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Coordinamento Nazionale Quadri Direttivi TUTTO SUL DEMANSIONAMENTO (Parte 3 di 4) 6 IL DANNO ALLA PROFESSIONALITÀ L articolo 2103 cod. civ. afferma pertanto il diritto del lavoratore all effettivo svolgimento della propria prestazione di lavoro (Cass. n. 7967/2002) e ciò in quanto il lavoro costituisce non solo un mezzo di sostentamento economico, ma anche un mezzo di estrinsecazione della personalità del lavoratore ai sensi degli artt. 2 e 35 della Costituzione. La violazione dell art. 2103 cod. civ. e pertanto la lesione di tale diritto, in termini sia di demansionamento sia di inattività lavorativa, costituisce, quindi, un inadempimento contrattuale da parte del datore di lavoro che determina qualora accertato giudizialmente: 1. La condanna del datore di lavoro al ripristino della situazione precedente con ordine di reintegrare il lavoratore nella posizione precedente o in altra di contenuto equivalente; 2. l obbligo di corrispondere le retribuzioni dovute; 3. l obbligo del risarcimento del danno cosiddetto da dequalificazione professionale. Tale danno da dequalificazione professionale, secondo quanto previsto dalla sentenza della Cassazione 22 febbraio 2003, n. 2763, in quanto derivante da un comportamento plurioffensivo, può assumere diversi profili quali: Danno alla professionalità Danno di natura patrimoniale che comporta: pregiudizio alla carriera; impoverimento della capacità professionale; diminuzione delle attitudini lavorative del lavoratore; mancata acquisizione di una maggiore capacità professionale; impedimento per il lavoratore di sfruttare possibili future occasioni di lavoro (c.d. perdita di chance). Al riguardo la giurisprudenza afferma che Il danno da perdita di professionalità, quale specie del danno patrimoniale, consiste in una diminuzione delle nozioni teoriche e della capacità pratica o comunque di vantaggi connessi all esperienza professionale, conseguenti al mancato esercizio delle mansioni spettanti, per un tempo più o meno prolungato (Cass. n. 6992/2002). Lesione del diritto alla libera esplicazione della personalità del lavoratore, danno alla vita di relazione, danno all immagine. Si tratta di un pregiudizio che incide sulla vita professionale e di relazione dell interessato ed è suscettibile di valutazione anche in via equitativa (Cass. 2 gennaio, 2002, n. 10; Cass. 12 novembre 2002, n. 15868).

Tale danno, che viene contestato principalmente nel caso della inattività lavorativa, può prescindere dalla decurtazione della retribuzione o dalla diminuzione delle attitudini lavorative del soggetto (Cass. sez. lav. n. 2763 del 22 febbraio 2003) e deriva dall orientamento giurisprudenziale che non ritiene il lavoro unicamente uno strumento di guadagno ma anche un mezzo di estrinsecazione della personalità. Danno alla salute Il danno professionale può assumere anche aspetti non patrimoniali quali, ad esempio, la lesione del diritto del lavoratore all integrità fisica (art. 2087 cod. civ.) o più in generale alla salute (art. 32 Cost.). Riguardo alla risarcibilità del danno biologico si cita il recente orientamento giurisprudenziale che afferma che il datore di lavoro, in caso di accertato demansionamento del lavoratore,è tenuto ad indennizzare la totalità del danno biologico subito a prescindere dall eventuale preesistenza di infermità pregresse. In sintesi tutti i danni subiti dal lavoratore vanno posti a carico del soggetto che ha determinato il danno a prescindere dal concorso tra una causa ad esso imputabile (nel caso in questione demansionamento) e una causa non imputabile che concorre nella determinazione del danno (predisposizione o infermità pregressa del lavoratore). In presenza quindi di una concausa naturale o anche in presenza di un fatto non colposo del lavoratore danneggiato prevale, pertanto, l esigenza di una tutela completa del lavoratore e del suo integrale risarcimento del danno che, senza il comportamento del datore, non avrebbe comunque subito (Cass. sez. lav. n. 5539 /2003). 7 ONERE DELLA PROVA E VALUTAZIONE DEL DANNO Uno dei problemi che la giurisprudenza si è posta è stato quello di come accertare la sussistenza e come quantificare l ammontare del danno professionale o meglio delle varie specie di danni patrimoniali o non patrimoniali di cui, come detto, può essere composta tale tipologia di danno. Al riguardo vi sono due orientamenti: 1. il primo orientamento condiziona la risarcibilità del danno alla concreta dimostrazione da parte del lavoratore delle conseguenze pregiudizievoli subite in conseguenza immediata e diretta della modificazione delle mansioni. Tale orientamento (Cass. sez. lav. n. 10203/2002; Cass. sez. lav n. 7967/2002; Cass. sez. lav n. 6992/2002; Cass. sez. lav n. 14199/2001), afferma che incombe sempre al lavoratore provare l esistenza del danno da demansionamento alla stregua dell art. 2697 cod. civ. anche in ragione delle varietà delle sue componenti (danno alla vita di relazione; danno biologico, ecc.). Questa prevalente giurisprudenza è ferma, pertanto, nel ritenere che occorra la prova del danno derivante dal demansionamento professionale (Cass. sez. lav. n. 6992/2002, Cass. sez. lav. n. 13580/2001; Cass. sez. lav. n. 16792/2003, Cass. sez. lav. n. 8904/2003; Cass. sez. lav., n. 9129/2004); 2. il secondo orientamento prevede, invece, che la risarcibilità del danno prescinda dalla dimostrazione di un effettivo pregiudizio, a causa dell esistenza di un diritto alla libera esplicazione della personalità del lavoratore (Cass. 18 ottobre 1999, n. 11727; Cass. sez. lav. 6 novembre 2000, n. 14443; Cass. 2 novembre 2001, n. 13580).

Quest ultimo orientamento è stato recentemente affermato dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 10 del 2 gennaio 2002 che riporta il caso di un lavoratore che domandava il risarcimento del danno per l inattività protrattasi per ben sedici anni. L azienda si era difesa sostenendo, tra l altro, che il lavoratore aveva sempre regolarmente percepito la retribuzione e che non aveva fornito la prova dell effettivo danno derivatogli dall inattività. Il giudice di primo grado ha accolto la domanda del lavoratore, determinando, in via equitativa il risarcimento del danno dovuto. Tale decisione è stata confermata, in grado di appello, dal giudice di secondo grado, il quale ha affermato che l azienda si è resa responsabile di violazione dell art. 2103 cod. civ. nonché del fondamentale diritto al lavoro, inteso quale mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino. La Corte di Cassazione con la sentenza n. 10 del 2 gennaio 2002, ha rigettato il ricorso dell azienda, richiamando il suo orientamento giurisprudenziale secondo cui il demansionamento non solo viola lo specifico precetto recato dall art.2103 cod. civ. (che sancisce il diritto del dipendente all adibizione a mansioni conformi alla sua professionalità), ma si traduce in lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro, determinando un pregiudizio che incide sulla vita professionale e di relazione dell interessato, con un indubbia dimensione patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento e di valutazione anche in via equitativa (Cass. n. 11727/1999, Cass. n. 14436/2000). Seguendo tale orientamento, la Corte Suprema ha ritenuto, inoltre, che L affermazione di un valore superiore della professionalità, direttamente collegato a un diritto fondamentale del lavoratore e costituente sostanzialmente un bene a carattere immateriale in qualche modo supera ed integra il precedente orientamento giurisprudenziale secondo cui la mortificazione della professionalità del lavoratore poteva dar luogo a risarcimento solo ove venisse fornita la prova dell effettiva sussistenza di un danno patrimoniale. Con tale affermazione la Corte sembrerebbe aperta al riconoscimento di un danno in re ipsa senza necessità di una prova rigorosa dello stesso. La plurioffensività del demansionamento che, come detto, lede anche diritti fondamentali della persona del lavoratore, rende difficile la valutazione, con criteri economici precisi, del danno procurato e legittima l utilizzo da parte del giudice del criterio equitativo. La citata sentenza stabilisce, tra le altre cose, che il criterio di valutazione del danno alla professionalità può essere attuato in base ad una valutazione equitativa del giudice e,in particolare,prevede che: l ammontare del risarcimento può essere determinato dal giudice di merito mediante valutazione equitativa, ai sensi dell art.1226 c.c.,anche in mancanza della allegazione di uno specifico elemento di prova da parte del danneggiato,dovendo la liquidazione essere effettuata in base agli elementi presuntivi acquisiti al giudizio e relativi alla natura, alla entità e alla durata del demansionamento nonché alle altre circostanze del caso concreto. La prova del danno rimane invece necessaria a giudizio della Corte (Cass. sez. lav. n. 10/2002 cit.) per quanto riguarda l eventuale danno materiale, il pregiudizio economico cioè subito dal lavoratore anche in termini di guadagno non conseguito per effetto della perdita di concreti vantaggi necessariamente legati allo svolgimento delle mansioni negate. È da segnalare, comunque, che altre sentenze anche recentemente (Cass.sez. lav.n.14199/2001) affermano che non è possibile ritenere che la dequalificazione professionale costituisca sempre un atto dannoso. In alcuni casi un demansionamento o una inattività lavorativa possono anche risultare favorevoli e ben accetti ad un lavoratore costituendo una insperata situazione ottimale o in alcuni non incidere sulle loro capacità professionali o sulle opportunità professionali (vedi il caso dei demansionamenti di brevissima durata, che violano comunque l art. 2103 c.c. Cass. sez. lav. n. 3772/2004).

Tale tipo di pronunce giungono, pertanto, ad affermare la necessità per il danneggiato di una prova del danno concretamente subito (da ultimo,cass.sez. lav.13 maggio 2004, n. 9129). Il danneggiato dovrà fornire gli elementi probatori e i dati di fatto in suo possesso per consentire che l apprezzamento equitativo sia, per quanto possibile, limitato e riconducibile alla sua caratteristica funzione di colmare solo le inevitabili lacune ai fini di una precisa determinazione del danno. Solo in caso di accertamento positivo del danno il giudice potrà procedere ad una valutazione equitativa sempre che la parte abbia allegato e dimostrato i fatti da cui può scaturire una valutazione di tipo equitativo. Questa giurisprudenza appare certamente più rigorosa nel richiedere la prova del danno e l allegazione di elementi utili per permettere l accertamento e la successiva determinazione del danno. Di segno opposto alla ricordata sentenza della Cassazione n. 10 del 2002 è la recente sentenza della Cassazione n. 16792/2003 che nella massima così dispone: L assegnazione dei dipendenti a mansioni inferiori a quelle proprie del loro livello contrattuale non determina di per sé un danno risarcibile ulteriore rispetto a quello costituito dal trattamento retributivo inferiore cui provvede, in funzione compensatoria, l art. 2103 c.c., il quale stabilisce il principio della irriducibilità della retribuzione, nonostante l assegnazione e lo svolgimento di mansioni inferiori e meno pregiate di quelle già attribuite, giacché deve escludersi che ogni modificazione delle mansioni in senso riduttivo comporti una automatica dequalificazione professionale, connotandosi quest ultima, per sua natura, per l abbassamento del globale livello delle prestazioni del lavoratore con una sottoutilizzazione delle sue capacità e una conseguenziale apprezzabile menomazione non transeunte della sua professionalità, nonché con perdita di chance ovvero di ulteriori potenziali occupazionali o di ulteriori possibilità di guadagno. Ne consegue che grava sul lavoratore l onere di fornire la prova, anche attraverso presunzioni, dell ulteriore danno risarcibile, mentre resta affidato al giudice del merito le cui valutazioni, se sorrette da congrua motivazione, sono incensurabili in sede di legittimità il compito di verificare di volta in volta se in concreto, il suddetto danno sussista individuandone la specie e determinandone l ammontare, eventualmente con liquidazione in via equitativa. (In applicazione di tale principio la Corte di Cassazione ha cassato la sentenza impugnata che, accertato il demansionamento dei lavoratori, aveva per ciò solo ritenuto sussistente un danno risarcibile ulteriore rispetto a quello costituito dalla diminuzione della retribuzione, liquidandolo in via equitativa). Nel senso della necessità di una prova rigorosa del danno patrimoniale alla professionalità si era già pronunciata anche la giurisprudenza meno recente affermando che il risarcimento spetta quando sia provata non solo l attività illecita ma anche l oggettiva consistenza del pregiudizio che da essa derivi, non potendosi confondere il risarcimento con l inflizione di una sanzione civile,soltanto quest ultima conseguente automaticamente alla condotta illecita. Pertanto il prestatore di lavoro il quale chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno di qualsiasi specie, subito a causa della lesione del diritto di eseguire la prestazione corrispondente alla qualifica spettante,deve fornire la prova del danno stesso, quale presupposto della valutazione equitativa,non essendo sufficiente la mera potenzialità lesiva del comportamento illecito del datore di lavoro. Ogni contraria tesi,ossia quella della risarcibilità senza alcuna prova del danno, oltre a contrastare con gli articoli 1218, 1223, 2697 cod. civ., non può essere condivisa poiché affida il risarcimento a nozioni estremamente vaghe e foriere di incontrollabile litigiosità (Cass. sez. lav. n. 7905/1998; Cass. sez. lav. n. 13580/2001; Cass. sez. lav. n. 6992/2002).

7.1 La liquidazione e la quantificazione del danno Per quanto riguarda la quantificazione effettiva del danno la giurisprudenza utilizza il parametro della retribuzione, liquidando in via equitativa un importo che si ottiene moltiplicando una percentuale variabile della retribuzione (che può arrivare, nei casi più gravi, anche al 100%) per il periodo di demansionamento. La scelta di tale parametro viene presa dal giudice e varia a seconda delle circostanze in cui si è determinato il demansionamento e previa analisi del caso concreto e, in particolare, delle seguenti circostanze: 1. durata della dequalificazione; 2. anzianità del dipendente; 3. livello professionale conseguito. La Corte di Cassazione si è pronunciata più volte in merito affermando il principio secondo cui la valutazione dell inadempimento è compito del giudice di merito, il quale può desumere l esistenza del relativo danno determinandone anche l entità in via equitativa (Cass. sez. lav. n. 13299/1992; Cass. sez. lav. n. 11727/1999; Cass. sez. lav. n. 13580/2001). Anche recentemente la Corte Suprema ha stabilito quali possono essere i parametri e gli elementi concreti che possono essere utili al giudice per una valutazione equitativa del danno e per una determinazione concreta dell importo. In caso di demansionamento il giudice può fare riferimento all entità della retribuzione risultante dalle buste paga prodotte in giudizio. Quel che si richiede è che la valutazione sia agganciata ad elementi concreti e che la motivazione della decisione indichi il processo logico e valutativo seguito. Va da sé che la durata del demansionamento è un fattore di aggravamento del danno, sicché essa rientra nel novero di quegli elementi che è ragionevole considerare ai fini della relativa liquidazione. L anzianità di servizio, sinonimo, in linea di massima, di esperienza professionale, è anch essa parametro non irragionevole, perché essendo normalmente accompagnata da migliore qualità della prestazione, rende ancora più marcato il divario tra i compiti che sulla base del formale inquadramento il dipendente avrebbe potuto svolgere e quelli concretamente assegnatigli (Cass. sez. lav. n. 15955/2004). 7.2 Trasferimento e tutela della professionalità Si segnala una recente sentenza della Corte di Cassazione che pone a confronto le esigenze organizzative dell azienda con l obbligo della tutela della professionalità del lavoratore. In tema di trasferimento di un lavoratore da una sede di lavoro ad un altra, l esistenza di ragioni produttive giustifica certamente il provvedimento di trasferimento, ma non può comunque comportare la lesione del diritto del lavoratore alla conservazione della propria professionalità. La tutela della professionalità prevale rispetto alle esigenze organizzative del datore di lavoro (Cass. sez. lav. n. 5161/2003). In sintesi, il trasferimento che comporti una dequalificazione professionale per assegnazione di mansioni non equivalenti a quelle precedentemente svolte, è illegittimo e viola l art. 2103 cod. civ..