1. Storia della Teoria Economica (e della Macroeconomia)

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1 1 1. Storia della Teoria Economica (e della Macroeconomia) Si è soliti datare la nascita della teoria economica al 1776, quando Adam Smith ( ) pubblica un libro dal titolo Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni. L opera di Smith non è la prima opera di teoria economica, poiché studiosi che si occupavano di economia erano esistiti sin dai tempi degli antichi Greci e, in particolare, a partire dal XVI secolo si erano diffuse scuole economiche significative (si pensi al mercantilismo e alla fisiocrazia). Smith ebbe però la capacità di sistematizzare in un corpus organico idee e concetti che informavano il pensiero filosofico dell epoca, scrivendo il primo vero libro di economia che si ricordi. Smith è l iniziatore della scuola degli economisti classici, alla quale appartengono anche David Ricardo ( ) e John Stuart Mill ( ), oltre ad altri economisti minori. Per molti aspetti del loro pensiero possono essere considerati economisti classici anche Thomas Robert Malthus ( ) e Karl Marx ( ). Le caratteristiche principali della scuola classica sono cinque: 1) l idea che il valore di una merce sia proporzionale al tempo di lavoro che è stato necessario per produrla (teoria del valore-lavoro); 2) l idea che gli attori del processo economico siano le classi sociali dei capitalisti (imprenditori), dei proprietari terrieri (aristocratici) e dei lavoratori salariati (quelli che per Marx erano i proletari); 3) l idea che il salario percepito dai lavoratori sia destinato a coincidere con il livello delle sussistenze (per l esistenza di meccanismi capaci di riportare il salario a quel livello qualora se ne discostasse); 4) l idea che il profitto percepito dai capitalisti sia residuale (i capitalisti ottengono come profitto ciò che rimane del valore del prodotto venduto sul mercato una volta detratti i costi sostenuti per pagare i salari e le rendite); 5) l idea che la rendita della terra sia differenziale (la terra più fertile ottiene una rendita maggiore rispetto a quella meno fertile). La scuola classica si scontra con due problemi che, intorno al 1870, la portano a perdere di rilevanza tra gli economisti. Il primo problema è teorico, il secondo ideologico. Il problema teorico riguarda la teoria del valore-lavoro, che risulta insostenibile dal punto di vista logico una volta che sia previsto un ruolo per il capitale (dove per capitale si intendono gli strumenti durevoli utilizzati nel corso di un processo produttivo: martelli, zappe, trattori, ecc.). Il problema ideologico sorge perché si ritiene che la teoria classica sia la base logica sulla quale è stata edificata la teoria marxiana, con l idea di conflitto tra le classi che sarebbe già implicita nella teoria classica. A causa di questi problemi nasce e si diffonde, a partire dal 1870, una impostazione di teoria economica completamente alternativa rispetto a quella classica, la teoria neoclassica. Gli autori di riferimento della scuola sono William Stanley Jevons ( ), Leon Walras ( ), Carl Menger ( ) e Alfred Marshall ( ). Possiamo caratterizzare anche questa teoria con cinque principali caratteristiche, che sono però in totale antitesi rispetto alle cinque che avevamo indicato per i classici: 1) al posto della teoria del valore-lavoro troviamo infatti la teoria del valore-utilità (il prezzo di una merce dipende dall interazione tra domanda e offerta, con la domanda determinata sulla base dell utilità della merce stessa e l offerta in maniera molto simile); 2) la teoria economica non studia il comportamento delle classi sociali, il cui ruolo è sostituito da quello dei fattori della

2 produzione (terra, lavoro e capitale) che il singolo soggetto, unico vero centro di indagine della teoria (individualismo metodologico), possiede; 3) il salario percepito dai lavoratori è solo la retribuzione del servizio del fattore lavoro e ha lo stesso fondamento logico della retribuzione che spetta agli altri fattori della produzione, ossia corrisponde al contributo dato dal fattore al processo produttivo (per chi ricorda un po di microeconomia, questo contributo è calcolato facendo riferimento alla produttività marginale); 4) allo stesso modo il profitto è la retribuzione del servizio del fattore capitale (e corrisponde alla produttività marginale del capitale), ed è determinato simultaneamente con le retribuzioni di tutti gli altri fattori, non residualmente; e anche 5) la rendita della terra è calcolata con lo stesso criterio. E evidente che in un simile contesto scompaiono i problemi presenti nella teoria classica, poiché scompaiono sia la teoria del valore-lavoro che il conflitto tra le classi (le classi sociali non sono proprio presenti nella teoria e ciascun soggetto è retribuito equamente sulla base del suo contributo al processo produttivo). Anche la teoria neoclassica, però, incontra problemi rilevanti nella trattazione del fattore capitale, come evidenziato in particolare dal libro Produzione di merci a mezzo di merci (1960) dell economista italiano Piero Sraffa ( ) e dai contributi che a quell opera si sono ispirati. La teoria neoclassica domina la scena economica sostanzialmente sino alla Grande Depressione del Con la Grande Depressione alcune implicazioni della teoria neoclassica si dimostrano difficilmente compatibili con la realtà. In particolare una implicazione importante della teoria era che il sistema economico non potesse essere caratterizzato da disoccupazione involontaria persistente, poiché la flessibilità del salario (e più in generale dei prezzi) avrebbe fatto sì che, in presenza di disoccupazione, i lavoratori si sarebbero offerti alle imprese a un salario più basso e le imprese li avrebbero assunti, in questo modo riducendo fino a farla scomparire la disoccupazione. La ricetta dei neoclassici per la Grande Depressione era allora una sola: non intervenire. Il meccanismo allocativo del mercato poteva infatti essere ostacolato dall esistenza di posizioni non concorrenziali (sindacati, associazione dei datori di lavoro, monopoli, Governo), impedendo al sistema di tornare al pieno impiego. Ma la ricetta del non intervento, durante la Grande Depressione, non consegue i risultati sperati: negli Stati Uniti il tasso di disoccupazione raggiunge il 25%, inducendo le autorità ad intervenire nonostante i precetti della teoria tradizionale. Nasce così il New Deal di Roosevelt, un importante programma di opere pubbliche volto a riassorbire la disoccupazione assumendo i disoccupati per fargli costruire strade, ponti, dighe, ecc. Questo programma non giunge sino ad abbracciare il successivamente famoso principio della spesa in deficit, ossia una spesa del Governo maggiore rispetto alle sue entrate, ed è, in quegli anni, privo di un sostegno teorico riconosciuto (anche se dietro l opera di Roosevelt già si intravedono i suggerimenti di John Maynard Keynes), ma rappresenta comunque un importante cambiamento nell approccio dei Governi alla gestione dell economia. La Grande Depressione inizia formalmente, negli Stati Uniti, con il crollo di borsa del 24 ottobre del 1929, anche se l economia statunitense era in recessione già da agosto. Nel 1930 il Prodotto Interno Lordo (PIL), ossia il valore della produzione nazionale, si riduce del 9,4%; il tasso di disoccupazione passa dal 3,2 all 8,7%. Nel 1931 non si realizza ancora nessuna manovra significativa di politica economica volta a contrastare la recessione, e parecchie imprese e molte banche falliscono. Il PIL si riduce di un altro 8,5%, mentre il tasso di disoccupazione raggiunge il 15,9%. Nel 1932 il PIL scende ancora del 13,4%, mentre il tasso di disoccupazione raggiunge il 23,6%. Dal 1929, al 1932 sono fallite banche, con conseguenze disastrose per l economia. In queste condizioni Franklin Delano Roosevelt sconfigge facilmente il 2

3 presidente in carica sino ad allora (Hoover) e inaugura il New Deal. Il sistema fiscale viene utilizzato per ridistribuire il reddito dai più ricchi (che consumano meno) ai più poveri (che consumano di più) e lo Stato inizia ad intervenire massicciamente nell economia. Il pareggio del bilancio rimane però un obiettivo per la politica economica e Roosevelt rifiuta i suggerimenti di Keynes di realizzare la spesa pubblica in deficit. Nel 1933 il PIL perde solo il 2,1% ma la disoccupazione cresce ancora, seppur di poco, e raggiunge il 24,9%. Nel 1934 si vedono i primi segni di ripresa: il PIL cresce del 7,7% e la disoccupazione si riduce al 21,7%. Nel 1935 il PIL recupera un altro 8,1% e la disoccupazione scende al 20,1%. Nel 1936 il PIL cresce del 14,1 % e la disoccupazione passa al 16,9%. Nel 1937 il PIL cresce del 5% e la disoccupazione si riduce al 14,3%. A questo punto, preoccupato che l eccesso di spesa potesse creare importanti deficit di bilancio, Roosevelt riduce la spesa pubblica. Nel 1938 gli Stati Uniti sono di nuovo in recessione: il PIL perde il 4,5% e la disoccupazione risale al 19%. Ma nel 1939 l incremento delle spese per il riarmo a livello mondiale, con tutti gli Stati che realizzano massicci deficit di bilancio, sancisce la fine della Grande Depressione. Un sostegno teorico per l intervento dello Stato nell economia viene proposto solo nel In quell anno John Maynard Keynes ( ) pubblica La Teoria Generale dell occupazione, dell interesse e della moneta, un opera destinata a cambiare la storia della teoria economica. Le idee di base della teoria Keynesiana (che costituisce l oggetto di una parte significativa di questo volume) sono due: l esistenza di equilibri con disoccupazione involontaria, ossia di situazioni nelle quali il libero operare delle forze di mercato non è in grado di portare automaticamente al riassorbimento della disoccupazione; e il principio della domanda effettiva, in base al quale è la domanda a generare l offerta, e non viceversa, come invece riteneva la teoria precedente. Su queste basi di fronte a una riduzione di domanda la produzione e l occupazione si contrarranno, senza che i meccanismi di mercato possano riportare il sistema al pieno impiego. L unico modo per aumentare la produzione e l occupazione è allora incrementare la domanda, ad esempio attraverso un aumento della domanda di beni e servizi da parte del Governo. Con Keynes nasce la macroeconomia. Infatti, sino ad allora, non esisteva una distinzione tra microeconomia e macroeconomia, ma esisteva la Teoria Economica senza altre attribuzioni. La teoria si occupava infatti dei comportamenti dei singoli soggetti e, aggregando i comportamenti individuali, riteneva di poter ottenere i comportamenti aggregati. Keynes mostra invece come i comportamenti aggregati non possano essere semplicemente considerati come la somma dei comportamenti previsti dalla teoria per i singoli individui, ma abbiano una logica propria. Di qui il ruolo per il Governo (lo Stato): poiché i liberi comportamenti di individui che vogliono massimizzare l utilità, dei quali si occupa la microeconomia, nell aggregato non conducono ad esiti ottimali, c è uno spazio per l intervento pubblico nell economia. La teoria Keynesiana si diffonde rapidamente, anche grazie alla sua versione meno radicale che costituisce la cosiddetta sintesi neoclassica (sviluppata a partire dal 1937 da economisti come John Hicks, Alvin Hansen, Franco Modigliani, Don Patinkin), chiamata così perché coniuga elementi neoclassici con elementi keynesiani sfruttando la vischiosità di prezzi e salari, che sarebbero flessibili nel lungo periodo ma rigidi nel breve: la teoria neoclassica vale infatti per il lungo periodo (nel lungo periodo la flessibilità dei prezzi porta il sistema a realizzare il pieno impiego), mentre la teoria keynesiana vale per il breve periodo (nel breve periodo la rigidità dei prezzi impedisce al sistema di realizzare spontaneamente il pieno impiego, rendendo utile una spinta da parte dell intervento statale). 3

4 La sintesi neoclassica ha rappresentato l ortodossia, in macroeconomia, dal secondo dopoguerra agli anni settanta. In questo periodo l applicazione dei precetti teorici keynesiani alla realtà economica, con politiche di sostegno basate sull intervento diretto dello Stato nell economia, ha permesso alle economie dei Paesi occidentali di raggiungere e mantenere il pieno impiego e di crescere a tassi elevati. Negli anni settanta però, quando le economie mondiali sono colpite dai due shock petroliferi ( e ), ossia da rilevanti incrementi nel prezzo dei prodotti energetici, improvvisamente le politiche di intervento di tipo keynesiano cominciano a non dare più risultati apprezzabili in termini di crescita e di lotta alla disoccupazione e, soprattutto, iniziano ad avere elevati impatti in termini di inflazione, ossia di aumento dei prezzi. Di qui la crisi delle teorie Keynesiane, che lascia spazio, inizialmente, ai monetaristi, come Milton Friedman ( ), poi, negli anni ottanta, ai teorici della Nuova Macroeconomia Classica, come i premi Nobel Robert Lucas e Thomas Sargent. Questi autori criticano la teoria Keynesiana, e in particolare la sintesi neoclassica, per non avere adeguatamente microfondato i comportamenti aggregati, ossia per non essere stata in grado di ricavare i comportamenti aggregati come somma dei comportamenti individuali studiati dalla microeconomia. Per costruire un modello capace di generare disoccupazione involontaria non sarebbe infatti sufficiente giustificare la vischiosità dei prezzi (e dei salari) sulla base della costatazione che nella realtà essi sono effettivamente vischiosi, ad esempio perché i lavoratori firmano contratti pluriennali e sino alla scadenza del contratto quei salari non mutano, ma sarebbe necessario dimostrare che questa vischiosità è una conseguenza dei comportamenti massimizzanti dei singoli soggetti, comportamenti massimizzanti su cui è fondata la microeconomia. In mancanza di questa prova, i risultati della sintesi neoclassica non sarebbero giustificati e quindi il suggerimento di sopperire alle carenze del mercato facendo intervenire la mano pubblica sarebbe da rigettare. Gli autori della Nuova Macroeconomia Classica giungono a negare l esistenza della disoccupazione involontaria e ad affermare la totale inutilità di qualsiasi intervento pubblico nell economia, intervento che sarebbe in grado di generare solo incrementi dei prezzi e non un aumento del PIL. Solo a partire dalla fine degli anni ottanta prende forma una risposta keynesiana alla Nuova Macroeconomia Classica, risposta nota come Nuova Economia Keynesiana, con autori come i premi Nobel Joseph Stiglitz, Gorge Akerlof e Andrew Michael Spence. Questi autori riescono a microfondare quelle che loro ritengono essere le due principali conclusioni della teoria Keynesiana, ossia l esistenza di disoccupazione involontaria persistente e l efficacia reale (ossia non solo sui prezzi, ma anche sul PIL) dell intervento pubblico in economia. Tale microfondazione è ottenuta in vari modi, ma soprattutto ipotizzando che nei mercati esista informazione incompleta e asimmetricamente distribuita, ossia che alcuni soggetti abbiano dei vantaggi informativi rispetto ad altri. Ciò causa un fallimento del mercato che può generare disoccupazione involontaria e rendere efficaci le politiche pubbliche, politiche che però devono essere orientate più all aspetto microeconomico che a quello macroeconomico, perché la causa dei problemi è soprattutto microeconomica. Tra la fine del ventesimo secolo e l inizio del ventunesimo la teoria economica sembra dunque essersi stabilizzata, con una progressiva convergenza verso la convinzione che l intervento pubblico nell economia sia in alcuni casi necessario ma non possa mai assumere la dimensione sperimentata nel secondo dopoguerra. Si diffonde però soprattutto l idea che sia necessario lasciare ampio spazio al mercato e all iniziativa privata, perché l intervento pubblico in macroeconomia può generare più danni rispetto al non intervento. In questa ottica viene propugnata la necessità di 4

5 5 liberalizzare il più possibile l attività finanziaria, ossia di porre sempre meno vincoli all operare delle banche, che sarebbe necessaria per finanziare l iniziativa privata e dunque la crescita dell economia. 2 L evoluzione recente della Teoria Economica L approccio teorico di ispirazione neoclassica è oggi fondato sui modelli di Equilibrio Economico Generale Dinamico e Stocastico (Dynamic Stochastic General Equilibrium models, o DSGE models). Questi modelli, nati attorno al 1982, rappresentano una evoluzione del modello di equilibrio economico generale, evoluzione che comprende il comportamento dinamico del sistema e gli shock casuali (stocastici). Una versione dei modelli DSGE, dovuta soprattutto ai contributi dei premi Nobel Finn Kydland ed Edward Prescott, è basata sulla teoria del Ciclo Economico Reale (Real Business Cycle), secondo la quale gli shock che colpiscono l economia possono essere solo reali, ossia causati da modifiche nella quantità o nella produttività dei fattori della produzione (e non ad esempio monetari). L altra versione dei modelli DSGE, dovuta soprattutto ai contributi di Julio Rotemberg e Michael Woodford, è invece basata sulla concorrenza monopolistica. Oltre a rappresentare una evoluzione dell originario modello di Equilibrio Economico Generale dovuto a Leon Walras (del quale ci siamo già occupati nel capitolo 1), i modelli DSGE sono soprattutto una evoluzione del modello di Equilibrio Economico Generale Intertemporale formulato nel 1954 dai premi Nobel Kenneth Arrow e Gerard Debreu, nel quale si ipotizza che soggetti economici immortali e con perfetta informazione compiano oggi scelte massimizzanti per tutto l infinito futuro: un modello sofisticato formalmente ma, come è intuibile, scarsamente corrispondente con la realtà. Dell altro approccio, quello keynesiano, ci siamo già diffusamente occupati nel capitolo 1, con riferimento alla New Keynesian Economics dei premi Nobel Akerlof, Stiglitz e Spence. Tale approccio rappresenta ancor oggi la versione moderna della macroeconomia keynesiana e fonda le rigidità di prezzi e salari sul comportamento massimizzante dei soggetti, ottenendo in questo modo i due risultati keynesiani fondamentali di disoccupazione involontaria persistente ed efficacia reali delle politiche economiche. Almeno parzialmente nell ambito di tale approccio ricade il modello sviluppato da David Romer nel 2000, nel quale si parte della costatazione che ormai l obiettivo primario della banca centrale sarebbe la fissazione del tasso di interesse e non dell offerta di moneta, come invece avveniva nell ambito del modello IS-LM (non è casuale che il titolo del contributo di Romer sia Macroeconomia Keynesiana senza la curva LM ); d altro canto se si accede al sito della Banca Centrale Europea ( in home page sono indicati i tre tassi di interesse controllati, non certo l offerta di moneta. Romer riformula anche la curva AD in funzione del tasso di disoccupazione invece che in funzione del livello dei prezzi, sulla base della constatazione che i prezzi assai raramente scendono, e dunque un modello in cui i prezzi possono salire e scendere sarebbe meno robusto empiricamente rispetto ad uno nel quale è solo il ritmo dell aumento dei prezzi, ossia il tasso di inflazione, a variare. Per alcuni economisti l approccio DSGE può essere considerato una sintesi tra la Nuova Macroeconomia Classica di Lucas e Sargent e la Nuova Economia Keynesiana di Akerlof, Stiglitz e Spence. Ciò nonostante, data anche la complessità dei modelli DSGE e la loro difficile utilizzabilità a fini pratici, le due scuole che si contrappongono nel dibattito sul ruolo e sull efficacia delle politiche economiche possono, con un po di (inevitabile) semplificazione, ancor oggi essere considerate la

6 Nuova Macroeconomia classica, da un lato, e la Nuova Economia Keynesiana, dall altro. La prima assolutamente contraria all intervento pubblico nell economia, intervento che sarebbe inefficace e dannoso tanto nel breve quanto (soprattutto) nel lungo periodo; la seconda che invece ritiene l intervento pubblico in qualche modo necessario a causa dell imperfezione dei mercati, anche se la sua efficacia sarebbe limitata (soprattutto) al breve periodo. L avvicinamento avvenuto nell ultimo secolo tra i modelli keynesiani e quelli neoclassici ha però comportato che entrambi siano (od aspirino ad essere) microfondati, ossia costruiti a partire dal comportamento massimizzante dei soggetti, e privilegino politiche di intervento microeconomiche, tese ad esempio a risolvere i problemi di asimmetria informativa e imperfetta informazione, rispetto alle politiche macroeconomiche tradizionali quali spesa pubblica e politica monetaria espansiva (che per la visione neoclassica sono totalmente inefficaci, inutili e anzi controproducenti perché causano fenomeni inflazionistici). Rimane comunque in piedi la solita, vecchia differenza: i Keynesiani hanno un atteggiamento possibilista nei confronti dell intervento pubblico, che in alcuni casi considerano indispensabile, mentre i neoclassici tendono a limitarlo al minimo possibile. Queste due impostazioni teoriche si sono trovate a dover fronteggiare, all inizio del XXI secolo, una crisi finanziaria (prima) ed economica (poi) di dimensioni simili a quella del

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