sua negazione (negazione di «x non è»); per il pensare (per l intendere) la posizione «x è» non si oppone affatto alla posizione «x non è», perché il suo esser posizione è già il non essere a che l opposizione sia. Pertanto, per il dire (per il linguaggio ma solo per esso, solo per la forma del pensare) l opposizione è «originaria», nel senso che non può venir sostituita; per il pensare (per l intendere), invece, l opposizione non è affatto l originario, perché l originario è il non porsi dell opposto. Ne consegue che quando si parla di «opposizione originaria» (di originaria opposizione di positivo e negativo), delle due l una: o si resta a livello del dire e non si raggiunge il pensare, o si appiattisce il pensare sul dire. Il che significa, daccapo, confondere il pensare con la sua forma: significa confondere l insostituibilità della forma proposizionale, ossia ciò che dal dire è esigito (l esser negazione del proprio opposto), con l originarietà, con ciò che dal dire è inteso (il non-porsi dell opposto).

276 264 C. SCILIRONI La conseguenza del considerare «struttura originaria» la forma dell affermare e del negare, cioè il dire, e non ciò che il dire intende, è la pensabilità della contraddizione (la pensabilità del nulla), in luogo della sua mera dicibilità. Se si resta alla forma proposizionale (al dire) e si conclude che ogni proposizione è negazione della sua negazione lo «è» è negazione del «non è», la verità è negazione della negazione della verità, ecc., allora non si può non concludere che l incontraddittorio è negazione del contraddittorio, il quale, proprio per poter essere negato, dev essere e dev essere pensabile, e parimenti non si può non concludere che l essere è negazione del non-essere, il quale pure, di nuovo, per poter essere negato, dev essere e dev essere pensabile. Col risultato di negare l identità di pensiero ed essere ed eleggere la contraddizione (l inintelligibile) a fondamento dell incontraddittorietà (l intelligibile). Ma tutto questo succede se, e solo se, si prende la forma del pensare, cioè la forma proposizionale, il dire, come struttura originaria, e non la si lascia essere ciò che essa è, mera forma che chiede intelligibilità. Presi per sé, assolutizzati, fatti diventare «struttura originaria», l «è» e il «non è», l affermare e il negare, non sono intelligibili, giacché risultano essere lo stesso, in quanto ciascuno è la negazione dell altro, e quindi per la negazione non sono «altri» affatto. Ma per il pensare, per ciò che con l affermare e il negare si intende, per l intelligibilità, lo «è» non è affatto identico al «non è», a ciò che per la forma non può non essere, ma è l indicazione della non-posizione del suo opposto. Questa l intelligibilità della negazione che vede, al di là dell opposizione nella quale per la forma non può non risolversi, l originaria identità di essere e pensare, ovvero l incontraddittorietà dell essere che è impossibilità e impensabilità della contraddizione. 3. IMPENSABILITÀ DEL NULLA: IL NULLA È L ININTELLIGIBILE Con i due paragrafi precedenti la trascendenza del pensare rispetto al dire e l intelligibilità della negazione, si è già guada-

277 Del nulla o dell inintelligibile 265 gnata anche la tesi dell inintelligibilità del nulla la tesi che il nulla è propriamente impensabile, non appare e non può apparire, ciò che appare è il «limite». Ma il tutto va ora debitamente esplicitato. Si ponga mente di nuovo a quanto si è appena sopra considerato: se si confonde l ineliminabilità dell opposizione con la sua originarietà, diviene indispensabile dire di pensare la contraddizione e il nulla, col carico di contraddittorietà che ciò comporta. Ma, appunto, se si confonde l ineliminabilità dell opposizione con la sua originarietà, cioè se non si tiene fermo che il pensare trascende il dire, che l intendere trascende la forma in cui si dà. I due punti da tener fermi sono questi: (a) si deve dire di pensare il nulla per poter dire di pensare l essere; (b) si può pretendere di pensare il nulla solo barattando la forma del dire (il linguaggio) per il pensare (per l intendere, per l intelligere). E così, in un certo senso, la partita è già chiusa su tutto il fronte: se per pensare l essere debbo pensare il nulla, poiché il nulla non è pensabile non è!, non posso pensare l essere. È la pretesa di formulare direttamente l essere che costruisce l aporia del nulla, che impone di pensare il nulla: l essere del nulla! Ma una volta consapevoli di quanto visto nel primo paragrafo, che la formulazione diretta dell essere, cioè la posizione dell essere nella sua immediatezza, è una mera «cosalizzazione» dell essere, una volta avvertiti di questo, si comprende che anche il nulla implicato in quella formulazione è una «cosalizzazione», è una «sostantivizzazione». Se si fa essere il nulla per poter dire l essere, il problema è la pretesa di dire l essere: questa è l aporia fondamentale. Nella stretta tra indicibilità (diretta) dell essere o cosalità del nulla, resta l indicibilità dell essere, perché il nulla, proprio perché nulla, non può essere qualcosa. La dicibilità diretta, l intenzionalità immediata, secondo che s è sopra indicato, è propria solo degli enti; l essere vi si sottrae, pena la riduzione ad ente. E tuttavia, proprio perché gli enti sono in virtù dell essere, l essere, non intenzionabile direttamente, è pur sempre detto indirettamente nell insufficienza degli enti a se stessi. Affermazione analitica è quella degli enti, dialettica quella dell essere. Il pensiero è sempre pensiero di qualcosa. Il pensiero di nulla è non-pensiero: pensare il nulla è non-pensare. Ma se pensare il nul-

278 266 C. SCILIRONI la è non pensare, l impossibilità di pensare il nulla 9 è l impossibilità di non pensare, cioè la necessità di pensare l essere 10. Il nulla sarebbe pensabile solo se il pensiero non fosse convertibile nell essere, solo se il pensiero non fosse necessariamente pensiero di qualcosa; ma un pensiero «di nulla» o riduce il nulla a qualcosa (è appunto il dire il nulla), o si annulla come pensiero (è l impossibilità di pensare il nulla). Fare del nulla l opposto dell essere, dall essere negato, non è pensarlo come nulla, è pensarlo come ciò attraverso cui nel dire l essere si dà, come una funzione del dire. Ma il nulla, proprio perché nulla, non può essere neppure tale funzione, non può essere neppure l opposto dell essere dall essere negato: non può essere nessuna delle forme «pensabili» del nulla, perché lo si ripete il pensiero è sempre pensiero di qualcosa, e perciò il pensiero di nulla è non-pensiero, è il venir meno del pensiero. Pretendere di pensare il nulla è pretendere l impossibile, è pretendere la contraddizione in atto, il contraddirsi in cui l atto del porre è lo stesso atto del togliere. Ma questo è l impossibile, è l impensabile. Per poter dire la contraddizione e la si dice, occorre che l atto del porre non sia l atto del togliere: se fosse lo stesso atto, il dire non sarebbe, non si costituirebbe. La contraddizione in atto la contraddizione simpliciter non può essere e non può apparire: è il nulla. Le contraddizioni che si danno e appaiono sono contraddizioni incontraddittorie, sono il darsi incontraddittorio di tesi opposte, confliggenti e incompossibili: in tanto si danno e appaiono in quanto non sono contraddizioni in atto. Se lo fossero, non sarebbero e non potrebbero apparire: sarebbero nulla. Poiché il nulla (la contraddizione in atto) è impensabile, è del pari impensabile l essere come opposto al nulla. L impensabilità del nulla scardina la semantizzazione dell essere come opposto al nulla, giacché, se il nulla non è, opporsi al nulla è simpliciter non opporsi. È per il dire, cioè per la mera forma attuativa del pensare, che l essere si pone come l opposto del nulla, ma per il pensare (per l intelligibilità del dire), giacché il nulla non è, quell opposizione altro non può significare se non che all essere nulla può opporsi. 9 Cf. PARMENIDE, fr. 2, vv Cf. PARMENIDE, fr. 3.

279 Del nulla o dell inintelligibile 267 Impossibile e impensabile, il nulla è l inintelligibile: è la negazione simpliciter del concetto. Il pensiero non lo può pensare, vi intende però irrefutabilmente il proprio limite. Ossia: il pensiero non pensa mai il nulla, ma coglie sempre e solo se stesso nel proprio limite. 4. NULLA E CONCETTO LIMITE Fin qui si è venuti considerando che l essere è l intelligibile e il nulla l inintelligibile. Del nulla s è affermato che è la negazione del concetto, dell essere che non può venir formulato in un concetto, cioè che non se ne può dare formulazione immediata e diretta, ma solo dialettica. Da ultimo si è precisato che il pensiero non pensa il nulla, ma intende il proprio limite. Ora, posto che l inintelligibilità del nulla impedisce di considerare originaria l opposizione di positivo e negativo e con essa la semantizzazione dell essere come negazione del nulla, posto questo, resta il problema di chiarire, da un lato, che cosa si intenda con la parola essere allorché si pensa la differenza di essere ed ente, e, dall altro, che cosa venga effettivamente pensato con la parola nulla nella differenza di essere e nulla, se il nulla, come s è visto, è l inintelligibile. Quanto al primo versante del problema, si è già mostrato (par. 1) perché dell essere non possa darsi formulazione analitica ma solo dialettica, perché l essere cioè non possa venire alla presenza direttamente; ora, ad integrazione, ci si chiede: se l essere propriamente (cioè in maniera analitica, diretta e immediata) non può venir pensato, che cosa si pensa con la differenza di essere ed ente? Ebbene, ciò che viene propriamente pensato nella differenza di essere ed ente è la finitezza dell ente. L essere, impensabile propriamente, è un concetto-limite che intende sì la totalità inoggettivabile, l intero, il trascendentale, ma che non tradisce ciò che intende solo non assumendo forma direttamente (non divenendo propriamente un «pensato»), ma risolvendosi in funzione «finitizzatrice» dell ente. Il significato «proprio» dell essere è dunque la finitezza dell ente.

280 268 C. SCILIRONI Venendo all altro versante del problema, va precisato che non si tratta di reintrodurre surrettiziamente il nulla dopo averlo rigorosamente espunto: si tratta di interrogarsi circa la forma oppositiva del pensare, ovvero di rendere ragione della modalità del linguaggio che all opposizione di essere e nulla non può sottrarsi. In tale opposizione con la parola nulla che cosa viene effettivamente pensato, se il nulla è impensabile? Che la pronuncia del nulla non ne attesti il pensiero in senso teoretico, cioè nel senso dell intelligibilità, è ormai fuori discussione, tuttavia quella inevitabile pronuncia, o, se si preferisce, quell insostituibile modalità oppositiva del linguaggio, che cosa indica? La risposta è già stata guadagnata più sopra (par. 3), laddove s è restituita l intelligibilità dell opposizione col significato che all essere nulla può opporsi. Ma fermo restando ciò, è possibile rendere ragione specificamente della parola nulla comparente nella forma del pensare? Vi è, cioè, un intelligibilità per così dire intrinseca alla forma del linguaggio, una volta che la si è posta sotto la luce dell intelligibilità del pensare? In questo senso, e solo in questo senso, si chiede che cosa venga effettivamente pensato con la parola nulla nella differenza di essere e nulla. Orbene, se l essere è il concetto limite che rende finito l ente, la parola nulla, comparente nella differenza di essere e nulla, può pure essa venir indicata come un concetto limite, come un concetto, cioè, che nulla ha di proprio ma è tutto risolto nella funzione che esercita, la funzione di rappresentare il modo in cui il pensiero pensa l essere, cioè negando la possibilità di negarlo. Il che significa che il nulla, che proprio perché nulla non può contrapporsi all essere (all essere nulla può opporsi), è l indicazione della via dialettica e non analitica della pensabilità dell essere. Preservando l essere dalla tematizzazione diretta, cioè dalla sua oggettivazione, il nulla ne garantisce la trascendentalità e ne impedisce ogni surrettizia assolutizzazione ed ogni preteso possesso. 5. NULLA E FINITEZZA L espressione «concetto limite» riferita al nulla consente un ultima riflessione. Essa, infatti, non dice solo la funzione in cui il nulla

281 Del nulla o dell inintelligibile 269 si risolve, non rappresenta cioè soltanto il modo in cui il pensiero pensa l essere, ma esprime del pari la finitezza del pensiero. Il concetto limite del nulla è anche sempre il nulla come limite del concetto, è anche sempre il pensiero che si coglie nel proprio limite. Come si è argomentato, il pensiero non pensa mai il nulla non lo può pensare, ma intende il proprio limite. Allo stesso modo dell essere che come concetto limite «finitizza» l ente, il nulla come concetto limite «finitizza» il pensiero. L ente non può mai venire assolutizzato, perché ogni tentativo di ridurre ad esso l essere appare frustrato; parimenti il pensiero non può venire assolutizzato, perché trova nel nulla (nella contraddizione) il proprio limite. Inintelligibilità del nulla e impensabilità (diretta) dell essere si tengono insieme: insieme attestano la «finitezza» e insieme mantengono lo spazio per l ulteriorità, lo spazio per la trascendenza. Se il nulla fosse pensabile, sarebbe pensabile direttamente anche l essere, e il domandare verrebbe meno. Allora la filosofia avrebbe realizzato il sogno hegeliano di transitare da «amore del sapere» a «vero sapere» 11. Ma nulla ed essere costituiscono i limiti invalicabili del pensiero, che pertanto resta «finito», «umano», pensiero sempre «secondo», pensiero sempre «al di qua» dell origine, e tuttavia, per così dire, «eco» sempre dell origine 12. La domanda di intelligibilità (tí esti), riferita al nulla come nihil absolutum, riconduce il sapere al saper il limite del pensiero, riconduce alla «scacchiera» socratica la vera «scacchiera greca». Il filosofare resta perciò «amore del sapere», resta «domanda», e non possesso dell essere. Il che non toglie che dialetticamente il domandare sia anche già l epékeina 13 cui tende. 11 Cf. G. W. F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, trad. it. di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1973, vol. I, p Cf. F. CHIEREGHIN, L eco della caverna, Il Poligrafo, Padova 2004, pp. 339 ss. 13 Cf. PLATONE, Resp. 509 b 9.

282 270 C. SCILIRONI RIASSUNTO Il contributo svolge la tesi dell inintelligibilità del nulla muovendo dalla duplice irriducibilità del pensare al dire (al linguaggio attraverso cui il pensare si attua), e del nulla alla negazione. Ne consegue l impossibilità di considerare struttura originaria l opposizione di essere e nulla. Tale opposizione è solo l insostituibile forma del dire (del linguaggio). ABSTRACT The paper develops the thesis concerning the unintelligibility of nothingness, starting from a double irreducibility: the first one is the irreducibility of thinking to language (the language through which the process of thinking is effected); the second one is that of nothingness to negation. What follows is the impossibility to consider the opposition between being and nothingness as originary structure. Such opposition is only the irreplaceable form of language.

283 271 DIVUS THOMAS Divus Thomas è uno dei periodici di filosofia e teologia più antichi d Italia. Ha rappresentato una miniera di documentazione, di riflessione, di approfondimento e di dibattiti filosofico-teologici di primaria importanza. Venne fondato nel 1879 a Piacenza da Alberto Barberis, presso il Collegio Alberoni, Centro di Studi della Congregazione delle Missioni. La rivista ebbe una vasta ed entusiasta accoglienza in molti paesi europei, come in Belgio, Francia, Spagna, Ungheria e Germania. Molti insigni studiosi spedirono alla redazione i loro articoli e il periodico ebbe notevole diffusione, fatto peraltro non comune per la stampa del nostro Paese. Il 4 agosto 1879, a pochi mesi dalla fondazione della rivista, Leone XIII pubblicò l enciclica Aeterni Patris, con la quale rilanciava con decisione lo studio delle opere e del pensiero di Tommaso d Aquino. In particolare, il papa muoveva dalla considerazione che molti errori del tempo derivavano dall adesione a visioni filosofiche false e fuorvianti e rilanciava la «mirabile armonia» ed il «misurato rigore» della sintesi di Tommaso d Aquino quale modello di filosofia in grado di garantire quell armonia tra fede e ragione che il razionalismo laico contemporaneo metteva fortemente in discussione. Nel corso dei decenni la pubblicazione ha avuto una periodicità molto variabile e per alcuni anni, anche a causa dei conflitti mondiali, è stata sospesa. Nel gennaio 1992 la proprietà di Divus Thomas è stata ceduta dal Collegio Alberoni alla Provincia di San Domenico in Italia, dei Frati Domenicani. La redazione del periodico è diventata così espressione dello Studio Filosofico Domenicano di Bologna, a cura delle Edizioni Studio Domenicano, con cadenza quadrimestrale. Dal 1992 al 2009 è stata diretta da Giuseppe Barzaghi e dal 2010 è diretta da Marco Salvioli. Dal 2000 ospita stabilmente i lavori del gruppo di ricerca Scuola di anagogia del Card. Giacomo Biffi. Sconti del 50% e dell 80% Per diffondere maggiormente il patrimonio culturale racchiuso nelle varie annate della rivista, le Edizioni Studio Domenicano vendono con lo sconto dell 80% la serie completa dal 1924 al 2014 e con lo sconto del 50% la serie completa dal 1992 al 2014, salvo esaurimento delle scorte. Serie completa , sconto 80% 4.838,00 967,60 Serie completa , sconto 50% 1.398,00 699,00 Per acquistare una delle due serie complete è sufficiente contattare Edizioni Studio Domenicano, Via dell Osservanza 72, Bologna BO - acquisti@esd-domenicani.it Tel Fax

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290 278 OPERE DI TOMMASO D AQUINO edite da ESD * Catena aurea, Glossa continua super Evangelia vol. 1, Matteo 1-12, introd., testo latino e trad. it., pp. 992; vol. 2, Matteo 13-28, testo latino e trad. it., pp. 1016; vol. 3, Marco, testo latino e trad. it., pp vol. 4, Luca 1-10, testo latino e trad. it., pp vol. 5, Luca 11-24, testo latino e trad. it., pp Commento agli Analitici Posteriori di Aristotele, vol. 1, pp Commento ai Libri di Boezio, Super Boetium De Trinitate, Expositio Libri Boetii De Ebdomadibus, introd. e trad. it., pp Commento ai Nomi Divini di Dionigi, Super Librum Dionysii de Divinis Nominibus vol. 1, Libri I-IV, introd., testo latino e trad. it., pp. 584; vol. 2, Libri V-XIII, testo latino e trad. it., comprende anche De ente et essentia, pp Commento al Corpus Paulinum, Expositio et lectura super Epistolas Pauli Apostoli vol. 1, Romani, introd., testo latino e trad. it., pp. 1024; vol. 2, 1 Corinzi, introd., testo latino e trad. it., pp. 928; vol. 3, 2 Corinzi, Galati, introd., testo latino e trad. it., pp. 928; vol. 4, Efesini, Filippesi, Colossesi, introd., testo latino e trad. it., pp. 760; vol. 5, Tessalonicesi, Timoteo, Tito, Filemone, introd., testo latino e trad. it., pp. 720; vol. 6, Ebrei, introd., testo latino e trad. it., pp Commento al Libro di Boezio De Ebdomadibus. L essere e la partecipazione, Expositio Libri Boetii De Ebdomadibus, introd., testo latino e trad. it., pp Commento al Libro di Giobbe, Expositio super Job ad litteram, introd., trad. it., pp Commento all Etica Nicomachea di Aristotele, Sententia Libri Ethicorum vol. 1, Libri I-V, introd. e trad. it., pp. 672; vol. 2, Libri VI-X, trad. it., pp Commento alla Fisica di Aristotele, Sententia super Physicorum vol. 1, Libri I-III, introd., testo latino e trad. it., pp. 640; vol. 2, Libri IV-VI, testo latino e trad. it., pp. 776; vol. 3, Libri, VII-VIII, testo latino e trad. it., pp * Le Opere sono ordinate secondo il titolo dell edizione italiana. Al titolo dell edizione italiana segue il titolo della tradizione latina consolidata, segnalato in carattere corsivo. Cf. J.-P. TORRELL, Amico della verità. Vita e opere di Tommaso d Aquino, ESD, Bologna 2006.

291 279 Commento alla Metafisica di Aristotele, Sententia super Metaphysicorum vol. 1, Libri I-IV, introd., testo latino e trad. it., pp. 800; vol. 2, Libri V-VIII, testo latino e trad. it., pp. 840; vol. 3, Libri IX-XII, testo latino e trad. it., pp Commento alla Politica di Aristotele, Sententia Libri Politicorum, introd., trad. it., pp Commento alle Sentenze di Pietro Lombardo, Scriptum super Libros Sententiarum vol. 1, Libro I, dd. 1-21, introd., testo latino e trad. it., pp. 1104; vol. 2, Libro I, dd , testo latino e trad. it., pp. 1056; vol. 3, Libro II, dd. 1-20, testo latino e trad. it., pp. 1000; vol. 4, Libro II, dd , testo latino e trad. it., pp. 1120; vol. 5, Libro III, dd. 1-22, testo latino e trad. it., pp. 1176; vol. 6, Libro III, dd , testo latino e trad. it., pp. 1088; vol. 7, Libro IV, dd. 1-13, testo latino e trad. it., pp. 1024; vol. 8, Libro IV, dd , testo latino e trad. it., pp. 1016; vol. 9, Libro IV, dd , testo latino e trad. it., pp. 912; vol. 10, Libro IV, dd , testo latino e trad. it., pp Compendio di teologia, Compendium theologiae, introd., trad. it., pp Credo. Commento al Simbolo degli apostoli, introd., trad. it, pp Fondamenti dell ontologia tomista. Il Trattato De ente et essentia, introd., commento, testo latino e trad. it, pp I Sermoni e le due Lezioni inaugurali, Sermones, Principia Rigans montes, Hic est liber, introd., commento e trad. it., pp La conoscenza sensibile. Commenti ai libri di Aristotele: Il senso e il sensibile; La memoria e la reminiscenza, Sentencia Libri De sensu et sensato cuius secundus tractatus est De memoria et reminiscencia, introd., trad. it., pp La giustizia forense. Il quadro deontologico, Summa Theologiae II-II, qq , introd., trad. it., pp. 96. La legge dell amore. La carità e i dieci comandamenti, In decem preceptis, introd., trad. it., pp La perfezione cristiana nella vita consacrata: Contro gli avversari del culto di Dio e della vita religiosa, La perfezione della vita spirituale, Contro la dottrina di quanti distolgono dalla vita religiosa, Contra impugnantes Dei cultum et religionem, De perfectione spiritualis vitae, Contra pestiferam doctrinam retrahentium homines a religionis ingressu, introd., trad. it., pp. 448.

292 280 La preghiera cristiana. Il Padre nostro, l Ave Maria e altre preghiere, introd., trad. it., pp La Somma contro i Gentili, Summa contra Gentiles vol. 1, Libri I-II, introd., testo latino e trad. it., pp. 784; vol. 2, Libro III, testo latino e trad. it., pp. 640; vol. 3, Libro IV, testo latino e trad. it., pp La Somma Teologica, Summa Theologiae, in 35 volumi, introduzione a ogni sezione, testo latino e trad. it. La Somma Teologica, Summa Theologiae, in 6 volumi, sola traduzione italiana vol. 1, Parte I, pp. 1040; vol. 2, Parte I-II, pp. 976; vol. 3, Parte II-II, qq. 1-79, pp. 616 (esaurito); vol. 4, Parte II-II, qq , pp. 816; vol. 5, Parte III, pp. 920; vol. 6, Supplemento, pp La Somma Teologica (edizione 2014), Summa Theologiae, in 4 volumi, introduzioni, testo latino e trad. it. vol. 1, Prima Parte, pp. 1312; vol. 2, Seconda Parte, Prima Sezione, pp. 1264; vol. 3, Seconda Parte, Seconda Sezione, pp. 1824; vol. 4, Terza Parte, pp La virtù della fede, Summa Theologiae II-II, qq. 1-16, introd., trad. it., pp La virtù della prudenza, Summa Theologiae II-II, qq , introd., trad. it., pp La virtù della speranza, Summa Theologiae II-II, qq , introd., trad. it., pp L unità dell intelletto, De unitate intellectus, L eternità del mondo, De aeternitate mundi, introd., testo latino e trad. it., pp Le Questioni Disputate, Quaestiones Disputatae vol. 1, La Verità, De Veritate, introd., testo latino e trad. it., qq. I-IX, pp. 968; vol. 2, La Verità, De Veritate, introd., testo latino e trad. it., qq. X-XX, pp. 896; vol. 3, La Verità, De Veritate, introd., testo latino e trad. it., qq. XXI-XXIX, pp. 992; vol. 4, L anima umana, De Anima; Le creature spirituali, De spiritualibus creaturis, introd., testo latino e trad. it., pp. 832; vol. 5, Le virtù, De virtutibus in communi, De caritate, De correctione fraterna, De spe, De virtutibus cardinalibus; L unione del Verbo Incarnato, De unione Verbi Incarnati, introd., testo latino e trad. it., pp. 688;

293 281 vol. 6, Il male, De malo, introd., testo latino e trad. it., qq. I-VI, pp. 624; vol. 7, Il male, De malo, testo latino e trad. it., qq. VII-XVI, pp. 736; vol. 8, La potenza divina, De potentia Dei, introd., testo latino e trad. it., qq. I-V, pp. 784; vol. 9, La potenza divina, De potentia Dei, testo latino e trad. it., qq. VI-X, pp. 672; vol. 10, Su argomenti vari, Quaestiones quodlibetales, introd., testo latino e trad. it., qq. VII-XI, pp. 520; vol. 11, Su argomenti vari, Quaestiones quodlibetales, testo latino e trad. it., qq. I-VI, XII, pp Logica dell enunciazione. Commento al libro di Aristotele Peri Hermeneias, Expositio Libri Peryermenias, introd., trad. it., pp Opuscoli politici: Il governo dei principi, Lettera alla duchessa del Brabante, La dilazione nella compravendita, De Regno ad Regem Cypri, Epistola ad Ducissam Brabantiae, De emptione et venditione ad tempus, introd., trad. it., pp Opuscoli spirituali: Commenti al Credo, Padre Nostro, Ave Maria, Dieci Comandamenti, Ufficio e Messa per la Festa del Corpus Domini, Le preghiere di san Tommaso, Lettera a uno studente, In Symbolum Apostolorum, In orationem dominicam, In salutationem angelicam, In duo praecepta caritatis et in decem legis praecepta expositio, Officium de Festo Corporis Christi, Piae Preces, Ad Joannem, introd., trad. it., pp. 352 (esaurito). Pagine di filosofia: Filosofia della natura, antropologia, gnoseologia, teologia naturale, etica, politica, pedagogia, De Principiis naturae, testo latino e trad. it., introduzioni e antologia di brani, pp ALTRE OPERE SU TOMMASO D AQUINO edite da ESD JEAN-PIERRE TORRELL, Amico della verità.vita e opere di Tommaso d Aquino, pp BATTISTA MONDIN, Dizionario enciclopedico del pensiero di san Tommaso d Aquino, 2 a ed., pp. 764.

294 282 FILOSOFIA MONDIN B., Etica e Politica, 2 a ed. MONDIN B., La metafisica di San Tommaso d Aquino e i suoi interpreti, 2 a ed. MONDIN B., Il problema di Dio, 2 a ed. RUFFINENGO P. P., Ontonòesis, Introduzione alla metafisica per un amico pasticciere MANZI A., La paura dell uomo contemporaneo GORIUP L., Il rischio è bello MAZZANTI A. M. (ed.), Verità e mistero VANNI ROVIGHI S., Filosofia della conoscenza BERTUZZI G. (ed.), L origine dell Ordine dei Predicatori e l Università di Bologna SALVIOLI M., Il Tempo e le Parole CARPI O. L., Il problema del rapporto fra virtù e felicità nella filosofia morale di Immanuel Kant LOBATO A., La dignità della persona umana. Privilegio e conquista AA. VV., Dalla Prima alla Seconda Scolastica PIAZZA G., Il nome di Dio. Una storia della prova ontologica EMILIANI A., Dio è la mia speranza EMILIANI A., Una nuova via alla ricerca di Dio PIETROSANTI R., L anima umana nei testi di San Tommaso AA. VV., Cristianesimo nella postmodernità e paideia cristiana della libertà BOCHENSKI J., Nove lezioni di logica simbolica BASTI G., Filosofia dell uomo, 3 a ed. EMILIANI A., Ascesa spirituale a Dio SIMON B. M., Esiste una «intuizione» dell essere? TOMMASO D AQUINO, L essere e la partecipazione. Commento al libro di Boezio «De Ebdomadibus» MANFERDINI T., Comunicazione ed estetica in Sant Agostino AA. VV., La nuova evangelizzazione e il personalismo cristiano MANFERDINI T., Essere e verità in Rosmini ROSSIGNOTTI M., Persona e tempo in Berdjaev FIORENTINO E., Guida alla tesi di laurea (esaurito) AA. VV., L incontro con Dio. Gli ostacoli odierni: materialismo e edonismo EMILIANI A., Da gli enti finiti al superente infinito e personale che conosce e ama LORENZ D., I fondamenti dell ontologia tomista STRUMIA A., Introduzione alla filosofia della scienza (esaurito)

295 BASTI G., Il rapporto mente-corpo nella filosofia della scienza (esaurito) AA. VV., Etica dell atto medico BERTUZZI G., La verità in Martin Heidegger LORENZINI M., L uomo in quanto persona AA. VV., Coscienza morale e responsabilità politica AA. VV., Crisi e risveglio della coscienza morale del nostro tempo AA. VV., Homo loquens (esaurito) TOMMASO D AQUINO, Pagine di filosofia, 2 a ed. 283

296 284 TEOLOGIA SALVIOLI M., Tomismo creativo BUZI P., La Chiesa copta. Egitto e Nubia, 2 a ed. BERNINI R., La vita consacrata. Teologia e spiritualità CARPIN A., Indissolubilità del matrimonio. La tradizione della Chiesa antica TESTI C. A., Santi pagani nella Terra di Mezzo di Tolkien PIZZORNI R., Amore e civiltà PUCCETTI R., I veleni della contraccezione MAGNANINI P.-MACCAFERRI A., Analisi grammaticale dell aramaico biblico MILBANK J., Il fulcro sospeso, Henri de Lubac e il dibattito intorno al soprannaturale COGGI R., Trattato di Mariologia. I misteri della fede in Maria, 2 a ed. CHIESA ORTODOSSA RUSSA, Fondamenti della dottrina sociale MONDIN B., L uomo secondo il disegno di Dio, 2 a ed. BARILE R. (ed.), Il rosario. Teologia, storia, spiritualità PASINI G., Il monachesimo nella Rus di Kiev PANE R., La Chiesa armena. Storia, spiritualità, istituzioni MONDIN B., La Trinità mistero d amore, 2 a ed. COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Documenti , 2 a ed. DERMINE F. M., Carismatici, sensitivi e medium, 2 a ed. LIVI A., Filosofia e Teologia BARZAGHI G., La Somma Teologica in Compendio BOSCHI B., Due Testamenti, una sola storia OLMI A. (ed.), Il peccato originale tra teologia e scienza BOSCHI B., Genesi. Commento esegetico e teologico CARPIN A., Donna e sacro ministero. La tradizione ecclesiale: anacronismo o fedeltà? SPATARU D., Sacerdoti e diaconesse. La gerarchia ecclesiastica secondo i Padri Cappadoci CARPIN A., Cipriano di Cartagine. Il vescovo nella Chiesa, la Chiesa nel vescovo COUSIN H.-LÉMONON J.P., Le diverse correnti della religione ebraica ABADIE P.-COUSIN H.-LÉMONON J.P., Il monoteismo specificità e originalità della fede ebraica COUSIN H.-LÉMONON J.P.-MASSONNET J.-MÉASSON A., Come gli ebrei leggevano i testi sacri ABADIE P.-MASSONNET J., Il culto nella società giudaica

297 COMBY J.-LÉMONON J.P.-MASSONNET J.-RICHARD F., La civiltà greco-romana e la civiltà giudaica LÉMONON J.P.-RICHARD F., Gli Ebrei e l Impero Romano ai tempi di Gesù COGGI R., Ripensando Lutero CARPIN A., Angeli e demòni nella sintesi patristica di Isidoro di Siviglia CARBONE G. M., L uomo immagine e somiglianza di Dio CHARAMSA C., Davvero Dio soffre? CARPIN A., La Redenzione in Origene, sant Anselmo e san Tommaso SUH A., Le rivelazioni private nella vita della Chiesa BARZAGHI G., Soliloqui sul Divino AA. VV., Approfondimento concettuale della fede e inculturazione DA CRISPIERO M., Teologia della sessualità (esaurito) PERINI G., I Sacramenti: Battesimo Confermazione Eucaristia - II PERINI G., I Sacramenti e la grazia di Cristo Redentore - I MATTIOLI V., La difficile sessualità (esaurito) CARPIN A., L Eucaristia in Isidoro di Siviglia AA. VV., La coscienza morale e l evangelizzazione oggi GHERARDINI B., Santa o Peccatrice? (esaurito) SEMERARO M., Il Risorto tra noi (esaurito) AA. VV., Le sètte religiose: una sfida pastorale TESTA B. (ed.), La nuova evangelizzazione dell Europa nel Magistero di Giovanni Paolo II VICARIATO DI ROMA, Prontuario teologico in preparazione agli Ordini e ai Ministeri SPIAZZI R., Cristianesimo e cultura AA. VV., Il matrimonio e la famiglia CAVALCOLI C., La buona battaglia BARILE R., La fatica di uno scriba BIAGI R., Cristo profeta, sacerdote e re 285

298 286 SOURCES CHRÉTIENNES Edizione italiana Collana presieduta da Paolo Siniscalco La collezione francese Sources Chrétiennes, fondata nel 1942 a Lione da De Lubac e Daniélou, offre testi cristiani antichi, greci, latini e nelle lingue del Vicino Oriente, che, per qualità e per numero, sono universalmente riconosciuti come eccellenti. Dal 2006 le Edizioni Studio Domenicano promuovono la traduzione di questa collana in italiano in stretto e proficuo contatto con la casa madre di Lione. L edizione italiana, da parte sua, si caratterizza specificamente per la scelta di titoli importanti, letterariamente, dottrinalmente e spiritualmente, per la cura con cui è aggiornata la bibliografia in modo completo e sistematico, per le eventuali note aggiuntive o le appendici concernenti problematiche emerse nel campo degli studi dopo la pubblicazione dell edizione francese, per una loro semplificazione. L edizione italiana delle Sources si propone, infine, di contenere, per quanto possibile, i prezzi di ogni volume. 1. CIPRIANO DI CARTAGINE, L unità della Chiesa 2. CIPRIANO DI CARTAGINE, A Donato; e La virtù della pazienza 3. MANUELE II PALEOLOGO, Dialoghi con un musulmano. 4. ANONIMO, A Diogneto 5. CIPRIANO DI CARTAGINE, A Demetriano 6. ANONIMO, La dottrina dei dodici apostoli 7. CIPRIANO DI CARTAGINE, La beneficenza e le elemosine 8. CLEMENTE DI ROMA, Lettera ai Corinzi 9. ORIGENE, Omelie sui Giudici 10. GIUSTINO, Apologia per i cristiani 11. GREGORIO DI NISSA, Omelie su Qoelet 12. ATANASIO, Sant Antonio Abate. La sua vita 13. DHUODA, Manuale per mio figlio 14. UGO DI SAN VITTORE, Sei opuscoli spirituali 15. DIADOCO DI FOTICA, Opere spirituali Di prossima pubblicazione: GREGORIO DI NISSA, Discorso catechetico GIOVANNI CRISOSTOMO, Commento a Giobbe

299 287 I TALENTI Collana diretta da Moreno Morani già diretta da Marta Sordi La collana «I Talenti», edita da Edizioni San Clemente e Edizioni Studio Domenicano, ospita testi fondamentali che sono all origine delle tradizioni culturali d Oriente e d Occidente, cristiane e non cristiane, integrando e completando l edizione dei Padri della Chiesa. Si riporta il testo critico in lingua originale, la traduzione italiana e un apparato di introduzioni, note e commenti con cui il lettore moderno potrà finalmente apprezzare queste opere, vere pietre miliari e autentici «talenti» della cultura umana universale. 1. TERTULLIANO, Difesa del cristianesimo (Apologeticum) 2. ELISEO L ARMENO, Commento a Giosuè e Giudici 3. BARDESANE, Contro il Fato (Peri heimarmene) 4. ANONIMO, Libro dei due Principi 5. ELISEO L ARMENO, Sulla passione, morte e risurrezione del Signore 6. DIONIGI, I nomi divini 7. DIONIGI, Mistica teologia e Epistole I-V 8. TERTULLIANO, Il battesimo 9. TERTULLIANO, La penitenza 10. TERTULLIANO, Questione previa contro gli eretici 11. TERTULLIANO, Alla sposa 12. TOMMASO D AQUINO, L unità dell intelletto, L eternità del mondo 13. GIOVANNI DAMASCENO, Esposizione della fede 14. MATTEO RICCI, Catechismo 15. GREGORIO DI NAZIANZO, Cinque Discorsi Teologici. Sulla Trinità 16. TERTULLIANO, La carne di Cristo 17. TOMMASO D AQUINO, Commento agli Analitici Posteriori di Aristotele, vol. 1 Di prossima pubblicazione: TOMMASO D AQUINO, Commento agli Analitici Posteriori di Aristotele, vol. 2 TOMMASO D AQUINO, Commento a La generazione e la corruzione TOMMASO D AQUINO, Commento a Il cielo e il mondo GIROLAMO, Contro Giovanni

300 Tutti i nostri libri e le altre attività delle Edizioni Studio Domenicano possono essere consultate su: Edizioni Studio Domenicano Via dell Osservanza Bologna - ITALIA Tel Fax acquisti@esd-domenicani.it Finito di stampare nel mese di febbraio 2016 presso SAB, Budrio, Bologna Grafica di copertina: Domenico Gamarro

301

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