Rivista di Antropologia numero VIII. Università degli Studi di Milano-Bicocca

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1 Rivista di Antropologia 2006 numero VIII Università degli Studi di Milano-Bicocca

2 AChAB - Rivista di Antropologia Numero VIII -giugno 2006 Direttore Responsabile Matteo Scanni Direzione editoriale Lorenzo D'Angelo, Antonio De Lauri, Michele Parodi Redazione Paolo Borghi, Lorenzo D'Angelo, Antonio De Lauri, Michele Parodi, Fabio Vicini Progetto Grafico Lorenzo D'Angelo Referente del sito Antonio De Lauri Tiratura: 500 copie Pubblicazione realizzata con il finanziamento del Bando "1000 lire", Università degli Studi di Milano Bicocca Autorizzazione del Tribunale di Milano n settembre 2005 Non siamo riusciti a rintracciare i titolari del dominio di alcune immagini qui pubblicate. Gli autori sono invitati a contattarci. * Immagine in copertina di Anna Sambo - Djougou, Benin - novembre 2005 Se volete collaborare con la rivista inviando vostri articoli o contattare gli autori, scrivete a: redazione@achabrivista.it

3 In questo numero... 2 Il flogisto dei diritti umani Culture, pratiche, ideologie, mitologie e wishful thinking di Valerio Fusi 8 Che cos'è un campo nomadi? di Leonardo Piasere 17 Bisogna difendere la metropoli milanese Biopolitica di uno sgombero di Lorenzo D Angelo 24 Lo spazio umanitario Il caso dei campi di rifugiati palestinesi in Giordania di Luigi Achilli 32 Il beduino e la tenda: un'associazione fatale Esplorazioni di protesta e potere intorno ad un nuovo insediamento in Israele di Alexander Koensler 37 Agency e femminismo Il caso dell Iran di Serena Felicia Morabito 44 Il movimento di Fethullah Gülen Un progetto "islamico" in uno stato "secolare"? di Fabio Vicini 53 I marabutti della Muriddyya, mediatori tra cielo e terra Il ruolo politico della confraternita senegalese per la creazione di un Islam sociale di Susanna Ripamonti Altrevoci 60 Lettera dal Nepal di Oscar Avogadri 1

4 Il flogisto dei diritti umani Culture, pratiche, ideologie, mitologie e wishful thinking di Valerio Fusi Preliminarmente, come sempre, c'è un problema di definizione. L'espressione 'diritti umani' delimita un concetto troppo connotato per essere utilizzato senza problemi in un contesto antropo-logico. Connotato il sostantivo, che giunge a noi come il punto terminale di una lunga e complessa elaborazione culturale, ed è ormai definito in un ambito di formalismi giuridici e politici organicamente intrinseci alla forma di vita degli uomini occidentali contemporanei. Connotato - seppure in modo diverso - l'aggettivo, che ha assunto per noi una profondità storica, una valenza scientifica, ed una dimensione biologica senza precedenti e corrispondenti in altre culture. E connotata l'associazione dei due termini, che produce un campo semantico autonomo e incommensurabile. Prima allora di domandarci quanto della nostra idea di 'diritti umani' sia possibile rintracciare nella esperienza delle civiltà classiche, e delle culture aliene contemporanee, potrebbe essere utile tentare un qualche esercizio di igiene linguistica, che si riprometta di ripulire dalle incrostazioni et-nocentriche, per quanto possibile, il lessico di cui facciamo uso. Anche così il meglio a cui possia-mo aspirare, naturalmente, è soltanto di ridurre in misura ragionevole il grado di fallacia del nostro ragionamento. La verità, qualunque cosa sia, non è un obiettivo alla portata degli antropologi (e for-se neanche particolarmente interessante). La natura dell'antropologia è essenzialmente comparativa: ciò che percepisce, ciò che ricono-sce, ciò che pretende di descrivere, può essere descritto, riconosciuto e percepito solo attraverso (all'interno, e nei termini ed alle condizioni di) un linguaggio (un gioco linguistico) le cui regole strutturano nel profondo la cultura dell'antropologo, conferiscono significato alla sua esperienza e definiscono i limiti e le aspettative della sua percezione e conoscenza del mondo (e sono - ovvia-mente - infondate e relative). Questo linguaggio è abilitato a trattare solo concetti che già conosce, o che sia in grado di rico-noscere in termini di analogia ed isomorfismo con quelli che gli sono noti. Persino il concetto di 'concetto' fa parte già, in qualche modo, della sua grammatica (uno strumento di lavoro piuttosto che una precondizione cognitiva universale). Di fatto anche l'antropologo che scrupolosamente re-gistra e indaga concetti che sono assenti nella sua propria cultura (e non semplicemente differenti), cerca ancora soltanto concetti, pensa ancora, comunque, in termini di 'concetti', vale a dire di un tipo di astrazione specializzata che nella nostra cultura struttura la vita mentale, l'esperienza e la rappresentazione della realtà in modo molto definito e specifico. Ma forse è proprio la nostra idea di concetto ad essere diversa da quelle delle altre culture, se pure ne hanno una. Chi può dirlo? E allora chi può dire se la comunicazione tra le culture, a dispetto della loro apparente traducibilità, non na-sconda invece un insuperabile equivoco ermeneutico che preclude ontologicamente la reciproca intelligibilità? Non sono considerazioni particolarmente originali. Willard Quine ha detto su questo tutto quel-lo che c'era da dire. Ma è sorprendente scoprire ogni volta come studiosi e accademici anche molto avvertiti ignorino (o preferiscano nascondersi) la complessità dei problemi che ne derivano, e le pe-santi ipoteche che questi pongono sul rigore e - potenzialmente - sulla verosimiglianza delle loro indagini. Progresso E' necessario chiarire quindi sin dall'inizio di che cosa si parla quando si parla di diritti umani, e da dove se ne parla, da quale punto della storia, e da quale luogo fisico. Così facendo ci accorgiamo ben presto di quanto sia diffusa - anche in ambienti epistemologica-mente avveduti - la convinzione (o più propriamente l'implicito, irriflesso e viscerale affidamento) che la nostra idea dei diritti umani si collochi al vertice di un cono temporale, ed al centro di una circonferenza spaziale, rispetto ai quali rappresenti il punto di convergenza di quanto di meglio la storia umana abbia mai prodotto. Che rappresenti cioè uno stadio evoluto - e in un certo senso definitivo e apicale - di forme più primitive di gestione dei principi e delle modalità di convivenza in-traspecifica della specie homo. Si tratta di un approccio (un atteggiamento, una attitudine) abbastanza sorprendente e solitario nell'ambito del dibattito epistemologico moderno, che da tempo ha rinunciato per manifesta impra-ticabilità alle ottimistiche visioni totalizzanti del progresso umano, senza peraltro aver trovato qual-cosa di meglio da sostituirvi. Una prospettiva così candidamente evoluzionista suona immediata-mente come una essenziale ingenuità (o una ipocrisia essenziale), e anche gli studiosi più fonda-mentalisti sono comprensibilmente riluttanti a professarla esplicitamente. E tuttavia in questo particolare caso le cose si fanno più complicate, perchè quando si discute di diritti umani, è delle nostre precondizioni etiche, dei nostri principi (leggi, pregiudizi, imperativi) etici, dei nostri valori che discutiamo, e si sa che l'etica è un conversatore assai poco amabile e de-mocratico, che non tollera di essere messo in discussione se non alle sue proprie 2

5 condizioni. Discutere di diritti umani senza etica produce allora uno scandalo intollerabile. Viceversa in-trodurre esplicitamente una discriminante etica rende inutile la discussione, la rende anzi impossibi-le, perché accetta come precondizione proprio quello che vorrebbe dimostrare. Nessuno oggi ha più il coraggio di professare una scelta integralmente universalista (gli univer-salisti hanno ormai una - meritata - reputazione di ingenui rozzi e intolleranti), ma per un altro verso anche gli epistemologi più problematici sono costretti prima o poi a venire a patti con il proprio lin-guaggio, a porre un termine, e ad aggrapparsi in qualche modo a un valore infondato, irrelato ed in-giustificato. Altrimenti (come nelle classiche argomentazioni antirelativiste) finisce che 'tutto può andar bene', e questa è una eventualità che terrorizza anche i più pluralisti e tolleranti (se tutto può andar bene l'antropologo non ha di che giustificare il suo lavoro e la sua esistenza, ma anche l'uomo comune non saprebbe dove poggiare i piedi). Un trucco Insomma: non c'è una soluzione convincente a questo dilemma, ma poiché si deve pur vivere, tanto vale disporre almeno di una soluzione poco convincente, che stia lì a riempire il vuoto di quella risposta praticabile che al momento non si trova, ma che deve pur esserci. Nella fattispecie, la soluzione più praticata è rappresentata dal vecchio trucco di Wittgenstein. Ricordate? "A un certo punto le spiegazioni si devono interrompere". Sarà pur vero, se l'ha detto Wittgenstein. E allora in quale punto dovremo interrompere le nostre spiegazioni? In quale punto dovremo collocare la nostra roccia tetragona, "quell'immortale centro senza nome - come dice Au-den - da cui i nostri punti di definizione e morte sono tutti equidistanti"? 'A un certo punto' ci si deve fermare, ma quel punto sembra essere definito soltanto da una soggettiva capacità di resistenza. C'è un momento repulsivo in cui qualcosa ci diviene inaccettabile, la sentiamo come non tollerabile. Lì collochiamo il nostro punto. Ma nel momento in cui lo faccia-mo, credendo di aver individuato una legge della natura, una traccia di quel centro immortale e senza nome, non facciamo invece altro che riproporre una elementare tautologia, nella quale le nostre premesse e le nostre conclusioni vengono fatte forzosamente coincidere. Fino a un certo punto. Ecco il problema. Dire così significa porre dei confini, collocare un ter-mine rispetto al quale ci sia un al di qua praticabile, e un al di là intollerabile. Porre confini significa definire, individuare, classificare. Porre confini è quello che fanno le culture. In un certo senso la cultura può essere considerata come l'attività di porre confini. Ammesso (per carità epistemologica) che il mondo che percepiamo sia lo stesso per tutti, quello che percepiamo è comunque un flusso, una totalità nella quale le culture ritagliano aree di senso e definiscono limiti cognitivi. E ammesso (ancora per carità epistemologica) che tutte le culture individuino allo stesso modo i punti focali delle realtà che percepiscono (come si dice che avvenga per determinati settori dello spettro lumino-so) ogni cultura definisce se stessa e le sue caratteristiche ponendo confini all'interno di questo flus-so, confini che separano realtà, oggetti significanti, concetti diversi. Si tratta ovviamente di una scelta arbitraria (i confini non fanno parte della realtà - qualunque cosa essa sia - nonostante ogni cultura si convinca del contrario). Arbitraria in quanto non fondata. Eppure tutt'altro che casuale o capricciosa: c'è un metodo, una cogenza, una inerzia che fanno sì che una cultura opti per una solu-zione piuttosto che un'altra, o almeno per un gruppo di soluzioni che ritiene praticabili piuttosto che un altro. E' quello che avviene nel caso dei 'diritti umani'. E' quello che avviene, prima ancora, con il termine 'umano', con l'idea, il concetto, il lemma, il campo semantico di 'umano'. Che cosa signi-fica essere 'umano', in cosa consiste l'umanità dell'uomo, come la si misura e come la si apprezza? Fino a quale punto distinguiamo ciò che è essenzialmente, irriducibilmente umano da ciò che non lo è? C'è davvero un umano, una costante umana che persiste al di là di diverse accezioni e risposte culturali? C'è un nucleo dell'umano all'interno del quale tutti gli umani possano ragionevolmente aspettarsi di trovare le stesse cose? A prima vista sembrerebbe una domanda facile: non dovrebbe essere impossibile, discutendone tra gentiluomini, trovare una risposta condivisa. Geni e gambe Personalmente sarei piuttosto pessimista in proposito. Ho l'impressione che, come tutti gli altri, e non meno di tutti gli altri, 'umano', 'umanità', 'natura umana' siano concetti fondati culturalmen-te, che hanno un valore, ed un ambito di legittimità, una legalità semantica solo all'interno di una specifica realtà sociale e culturale. Certo, tutti ci aspettiamo che il possesso di determinati requisiti fisici ci definisca sufficiente-mente. Ma quali requisiti siamo disposti ad ammettere come fondamentali, e quali respingeremo come accessori o superflui? Ci interessa che corrisponda il numero dei geni, o quello delle gambe? E' qui che sta il problema insolubile: accettiamo pure il principio logico che gli uguali non possono non essere uguali anche sul piano dei diritti, ma quando cerchiamo di definire cos'è uguale ci ac-corgiamo che l'identità non è un concetto praticabile per i nostri scopi, perché sempre assolutamen-te relativo ad un punto di vista, ad una segmentazione arbitraria e variabile di aspetti atomici della realtà, che vengono poi associati o disgiunti per costruire identità. C'è sempre una scelta a monte, la definizione di un set culturale di caratteristiche che ne esclude ogni altra possibile configurazione. Quello che accettiamo come uguale a noi stessi, non può essere, non è mai stato lo stesso per nessun altro. E perché poi questa unità fisica (comunque individuata) dovrebbe costituire la base di un dirit-to? Per quale legge universale le cose uguali dovrebbero avere diritti uguali, e le diverse diritti di-versi? Il pollice opponibile essere più garantito del piede fesso? Perchè i primati dovrebbero avere minori diritti di noi, e i mammiferi? Il diritto alla vita: ecco un principio che potrebbe ambire ad un fondamento universale di qualche genere (ma chissà?). 3

6 Rispondere a questa ulteriore domanda sul diritto alla vita degli esseri viventi (e non dei soli umani) può forse aiutare a comprendere meglio su cosa si basino i diritti degli umani in quanto u-mani. Il rispetto universale del vivente trova il suo limite nella paradossale necessità che la vita si ge-neri e si conservi solo mediante la soppressione di altra vita. Perchè ci sia tollerabile uccidere e nu-trirci di altri esseri viventi, abbiamo deciso che (gran parte de)gli altri esseri viventi non sono uguali a noi (in primo luogo) e soprattutto sono inferiori a noi (in secondo). In tal modo la repulsione natu-rale della vita a sopprimere la vita viene temperata e resa tollerabile all'interno di un ordine superio-re di necessità. Le eccezioni confermano la regola: il porco, la vacca sacra, l'irace sono sì percepiti come diversi dalle rispettive religioni, ma collocati su un piano di sacralità (o di pericolo) che non è riconosciuto ad altre specie animali e garantisce loro un diritto speciale alla vita. Dio li fa e poi li accoppia Questo elementare meccanismo si riproduce allo stesso modo nell'ambito dell'umano: i nostri simili umani sono tanto meno umani di noi, quanto meno sono riconoscibili come simili, e quanto più sia necessario compiere su di loro operazioni ed atti che non accetteremmo fossero compiuti su di noi. Per questo se il loro quantum di umanità non è uguale al nostro, il loro essere umani dovrà avere confini più ristretti del nostro, e i loro diritti non potranno essere quelli che riconosciamo a noi stessi: non perché ne abbiano meno, ma perché hanno meno umanità. Tanto meno simili, quanto meno umani; è utile legare questa minorazione ad una differenza percepibile: una pigmentazione diversa dell'epidermide, un linguaggio oscuro che ci sembri balbettante e barbarico, la devianza da regole che riteniamo naturali, una qualche visibile minorità. Così, volta per volta, per i neri, i sel-vaggi, le donne, i bambini, i feti, i disabili. Ma non è davvero necessario che la differenza sia perce-pibile 'fisicamente': nella lista c'è posto ancora per gli ebrei, i comunisti, gli infedeli, gli extraco-munitari, i poveri. Certo, molti di noi sentono questo tipo di liste come vergognose e intollerabili, ma forse sarebbero disposti ad accettarne altre meno grossolanamente offensive del senso comune in cui si riconoscono gli abitanti della nostra regione in questo periodo storico. Per molti di noi i feti hanno un diritto relativo e condizionato. Per molti altri (persone rispettabili e, così pare, assoluta-mente uguali a noi) no. Per altri ancora si deve invece porre una distinzione ulteriore, un'altra scala graduata, e allora alcuni feti saranno ammessi alla condizione umana, e altri no, a seconda della loro età. L'età diviene quindi una discriminante di umanità, e a rigore il feto giovane e quello anziano dovrebbero ricevere denominazioni diverse. L'opposizione similarità/differenza, vicino/distante modella e dà senso alle percezioni, ai com-portamenti ed alla consapevolezza di sé, e si struttura per coppie di preferenza: prima il figlio del fratello, prima il fratello che l'amico, prima l'amico del vicino, prima il vicino che lo straniero; l'italiano piuttosto che l'inglese, e l'inglese piuttosto che l'islamico. In ciascuno di questi passaggi va persa una frazione minima di umanità, e con quella anche un poco della nostra inclinazione a ri-conoscere uguaglianza, e la misura corrispondente di diritti. E a un certo punto lungo la linea ecco: il diritto umano si affievolisce (come anche nella terminologia giuridica) e perdono efficacia i tabù e il senso comune da cui è presidiato. E' dal punto in cui si è collocati su questa linea che si può de-cidere, come dice Geertz, fino a quale profondità riteniamo di poter affondare i denti. Disgustoso Perché poi dovrei rifiutare altre visioni per le quali il riconoscimento di tratti fisici, o somatici, o genetici comuni non sia una condizione sufficiente per riconoscere anche una natura comune, un identico grado di umanità? Dovremmo guardarci dall'intromissione dei nostri propri presupposti e-tici nel valutare le connotazioni che il principio umano ha assunto presso altre culture, proprio per-chè qui si annida la visione forte ed epistemologicamente impraticabile dell'idea evoluzionistica di progresso. Il fatto che oggi le vedove non si immolino sulla pira del marito, o le ancelle e i servi non vengano sepolti vivi con il re insieme ai suoi cavalli, che i neonati femmine, i disabili, e i vecchi non vengano soppressi, che i neri non siano schiavi, che i prigionieri di guerra non vengano sacrifi-cati a Tlaloc, o serviti come carne da banchetto non dipende da una provvidenziale e benigna evolu-zione che ha finalmente fatto coincidere il senso del mondo con un principio universale di giustizia. Significa che il tipo di cultura in cui viviamo non può permettersi di segmentare e classificare l'umanità secondo quei principi. Seppure non vogliamo nemmeno per un istante giustificare, né tol-lerare quei sistemi di vita e di valori, seppure essi ci ripugnino nel modo più viscerale, non possia-mo, a rigore, guardare indietro a quelle esperienze culturali come ad un percorso faticoso che ab-biamo compiuto per giungere a questa confortante vetta. Il nostro disgusto, che io stesso sperimento e in ragione del quale accetto che altre culture possano essere combattute (ed eventualmente distrut-te), è un disgusto culturale, un disgusto che nasce da quello che la nostra cultura ci insegna essere disgustoso. Davvero crediamo che i nostri antenati, o le altre culture, siano state così perverse, così depravate, da concedersi per puro difetto di luce interiore, di quella ricchezza morale che contraddi-stingue noi, alle pratiche bestiali e inumane che ci compiacciamo di condannare? Inumane, appunto: qui anche noi poniamo un confine, e chiamiamo - seppure con altri fini - non umani quelli che le adottano. Ladders/adders Ancora una volta, c'è un punto da individuare su una scala graduata, ma ancora una volta non c'è nessuno che può dirci dove. Ma porre quel punto è indispensabile, perché quel punto segna il confine di ciò che è giusto. Giusto: ecco una possibile definizione naturale del diritto, precedente all'ambito giuridico e culturale: la percezione che qualcosa sia giusta; una condizione di agio del pensiero che riconosce e accetta uno stato ed una configurazione della realtà 4

7 perchè li percepisce come parte di un ordine na-turale e necessitato, introiettato nella consapevolezza degli umani e incardinato al meccanismo del mondo. Se definiamo l'umano non abbiamo, a rigore, bisogno di definirne i diritti. In un certo senso il diritto di una cosa non è altro che il riconoscimento della sua inviolabilità in quanto cosa, l'aspettativa che la sua più propria natura e identità non vengano minacciate, messe in discussione, ristrette o condizionate in alcun modo, la sua pretesa all'integrità, come attesa naturale della persi-stenza delle caratteristiche che la definiscono. Ogni azione che si proponga di limitare questa prete-sa offende il suo proprio diritto, e insieme lo scopre e lo fonda come diritto. Allora intendiamoci: a chi riconosceremo, e in che forma, in che modo, in quale quantità, la condizione di 'essere umano'? A chi riconosceremo i diritti che sono propri all'essere umano? Per noi il diritto dell'uomo è un attributo personale, individuale, legato all'individuo così come lo riconosciamo nella civiltà occidentale: una personalità unica, i cui confini concettuali e fisici si arrestano alla persona ed ai suoi attributi. I diritti della 'persona' umana. La persona, appunto, l'individuo: c'è un intero campo semantico che si è costruito intorno a questo significato congiunto di unicità, individuazione, personalità. Non c'è niente di più connotato culturalmente di tutto que-sto. L'identità individuale, come set di qualità inalienabili e distintive, autonome, è una prerogativa della nostra cultura. Altre società, altre culture nella storia e sulla faccia della terra non conoscono, non applicano questa distinzione. Non nei termini, almeno, che ci sono familiari. Non è che hanno scelto di non praticarla: più semplicemente la loro storia è andata in un'altra direzione, e la nostra esperienza - se solo possono concepirla e finanche percepirla - non può che stimolare il loro disgu-sto e la loro repulsione - come accade a noi con la loro - in nome di un'etica altrettanto solida e fon-data di quella alla quale noi riteniamo di doverci affidare. In questo senso potrebbe essere istruttivo rileggere gli scritti di Jean Paul Vernant e di Eric Ha-velock sul concetto di identità personale (e la sua correlazione con la semantica dell'ontologia e con l'idea e la pratica della giustizia) nella Grecia antica, insieme ad un altro gruppo di interessanti la-vori sull'idea di persona in Polinesia (Pritz Johansen) e tra gli antichi scandinavi (Gronbeck). Tutta questa tradizione di studio insiste nel ricordarci come la rappresentazione della persona umana deb-ba inevitabilmente essere relativizzata all'ambito culturale e sociale nel quale si esprime e si mani-festa l'azione dell'uomo, alla sua capacità - ed interesse - di produrre mutamenti nell'ambiente cir-costante, al grado e all'intenzionalità del suo intervento sulla natura. E anche, di conseguenza, alla percezione che gli uomini hanno del proprio rapporto con la specie, la tribù, la famiglia, il gruppo a cui appartengono, dei confini anche fisici e persino temporali che tracciano intorno alla propria per-sona. Si danno identità che assumono senso e si strutturano esclusivamente in un ambito tribale, i-dentità per le quali - anche a livello linguistico - è impossibile districare la percezione e la rappre-sentazione di individualità dal contesto della vita associata e dei legami di sangue. Le società di caccia e raccolta dell'africa, le culture ergative di Australia e Siberia, le incomprensibili psicologie indigene che continuamente ci ripropone la ricerca e l'aneddotica antropologica, tutta quella serie di bizzarri comportamenti umani che ce la rendono così godibile, affascinante ed inquietante. Le cose allora sono alquanto più complicate di come potrebbe sembrare a prima vista. E anche quello che ci pare più ovvio e naturale (anzi, soprattutto quello che ci pare più ovvio e naturale) non è in grado di garantire condizioni accettabili di fondatezza e veridicità, a dispetto della ingannevole ed insidiosa presunzione di universalità con cui ci si offre. Quello che ci sorprende e ci turba, quando pensiamo - per esempio - alle società schiaviste del-la storia, ma in generale a tutte le società in cui si praticano discriminazioni e violenze su soggetti che noi consideriamo a tutti gli effetti umani, è che questi soggetti in genere non si ribellano, non lottano - come a noi sembrerebbe naturale e come noi forse faremmo nelle loro condizioni - per af-fermare i propri 'diritti'. E se mai lo fanno, questo accade solo in circostanze storiche straordina-riamente complesse e travagliate di transizione, e mai comunque nell'ambito di un processo roman-ticamente rivoluzionario di rivendicazione di uguaglianza e diritti. I sistemi schiavistici non potreb-bero reggersi solo sulla coercizione e sulla violenza, non lo hanno mai fatto. Come tutte la società della storia, anche la società schiavista deve rappresentare un sistema condiviso, un ordine, una struttura mentale ed etica in cui tutti i membri della società possano riconoscersi, indipendentemen-te dal posto che occupano in essa. Lo schiavo, l'ilota, il meteco, il taurekareka conosce e riconosce se stesso solo come schiavo, e in questa condizione - per quanto disagevole e 'inumana' - sperimen-ta quell'agio mentale che alimenta la percezione di uno stato di giustizia. La sua cultura gli assegna un ruolo al quale è in condizione di associare una identità sociale, culturale e individuale, e al di fuori della quale non avverte senso alcuno, né desiderio alcuno di possedere diritti che sono asse-gnati alle altre forme umane che dividono con lui il suo stesso spazio culturale. C'è tutta una lettera-tura sullo sconcerto provato degli schiavi negri liberati - loro malgrado, o con la loro indifferenza - dopo la guerra di secessione, e sugli effetti rovinosi che quella liberazione produsse sull'organizzazione della vita sociale e privata nelle comunità nere degli stati del Sud. Mio bisnonno - che è stato mezzadro per tutta la vita - trovava disdicevole che la sua famiglia mangiasse pollo la domenica, perché quello era il cibo dei padroni, ed è sempre stato fiero di essere servo e di saper stare al proprio posto. Stereotipi Nel mondo contemporaneo la complessa interazione di relazioni sociali, strutture economiche, campi di forza culturali, sistemi di comunicazione, forme di organizzazione del lavoro e dinamiche del mercato, equilibri politici internazionali (e anche, ovviamente, la variabile rappresentata dalle etiche culturali) ha finito per configurare un modello statistico alquanto aperto e comprensivo dei 'diritti umani' Così, per ragioni che molto probabilmente non hanno granchè a 5

8 che vedere con l'etica, siamo stati posti nella condizione di estendere il nostro riconoscimento di umanità e (potenzialmente) di uguaglianza a tipologie dell'umano che mai avrebbero potuto ottenerlo dai nostri antenati, o perfino dai nostri padri. E nonostante questo, a guardar bene, anche noi in fondo non rinunciamo a porre confini attorno al nostro territorio umano, e vi ammettiamo solo alcuni a pieno titolo, riservando ad altri solamente uno stentato permesso di soggiorno. Altri ancora non vorremo proprio vederceli intorno. Certo, in una cultura che non ha altra possibilità di accertare l'umano se non nei termini della sua apparte-nenza filogenetica, nessuno ha il coraggio di sostenere (talvolta persino di confessare a se stesso) che certi umani possano essere meno umani di altri. Valutiamo però senza ipocrisie le nostre personali reazioni ai pregiudizi razziali: con quale gra-do di repulsione vi sentireste di reagire all'affermazione che i negri sono sporchi? Allo stesso modo in cui reagireste sentendo dire che gli ebrei sono avidi? Non percepite in questo secondo caso qual-cosa di più inquietante e sinistro, qualcosa di imperdonabile? Al contrario, molti sono disposti sen-za troppi patemi d'animo a sottoscrivere l'affermazione che gli albanesi sono violenti, molti di quel-li che non direbbero mai che gli ebrei sono avidi e che i negri sono sporchi. E gli zingari: sul fatto che siano ladri c'è pressoché unanimità (un universale?), come a proposito dell'idea che gli islamici siano fanatici e infingardi. Molti di noi che sentono intollerabili le dichiarazioni antisemite (ma non tutte le dichiarazioni antisemite: soltanto quelle che riguardano gli ebrei) reagiscono con tolleranza, ironia, e finanche blando consenso a stereotipi razziali che contengono la stessa esatta misura di pregiudizio, discriminazione e ostilità. Anche in questo caso c'è una scala graduata, e un punto oltre il quale le cose non sono più le stesse, un punto oltre il quale lo stereotipo razziale si trasforma in razzismo: semplice, vecchio, tradizionale razzismo. E' improbabile che tutto questo sia privo di conseguenze sulla nostra disponibilità a riconoscere diritti. Davvero potremmo accettare che perso-ne sporche, avide, violente, ladre, fanatiche e infingarde abitassero il nostro mondo, traslocassero nella casa accanto, o sposassero nostra sorella? Frequentassero le scuole dei nostri figli, bevessero alla stessa tazza? Tenerli a bada Come ci si può illudere di conciliare le diversità in un'impraticabile e ipocrita utopia di crescita e di reciproco scambio tra visioni del mondo che di fatto strutturano interessi e spazi di potere in-conciliabili? La sfida politica e di civiltà dei nostri tempi, al contrario, consiste piuttosto nel tenere a bada all'interno di uno stesso ambito normativo persone e gruppi tendenzialmente ostili e poten-zialmente aggressivi. Questa è l'utopia democratica a cui possiamo pur pessimisticamente affidarci: la semplicità che è difficile a farsi, come si diceva una volta. Detta così, sembrerebbe una banalità disarmante: la democrazia è la condizione di uguaglianza giuridica e politica dei diversi. E' quello che ci sentiamo ripetere da svariate centinaia di anni, il principio primordiale e fondante della nostra civiltà. Ma come per le persone, sarebbe davvero ingenuo pretendere di giudicare una cultura solo dal-le sue dichiarazioni di principio, o dall'idea che ritiene di avere di se stessa. Sono invece le pratiche, i comportamenti, la cruda preponderanza del reale a contare veramente. E le nostre pratiche e i no-stri comportamenti tutti ci dicono che ad un asserito, nuncupativo e universale riconoscimento dell'uguaglianza di tutti i membri della specie (di cui si fa diuturna propaganda nelle parrocchie e sui banchi delle scuole elementari, e nei patetici telegiornali della sera) corrisponde di fatto una pra-tica molto complessa e diversificata di segmentazione e gradazione di diritti, che è condizionata da più sotterranee e radicate configurazioni culturali: derive, vestigia, ma anche il richiamo primordiale e viscerale della ineliminabile territorialità insediata nel profondo di ogni essere umano. Il fatto stesso che una parte di noi senta di dover proteggere, difendere i diritti umani testimonia di quanto essi siano costantemente violati, e insieme questa costante violazione testimonia che non esiste fondamento alla universalità di questo diritto, nessun imperativo morale in base al quale i comportamenti devianti gridino vendetta al cospetto di dio: qualcosa, per esempio, che sia altrettan-to cogente dell'amore materno, del tabù dell'incesto, o del desiderio sessuale. Tutto ci dice che il diritto umano è comunque - anche nell'ambito della cultura che lo professa, lo teorizza e lo difende - un diritto condizionato e relativo, e per questo fragile ed esposto permanentemente alle violazioni. E' bene prendere atto consapevolmente persino dell'impossibilità logica di essere all'altezza delle nostre dichiarazioni di principio, della distanza tra la nostra asserita eticità e la cruda gestione degli affari umani in cui siamo immersi. Riconoscere senza tante storie quanto la nostra civiltà (compresi molti strenui sostenitori dei diritti umani) sia ben disposta, a determinate condizioni, a negare i diritti umani di alcuni in nome di quelli di altri. I generosi democratici dell'occidente hanno sterminato centinaia di afgani innocenti (senza particolare sensibilità per i loro diritti umani, così pare) ma è pur vero che hanno garantito alle loro donne il diritto di essere libere dal burka (benché ostinatamente si rifiutino di approfittarne). I palestinesi hanno gli stessi diritti umani di noi, certa-mente, ma dovrebbero avere il buon gusto di non mettere alla prova la nostra coerenza, pretendendo così insistentemente che vengano rispettati (anche armi alla mano, ovviamente, come avviene da che mondo è mondo). Etica? L'etica. In fondo vediamo che non è difficile aggirare le proibizioni etiche, purché se ne sap-piano manipolare adeguatamente i contesti, o allestire un rituale convincente di esclusione e inclu-sione. Con espedienti del genere, anche dare la morte diviene accettabile, e così la tortura, il rapi-mento, le violenze di ogni tipo: Guantanamo, Abu Grahib, appunto, e persino i buoni italiani in Li-bia e a Nassirya. Come hanno dimostrato gli esperimenti di Stanley Milgram, persone comuni e normalissime possono trasformarsi in freddi torturatori e omicidi se viene loro offerta la possibilità di esserlo in un contesto di 6

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