Nota a sentenza della Corte di Cassazione, Sez. Lav., del 16 febbraio 2012 n. 2251 A cura di Cettina Briguglio L entità del danno non patrimoniale va personalizzato In caso di lesione dell integrità fisica conseguente a malattia occorsa al lavoratore per la violazione dell obbligo di sicurezza posto a carico del datore di lavoro ex art. 2087 c.c., ove dalla malattia sia derivato l esito letale e la vittima abbia percepito lucidamente l approssimarsi della fine attivando un processo di sofferenza psichica, l entità del danno non patrimoniale (il cui risarcimento è reclamabile dagli eredi) deve essere determinata sulla base non già (e non solo) della durata dell intervallo tra la manifestazione conclamata della malattia e la morte, ma dell intensità della sofferenza provata, delle condizioni personali e soggettive del lavoratore e delle altre particolarità del caso concreto. Questo il principio di diritto enunciato dalla Corte di Cassazione, Sez. lavoro che, con sentenza n. 2251 del 16 febbraio 2012, ha rigettato il ricorso proposto da una Società avverso la sentenza con cui i giudici di merito avevano affermato la responsabilità del datore di lavoro per violazione dell art. 2087 c.c., in virtù del quale questi ha l obbligo di adottare idonee misure di prevenzione del rischio; rischio dovuto, nel caso di specie, alla presenza nell ambiente di lavoro di fibre di amianto, notoriamente nocive, la cui inalazione si poneva in nesso causale con il decesso del lavoratore. Nel caso di specie il lavoratore, negli anni settanta, aveva prestato la propria attività lavorativa in una nota azienda che faceva largo uso dell amianto. Il dipendente, a causa dell'inalazione delle fibre di amianto era deceduto ed i figli avevano convenuto in giudizio l ex datore di lavoro del padre, chiedendo al Giudice il risarcimento dei danni iure hereditario subiti dallo stesso. La domanda veniva accolta in primo grado ed agli eredi veniva riconosciuto il risarcimento a titolo di danno biologico e morale patito dal de cuius. Adita la Corte di Appello, la sentenza di primo grado veniva parzialmente riformata sul versante del quantum di risarcimento riconosciuto agli eredi per poi giungere al terzo grado di giudizio conclusosi con la pronuncia in esame. Con la sentenza n. 2251/12, quindi, la Suprema Corte torna su uno degli argomenti caldi in ambito giuslavoristico, ossia il riconoscimento del risarcimento del danno non patrimoniale in capo al lavoratore esposto alle polveri di amianto, connesso col diritto alla tutela e sicurezza nei luoghi di lavoro. L art. 2087 c.c. dispone che l imprenditore è tenuto ad adottare nell esercizio dell impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare 1
l integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. Dalla norma si ricava che la protezione del prestatore di lavoro si articola in due distinti stadi: il primo attiene alla tutela della sua integrità fisica, e cioè della sua salute, intesa in senso lato quale stato di benessere biopsichico, mentre il secondo è volto alla salvaguardia della personalità morale del lavoratore, e dunque della sua dignità, e, ancor prima, della sua individualità e della suitas. Proprio su tale norma giurisprudenza costante, ripresa dalla sentenza in esame, afferma che La responsabilità dell'imprenditore ex art. 2087 c.c., pur non essendo di carattere oggettivo, deve ritenersi volta a sanzionare l'omessa predisposizione da parte del datore di lavoro di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l'integrità psicofisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto del concreto tipo di lavorazione e del connesso rischio (Cass. Civ., sez. lav., 01.02.2008 n. 2491; Conf. Cass. Civ., sez. lav., 14.01.2005 n. 644). Ma vi è di più: La responsabilità dell'imprenditore ex art. 2087 c.c., inoltre, non è limitata alla violazione di norme d'esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, ma va estesa, invece, nell'attuale sistema italiano, supportato a livello costituzionale, alla cura del lavoratore attraverso l'adozione, da parte del datore di lavoro, nel rispetto del suo diritto di libertà d'impresa, di tutte quelle misure e delle cautele che, in funzione della diffusione e della conoscibilità, pur valutata in concreto, delle conoscenze, si rivelino idonee, secondo l'"id quod plerumque accidit", a tutelare l'integrità psicofisica di colui che mette a disposizione della controparte la propria energia vitale (Cass. Civ. Sez. lav. 11.07.2011 n. 15156). La tutela del lavoratore, quale soggetto debole del rapporto, è garantita dall ordinamento anche attraverso la previsione di singole disposizioni riguardanti aspetti specifici del rapporto (es. la disciplina delle ferie, del licenziamento ecc ). trattandosi di un rapporto contrattuale, la tutela risarcitoria azionabile dal lavoratore in caso di pregiudizio subito durante lo svolgimento dl rapporto di lavoro ha natura contrattuale e, specularmente, tale natura rivesta la responsabilità del datore di lavoro per tal via originata. Una volta affermata la natura contrattuale della responsabilità ex art. 2087 c.c. la Suprema Corte afferma, in tema di onere probatorio, che graverà sul lavoratore provare i fatti costitutivi del diritto azionato, e cioè l esistenza del danno e la nocività dell ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l uno e l altro elemento, mentre grava sul datore di lavoro l onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo (conf. Cass. Civ. 17.2.2009 n. 3788 e n. 3786). Per ciò che attiene invece al rapporto di causalità, la Corte di Cassazione nella sentenza de qua afferma che troverà applicazione la regola contenuta nell'art. 41 c.p. per cui il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell'equivalenza delle condizioni, principio secondo il 2
quale va riconosciuta l'efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell'evento, salvo il temperamento previsto nello stesso art. 41 cod. pen., in forza del quale il nesso eziologico è interrotto dalla sopravvenienza di un fattore sufficiente da solo a produrre l'evento, tale da far degradare le cause antecedenti a semplici occasioni (conf. Cass. Civ. 09.09.2005 n. 17959; Cass. Civ. 18.07.2005 n.15107; Cass. Civ. 11.03.2004 n. 5014). Preliminarmente è necessario affrontare la tematica del danno non patrimoniale, cercando di darne, per quanto possibile, una definizione. Il danno non patrimoniale può essere definito come il pregiudizio inferto agli interessi di natura personale del soggetto, e trova espressa codificazione nell art. 2059 c.c. il quale sancisce expressis verbis il principio di tipicità dei casi di risarcibilità del danno non patrimoniale. La Suprema Corte con la famosa sentenza del 2008 n.26972 afferma il principio secondo cui l'art. 2059 c.c. non disciplina una autonoma fattispecie di illecito, distinta da quella di cui all'art. 2043 c.c., ma si limita a disciplinare i limiti e le condizioni di risarcibilità dei pregiudizi non patrimoniali, sul presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi dell'illecito richiesti dall'art. 2043 c.c.: e cioè la condotta illecita, l'ingiusta lesione di interessi tutelati dall'ordinamento, il nesso causale tra la prima e la seconda, la sussistenza di un concreto pregiudizio patito dal titolare dell'interesse leso. L'unica differenza tra il danno non patrimoniale e quello patrimoniale consiste pertanto nel fatto che quest'ultimo è risarcibile in tutti i casi in cui ricorrano gli elementi di un fatto illecito, mentre il primo lo è nei soli casi previsti dalla legge. Si è detto in premessa che con la sentenza in esame la Suprema Corte riconosce il diritto degli eredi ad ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale subito dal de cuius, ma in passato tale riconoscimento non era così automatico o generalmente accettato, in quanto si riteneva non operante per le obbligazioni contrattuali il disposto di cui all art. 2059 c.c.; la dottrina al fine di ampliare la protezione del lavoratore che avesse subito nocumenti non patrimoniali a causa del fatto illecito del datore di lavoro, configurava la possibilità di un cumulo tra l azione di natura contrattuale, esperita al fine di conseguire la riparazione pecuniaria per i pregiudizi patrimoniali, e quella extracontrattuale, veicolata per ottenere il ristoro dei pregiudizi non economici conseguenti alla lesione dei diritti inviolabili della persona. Tale diversificazione non ha più ragion d essere stante la ormai pacifica risarcibilità del danno non patrimoniale da inadempimento contrattuale. L assunto è stato ribadito nel 2006 dalle S.U. (sent. n. 6572/2006) che hanno affermato la risarcibilità del nocumento non patrimoniale conseguitone. Tale lettura è stata inoltre condivisa da quattro pronunce gemelle delle S.U. (Cass. Civ. 11.11.2008 n. 26972, 26973, 26974, 26975) che hanno definitivamente ammesso la riparazione dei nocumenti latu sensu morali conseguenti alla violazione del programma contrattuale, quale risultante per effetto delle integrazioni di legge, in 3
virtù di un esegesi costituzionalmente orientata degli artt. 1218 e 2059 c.c.; la Costituzione infatti impone necessariamente che agli interessi essenziali della persona sia riconosciuta la tutela minima, che è quella risarcitoria, indipendentemente dalla fonte, contrattuale o extracontrattuale, della responsabilità. Il danno non patrimoniale, attenendo al foro dell intimo sentire del soggetto, è un pregiudizio non valutabile in termini economici, pur tuttavia una valutazione monetaria è necessaria onde garantire alla vittima una pronta riparazione, diversamente verrebbe negata al danneggiato ogni forma di tutela a fronte di nocumenti generalmente più gravi o comunque più dolorosi. In tema di liquidazione del danno, da sempre si confrontano due tesi: a) pluralista, che ritiene utile procedere ad una liquidazione separata dei singoli momenti del pregiudizio non patrimoniale (biologico, morale ed esistenziale), e b) unitaria, che propende per una valutazione sintetica del danno morale latu sensu inteso. Tale ultima opzione è stata avallata dalla sentenza delle S.U. del 2008 n. 26972 secondo la quale Non è ammissibile nel nostro ordinamento l'autonoma categoria di «danno esistenziale», inteso quale pregiudizio alle attività non remunerative della persona, atteso che: ove in essa si ricomprendano i pregiudizi scaturenti dalla lesione di interessi della persona di rango costituzionale, ovvero derivanti da fatti-reato, essi sono già risarcibili ai sensi dell'art. 2059 c.c., interpretato in modo conforme a Costituzione, con la conseguenza che la liquidazione di una ulteriore posta di danno comporterebbe una duplicazione risarcitoria; ove nel «danno esistenziale» si intendesse includere pregiudizi non lesivi di diritti inviolabili della persona, tale categoria sarebbe del tutto illegittima, posto che simili pregiudizi sono irrisarcibili, in virtù del divieto di cui all'art. 2059 c.c. La Suprema Corte nella sentenza n. 2251/12 che qui si commenta afferma che la lesione del danno non patrimoniale impone il risarcimento secondo le modalità del danno biologico, intendendosi in questa categoria di danno ricompresa il cd. danno esistenziale ; la Corte quindi riprende quanto affermato in passato dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite con la sentenza del 2008 n. 26972 più volte citata e nella quale si legge: il danno non patrimoniale da lesione della salute costituisce una categoria ampia ed omnicomprensiva, nella cui liquidazione il giudice deve tenere conto di tutti i pregiudizi concretamente patiti dalla vittima, ma senza duplicare il risarcimento attraverso l'attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici. Ne consegue che è inammissibile, perché costituisce una duplicazione risarcitoria, la congiunta attribuzione alla vittima di lesioni personali, ove derivanti da reato, del risarcimento sia per il danno biologico, sia per il danno morale, inteso quale sofferenza soggettiva, il quale costituisce necessariamente una componente del primo (posto che qualsiasi lesione della salute implica necessariamente una sofferenza fisica o psichica), come 4
pure la liquidazione del danno biologico separatamente da quello c.d. estetico, da quello alla vita di relazione e da quello cosiddetto esistenziale Una volta riconosciuto il diritto degli eredi del de cuius ad ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale, la Corte di Cassazione con la sentenza n. 2251/12 condanna l automatica liquidazione del danno effettuata dal giudice di merito sulla base di una meccanica applicazione delle tabelle di liquidazione del danno biologico, senza tener conto adeguato della situazione soggettiva del soggetto danneggiato, mentre il risarcimento impone un criterio di personalizzazione del danno, che, escluso ogni meccanismo semplificato di liquidazione automatica, tenga conto, pur nell ambito di criteri predeterminati, delle condizioni personali e soggettive del lavoratore e delle particolarità del caso concreto. La Corte di Cassazione, riconosciuta la responsabilità del datore di lavoro che, nel caso di specie, non aveva predisposto tutte le necessarie cautele al fine di sottrarre il proprio dipendente dal rischio legato alla esposizione delle polveri di amianto, conclude affermando che in caso di lesione dell integrità fisica che abbia portato ad esito letale, la vittima che abbia percepito lucidamente l'approssimarsi della fine attivi un processo di sofferenza psichica particolarmente intensa che qualifica il danno biologico e ne determina l entità sulla base non già (e non solo) della durata dell intervallo tra la lesione e la morte, ma dell intensità della sofferenza provata, delle condizioni personali e soggettive del lavoratore e delle altre particolarità del caso concreto. 5