Anno Accademico 1994-'95

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1 Università degli Studi di Perugia Facoltà di Medicina Veterinaria Istituto di Produzioni Animali Anno Accademico 1994-'95

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3 I L D N A Oggi si dà per scontato che il materiale genetico è il DNA. Già nel 1928 lo statunitense Griffith dimostrò che una sostanza iniettata al Diplococcus pneumoniae lo trasformava da avirulento in virulento. Nel 1944 Avery identificò il DNA e dal 1952 tutta la comunità scientifica lo accettò come il materiale genetico alla base dell'eredità. L'acido desossiribonucleico è costituito da una sequenza di quattro molecole fondamentali denominate nucleotidi, che differiscono solamente per il fatto di contenere ciascuno una differente base azotata; ogni nucleotide risulta composto da uno zucchero a cinque atomi di carbonio (desossiribosio), da un gruppo fosfato e da una delle quattro basi azotate; da un punto di vista strutturale, le basi sono a due a due simili: da una parte adenina e guanina (purine, con un doppio anello) e dall'altra citosina e timina (pirimidine, ad anello singolo). La struttura di un nucleotide è quindi composta dall'anello del desossiribosio che lega il gruppo fosfato al suo carbonio 5' ed una delle quattro basi al carbonio 1'. Nel 1953, James Watson e Francis Crick proposero il primo modello della molecola del DNA che conteneva in sé l'indicazione di come il DNA potesse svolgere le sue funzioni di conservazione e trasmissione dell'informazione genetica. La struttura proposta da questi autori è quella di una doppia elica avvolta a spirale con avvitamento destrorso (cioè in senso orario). Ciascuna elica è formata da una catena di nucleotidi tenuti insieme da legami covalenti; più precisamente si tratta di legami fosfo-diesterici nei quali un gruppo fosfato forma un ponte tra la posizione 3' di un pentoso e la posizione 5' del pentoso successivo. Ciascuna catena avrà ad una sua estremità un gruppo 5' libero ed all'estremità opposta un gruppo 3' libero; le due eliche sono tenute insieme dai legami idrogeno che si stabiliscono tra le basi complementari (A-T e C-G) per la presenza di due atomi elettronegativi che condividono un protone. I legami ad idrogeno che uniscono le due catene sono molto più deboli di quelli covalenti che uniscono due nucleotidi contigui nella stessa catena; per motivi sterici i legami ad idrogeno possono formarsi solo fra adenina e timina (2 legami) e fra citosina e guanina (3 legami): il differente numero di legami ad idrogeno che lega le coppie di basi azotate complementari spiega la diversa densità che il DNA può avere (è più denso se più ricco in citosina e guanina). Il modello richiede che le due catene siano anti-parallele, decorrano cioè in senso 5'-3' l'una e in senso 3'-5' l'altra: in altri termini l'estremità 5' di un filamento si trova di fronte all'estremità 3' dell'altro. Il modello proposto da Watson e Crick nel 1953 è ancora sostanzialmente valido: è il ß-DNA, dove l'andamento della spirale e dei filamenti è regolare e si può distinguere un solco minore (fra le due catene) ed un solco maggiore (quello dovuto alla spiralizzazione vera e propria). E' importante sottolineare che, in periodi successivi, sono state descritte altre conformazioni della molecola dell'acido desossiribonucleico. Queste differenti conformazioni strutturali del DNA sono state messe in rapporto a specifiche sequenze nucleotidiche della molecola stessa. Ad esempio, alcune sequenze caratterizzate da un regolare alternarsi di basi pirimidiniche e puriniche sono in grado di indurre la conversione da una normale doppia elica destrorsa ad una forma Z sinistrorsa, caratterizzata da uno scheletro portante di DNA molto più irregolare, seghettato, e dalla presenza di un unico solco minore che sostituisce i due solchi maggiore e minore della classica struttura ß. Altro caso simile è quello per cui le cosiddette ripetizioni invertite (cioè una sequenza seguita sullo stesso filamento dalla sua sequenza complementare disposta in ordine inverso) inducono nella molecola la comparsa di una struttura caratteristica "a croce": ciò è dovuto alla tendenza delle basi ad appaiarsi nell'ambito dello stesso filamento, con il conseguente ripiegarsi del filamento stesso. Il DNA è dunque una molecola estremamente flessibile e reattiva, in grado di interagire con tutta una serie di molecole cellulari grazie anche ad una continua modificazione conformazionale. 3

4 LA DUPLICAZIONE DEL DNA. Il meccanismo di replicazione del DNA è semiconservativo: la doppia elica madre darà due doppie eliche figlie, formate ciascuna da un filamento parentale e da un filamento neoformato; erano stati in precedenza proposti anche altri modelli che però non hanno trovato conferma (ad esempio, il modello conservativo, il modello dispersivo). La doppia elica si srotola e forma una doppia Y (la "forcina di replicazione"): la base della Y si srotola progressivamente mentre le due braccia fungono da stampo (template) per il nuovo filamento. L'intero meccanismo di replicazione è basato sulla complementarietà delle basi azotate. Lo srotolamento necessita di 3 proteine specifiche: la replicasi srotola il tratto da replicare, la proteina SSB si lega al filamento srotolato ed impedisce la sua degradazione e riunione, la proteina ligasi controlla la zona non despiralizzata proteggendola da trazioni ed altri traumi. La DNApolimerasi aggiunge un nucleotide ad un tratto preesistente: non è in grado di iniziare ex novo, ma necessita di un primer (può aggiungere nucleotidi solo all'estremità 3': il verso di formazione della catena è pertanto 5'-3'); l'energia della scissione del gruppo energetico fosfato è utilizzata per legare il nucleotide. La DNApolimerasi ha anche il compito di scindere eventuali legami erronei fra le basi. Il primer è dato dalla RNApolimerasi. Il filamento 3'-5' viene sintetizzato a tratti, sempre nel verso 5'-3', con un numero elevato di primer di RNA; i tratti sono detti frammenti di Okazaki. Quando la DNApolimerasi trova al termine di un tratto il primer di un tratto vicino lo scinde e lo risintetizza come DNA (sostituisce RNA con DNA). I vari frammenti di Okazaki sono uniti dalla DNAligasi. Negli eucarioti la replicazione del DNA non comincia in un solo punto ma contemporaneamente ed indipendentemente in più "forcine di replicazione": questi punti, detti "bolle di replicazione", confluiscono e sono infine uniti dalla DNAligasi; per dimostrare la molteplicità dei siti di replicazione si è ricorsi a timidina triziata, cioè marcata con trizio, e si è seguita la distribuzione della radioattività dopo la replicazione. LA DIVISIONE FUNZIONALE DEL DNA. Le dimensioni del genoma vengono espresse in numero di paia di basi (1 Kb = paia di basi). Salendo nella scala evolutiva si nota una certa tendenza all'aumento delle dimensioni del genoma, ma non vi è una esatta corrispondenza fra la complessità fenotipica o il livello evolutivo di un organismo e la grandezza del suo genoma: ad esempio, il genoma di una salamandra e quello del grano tenero hanno entrambi dimensioni superiori al genoma dell'uomo. Bisogna tenere conto non solo del numero di paia di basi ma anche del numero di geni. Il genoma di Eschirichia coli è composto da 4x10 6 paia di basi e considerando un gene in media codificato in 2-3 Kb si può sostenere che il genoma di questo batterio contiene poche migliaia di geni, come si è potuto anche controllare fenotipicamente; il genoma di Drosophyla melanogaster ha circa 2x10 8 paia di basi, ma è stato dimostrato contenere solo geni circa; il genoma dell'uomo (Homo sapiens) ha circa 3x10 9 paia di basi, e contiene circa geni. In realtà, mentre nei batteri le dimensioni del genoma sono proporzionali al numero dei geni, negli eucarioti ciò non si verifica. Come mai aumenta molto il DNA ma proporzionalmente non i geni? Esiste del DNA eucariotico che non funziona? In effetti negli eucarioti c'è molto DNA ripetuto: alcune centinaia di basi vengono ripetute più volte. Per studiare questo fenomeno si utilizza la cinetica della denaturazione; il DNA viene frammentato e poi denaturato (cioè trasformato da un doppio filamento in due filamenti singoli, in genere aumentando la temperatura); quando si riabbassa la temperatura il DNA si rinatura, cioè si ritrasforma in doppio filamento mediante l'appaiamento delle basi complementari: più esistono sequenze ripetute e più rapida è la rinaturazione (ci sono più probabilità di appaiamento fra frammenti complementari). 4

5 In base alla quantità di ripetizioni vengono distinte negli eucarioti 3 classi di DNA: - DNA altamente ripetuto, che rappresenta da 0 al 50% del DNA, nel quale esistono oltre 10 5 copie delle stesse sequenze, come ad esempio nel caso del DNA satellite; - DNA mediamente ripetuto, che rappresenta dal 10 al 40% del DNA e con sequenze ripetute fra 10 e 10 5 volte, come nel caso dei geni per rrna, trna istoni; - DNA a sequenza unica, che non è cioè ripetuto, e rappresenta il 40-80% del DNA (ad esempio, i geni dell'emoglobina, dell'ovoalbumina). Il DNA satellite è costituito da sequenze altamente ripetute: ultracentrifugando in gradiente di cloruro di cesio, all'interno della provetta il DNA si stratifica in una banda corrispondente alla propria "densità di galleggiamento"; nei procarioti si ha una sola banda, mentre negli eucarioti in prossimità della banda principale si hanno altre bande, da cui il nome di DNA satellite; il fenomeno è legato al diverso contenuto in coppie di basi guanina-citosina, che provoca una densità diversa da quella della banda principale. Da un punto di vista funzionale il DNA può essere distinto in codificante e non codificante, a seconda che dia o meno esito alla sintesi di una proteina. Il genoma è composto da parti funzionalmente discontinue: la parte non codificante (introne) viene trascritta ma non dà alcuna proteina, mentre la parte codificante darà gli esoni e quindi le proteine. Per quale motivo nel DNA si ripetono più volte le stesse sequenze? Un'ipotesi era che più erano le sequenze e più poteva essere quantitativamente la sintesi della proteina, ma si è visto che più che dalla trascrizione la sintesi proteica è limitata da altre fasi. Si tratta di una specie di copie di riserva, in caso di mutazioni? Il DNA ripetuto modifica la probabilità che le mutazioni, che sono casuali, riguardino delle sequenze funzionalmente importanti? Si tratta di famiglie multigeniche, cioè di geni molto simili sia nelle sequenze nucleotidiche che nella proteina prodotta (ad esempio, le globine dell'emoglobina, oppure le cheratine della lana), con una qualche testimonianza evolutiva? Se il DNA ripetuto non è codificante, a che cosa può servire? E' forse la forma più semplice di parassitismo? IL CODICE GENETICO. In che modo la sequenza nucleotidica del DNA determina la sequenza aminoacidica delle proteine? E' il concetto di codice genetico. Il primo problema era di stabilire se nel codice c'erano o no delle sovrapposizioni, cioè di stabilire se un nucleotide poteva essere "letto" più di una volta, in diverse posizioni del codice: ad esempio, nel caso di una sequenza ATTGCTCAG, se il codice è senza sovrapposizione, i primi tre aminoacidi sono codificati dalle triplette ATT, GCT, CAG, mentre se il codice è con sovrapposizioni, i primi tre aminoacidi sono codificati dalle triplette ATT, TTG, TGC. Nel 1961 venne accertato che non ci sono sovrapposizioni: infatti, se muta una sola base muta nella corrispondente proteina un solo aminoacido; il codice con sovrapposizione farebbe invece prevedere che al cambiamento di un solo nucleotide corrisponda il cambiamento di più aminoacidi contigui (fino a tre). In realtà ci può essere una specie di sovrapposizione perché il DNA può essere letto con differente "frame" (lettura spostata di una o due basi) e quindi dare differenti proteine: si dicono proteine modificate per scivolamento ("shifting"); si tratta però non di una sovrapposizione nella lettura del codice genetico per una proteina ma di differenti fasi di lettura dello stesso tratto di DNA che codifica per proteine differenti. Le lettere a disposizione del codice genetico sono le 4 basi azotate. Con due basi azotate si potrebbero specificare 4 2 possibilità, cioè 16 differenti aminoacidi, mentre con tre si possono teoricamente specificare 64 differenti aminoacidi (4 3 ); essendo 20 gli aminoacidi c'è un problema di eccesso di possibilità. Ai 20 aminoacidi bisogna aggiungere un codon per il segnale di inizio della trascrizione ed uno per il segnale di fine della trascrizione, ma ne esistono anche che non specificano nulla (e quindi fanno immediatamente interrompere la trascrizione); si tratta inoltre di un codice degenerato, perché un aminoacido può essere 5

6 indicato da più di un codon. Esperimenti condotti da Brenner (con mutanti del locus rii del fago T4) hanno dimostrato che un codon è effettivamente di tre lettere (e non più di tre). Il meccanismo di duplicazione del DNA è molto efficiente: in E. coli, in un minuto vengono replicate basi e in una generazione c'è solo un errore su un milione di replicazioni del DNA. LE MUTAZIONI. Occasionalmente, durante la replicazione del DNA, possono verificarsi degli errori che vengono trasmessi alla generazione successiva. Potrebbe avvenire ad esempio che venga sostituito per errore un nucleotide: è una mutazione puntiforme; l'rna-polimerasi non è in grado di individuare l'errore, per cui l'informazione errata viene trascritta con conseguenze più o meno gravi; il cambio di una base azotata può dare un differente aminoacido o un codice non-senso, che interrompe la sintesi proteica, ma anche non provocare nulla se il nuovo codice è per lo stesso aminoacido (il codice genetico è un codice degenerato). Se un aminoacido diverso viene introdotto in una proteina l'attività della stessa potrà essere più o meno modificata (negativamente la maggior parte delle volte, positivamente qualche rara volta, ed in quest'ultimo caso il mutante potrà risultare favorito nella selezione). Se il nuovo codon derivante dalla sostituzione di un singolo nucleotide non codifica per alcun aminoacido, una volta giunto a questo livello, il processo di trascrizione si arresta: se ciò avviene subito dopo l'inizio del gene, l'assenza pressoché totale della proteina ha generalmente gravi conseguenze nell'organismo mutante. Altro tipo di mutazione puntiforme è la perdita di un nucleotide (delezione); in questo caso l'rna-polimerasi non ha più la corretta chiave di lettura (reading frame) e tutti i codon a valle della mutazione (e quindi i corrispondenti aminoacidi) assumono significati diversi. Questo tipo di mutazione viene definita frameshift. Le stesse conseguenze si hanno per l'inserzione di un nucleotide. In certi casi possono andare perduti o essere inseriti interi tratti di DNA. Si indicano con il termine di introsoni o trasposoni dei tratti di DNA più o meno lunghi, con sequenze terminali costanti, in grado di spostarsi da un punto ad un altro del genoma: la loro inserzione generalmente abolisce l'attività del gene. E' stato osservato che le coppie di nucleotidi non mutano tutte con la stessa frequenza: in certi siti la probabilità di mutazione è fino a 100 volte più elevata che in altri ("hot spots", cioè "punti caldi"). Un esempio di hot spot è il gene lact di E. coli: c'è un punto, a 200 basi dall'inizio del gene, dove la citosina è metilata in posizione 5'; normalmente la citosina è trasformata dalla desaminazione ossidativa in uracile, che viene riconosciuto come estraneo al DNA, allontanato e risostituito da citosina: la 5-metil-citosina è però trasformata dalla desaminazione ossidativa in timina, che è una normale base del DNA: ne consegue che un filamento resta normale mentre quello mutato, nella replicazione, avrà un appaiamento timina-adenina invece che citosina-guanina. L'RNA. L'informazione genetica contenuta nel DNA controlla la sintesi delle proteine: tale informazione viene trascritta in mrna e trasferita dal nucleo ai ribosomi, dove l'mrna fornisce il messaggio per la sintesi della proteina; l'rna è quindi il tramite tra il DNA e le proteine: senza di esso l'informazione genetica rimarrebbe inerte e non potrebbe essere espressa. A differenza di quanto visto nel DNA, nell'rna il filamento è singolo invece che doppio, nei nucleotidi è presente l'uracile al posto della timina, lo zucchero è il ribosio invece che il 6

7 desossiribosio; nel desossiribosio il gruppo chimico legato al carbonio in posizione 2 è un atomo di idrogeno, mentre nel ribosio nella stessa posizione è presente un ossidrile. La scelta evolutiva del DNA come molecola deputata alla conservazione dell'informazione genetica è legata alle differenze chimiche esistenti fra DNA ed RNA; infatti, quando i ribonucleotidi sono uniti a formare l'rna, l'ossidrile in posizione 2 del ribosio rimane libero, e ciò rende l'rna meno stabile del DNA dal punto di vista chimico: in soluzione acquosa l'rna va incontro a rapida idrolisi. Negli esperimenti che tendono a ricostruire in laboratorio il "brodo primordiale" da cui si ritiene abbia avuto origine la vita, si ha prima la polimerizzazione dell'rna: ciò fa ritenere che l'rna abbia evolutivamente preceduto il DNA, il quale sarebbe originato da una trascriptasi inversa (DNApolimerasi- RNAdipendente) ed avrebbe in seguito soppiantato il DNA grazie alla sua maggiore stabilità, che lo rende intrinsecamente più adatto per conservare l'informazione per lunghi periodi di tempo. LA TRASCRIZIONE. La trascrizione avviene ad opera della RNApolimerasi; la RNApolimerasi si lega al DNA in corrispondenza di un promotore, il quale è differente per i vari geni ma è sempre caratterizzato da una sequenza costante di 6 basi azotate (TATAAT). La formazione dell'rna è analoga a quella del DNA, ma non c'è bisogno di un primer; il verso della sintesi è sempre lo stesso (sul filamento 5'-3'). La sintesi dell'mrna inizia quando l'rna polimerasi comincia a trascrivere il DNA nucleotidi a valle della sequenza TATAAT. L'RNA polimerasi srotola per un breve tratto la doppia elica di DNA ed inizia la trascrizione: l'enzima si muove lungo il DNA aggiungendo i ribonucleotidi (complementari ai desossiribonucleotidi del DNA) al 3' del nucleotide terminale del filamento nascente di RNA. Prima che la lunghezza del trascritto abbia superato i 30 nucleotidi, l'estremità 5' libera del filamento di RNA neosintetizzato viene ricoperta da una specie di struttura protettiva di guanosina metilata, legata per mezzo di un gruppo trifosfato. La trascrizione continua finché l'enzima non oltrepassa una sequenza del DNA che rappresenta il segnale di termine della trascrizione stessa (in genere AAUAAA): circa 20 nucleotidi più a valle il trascritto viene scisso ed un enzima aggiunge una coda di adenin-nucleotidi all'estremità 3' del trascritto (poli-a). Nei procarioti si ha una sola RNA-polimerasi, mentre negli eucarioti si hanno tre diversi enzimi: uno per la produzione di mrna, uno per la produzione di rrna ed uno per la produzione di trna. LA TRADUZIONE. Il trascritto primario passa dal nucleo al citoplasma e viene tradotto a livello di ribosomi; intervengono a questo punto l'rna transfer (trna) e l'rna ribosomiale (rrna). Il trna è un filamento corto, di nucleotidi; esso ha una caratteristica struttura ripiegata, e lega ad una estremità un determinato aminoacido ed alla estremità opposta presenta un'ansa con l'anticodon per quell'aminoacido, ovvero il codon complementare; l'estremità a cui si lega l'aminoacido è sempre la stessa per tutti gli aminoacidi, in quanto è lo stesso enzima che lega l'aminoacido al trna a farsi carico del riconoscimento dell'anticodon. L'rRNA si trova legato ad alcune proteine insieme alle quali costituisce le due subunità ribonucleoproteiche (una maggiore ed una minore) che formano il ribosoma; nei procarioti il ribosoma ha un coefficiente di sedimentazione (misurato in Svedberg) di 70 S e le due subunità hanno rispettivamente 50 S e 30 S; negli eucarioti il coefficiente di sedimentazione del ribosoma è di 80 S e quello delle due subunità di 60 S e di 40 S: nella subunità grande ci sono 3 molecole di RNA, (una grande, di circa 4500 nucleotidi, due piccole di circa 160 e 120 nucleotidi), mentre nella piccola c'è una sola molecola di RNA (di circa 1800 nucleotidi). 7

8 L'RNA messaggero (mrna) "scivola" sull'rrna un codon alla volta e ad uno ad uno si uniscono alla catena proteica nascente i vari aminoacidi portati dall'trna che ha l'anticodon corrispondente; in genere nei procarioti c'è all'inizio della sintesi sempre lo stesso aminoacido, che successivamente viene allontanato. La sequenza dei codon sull'mrna, dipendente dall'informazione contenuta nel DNA, determina a sua volta l'ordine degli aminoacidi nella proteina. LA MATURAZIONE DELL'RNA. Sin dal 1960 esperimenti effettuati marcando con isotopi radioattivi l'mrna hanno dimostrato che alcune molecole di mrna isolate a livello nucleare hanno dimensioni superiori (ad esempio, 5.000bs) a quelle dei medesimi mrna isolati dopo il trasferimento nel citoplasma (ad esempio, 1.000bs): infatti l'mrna marcato non si riibridizza completamente con il DNA denaturato, perché delle parti di DNA non si ritrovano nell'mrna citoplasmatico. I precursori nucleari vengono tagliati e riuniti per dare origine agli RNA maturi, senza alterazioni all'estremità protettiva di guanosina metilata ed alla coda di poli-a, che si ritrovano anche nell'mrna maturo. Questo processo di maturazione dell'mrna è indicato con il termine di splicing. I geni degli organismi eucarioti sono discontinui, costituiti cioè da tratti effettivamente codificanti (indicati con il termine di esoni) inframmezzati da sequenze che non hanno alcuna funzione codificante (introni). Sia gli esoni che gli introni vengono trascritti dall'rna-polimerasi in un trascritto primario: tale trascritto subisce una maturazione a livello nucleare che comporta l'allontanamento delle porzioni introniche; l'mrna maturo che arriva ai ribosomi contiene pertanto solamente la porzione esonica, l'unica ad essere effettivamente espressa. Lo splicing dell'mrna non avviene invece nei batteri dove i geni sono continui. Durante il processo di maturazione, un ruolo fondamentale nell'allontanamento degli introni è svolto dalle snrnp, costituite da un gruppo di molecole proteiche legate ad un'unica molecola di RNA: si tratta di un RNA particolare, ricco di uracile (RNA U). Nel trascritto primario, nel punto di passaggio tra esoni ed introni, esistono delle sequenze caratteristiche ricche di guanina ed uracile: le snrnp si legano a tali sequenze G-U e tagliano la catena RNA in quel punto. Gli introni vengono così allontanati mentre gli esoni vengono saldati tra loro dando origine all'rna messaggero maturo. Agli scienziati che hanno scoperto la discontinuità dei geni è stato assegnato nel 1993 il premio Nobel. L'ESPRESSIONE DEI GENI. Le scoperte sulla discontinuità funzionale dei geni sono state fatte nel corso delle ricerche sull'espressione dei geni: le diverse cellule di un organismo hanno tutte lo stesso DNA, per cui come si spiegano le differenze? Un problema di fondamentale importanza nello studio del genoma è rappresentato dalla regolazione dell'espressione genica: è chiaro che una cellula, in un determinato istante, non contiene tutti gli mrna codificati dal suo DNA, ma trascrive alcuni geni e produce le proteine corrispondenti solo quando ne ha la necessità. Nei procarioti non ci sono introni (quelli identificati sono trascurabili), mentre negli eucarioti si è posto immediatamente il problema di stabilire quale importanza può avere la maturazione dell'rna nella regolazione dell'espressione genica. Secondo una teoria si ipotizzava che la scelta di quale proteina produrre, in quale cellula ed in quale momento, fosse legata alla maturazione differenziale di un'unica molecola di mrna trascritta in maniera totale ed indifferenziata in tutte le cellule: ad esempio, un trascritto contenente più esoni avrebbe potuto essere tagliato e poi nuovamente saldato in modo da includere nell'mrna maturo tutti 8

9 o solo alcuni degli esoni, purché fossero conservati gli esoni alle estremità del gene (contenenti il "cappuccio" protettivo di guanosina metilata in posizione 5' e la coda di poli-a in posizione 3'), e che gli esoni fossero rimasti nello stesso ordine. Sono stati effettivamente scoperti diversi geni che si comportano in questo modo: si tratta di "unità di trascrizioni complesse", che codificano per più mrna (ottenuti mediante splicing differenziale). Un esempio di unità di trascrizioni complesse è rappresentato dal segmento di DNA che codifica per la calcitonina, ormone prodotto a livello della tiroide: è stato osservato che tale sequenza si ibridizza anche con un mrna prodotto nell'ipofisi. Il trascritto primario che si trova nelle cellule tiroidee si ritrova anche a livello dell'ipofisi e contiene due siti poli-a; nella tiroide viene accettato come segnale terminale il primo sito poli-a: i primi quattro esoni vengono saldati e danno origine ad un mrna che codifica per la calcitonina; nell'ipofisi invece lo stesso trascritto primario termina in corrispondenza del secondo sito poli-a: al momento della saldatura il quarto esone viene allontanato insieme agli introni, mentre vengono uniti il quinto ed il sesto esone, dando così origine all'mrna per una proteina, completamente diversa dalla calcitonina, nota come CGRP. Con la scoperta delle più recenti tecniche di biologia molecolare si è accertato che l'importanza dello splicing nella regolazione dell'espressione genica è relativa; la regolazione è effettuata essenzialmente attraverso un controllo della trascrizione primaria, quando alcuni geni vengono trascritti ed altri no: non si ha tanto una trascrizione indifferenziata seguita da una maturazione differenziale dell'mrna, ma direttamente una trascrizione differenziale del DNA. L'importanza della trascrizione differenziale è stata dimostrata isolando e clonando dei geni; vennero isolate e clonate delle sequenze nucleotidiche per proteine specifiche del fegato e per delle proteine non-specifiche; questi geni sono stati posti su un filtro di nitrocellulosa e messi a contatto con il trascritto primario, marcato con isotopi radioattivi, di cellule epatiche, renali e cerebrali: il trascritto delle cellule epatiche si ibridizzava sia con i geni per le proteine del fegato che con i geni delle proteine non specifiche, mentre il trascritto primario delle cellule renali e quello delle cellule cerebrali si ibridizzava solo con le sequenze nucleotidiche per le proteine non-specifiche. Come è controllata l'attivazione e la disattivazione del gene? E' questo un problema particolarmente sentito da chi si occupa di ingegneria genetica, perché inserire un gene estraneo in un genoma (animali transgenici) è relativamente semplice, ma controllare l'espressione di questo gene è un problema ancora non risolto. Le conoscenze disponibili riguardano soprattutto i procarioti. Esperimenti condotti principalmente sul fago lambda hanno evidenziato come l'espressione genica può essere controllata da proteine regolatrici che si legano a siti specifici del segmento di DNA: tali proteine vengono indicate con il termine di repressori. Il repressore si lega ad una specifica sequenza di DNA denominata operatore, situata immediatamente accanto al promotore, cioè accanto a quella breve sequenza di DNA che rappresenta il punto di attacco dell'rna polimerasi e quindi di inizio della trascrizione: la presenza del repressore sul sito operatore impedisce il legame della RNA polimerasi al promotore e di conseguenza la trascrizione del gene. Nel fago lambda è stato anche evidenziato un meccanismo di autoamplificazione: l'rna polimerasi non si lega al promotore del gene ma al promotore del gene per la proteina che funge da repressore. Molto spesso un solo repressore controlla l'espressione coordinata di più geni: tale sistema nel suo complesso viene definito operone. Un esempio è l'operone lact di E. coli, che comprende tre geni (Z, Y, ed A) responsabili del catabolismo del lattosio attraverso la sintesi di tre enzimi (ß-galattosidasi, permeasi, transacetilasi). Il gene lact di E. coli è un sistema inducibile: se non c'è lattosio nel mezzo, il repressore si lega all'operatore ed inibisce la trascrizione dei geni per le tre proteine enzimatiche che dovrebbero catabolizzare il lattosio; se invece nel mezzo c'è lattosio, questo si lega al repressore che, così modificato nella forma, non è più in grado di inattivare l'operatore: l'rna polimerasi trascrive l'informazione per i tre geni Z, Y ed A in 9

10 un'unica molecola di RNA policistronico. L'operone lact è un esempio di sistema inducibile nel senso che la sintesi di un enzima è indotta dalla presenza del suo substrato. Esistono anche dei sistemi reprimibili, nei quali il prodotto finale determina il blocco della trascrizione dei geni per gli enzimi responsabili della sintesi del prodotto stesso: un esempio è l'operone trp, responsabile della sintesi del triptofano. Il meccanismo di controllo dell'espressione genica di un sistema reprimibile comporta la presenza sul DNA di un'altra regione specifica denominata attenuatore, responsabile di una riduzione della velocità di trascrizione dell'mrna in presenza del prodotto finale (triptofano): l'assenza di questa regione in alcuni mutanti è associata ad una produzione continua e massiccia di triptofano. GLI INTRONI, GLI ESONI E L'EVOLUZIONE. Fino agli anni '60 la maggior parte degli studiosi riteneva che i batteri, per la loro semplicità, dovessero essere simili alle prime cellule ancestrali e che gli eucarioti si fossero evoluti da procarioti primordiali. Lo splicing del trascritto primario, costantemente presente negli eucarioti, avviene molto raramente nei procarioti che non contengono, se non in quantità trascurabile, introni: di conseguenza gli esoni venivano considerati come delle complessità introdotte relativamente tardi nel corso dell'evoluzione. La prima cosa ad essere messa in dubbio fu che i batteri fossero effettivamente gli organismi più antichi. Woese e collaboratori tracciarono una mappa delle genealogie cellulari confrontando le sequenze nucleotidiche degli rrna di differenti organismi; si utilizzava una particolare subunità 16 S dell'rrna perché è una struttura precedente la stessa cellula ed è una molecola che non ha mai mutato la sua attività funzionale; si digeriva l'rrna con ribonucleasi che spezzavano la catena in corrispondenza della guanina e si confrontavano i frammenti di almeno 6 basi azotate (una ventina di frammenti circa): più le sequenze sono conservate, maggiore è la probabilità che gli organismi discendano da un antenato comune. Ci si rese conto che gli archibatteri, un piccolo gruppo di metanobatteri, non rientravano nell'albero filogenetico dei batteri classici: essi non erano più vicini dal punto di vista filogenetico agli eubatteri di quanto lo fossero agli eucarioti. Si è quindi ipotizzata l'esistenza di tre linee evolutive separate, discendenti da un unico progenitore comune definito "progenote": eubatteri ed archibatteri sarebbero evoluti direttamente dal progenote, mentre gli eucarioti deriverebbero dalla fusione di un eucariote ancestrale con due tipi di eubatteri; l'eucariote ancestrale avrebbe dato origine al nucleo della cellula, mentre mitocondri e cloroplasti sarebbero derivati rispettivamente dai solfobatteri purpurei e dai cianobatteri (determinando le sequenze dell'rrna contenuto nei mitocondri si è dimostrato che sono analoghe a quelle dei solfobatteri purpurei, mentre le sequenze dell'rrna dei cloroplasti sono analoghe a quelle dei cianobatteri). L'origine di eucarioti e procarioti è quindi da considerare indipendente e contemporanea; essendo il nucleo degli eucarioti antico quanto i batteri, ed essendo il nucleo la sede dove avviene la maturazione dell'mrna, non vi è alcuna ragione per ritenere che tale processo abbia avuto inizio solo più tardi. Addirittura la maturazione dell'rna potrebbe essere iniziata ancora prima della comparsa del progenote: probabilmente sin dall'inizio la molecola era caratterizzata dalla presenza di esoni ed introni e ciò sembrerebbe confermato anche dalla posizione che introni ed esoni occupano in molti geni moderni; ad esempio, nei geni che codificano per le emoglobine, per le immunoglobuline e per altri enzimi, ogni esone codifica per un dominio della molecola proteica riconoscibile come unità funzionale: è poco plausibile ritenere che l'introduzione degli introni avvenuta casualmente possa aver determinato questa precisa suddivisione e molto più probabile invece uno sviluppo graduale dello splicing che avrebbe portato alla sintesi di proteine più grandi e più utili. E' molto probabile che i geni dei primi archibatteri ed eubatteri fossero discontinui e che, attraverso un'evoluzione durata innumerevoli generazioni, i batteri oggi esistenti abbiano 10

11 eliminato quasi totalmente le sequenze non codificanti dal loro genoma; il DNA degli eucarioti, uomo compreso, si è invece evoluto più lentamente (maggior intervallo di generazione): i geni degli eucarioti presentano quindi "inutili" introni ed il sistema di traduzione è rimasto ancorato ad un complesso procedimento di maturazione, evolutivamente già superato dalle cellule procariote. Non tutti gli studiosi condividono però queste ipotesi: alcuni ritengono che l'organizzazione del genoma in esoni ed introni sia evolutivamente più recente. LA BIOLOGIA MOLECOLARE E LO STUDIO DELL'EVOLUZIONE FILOGENETICA. Nel 1951 venne determinata la sequenza aminoacidica dell'insulina bovina. I primi studi di biologia molecolare sull'evoluzione filogenetica sono stati fatti mediante analisi delle sequenze proteiche in quanto non si disponeva ancora di tecniche per determinare la sequenza nucleotidica dei geni. Il concetto di omologia proteica è simile, ma un po' più "grossolano", a quello di omologia genetica: proteine di organismi diversi che svolgono le stesse funzioni hanno spesso somiglianze nella sequenza di aminoacidi e, quando queste somiglianze sono elevate, si dice che le proteine stesse sono omologhe. Nell'uso corrente con omologia si indica un'origine genetica comune: i geni che codificano catene polipeptidiche omologhe, in qualsivoglia specie si trovino, hanno avuto un gene ancestrale comune e si sono evoluti indipendentemente a cominciare dalla divergenza delle specie alle quali appartengono. In base al concetto di omologia è possibile, quando si conosca la sequenza di proteine che hanno la stessa funzione ma si trovano in organismi tassonomicamente lontani, stabilire la loro storia evolutiva mediante il confronto delle sequenze e ricostruire un albero filogenetico sulla base delle differenze in aminoacidi. Molto utilizzata per gli studi tassonomici è stata la sequenza aminoacidica del citocromo c: questo perché è presente in tutte le specie che utilizzano l'ossigeno, è una proteina molto antica (presumibilmente comparsa quando l'ossigeno si è accumulato nell'atmosfera per azione dei primi organismi procarioti fotosintetici) ed infine perché ha sempre conservato la stessa attività funzionale. Molto utilizzate anche le globine (mioglobina ed emoglobina); l'emoglobina, pur essendo nei vertebrati una proteina tetramerica, presenta in ogni catena la struttura dell'emoglobina monomerica tipica degli invertebrati: il confronto permette quindi di risalire a tempi molto lontani dell'evoluzione; altro motivo di interesse è legato al fatto che nell'emoglobina si riscontra, oltre ad un'evoluzione ortologa (una stessa proteina conservatasi nel corso della divergenza evolutiva di specie diverse), anche un'evoluzione paraloga (più forme della stessa proteina in un'unica specie, formatesi probabilmente per duplicazione genica). L'elevato grado di somiglianza tra le sequenze di tutte le globine finora studiate fa pensare che i geni che le codificano derivino da un unico gene ancestrale. Le globine degli invertebrati differiscono tra di loro e dalle globine dei vertebrati molto più di quanto non differiscano le mioglobine e l'emoglobine dei vertebrati. Queste osservazioni indicano che mentre le globine monomeriche degli invertebrati sono codificate da raggruppamenti di geni, nei vertebrati sono rimasti solo due geni: uno si è specializzato per la formazione dell'emoglobina con funzione di trasporto dell'ossigeno e l'altro, derivato dal precedente, per la formazione della mioglobina con funzione di riserva dell'ossigeno. Per successive duplicazioni, il gene dell'emoglobina ha dato origine prima a geni specializzati per le catene α e ß del tetramero, poi a quelli di tutte le altre catene; tra le sequenze delle catene emoglobiniche esiste un'alta correlazione con le distanze filogenetiche delle specie: le catene α dell'uomo e della scimmia Rhesus differiscono solo per 4 posizioni su 141, quelle dei bovini e dei primati per 16 posizioni, quelle degli uccelli e dei mammiferi per 37-45, mentre le catene α dei pesci cartilaginei differiscono da quelle dei vertebrati superiori per posizioni. Anche per proteine paraloghe la sequenza è 11

12 quindi tanto più diversa quanto più lontane sono le specie animali a cui appartengono: infatti i geni delle specie più distanti, essendosi separati in epoche più remote, hanno avuto più tempo per accumulare mutazioni casuali ma accettate (nel senso che hanno prodotto a livello proteico modifiche adattative o almeno selettivamente neutre). Bisogna considerare che i calcoli effettuati con le sequenze aminoacidiche sono meno precisi di quelli effettuati con le sequenze nucleotidiche perché, essendo il codice genetico degenerato, non tutte le modificazioni riscontrate a livello della proteina hanno lo stesso peso evolutivo in termini di mutazioni intercorse: un'unica sostituzione in una tripletta può, ad esempio, non causare cambiamenti a livello aminoacidico; esistono dunque mutazioni silenti che non possono essere valutate anche se hanno la stessa importanza evolutiva di quelle che causano la sostituzione di un aminoacido; esistono al contrario mutazioni di un aminoacido che indicano mutazioni in due o tre basi azotate. Tutte le volte che ci si basa su criteri di omologia genetica per studiare la filogenesi o genericamente la somiglianza fra organismi viventi bisogna considerare se la mutazione è neutrale alla fitness o meno: la non-neutralità potrebbe infatti rendere inesatti i calcoli, non tanto per quanto riguarda la forma dell'albero che si ricostruisce, ma soprattutto per la scala dei tempi (non si parla cioè delle mutazioni in genere, ma di quelle che si sono mantenute perché erano viabili o addirittura adattative). Il metodo ideale per valutare l'omologia è quello di confrontare direttamente le sequenze nucleotidiche dei geni, invece delle sequenze aminoacidiche delle proteine: ciò è attualmente possibile con tecniche di biologia molecolare. Ogni gene che esiste in una cellula oggi è una copia di un gene che esisteva nelle generazioni precedenti: non è però una copia esatta, perché le mutazioni hanno alterato la sequenza originale, ma spesso persistono sequenze molto antiche; se due geni sono simili per un segmento che comprende un numero considerevole di nucleotidi, ciò significa che hanno un antenato comune. La biologia evoluzionistica è fondata sull'ipotesi dell'"orologio molecolare", formulata da Zuckerkandl nel Secondo tale ipotesi il materiale genetico di popolazioni riproduttivamente isolate va incontro nel tempo ad una progressiva differenziazione: le popolazioni divergono perché nel loro DNA si verificano delle mutazioni casuali, che vengono trasmesse alle generazioni successive; le mutazioni possono interessare regioni del DNA effettivamente codificanti (gli esoni) oppure gli introni, senza alterare in questo caso la sequenza aminoacidica di una proteina. Poiché le mutazioni si accumulano nel tempo, il grado di differenziazione di due diverse specie, sia nella sequenza aminoacidica che, soprattutto, in quella nucleotidica, è un indicatore della distanza filogenetica: in base alle differenze riscontrate è possibile valutare il momento approssimativo in cui due specie si sono allontanate da un antenato comune; sono state con queste premesse riviste delle classificazioni tassonomiche. Sibley ed Ahlquist hanno ricostruito l'albero filogenetico delle principali specie di uccelli attraverso i metodi della biologia evoluzionistica. Gli elementi necessari per ricostruire un albero filogenetico sono essenzialmente due: uno schema di ramificazione e la datazione di ogni ramificazione (ad esempio, quando una barriera, spesso di tipo geografico, divide una specie in due popolazioni, che possono così divergere geneticamente e dare luogo a specie differenti). Finora alla scoperta delle metodologie di biologia evoluzionistica l'unica fonte di informazione sui rapporti filogenetici tra specie era il confronto dei caratteri morfologici ed anatomici; i caratteri anatomici si sono però modellati su precise esigenze funzionali: non è quindi detto che una somiglianza morfologica indichi relazioni di parentela in quanto forme simili possono comparire per "convergenza evolutiva" anche in organismi filogeneticamente lontani (ad esempio rondini e rondoni, nelle prime classificazioni degli uccelli, venivano considerati insieme per la notevole somiglianza morfologica: tale somiglianza è in realtà dovuta soltanto ad analoghe esigenze di adattamento, essendo entrambi predatori di insetti alati, mentre filogeneticamente le due specie sono molto differenti, essendo i rondoni prossimi 12

13 ai colibrì e le rondini dei tipici passeriformi). La datazione delle ramificazioni era basata esclusivamente su reperti fossili, ammesso che fossero disponibili: anche in questo caso però la datazione di un fossile indica quando quell'organismo è vissuto, ma non quando la sua linea filetica ha cominciato a divergere dalle altre. La tecnica più usata per misurare le differenze genetiche fra le specie attualmente esistenti è l'ibridazione DNA-DNA. Si estrae il DNA dalle cellule delle due specie da confrontare, mediante degli enzimi che fanno fuoriuscire gli acidi nucleici; si ultracentrifuga per isolare il DNA che viene frammentato (frammenti di circa 500 nucleotidi) e privato della parte ripetitiva attraverso procedimenti di denaturazione e rinaturazione, fino a conservare solo le sequenze presenti in singola copia (si eliminano i frammenti che dopo denaturazione si rinaturano per primi: più un frammento è ripetuto, prima è probabile che si ricombini rapidamente con un frammento complementare); il DNA di una specie viene marcato con isotopi radioattivi ("tracer", cioè tracciante) e, come monofilamento, viene messo a contatto con quello dell'altra specie ("driver", cioè elemento guida), sempre denaturato ma non marcato; l'ibrido eteroduplex che così si forma è tanto più stabile quanto più i due genomi sono complementari: alzando la temperatura si ha una progressiva liberazione del DNA ibridizzato da delle colonnine di idrossiapatite, le quali sono in grado di trattenerlo solo se sotto forma di doppia elica; la stabilità dell'eteroduplex viene confrontata con quella dei due DNA omoduplex, cioè molecole a doppio filamento in cui sia il tracciante che l'elemento guida appartengono alla stessa specie. Gli omoduplex costituiscono lo standard con cui confrontare la stabilità termica dell'eteroduplex: si può tracciare un grafico della curva di fusione che mostra la quantità di eteroduplex che si denatura a temperature crescenti; la differenza media in gradi centigradi tra la curva media dei due omoduplex e quella dell'eteroduplex è una misura della differenza genetica tra la specie confrontate. La differenza tra i DNA di due specie può essere utilizzata come indicatore della distanza genealogica tra le due specie solo se è possibile affermare che il DNA muta con una velocità media uguale in qualsiasi linea filetica; diversi autori ritengono di aver dimostrato ciò mediante il test della velocità relativa: si confrontano tre specie, due delle quali più imparentate fra loro che con la terza; se, come si è sempre potuto verificare, la distanza fra la terza (che fornisce nella prova il tracciante) e le prime due (che forniscono gli elementi guida) è uguale, è perché le due specie più imparentate, a partire dalla loro separazione, hanno mantenuto lo stesso tasso di mutazione. Si può quindi parlare di uniformità del ritmo dell'orologio molecolare, cioè di una costanza nel ritmo delle mutazioni, la quale è difficilmente comprensibile perché sembra sottintendere una neutralità delle mutazioni alla fitness. L'apparente costanza potrebbe dipendere dal fatto che si misurano differenze tra sequenze composte da miliardi di coppie di basi dopo milioni di anni di evoluzione; la selezione naturale fa sì che geni diversi si evolvano a velocità diverse e che uno stesso gene evolva a velocità diverse in tempi diversi: tuttavia l'intervallo entro cui variano le velocità di evoluzione di tutti i geni è piccolo ed il numero dei geni enorme, e mentre la velocità di evoluzione di alcuni geni aumenta è probabile che quella di altri diminuisca in eguale misura; inoltre il bilanciamento tra le velocità di mutazione dei vari geni non deve essere simultaneo poiché l'apparente costanza emerge dopo milioni di anni. Rimane da considerare che la tendenza di fondo dell'evoluzione è da strutture semplici a strutture più complesse, per cui una mutazione, fenomeno per definizione casuale, è sempre più probabile che sia sfavorevole (piuttosto che neutrale o favorevole) mano a mano che l'evoluzione ha reso più complessi gli organismi: forse l'orologio molecolare sta sempre più rallentando? Per evitare i problemi collegati a mutazione e fitness si sta sempre più cercando di spostare l'indagine dal DNA esonico a quello intronico, che non esprimendosi dovrebbe essere neutro alla fitness: ma secondo un'ipotesi anche gli introni sono stati in qualche maniera oggetto di evoluzione, in quanto sembra che i procarioti inizialmente avessero nel loro genoma introni che in seguito hanno eliminato. 13

14 E' comunque un dato dimostrabile che il DNA sembra evolversi con una velocità media uniforme; l'errato appaiamento dei DNA ibridi è il risultato di cambiamenti genetici che si sono fissati nelle due linee filetiche dal momento in cui si sono separate, per cui il numero di appaiamenti errati è proporzionale al tempo trascorso dalla divergenza delle due linee: la temperatura media di fusione dell'ibrido DNA-DNA è quindi una misura indiretta del tempo trascorso dall'inizio della divergenza filetica. La datazione assoluta dell'orologio molecolare viene effettuata grazie ad un evento geologico, cronologicamente definito, che ha causato la divergenza di due linee filetiche. Ad esempio, un progenitore comune allo struzzo africano ed al nandù sudamericano viveva nella Gondwana, separata circa 80 milioni di anni fa dalla deriva dei continenti che ha portato alla formazione dell'oceano Atlantico: questa barriera geografica ha causato l'isolamento riproduttivo, e quindi la divergenza, delle linee filetiche dello struzzo e del nandù. Dividendo 80 milioni di anni per la differenza tra la temperatura di fusione media dell'eteroduplex DNA di struzzo - DNA di nandù e la temperatura di fusione media dell'omoduplex DNA struzzo - struzzo e dell'omoduplex nandù - nandù si ricava la costante di taratura (espressa in milioni di anni di divergenza per grado centigrado di riduzione della temperatura media di fusione). Da quello esposto e da altri calcoli effettuati su divergenze di linee filetiche diverse, causate da altri eventi geologici cronologicamente definiti, si è sempre ricavato un valore per la costante di taratura pari a circa 4,5 milioni di anni per grado centigrado: una riduzione media di un grado centigrado nella temperatura di fusione equivale a circa 4,5 milioni di anni trascorsi da quando le due linee filetiche si sono separate. La costante di taratura, nonostante sia simile in diverse evoluzioni filetiche, non viene generalizzata per le varie specie: nel caso non sia possibile utilizzare eventi geologici cronologicamente definiti e collegati alla divergenza filetica si utilizzano metodiche di datazione indiretta, come nel caso del panda gigante. Occorre sottolineare che le tecniche di biologia molecolare presentano delle limitazioni; innanzitutto per la datazione del tempo trascorso in senso assoluto è sempre indispensabile riferirsi a testimonianze fossili; inoltre non si tiene conto del fatto che molte mutazioni svantaggiose dal punto di vista selettivo scompaiono dalla popolazione, per cui non vengono considerate: per evitare ciò, l'attenzione dei ricercatori è attualmente rivolta soprattutto alla porzione intronica del genoma che, sprovvista di attività codificante, dovrebbe presumibilmente conservare qualsiasi mutazione casuale senza indurre maggiori o minori vantaggi dal punto di vista evolutivo. I marcatori della filogenesi possono essere distinti in marcatori precoci e marcatori non precoci: dei primi fanno parte gli enzimi (i quali potrebbero essere utilizzati come sequenze nucleotidiche o proteiche anche per studiare le distanze fra razze, dove l'ibridazione DNA-DNA non è applicabile), fra i secondi, ad esempio, l'rrna 16 S utilizzato da Woese. Le classificazioni filogenetiche effettuate dalla biologia evoluzionistica hanno dimostrato che gli avvoltoi del vecchio mondo sono strettamente imparentati con falchi ed aquile, mentre gli avvoltoi del nuovo mondo (condor, avvoltoio dal collo rosso, etc.) hanno solo una somiglianza superficiale con gli avvoltoi del vecchio mondo, pur essendo storicamente stati inclusi entrambi nell'ordine dei falconiformi: i confronti dei DNA hanno accertato che gli avvoltoi del nuovo mondo sono evolutivamente più vicini alle cicogne (con le quali hanno cominciato a divergere solo 35 milioni di anni fa) che agli avvoltoi del vecchio mondo (le somiglianze esteriori sono dovute ad un'evoluzione convergente, causata dal divorare le carogne). Altri studi hanno stabilito che i barbuti del nuovo mondo sono più vicini ai tucani che ai barbuti del vecchio mondo, ed ancora che i corvidi originarono in Australia e successivamente colonizzarono prima l'eurasia e poi il Sud-America. L'esempio del panda gigante (Ailuropoda melanoleuca) è utile per illustrare come le tecniche di biologia molecolare possano risolvere dei casi di difficile discriminazione tassonomica e contemporaneamente per spiegare il principio della datazione indiretta. La collocazione tassonomica del panda gigante è stato un problema che per più di un secolo ha interessato gli 14

15 scienziati: solo recentemente il problema della ascendenza genealogica di questo animale è stato risolto, dopo che per circa 120 anni si è stati incerti se includerlo nella famiglia degli ursidi, in quella dei procionidi o in una famiglia appositamente creata (ailuropodidi). Il panda gigante rassomiglia ad un orso, ma rispetto a questo presenta delle caratteristiche atipiche: - è erbivoro, nutrendosi soprattutto di bambù; - è l'unica specie, oltre alle scimmie ed all'uomo, ad avere il pollice opponibile; - non va in letargo; - non ringhia ma bela; - presenta un numero (2n=42) ed una morfologia dei cromosomi più simili al panda minore (procionide con 2n=44) che agli orsi (2n=74). Utilizzando la tecnica dell'ibridazione del DNA si è riusciti a tracciare un diagramma filogenetico da cui risulta che i procionidi furono il primo gruppo a separarsi da un antenato comune alle due famiglie degli orsi e dei procioni: subito dopo il panda minore si separò dalla linea principale dei procionidi, mentre il panda gigante si differenziò soltanto più tardi dagli orsi, ai quali è quindi risultato filogeneticamente più vicino. Questi risultati sono stati confermati da un confronto tra le sequenze aminoacidiche di 50 enzimi omologhi. Un'ulteriore conferma è stata ottenuta mediante esami immunologici; con questo metodo la distanza evolutiva tra le specie viene valutata confrontando l'intensità della reazione di una siero proteina (albumina) di una specie con gli anticorpi prodotti contro quella proteina da parte di una specie diversa: meno molecole di anticorpo si legano, maggiore è l'affinità tra le specie, e viceversa. Per datare l'evoluzione del panda maggiore non si avevano a disposizione degli eventi geologici adatti: si è ricorsi ad una datazione indiretta mediante altre specie con stessa velocità evolutiva e cronologia nota; è stato possibile correlare la velocità dell'evoluzione molecolare nei carnivori (gruppo a cui appartiene il panda) con un secondo gruppo non affine, i primati, le cui molecole proteiche sembrano evolversi alla medesima velocità di quelle dei carnivori ma la cui storia fossile è ben documentata. Se due specie di primati hanno i medesimi valori di distanza molecolare di due specie di ursidi, si può affermare che entrambi i gruppi si sono separati circa allo stesso tempo: in altri termini, dimostrando che la molecola dell'albumina presenta tra l'orso nero e l'orso malese le stesse differenze percentuali riscontrate tra gorilla e scimpanzé, si può concludere che questi due gruppi si sono separati approssimativamente nella stessa epoca geologica. Basandosi sui dati della divergenza tra scimmie antropomorfe africane ed ominidi, avvenuta intorno a 35 milioni di anni fa, si è concluso che la divergenza tra gli antenati degli ursidi e dei procionidi è avvenuta tra 35 e 50 milioni di anni fa; dopo circa 10 milioni di anni da questa divergenza, il gruppo dei procionidi si scisse in due rami: quello dei procionidi del vecchio mondo (panda minore) e quello dei procionidi del nuovo mondo (procione, coati, etc.). Circa nel momento in cui i gibboni si separarono dalle scimmie antropomorfe (18-25 milioni di anni fa) gli antenati del panda gigante si separarono dal gruppo degli ursidi, da cui poi, circa 10 milioni di anni fa, presero origine le varie specie di orsi. Anche le differenze nel numero di cromosomi sono state spiegate; gli orsi del genere Ursus hanno 74 cromosomi acentrici, mentre il panda gigante possiede 42 cromosomi, la maggior parte dei quali metacentrica: confrontando con il bandeggio i cromosomi del panda gigante con quelli provenienti dalle sei specie di Ursus, si è dimostrato che le bande dei cromosomi degli orsi sono esattamente identiche a quelle delle braccia dei cromosomi del panda gigante; questa osservazione dimostra che durante il processo di evoluzione si è ripetutamente verificato il fenomeno della "fusione acrocentrica" in cui due cromosomi acrocentrici si fondono per formare un unico cromosoma metacentrico. 15

16 I GENI HOMEOBOX. In un embrione, già molto tempo prima che la maggior parte delle cellule che lo costituiscono cominci a differenziarsi, si delinea un piano di sviluppo che stabilisce le principali regioni corporee: testa, tronco, arti, coda, etc.: ciò fa sì che combinazioni di tessuti, apparentemente identici, si distribuiscano in strutture anatomiche nettamente distinte quali gli arti anteriori e gli arti posteriori. Grazie all'utilizzo di tecniche di biologia molecolare è stato possibile isolare e caratterizzare alcuni geni che, durante lo sviluppo, svolgono un'azione determinante nella definizione del piano corporeo dell'embrione. Tali geni ripartiscono precocemente l'embrione in campi di cellule che hanno la potenzialità di trasformarsi in tessuti ed organi specifici. Questi geni, in grado di controllare l'attività di molti geni subordinati, presentano dei tratti di DNA altamente invariati che si ritrovano non solo negli invertebrati ma anche nei vertebrati: tali tratti altamente conservati, cioè che si ripetono con sequenze nucleotidiche invariate, sono detti homeobox; anche le proteine prodotte dai geni homeobox presentano una sequenza invariata di circa 60 aminoacidi, definita omeodominio. Le proteine prodotte dai geni homeobox si legano ai geni subordinati, attivandone o reprimendone l'espressione. Rimane ancora da chiarire in quale modo i geni homeobox riescano effettivamente a regolare lo sviluppo embrionale. E' da sottolineare che i geni homeobox sono disposti lungo il cromosoma in un ordine preciso, ordine che corrisponde alla sede del corpo in cui i geni stessi andranno ad esprimersi: infatti i geni homeobox disposti all'estremità sinistra del complesso si esprimono nell'estremità posteriore del corpo, mentre quelli all'estremità destra del complesso si esprimono vicino alla testa. I differenti geni homeobox si esprimono quindi in fasce ben distinte lungo l'asse antero-posteriore del corpo: rimane da chiarire il meccanismo che regola la loro stessa espressione. 16

17 L A D O M E S T I C A Z I O N E Oggi si dà per acquisita la differenza fra specie domestiche e specie selvatiche, ma occorre spiegare meglio il concetto di domesticazione per poter capire l'attuale situazione delle specie (e non solo di quelle produttive) nel mondo intero. Verrà sottolineata nel corso l'importanza antropologica dell'etnozootecnia: capire i tre elementi animale-ambiente-uomo. Il termine "risorse genetiche" è in voga da alcuni anni: si intende con esso tutta la variabilità che esiste all'interno di specie domestiche; "genetiche" sta ad indicare l'origine ed il sistema con cui studiare le risorse: non solo dal lato produttivo, morfologico o addirittura estetico, ma proprio a livello genetico (e quindi, se vogliamo, anche da un punto di vista più scientifico). Cercheremo di vedere il problema dinamico delle specie, e non il vecchio e sicuramente superato concetto zootecnico di razza come qualcosa di statico; resteremo comunque all'interno della suddivisione tassonomica di specie, la quale potrebbe a sua volta non essere considerata statica (ad esempio, vedremo il rapporto fra Bos taurus e Bos indicus, oppure il problema generale di differenziare gli animali in specie come nel caso del cavallo e dei suoi progenitori, ed ancora i rapporti fra il suino domestico ed il cinghiale, o quelli fra i bovidi in genere). Sorgerà la domanda: è giusto considerare la speciazione per eventi zootecnici non ben definiti? Studieremo quali sono le forze in grado di far variare le popolazioni, con enfasi sulla selezione che sottolinea il ruolo dell'uomo nella produzione animale (non solo dunque selezione naturale, ma anche selezione "artificiale", cioè provocata dall'uomo); è la premessa indispensabile allo studio del problema del miglioramento genetico. Capiremo per quali motivi è sorto il problema di conservare le risorse genetiche, e quali sono i metodi adatti per preservarle. Non si parlerà quasi mai del singolo, ma di popolazioni. Che cosa è la popolazione? Come va definita per poterla utilizzare nei nostri studi? Come evolvono le popolazioni? L'etnografia studia la produzione animale nelle sue tre componenti essenziali: uomo, animale ed ambiente. Le risorse genetiche sono le differenze genetiche all'interno della specie. Non si può capire la creazione delle risorse genetiche se non si parte dalla domesticazione: non bisogna credere che la domesticazione si sia verificata su specie "pronte" ad essere domesticate. Prima della domesticazione, l'uomo era legato all'animale solo dai problemi di caccia ("uomo-cacciatore"). La caccia ha avuto ed ha tuttora sovente un ruolo dannoso sulle popolazioni animali, fino addirittura alla distruzione di specie, ma non è stata una forza così potente da determinare spinte evolutive sulle popolazioni (non ha cioè creato dinamiche particolari); forse oggi la caccia può avere degli aspetti selettivi (ad esempio, si cacciano più i maschi delle femmine, oppure più gli adulti dei giovani). Fino a circa anni fa l'uomo cacciava grandi specie: intervenne un grosso mutamento ambientale. Perché l'uomo è passato dalla caccia alla domesticazione, cioè all'allevamento animale? Comunemente si pensa che l'allevamento sia superiore alla caccia: oggi ciò è vero, ma non lo era allora, basti pensare ad alcuni paesi attualmente in via di sviluppo, dove a volte i cacciatori stanno meglio degli allevatori ed agricoltori (ad esempio, i Boshimani africani), perché si lavora meno, la dieta è più varia, si è meno in balìa di epizoozie ed eventi atmosferici. Un evento simile alla domesticazione degli animali è la "domesticazione" dei vegetali, che interagisce con quella animale: senza certe condizioni agronomiche non si sarebbe infatti potuto domesticare gli animali. Sono esistiti al mondo almeno 6 centri di domesticazione delle piante; la domesticazione degli animali è invece un fatto verificatosi esclusivamente nel medio-oriente, con l'eccezione dell'america latina, dove comunque il ruolo della domesticazione animale è inferiore a quello della domesticazione dei vegetali. Si potrà da questo inizio risalire a come si è popolato il mondo dal punto di vista etnozootecnico. 17

18 La domesticazione e quindi l'allevamento si sono diffusi molto rapidamente nelle popolazioni umane: non si è però trattato di un processo "finalistico". Capiremo perché l'ambiente ha avuto un ruolo fondamentale nella scelta. La domesticazione delle piante è stata più difficile: per molto tempo l'uomo ha domesticato le piante ma senza averne capito il sistema riproduttivo (ancora oggi ci sono, in certe culture, cerimonie e riti di fecondazione della terra); negli animali l'uomo vedeva attuate le sue stesse modalità riproduttive. Oggi ci sono almeno piante "domesticate", alcune in maniera molto spinta come nel caso dei cereali, nei quali la variabilità naturale è praticamente scomparsa. Sono individuabili sei centri di domesticazione delle piante. Negli anni '20 Babiloff, un genetista russo scomparso sotto Stalin, ha fissato i concetti di centro di origine e di centro di diffusione. CENTRI DI DOMESTICAZIONE DEI VEGETALI 1- Medio Oriente: frumento, orzo, avena, lenticchia, veccia 2- Africa equatoriale: sorgo, pisello da foraggio 3- Cina: riso 4- Sud Est asiatico: riso, noce di cocco, mango,canna da zucchero, banana 5- America centrale: mais, patata dolce, avocado, papaya, cacao, cotone 6- America meridionale: arachide, manioca, cotone, soia, patata, ananas, tabacco L'uomo è riuscito a domesticare i vegetali autofecondanti: se c'è fecondazione incrociata c'è il problema del reincrocio con varietà selvatiche; questo stesso problema c'è negli animali, ma in questo caso l'uomo è in grado di impedire il reincrocio con i selvatici: ecco perché fino a pochi decenni fa la selezione era stata più attiva sugli animali che sui vegetali. Per gli animali abbiamo due centri di domesticazione: nel medio-oriente sono comparse cinque specie domestiche: cane, bovino, ovino, capra, suino; nelle Ande il porcellino d'india (domesticato a scopo nutritivo), il lama e l'alpaca. La nostra attenzione si focalizzerà sul centro medio-orientale. Circa anni fa è cominciato il ritiro dei ghiacci dall'ultima glaciazione, ritiro che è tuttora in corso; nella storia della terra ci sono state almeno quattro glaciazioni, intervallate con periodi interglaciali; il ghiaccio arrivava fino a circa metà del Mediterraneo. Si sono alzati i livelli delle acque (la Gran Bretagna e la Sicilia sono diventate delle isole), ed è aumentata la quantità d'acqua a disposizione dei vegetali; le parti libere dai ghiacciai erano prive di boschi, la fauna era molto omogenea: in quel periodo in Italia avevamo animali adesso considerati tipicamente africani ed in America vivevano i cavalli, che successivamente si estingueranno e verranno reintrodotti dagli Europei. L'uomo cacciava i grossi animali con tecniche sofisticate, ma non cacciava uccelli, non pescava, non raccoglieva i vegetali: era un nomade che seguiva gli animali nei loro spostamenti stagionali (sul tipo di quanto attualmente fanno i Lapponi con le renne). L'Europa è interessata da una massiccia riforestazione: sono coperte da foreste tutte le aree mediterranee, comprese le regioni africane attualmente desertiche; al Nord al posto delle foreste abbiamo le praterie. Le specie animali di grossa mole si spostano dal Mediterraneo al Nord, perché adatte alla vita in spazi aperti e non a quella nei boschi (ad esempio, il bisonte europeo, attualmente in Polonia). L'uomo non caccia più solo i grossi animali, ma diventa un cacciatore a largo spettro (avifauna, pesca); impara a cibarsi di vegetali ed animali attraverso la raccolta (ad esempio molluschi). In genere un maggior 18

19 utilizzo di vegetali diventa sinonimo di un periodo di "decadenza": dai resti umani si nota una "decadenza" fisica dell'uomo in questo periodo; è il periodo mesolitico, che segna il passaggio dal paleolitico al neolitico, l'epoca della domesticazione. Con la caccia l'uomo comincia ad essere dannoso per alcune specie, già minacciate dai mutamenti ambientali (in Nord America scompaiono almeno trenta specie selvatiche, come il cavallo, la pecora, la capra, il cinghiale). La domesticazione comincia come un affinamento della caccia; per avere la domesticazione l'uomo deve adattarsi ad una vita sedentaria ( anni fa), come nel neolitico, nella zona medio-orientale (a Gerico ci sono strutture murarie che risalgono all'8000 a. C.). L'uomo era "immobile" e cacciava animali "immobili". Non è stato l'animale a spingere l'uomo a diventare allevatore; all'inizio ci saranno state tecniche miste tipo la transumanza, dove le donne, i bambini ed i vecchi restavano nei villaggi e gli adulti andavano con gli animali. Perché l'uomo ha cambiato il suo sistema di vita e quali sono state le conseguenze? L'uomo aveva grandi disponibilità di cereali nelle zone ricche d'acqua (ancora oggi è una situazione osservabile in alcune aree dell'anatolia), per cui non era più costretto a spostarsi per l'esaurimento delle risorse locali. Sembra che all'epoca il grano crescesse continuativamente (ai tempi dei Romani venne selezionato quello che matura in un periodo particolare), e forse lo stesso accadeva con gli altri cereali. Solo anni dopo la immobilizzazione degli animali compaiono specializzazioni economiche e produttive degli animali stessi (lavoro, trasporto, fibre, mungitura): siamo intorno al a. C.; in medio-oriente compaiono i segni diretti della domesticazione (non ci si basa più solo sulla struttura delle ossa ma compaiono finimenti, ricoveri, mangiatoie, abbeveratoi, aratri metallici fatti per il traino animale). L'uomo capisce di poter manipolare aspetto e produttività degli animali (selezione): si vedono consigli in opere greche e latine (il cavallo veloce è sauro, le pecore incrociate fanno lana più fine, il cane nero è più aggressivo). Un'eccezione è la domesticazione del cane: all'inizio forse il termine "domesticazione" era improprio; probabilmente il rapporto cane-uomo è molto antecedente il neolitico (si rinvengono resti di cani domestici vissuti in Nord America prima che in medio-oriente, datati 9000 a. C. al C 14 ). I cani sono arrivati in Nord America con l'uomo, attraverso l'asia (la possibilità di attraversare lo stretto fra Siberia ed Alaska si è interrotta almeno nel a. C.). Si trattava di un caso di simbiosi uomo-progenitore selvatico del cane (il lupo: non può essere accettata la teoria polifiletica dell'etologo Konrad Lorenz che voleva per antenati il lupo e lo sciacallo); probabilmente era un lupo asiatico e non il lupo europeo. Forse il lupo si è avvicinato in modo non aggressivo (grazie alle strutture sociali del branco) e/o l'uomo ha allevato cuccioli orfani, oppure il lupo agiva da "spazzino" intorno ai villaggi. Molto rapidamente la simbiosi si è trasformata in vera domesticazione. In Australia c'è il dingo, un canide che rappresenta il ritorno allo stato selvatico di un cane domestico: è arrivato con l'uomo forse nel a. C.. La domesticazione non è una simbiosi: c'è una prevaricazione sulla specie domesticata, la quale può comunque trarre vantaggi, ma a prezzo di maggiori svantaggi (ad esempio, viene cibata ma è confinata); la domesticazione non è un parassitismo assoluto: è un parassitismo relativo. La domesticazione si ha quando un'altra specie (domesticante) controlla le modalità riproduttive della specie domesticata; il rapporto può variare nel tempo e nelle culture, ma vantaggi e svantaggi si ritrovano sempre, in tutte le situazioni (basta pensare all'attuale allevamento intensivo ed all'allevamento durante la mezzadria). Sono domesticate non solo specie di mammiferi, ma anche pesci, insetti (ad esempio il baco da seta, non completamente l'ape). La domesticazione non è un evento "tutto o nulla", ma ha gradazioni: vedi l'elefante asiatico (lavora, ma non si riproduce in cattività). L'importanza di ottenere la riproduzione di specie selvatiche in giardini zoologici e parchi: è alla base di una possibile domesticazione. Il cane si è rapidamente specializzato: la lotta ai predatori è stata la prima specializzazione (difesa delle greggi da lupo ed orso: ad esempio, il pastore maremmano-abruzzese, bianco per mimetizzarsi con la neve), poi animale da caccia (la 19

20 caccia aveva ancora un fondamentale ruolo economico). Per tutte le specie ad eccezione del cane la domesticazione non è iniziata in maniera così poco traumatica. L'uomo controllava la riproduzione: lo capiamo dal fatto che si mantenevano delle mutazioni non dotate di "fitness", come l'assenza di corna negli erbivori (che in natura servono soprattutto per la riproduzione). Qual è stato l'impatto della domesticazione sull'aspetto genetico degli animali? Non ha portato nulla, ma si sono mantenute le mutazioni comparse nei selvatici; la domesticazione ha reso "viabili" le mutazioni, ed ha aumentato il numero di animali presenti in uno spazio ristretto. Non aumenta il tasso di mutazione, ma aumentano i soggetti mutati. Il neolitico è una cultura ancora presente in alcune popolazioni africane (alcune sono addirittura allo stato preneolitico): si parla del neolitico medio-orientale (da 8000 a anni a. C.). Il neolitico si ha quando ci sono quattro condizioni: vita sedentaria, agricoltura, allevamento e capacità di costruire oggetti in ceramica. In Europa come è arrivata questa domesticazione? O con una trasmissione "demica" o con una trasmissione "culturale", cioè o con il trasferimento dell'uomo stesso o con la trasmissione del sapere (culturale); sicuramente ci sono stati fenomeni demici, poiché il miglioramento della vita dell'uomo ha consentito incrementi demografici con conseguenti spostamenti migratori; ci sono anche stati trasferimenti culturali con il commercio (l'uomo si spostava molto rapidamente nel Mediterraneo con la navigazione: l'ossidiana, prodotta in poche zone, si ritrova quasi ovunque); la trasmissione culturale spiega la domesticazione in grandi isole come Corsica e Sardegna, nelle quali l'allevamento compare nello stesso tempo che sul continente (il muflone probabilmente non è una specie selvatica ma una specie domestica rinselvatichita); in Sardegna ed in Corsica non ci sono resti di ovini selvatici nel paleolitico, poi compaiono improvvisamente (5000 a. C.) i resti del muflone nel neolitico (l'uomo arriva portandosi dietro un animale domestico e poi l'isolamento geografico ha dato all'ovino la possibilità di ritornare anche allo stato selvatico). A volte nel neolitico non ci sono tutti i 4 segni: in Provenza non c'è sedentarietà, nel Nord Europa non c'è ceramica. C'è un po' un concetto di "frontiera" fra paleolitico e neolitico; ci sono due possibilità di contatto fra neolitico e culture precedenti; la possibilità statica: il neolitico prevale oppure viene ricacciato; la possibilità dinamica (frontiera "porosa"): interscambi fra le due culture. Anche gli attuali modelli di vita non sono stati imposti culturalmente ma politicamente. La via è stata medio-oriente, Turchia, Grecia, Balcani, Europa centrale e da lì in Italia ed in Europa orientale; pochissimi i reperti in Africa, nonostante fosse all'epoca una terra rigogliosissima (almeno altri sette fiumi grandi come il Nilo). LA DOMESTICAZIONE DELL'OVINO. La pecora domestica (Ovis aries) è stata domesticata in Medio-Oriente nell'ambito delle culture neolitiche comparse sulla terra intorno all' a.c.. Ancora oggi non è stato del tutto chiarito quale sia stato il progenitore selvatico. La pecora domestica ha un corredo cromosomico 2n=54; le pecore selvatiche presentano invece un polimorfismo che varia da 2n=58 (urial: Ovis vignei) a 2n=52 (pecora delle nevi: Ovis nivicola), passando per 2n=56 (ammone o argali: Ovis ammon) e per 2n=54 (muflone orientale o di Cipro: Ovis orientalis): non è incluso in questo elenco di pecore selvatiche il muflone sardo-corso (Ovis musimon, 2n=54), in quanto si tratta probabilmente di una pecora rinselvatichita. La variazione del numero di cromosomi non aiuta nell'identificazione del progenitore selvatico in quanto il numero di braccia fondamentali è lo stesso in tutte le specie: la riduzione del numero è dovuta a fusioni centriche (o traslocazioni robertsoniane) con le quali da due cromosomi acrocentrici si ha il riarrangiamento in un cromosoma metacentrico o submetacentrico. Delle specie selvatiche citate sia l'urial che l'ammon-argali che il muflone orientale potrebbero essere il progenitore selvatico o direttamente (cioè da specie selvatica a specie domestica) o 20

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