Colpa (capo imputazione processo l'aquila)



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Prof. Avv. Giuseppe Losappio Coordinatore del Master di II livello di diritto penale dell'impresa g.losappio@yahoo.it www.facebook.com/pages/dirittopenale/229285333836010?ref=hl Corso di diritto penale II (Q-Z) a.a. 2011-2012 Colpa (capo imputazione processo l'aquila) 1. BARBERI Franco, nato a Pietrasanta (LU) il 16.08.1938, residente a Roma, in Via Domenico Fontana n.34; 2. DE BERNARDINIS Bernardo, nato a Genova il 21.04.1948, ivi residente in Via Tortosa n. 4/39; 3. BOSCHI Enzo, nato ad Arezzo il 27.02.1942, residente a Bologna, Via Dè Griffoni nr.5; 4. SELVAGGI Giulio, nato a Roma il 20.10.1963, residente ad Albano Laziale Via della Selvotta n.15; 5. CALVI Gian Michele, nato a Pavia il 18 giugno 1957, ivi residente in Corso Strada Nuova nr.79; 6. EVA Claudio, nato a Pola (Slovenia) il 05.02.1938, residente a Genova in Via Giovanni Monleone 3/5; 7. DOLCE Mauro, nato a Roma il 19.07.1953, ivi residente in Via Marescotti nr.13; I M P U T A T I del reato p. e p. dagli artt.113, 589 commi 1 e 3, 590 c.p., poiché in cooperazione colposa tra loro: BARBERI Franco, quale Presidente vicario della Commissione Nazionale per la Previsione e la Prevenzione dei Grandi Rischi e Ordinario di Vulcanologia Università Roma Tre; DE BERNARDINIS Bernardo, quale Vice Capo settore tecnico operativo del Dipartimento Nazionale della Protezione Civile; BOSCHI Enzo, quale Presidente dell Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia e Ordinario di Fisica Terrestre Università di Bologna; SELVAGGI Giulio, quale Direttore del Centro Nazionale Terremoti; CALVI Gian Michele, quale Direttore della Fondazione Eucentre (European Centre for Training and Research in Earthquake Engineering) e Ordinario di Progettazione in zona sismica Università di Pavia; EVA Claudio, quale Ordinario di fisica terrestre Università di Genova; I Facoltà di Giurisprudenza Piazza Cesare Battisti 1, 70121 Bari (Italy) tel (+39) 080 5717370 fax (+39) 080 5717109

DOLCE Mauro, quale Direttore dell Ufficio Rischio Sismico del Dipartimento Nazionale della Protezione Civile e Ordinario di Tecnica delle costruzioni Università di Napoli Federico II; tutti quali componenti della Commissione Nazionale per la Previsione e la Prevenzione dei Grandi Rischi, riunitasi a L Aquila in data 31.03.2009 con l obbiettivo di fornire ai cittadini abruzzesi tutte le informazioni disponibili alla comunità scientifica sull attività sismica delle ultime settimane ; per colpa consistita in negligenza imprudenza, imperizia; in violazione degli artt. 2, 3, 9 Legge n. 225 del 24.02.1992, degli artt. 5 e 7 bis Legge n. 401 del 09.11.2001, dell art. 4 Legge n. 21 del 26.01.2006, dell art. 3 Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 23582 del 03.04.2006; in violazione altresì della normativa generale della Legge n. 150 del 7 giugno 2000 in materia di disciplina delle attività di informazione e comunicazione delle pubbliche amministrazioni; effettuando, in occasione della detta riunione, una valutazione dei rischi connessi all attività sismica in corso sul territorio aquilano dal dicembre 2008 approssimativa, generica ed inefficace in relazione alle attività e ai doveri di previsione e prevenzione ; fornendo, in occasione della detta riunione, sia con dichiarazioni agli organi di informazione sia con redazione di un verbale, al Dipartimento Nazionale della Protezione Civile, all Assessore Regione Abruzzo alla Protezione Civile, al Sindaco dell Aquila, alla cittadinanza aquilana, informazioni incomplete, imprecise e contraddittorie sulla natura, sulle cause, sulla pericolosità e sui futuri sviluppi dell attività sismica in esame, in tal modo vanificando le finalità di tutela dell integrità della vita, dei beni, degli insediamenti e dell ambiente dai danni o dal pericolo di danni derivanti da calamità naturali, da catastrofi e da altri grandi eventi che determinino situazioni di grave rischio, affermando che sui terremoti non è possibile fare previsioni, è estremamente difficile fare previsioni temporali sull evoluzione dei fenomeni sismici, la semplice osservazione di molti piccoli terremoti non costituisce fenomeno precursore e al contempo l esatto contrario ovvero qualunque previsione non ha fondamento scientifico ;

ritenendo che i forti terremoti in Abruzzo hanno periodi di ritorno molto lunghi. Improbabile il rischio a breve di una forte scossa come quella del 1703, pur se non si può escludere in maniera assoluta ; ritenendo che non c è nessun motivo per cui si possa dire che una sequenza di scosse di bassa magnitudo possa essere considerata precursore di un forte evento ; rilevando che le registrazioni delle scosse sono caratterizzate da forti picchi di accelerazione, ma con spostamenti spettrali molto contenuti di pochi millimetri e perciò difficilmente in grado di produrre danni alle strutture, c è quindi da attendersi danni alle strutture più sensibili alle accelerazioni quali quelle a comportamento fragile ; qualificando lo sciame sismico che interessa L Aquila da circa tre mesi come un normale fenomeno geologico; esso si colloca diciamo in una fenomenologia senz altro normale dal punto di vista dei fenomeni sismici che ci si aspetta in questo diciamo in questa tipologia di territori che poi, è centrata attorno all Abruzzo però, ha colpito un po il Lazio, un po le Marche, oscillata diciamo nella zona del centro Italia ; affermando che allo stato attuale, non vi è pericolo, la situazione è favorevole perché c è uno scarico di energia continuo, non c è un pericolo, io l ho detto al Sindaco di Sulmona, la comunità scientifica mi continua a confermare che anzi è una situazione favorevole perciò uno scarico di energia continuo, e quindi sostanzialmente ci sono anche degli eventi piuttosto intensi, non sono intensissimi, quindi in qualche modo abbiamo avuto abbiamo visto pochi danni ; 3

venendo così meno ai doveri di valutazione del rischio connessi alla loro qualità e alla loro funzione e tesi alla previsione e alla prevenzione e ai doveri di informazione chiara, corretta, completa; cagionavano, in occasione della violenta scossa di terremoto (magnitudo momento MW = 6.3, magnitudo locale ML = 5.8) del 06.04.2009 ore 3,32, la morte di: (segue elenco di 37 vittime decedute il 6.4.2009 o nei giorni immediatamente successivi e di 5 persone rimaste ferite in conseguenza del crollo delle abitazioni nelle quali si trovavano ovvero della Casa dello Studente dell Aquila) indotti a rimanere in casa per effetto esclusivo della condotta sopra descritta, nonostante le scosse di terremoto che si ripetevano numerose da mesi con frequenza e magnitudo crescenti, fino a quella del 6 aprile 2009 ore 03,32. In L Aquila tra il 31.03.2009, data della riunione della Commissione Nazionale per la Previsione e la Prevenzione dei Grandi Rischi e il 06.04.2009, data dell evento.

Errore sulla legge penale http://www.penalecontemporaneo.it/area/3-/15-/-/1585- istigazione_all_uso_di_sostanze_stupefacenti una_pronuncia_di_merito_nel_solco_della_pi re cente_giurisprudenza_di_legittimit_/ Istigazione all'uso di sostanze stupefacenti: una pronuncia di merito nel solco della più recente giurisprudenza di legittimità Nota a G.U.P. Trib. Rovereto, 17.05.2012, n. 109 (sent.), Giud. R. Dies, imp. F.M. di Ambra Carla Tombesi 1. Secondo la sentenza annotata la messa in vendita di semi di cannabis, degli strumenti per la loro coltivazione nonché di monografie illustrative delle modalità di coltivazione ed estrazione dell'hashish da piante di canapa indiana, compiuta tramite distinti siti internet editi e gestiti da un unico soggetto e tra loro collegati attraverso link reciproci, integra il delitto di istigazione all'uso di sostanze stupefacenti (art. 82 d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309). L'imputato non può, inoltre, invocare in proprio favore una ignoranza inevitabile della legge penale (5 c.p.) per essere stato precedentemente assolto per fatti di analogo tenore, qualora le precedenti sentenze di assoluzione non descrivano il fatto reato commesso come lecito ma siano fondate, a loro volta, sulla inevitabile ignoranza della legge penale, posto che il dubbio sulla rilevanza penale del fatto non consente di ritenere scusabile l'errore sulla legge penale. Nella sentenza allegata in calce, adottata all'esito di giudizio abbreviato, il G.U.P. presso il Tribunale di Rovereto, quanto all'elemento oggettivo, esclude che il caso di specie sia sussumibile tanto nella nozione di induzione all'uso di stupefacenti, la quale presuppone un rapporto diretto ed immediato tra persuasore ed indotto all'uso di stupefacenti, non provato nel giudizio de quo, quanto nella nozione di proselitismo che si sostanzierebbe nell'esaltazione e convincimento all'uso di stupefacenti orientati da ragioni ideologiche, concretamente mancanti nel caso di specie. Ritiene, invece, integrata l'attività di istigazione all'uso di stupefacenti come incitamento o sprone che deve essere realizzato, per la prevalente giurisprudenza, pubblicamente ossia, ai sensi dell'art. 266 comma 4 lett. a) c.p., anche tramite stampa o con altro mezzo di propaganda tra i quali pacificamente rientra la pubblicazione sul web. In particolare si evidenzia come il ricorrere di un'ipotesi di istigazione dovrà essere accertata mediante un "giudizio ex ante in concreto" avente come parametri di riferimento la condotta contestata all'imputato e l'uso di stupefacenti. 2. Come già recentemente evidenziato dalla giurisprudenza di legittimità, la pubblicizzazione della vendita di semi di cannabis su un sito internet liberamente accessibile, compiuta dando indicazioni per la coltivazione delle specie offerte e descrivendo gli effetti derivanti dal loro consumo, integra il

reato di istigazione all'uso di stupefacenti (cfr. da ultimo Cass. Pen., Sez. IV, 17 gennaio 2012, n. 6972; Cass. Pen. 8 aprile 2010, n. 15083; Cass. Pen., 24 settembre 2009, n. 38633; Cass. Pen. 24 settembre 2009, n. 38633, Cass. Pen., Sez. IV, 20 maggio 2009, n. 23903, tutte in DeJure). In particolare si avrà un fatto di istigazione in tutti i casi nei quali il contesto in cui si realizza la condotta dell'agente e le espressioni utilizzate per descrivere lo stupefacente ricavabile dalla coltivazione dei semi siano concretamente idonee a conseguire l'effetto "di indurre i destinatari delle esortazioni all'uso di dette sostanze, anche se in concreto l'uso non si verifichi" (così Cass. Pen., Sez. IV, 17 gennaio 2012, 6972, analogamente Cass. Pen., 24 settembre 2009, n. 38633, Cass. Pen., Sez. IV, 23 aprile 2004, n. 22911 disponibili in DeJure). Merita di essere evidenziato, in proposito, che Cass. Pen., Sez. IV, 24 gennaio 2012, n. 17752 ha ritenuto che integrino l'illecito amministrativo del quale all'art. 84 tutti i casi in cui la diffusione o divulgazione di semi sia compiuta in maniera asettica, senza dare istruzioni per la coltivazione e l'uso del prodotto stesso (sul punto si veda anche GIP Firenze, 18 febbraio 2011, n. 266 con nota di G.L. Gatta, Cataloghi on line, semi di cannabis senza sanzione penale, in Quot. Legale 18 luglio 2011, entrambe disponibili in Pluris On Line). Si ha, invece, il delitto di istigazione all'uso di stupefacenti qualora all'attività di vendita di semi di cannabis venga affiancata anche quella divulgativa e persuasiva all'uso delle sostanze stupefacenti estraibili dalle piante frutto della coltivazione di tali semi (così, ex pluribus, Cass. Pen., Sex. IV, 20 maggio 2009, n. 32917, in DeJure). 4. Quanto all'elemento soggettivo il G.U.P. ritiene pienamente sussistente, in capo all'imputato, la coscienza e volontà di vendere semi di cannabis fornendo via internet non solo tutto il necessario per la coltivazione e la produzione di stupefacenti, ma anche magnificandone le proprietà allucinogene. La difesa dell'imputato aveva altresì eccepito, in sede di discussione, la mancata consapevolezza della rilevanza penale del fatto poiché in precedenti procedimenti penali per fatti analoghi l'imputato era sempre stato assolto. Il G.U.P., tuttavia, sottolinea come nell'ultima delle richiamate sentenze favorevoli all'imputato, questi fosse stato assolto per ignoranza scusabile della legge penale, e come tale sentenza di assoluzione avesse espressamente evidenziato sia l'illiceità penale dell'attività di vendita on line da realizzata dall'imputato sia che, di conseguenza, in caso di reiterazione di condotte simili, l'imputato non avrebbe più potuto ritenere essere scusata l'attività di istigazione all'uso di stupefacenti in forza dell'ignoranza inevitabile della legge penale. Pertanto, secondo il G.U.P., l'imputato doveva almeno avere, alla luce della motivazione di detta sentenza, il dubbio che la prosecuzione dell'attività realizzata a mezzo internet fosse penalmente rilevante, con conseguente dovere di astenersi dal compierla.

5. Sulla scusabilità dell'errore sulla legge penale in relazione a fattispecie del tutto analoga si è pronunciata di recente la Quarta Sezione della Cassazione alla luce della già ricordata sentenza n. 17752 del 2012. Anche nel caso oggetto di tale pronuncia l'imputato gestiva siti internet collegati, aventi ad oggetto la medesima attività commerciale contestata all'imputato nel caso di specie. Anche in tale caso la difesa dell'imputato aveva invocato la scusabilità dell'ignoranza della legge penale alla luce delle precedenti rassicurazioni avute dalla autorità giudiziaria sulla liceità penale del fatto realizzato per essere stato assolto per condotte analoghe già precedentemente realizzate. In tale sentenza la Cassazione ha escluso la scusabilità dell'errore sulla rilevanza penale del fatto, evidenziando come tale ignoranza incolpevole non fosse stata dimostrata. L'imputato aveva, anzi, per le modalità di realizzazione del fatto reato, dato prova di essere edotto della illiceità penale dell'attività commerciale gestita. Infatti, tra gli altri profili, la maliziosità della frammentazione in diversi siti dei consigli sulla coltivazione e l'uso di stupefacenti, in modo che ciascuno dei siti apparisse "asettico" e solo dall'unione dei tre siti apparisse il reale intento di diffondere la coltivazione di canapa indiana al fine di ottenere produzione di stupefacenti, si dimostrava condotta preordinatamente volta ad eludere l'applicazione della norma incriminatrice. In tal caso, pertanto, l'evidente uso strumentale della giurisprudenza di legittimità sull'istigazione all'uso di stupefacente escludeva che l'imputato potesse essere considerato caduto in inevitabile errore sulla legge penale. verifichi" (così Cass. Pen., Sez. IV, 17 gennaio 2012, 6972, analogamente Cass. Pen., 24 settembre 2009, n. 38633, Cass. Pen., Sez. IV, 23 aprile 2004, n. 22911 disponibili in DeJure).

Imputabilità

Stati emotivi e passionali Archivio selezionato: Sentenze Cassazione Penale ESTREMI Autorità: Cassazione penale sez. I Data udienza: 05 dicembre 1997 Numero: n. 967 CLASSIFICAZIONE IMPUTABILITÀ (Capacità di intendere e di volere) - Stati emotivi e passionali Fatto e diritto In fatto Con sentenza della corte d'assise di Milano in data 13 novembre 1996 G. F. S. venne condannato alla pena di anni 24 di reclusione in quanto ritenuto responsabile di aver volontariamente cagionato la morte della moglie T. M. "strangolandola o comunque provocandone il soffocamento", in Assago, il 24 ottobre 1995. Su appello dell'imputato e del pubblico ministero la corte d'assise d'appello di Milano, con la sentenza di cui in epigrafe, in parziale accoglimento del primo di detti gravami, riconosciute al G. le attenuanti generiche, dichiarate equivalenti all'aggravante del rapporto di coniugio, e ferma restando la diminuente di cui all'art. 442 c.p.p., già riconosciuta in primo grado in considerazione della ritenuta ingiustificatezza del mancato consenso del pubblico ministero alla richiesta di giudizio abbreviato ritualmente avanzata dall'imputato, ridusse la pena a quest'ultimo inflitta ad anni 14 di reclusione, confermando nel resto. Per quanto ancora d'interesse in questa sede, la corte di secondo grado, condividendo il giudizio espresso da quella di primo grado, ritenne accertato - pacifica risultando, sul piano della mera causalità materiale, la riconducibilità dell'evento morte all'azione posta in essere dall'imputato - che quest'ultimo avesse agito con volontà omicida, come desumibile, sulla scorta delle espletate indagini medico legali, dalla presenza, sul collo della vittima, di "ecchimosi laterali e discontinue" indicative di una "prolungata ed energica comprensione...attuata con le mani"; e ciò - si afferma - anche alla luce del "dato di comune esperienza" secondo cui "per cagionare la morte di una persona mediante soffocamento attuato con la costrizione delle vie respiratorie non solo è richiesta un'azione portata con notevole forza (si consideri la resistenza opposta dal tessuto cartilagineo della trachea e dalla protezione che a questa fornisce la muscolatura del collo) ma anche che la

compressione sia mantenuta per un tempo non inferiore a due o tre minuti; un tempo sicuramente apprezzabile e non compatibile con un'azione inconsapevole e frutto di un impulso istantaneo". Ad ulteriore conferma della volontà omicida poteva poi farsi riferimento - sempre secondo il convincimento espresso dalla corte di merito - all'avvenuta manifestazione, da parte dell'imputato, a più riprese, nel passato (come emerso in particolare dalle dichiarazioni testimoniali della figlia), dell'intenzione di uccidere la moglie e quindi di togliersi la vita; intenzione, quest'ultima, ribadita anche in uno scritto diretto ai figli rinvenuto all'interno della stessa autovettura in cui si erano svolti i fatti. Quanto alla capacità di intendere e di volere del G. al momento del fatto, ritenne la corte di merito, sulla scorta del giudizio espresso dal consulente psichiatrico prof. P. nella relazione scritta, poi confermata e illustrata in dibattimento, che detta capacità non fosse né esclusa né grandemente scemata, potendosi soltanto dire che l'imputato aveva agito in presenza di uno stato emotivo e passionale di forte intensità (riconducibile essenzialmente a quello che gli appariva come l'ormai irrimediabile fallimento del matrimonio per volontà della moglie, di cui egli peraltro continuava ad essere innamorato); stato, quello anzidetto, che si "innestava su una personalità di tipo isterico e narcisistico" la quale era, peraltro, da considerare come rientrante "nelle variabili caratteriali e non in aspetti di patologia mentale vera e propria". Nel ricorso proposto dall'imputato e dai suoi difensori (con atti distinti ma di contenuto sostanzialmente identico), si lamenta, essenzialmente: 1) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta piena capacità d'intendere e di volere dell'imputato, pur in presenza di elementi fattuali (quali i ripetuti, pregressi tentativi di suidicio, culminati nell'ultimo, posto in essere, mediante assunzione di un forte quantitativo di psicofarmaci, nel contesto della lunga ed estenuante discussione con la moglie conclusasi con la morte di costei), che avrebbero dovuto indurre, unitamente all'accerta presenza di note caratteristiche di una "personalità isterico istrionica" nonché di uno stato depressivo conseguente, oltre che al fallimento del matrimonio, anche alla perdita del posto di lavoro, a riguardare come probabile (con correlativa necessità di approfondimenti sul punto), l'ipotesi che lo stato emotivo e passionale nel quale l'imputato aveva agito non fosse fine a sé stesso, ma avesse trasmodato in una vera e propria compromissione, di natura patologica, della coscienza del soggetto e della sua capacità di autodeterminazione; del che poteva essere indizio anche la circostanza che, per quasi tutto il periodo di sottoposizione alla custodia cautelare, il G. era stato ricoverato in reparti psichiatrici ospedalieri o degli istituti penitenziari; La difesa dell'imputato ha poi prodotto anche dei motivi aggiunti, in cui ribadisce le argomentazioni esposte nei motivi originari, corredandole di due pareri rilasciati, rispettivamente, dal prof. G. I., specialista in psichiatria, e dal dott. A. M., medico legale, l'uno a sostegno della tesi circa la momentanea insussistenza della capacità d'intendere e di volere, a cagione di quella che viene indicata come "fase di alterazione dello stato di coscienza, definibile come stato crepuscolare";

l'altro a sostegno della tesi dell'involontarietà dell'evento morte, sulla base dell'assunto che quest'ultimo sarebbe potuto derivare anche da una pressione manuale sul collo della vittima di gran lunga inferiore, come durata, a quella ritenuta dalla corte di merito, ipotizzando, sulla scorta di rappresentate cognizioni scientifiche in materia e con citazione di letteratura specialistica, che la morte non fosse derivata da asfissia, ma da "arresto cardio circolatorio" conseguente all'attivarsi (frequente nella pratica), di un "meccanismo nervoso" prodotto dalla "abnorme stimolazione diretta delle strutture, per l'appunto, nervose presenti a livello del collo". In diritto Il ricorso è infondato. Quanto al primo motivo, occorre anzitutto ricordare che, per legge (artt. 88 e 89 cod. pen.), il vizio totale o il vizio parziale di mente in tanto sono riconoscibili, ai fini della esclusione o della riduzione della capacità d'intendere e di volere, in quanto riconducibili ad una "infermità", cioè ad un fattore di natura patologica, permanente o transeunte che esso sia. Sempre per legge, poi (art. 90 cod. pen.), "gli stati emotivi o passionali non escludono né diminuiscono l'imputabilità"; il che equivale a dire che essi non possono mai, di per sè, essere equiparati ad una "infermità"; e ciò pur essendo tali, per loro natura, da incidere, in modo più o meno massiccio, sulla lucidità mentale del soggetto agente (e, del resto, se così non fosse, non vi sarebbe stata neppure ragione di dettare la norma in questione). Ciò posto, ne consegue che, in presenza di stati emotivi e passionali, per sostenere che questi abbiano trasmodato fino a dar luogo alla configurabilità di una vera e propria "infermità" suscettibile di assumere rilevanza ai fini di cui agli artt. 88 e 89 cod. pen., non può bastare la dimostrazione che il soggetto, al momento del fatto, fosse privo della lucidità di mente propria di chi vive e opera in situazioni di normalità, ma occorre la dimostrazione che detta mancanza di lucidità sia, o possa essere plausibilmente dipesa da un "quid pluris" che, associato allo stato emotivo o passionale, si sia tradotto in un fattore propriamente patologico, sia pure di carattere transeunte e non inquadrabile nell'ambito di una precisa classificazione nosografica. Questo e non altro è, del resto, nella sostanza, quanto questa Corte ha già inteso affermare in altre precedenti pronunce sulla materia in esame (talune delle quali richiamate anche nei motivi di ricorso), in cui si ammette la possibilità che dalla riscontrata esistenza di stati emotivi o passionali possa passarsi alla configurabilità del vizio, totale o parziale, di mente. Alla detta possibilità, in particolare, si è fatto riferimento con riguardo alle c.d. "reazioni a corto circuito" affermandosi che esse, "anche se normalmente sono riferibili a stati emotivi e passionali non qualificabili come condizione patologica, possono tuttavia costituire, in determinate situazioni, manifestazioni di una vera e propria malattia che compromette la capacità di intendere e di volere, incidendo soprattutto sull'attitudine della persona a determinarsi in modo autonomo, con possibilità di optare per la condotta adatta al motivo più ragionevole e di resistere, quindi, agli stimoli degli avvenimenti esterni" (Cass. I, 23 marzo 1995, n. 3170, P.M. c. S., m. 200687); principio, questo, che va, peraltro, posto in correlazione con quanto puntualizzato, ad esempio, da Cass. I, 22-11-95 n. 11373, L., m. 203651, secondo cui "in tema di imputabilità, affinché una reazione a (corto circuito costituisca

manifestazione di una vera e propria malattia che comprometta la capacità di intendere e di volere del soggetto, è necessario che essa si inquadri in una preesistente alterazione patologica comportante infermità o seminfermità mentale", aggiungendosi poi che invece, "quando la reazione a corto circuito si ricolleghi a semplici manifestazioni di tipo nevrotico o ad alterazioni comportamentali prive di substrato organico, essa si configura come situazione di turbamento psichico transitorio, qualificabile come stato emotivo o passionale, tale da non escludere né diminuire l'imputabilità, a norma dell'art. 90 cod. pen.". Analogo orientamento era stato espresso, in precedenza, da Cass. I, 13 maggio 1993 n. 4954, Z., m. 194553 mentre, in modo più reciso, Cass. I, 27 giugno 1995 n. 7315, G., m. 301735, aveva riaffermato il principio generale secondo cui le "reazioni a corto circuito non escludono né diminuiscono la capacità di intendere e di volere in quanto sono ricollegabili a condizioni di turbamento psichico transitorio non dipendente da causa patologica, bensì emotiva o passionale". Quanto, poi, a stabilire se ed in quali casi sia individuabile quel "quid pluris" di cui si è detto in precedenza, e cioè il substrato patologico o patogeno in presenza del quale gli stati emotivi o passionali possono essere assunti a manifestazione di vera e propria infermità e quindi rilevare ai fini della esclusione o della diminuzione della imputabilità, è evidente come questo non possa essere compito della scienza giuridica, sibbene della scienza medico psichiatrica la quale, peraltro - se chiamata ad operare a supporto dell'assunzione di decisioni giurisdizionali - non potrà, nella vigenza dell'attuale quadro normativo, mai spingersi al punto di attribuire carattere di "infermità" ad alterazioni transeunti della sfera psico - intellettiva e volitiva che costituiscano il naturale portato dei suddetti stati emotivi o passionali. Tutto ciò premesso, e venendo quindi al caso di specie, rileva la Corte che nessun elemento, fra quelli che risultano essere stati portati all'attenzione del giudice di merito ed ai quali si è richiamato il ricorso, appare connotato dall'attitudine a costituire dimostrazione della certa o probabile esistenza del substrato patologico o patogeno dianzi accennato, in contrasto con le motivate conclusioni, fatte proprie dal detto giudice, alle quali era giunto il consulente medico psichiatra, secondo cui - come già ricordato in narrativa - il G., pur presentando le note caratteriali a suo tempo indicate, non era tuttavia portatore di alcuna forma patologica afferente la sfera psico-volitiva ma aveva semplicemente agito in presenza di uno stato di forte passionalità, come tale ricompreso ed esaurito nell'ambito delle previsioni di cui all'art. 90 cod. pen. Non risulta neppure, del resto, che tali conclusioni siano state confutate, in sede di merito, con specifici argomenti scientifici, da un consulente di parte, non facendosi di ciò alcun cenno tanto nell'impugnata sentenza quanto nei motivi di ricorso. Né può, in questa sede, attribuirsi rilievo alcuno al parere del prof. I., prodotto in allegato ai motivi aggiunti di ricorso, siccome implicante valutazioni di merito precluse al giudice di legittimità, pur potendosi, al riguardo, notare che, comunque, da detto parere altro non sembra emergere se non un generico dissenso dalle conclusioni del consulente prof. P., articolato - come già accennato in narrativa - sulla prospettazione della esistenza, nell'imputato, al momento del fatto, di uno "stato crepuscolare" dovuto alla concomitante azione della "intensa componente emotiva" e dell'assunzione di farmaci di natura ansiolitica; e ciò senza che risulti in alcun modo

illustrato n, tanto meno, dimostrato, perché un siffatto "stato crepuscolare" sarebbe stato da considerare di natura patologica, e quindi rilevante ai fini dell'imputabilità, pur derivando esso da fattori espressamente indicati dalla legge come irrilevanti ai fini anzidetti (la "componente emotiva", infatti, rientra nelle previsioni del più volte richiamato art. 90 cod. pen. e l'assunzione volontaria di farmaci, se ed in quanto questi ultimi avessero attitudine ad incidere sulla lucidità mentale, appare inquadrabile nelle previsioni di cui agli artt. 91 e 93 stesso codice). Anche il fatto, posto in evidenza nei motivi di ricorso, che l'imputato, nel corso della custodia cautelare, sia stato ricoverato in reparti psichiatrici ospedalieri o dell'amministrazione penitenziaria non appare, di per sè, determinante, ben potendo tali ricoveri essere dipesi dalle più varie ragioni, mentre di maggior rilievo avrebbero potuto essere le risultanze emergenti dalle cartelle o diari clienti che a quei ricoveri si riferivano; risultanze alle quali, peraltro, nei motivi di ricorso non si fa alcun cenno. Quanto al resto (pregressi e concomitanti tentativi di suicidio posti in essere dal G., stato depressivo derivante dal fallimento del matrimonio e dalla perdita del posto di lavoro, assunzione di psicofarmaci e quant'altro richiamato nei motivi di ricorso), trattasi di elementi che non risultano affatto ignorati nella consulenza del prof. P. (per quanto di essa è dato sapere dai richiami contenuti nella sentenza). Che, sulla base di essi, la difesa del ricorrente abbia ritenuto e ritenga di dissentire dalle conclusioni alle quali il detto consulente è giunto è, ovviamente, del tutto legittimo e naturale, ma, altrettanto ovviamente, ciò non può bastare a rendere configurabile, a carico della sentenza che quelle conclusioni ha motivatamente recepito, alcun vizio di legittimità, non risultando, in particolare, alcuna carenza o manifesta illogicità, sul punto dell'apparato motivazionale, tale da rientrare nelle previsioni di cui all'art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p. p.q.m. la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento. Così deciso in Roma, il 5 dicembre 1997 DEPOSITATA IN CANCELLERIA, 27 GEN. 1998 Cassazione penale sez. I, 05 dicembre 1997 (udienza), n. 967 Utente: Univ. di Bari Facolta Giurisprudenza Univ. di Bari Facolta Giurisprudenza Tutti i diritti riservati - copyright 2012 - Dott. A. Giuffrè Editore S.p.A.

Archivio selezionato: Sentenze Cassazione Penale ESTREMI Autorità: Cassazione penale sez. I Data udienza: 05 dicembre 1997 Numero: n. 967 CLASSIFICAZIONE IMPUTABILITÀ (Capacità di intendere e di volere) - Stati emotivi e passionali Fatto e diritto In fatto Con sentenza della corte d'assise di Milano in data 13 novembre 1996 G. F. S. venne condannato alla pena di anni 24 di reclusione in quanto ritenuto responsabile di aver volontariamente cagionato la morte della moglie T. M. "strangolandola o comunque provocandone il soffocamento", in Assago, il 24 ottobre 1995. Su appello dell'imputato e del pubblico ministero la corte d'assise d'appello di Milano, con la sentenza di cui in epigrafe, in parziale accoglimento del primo di detti gravami, riconosciute al G. le attenuanti generiche, dichiarate equivalenti all'aggravante del rapporto di coniugio, e ferma restando la diminuente di cui all'art. 442 c.p.p., già riconosciuta in primo grado in considerazione della ritenuta ingiustificatezza del mancato consenso del pubblico ministero alla richiesta di giudizio abbreviato ritualmente avanzata dall'imputato, ridusse la pena a quest'ultimo inflitta ad anni 14 di reclusione, confermando nel resto. Per quanto ancora d'interesse in questa sede, la corte di secondo grado, condividendo il giudizio espresso da quella di primo grado, ritenne accertato - pacifica risultando, sul piano della mera causalità materiale, la riconducibilità dell'evento morte all'azione posta in essere dall'imputato - che quest'ultimo avesse agito con volontà omicida, come desumibile, sulla scorta delle espletate indagini medico legali, dalla presenza, sul collo della vittima, di "ecchimosi laterali e discontinue" indicative di una "prolungata ed energica comprensione...attuata con le mani"; e ciò - si afferma - anche alla luce del "dato di comune esperienza" secondo cui "per cagionare la morte di una persona mediante soffocamento attuato con la costrizione delle vie respiratorie non solo è richiesta un'azione portata con notevole forza (si consideri la resistenza opposta dal tessuto cartilagineo della trachea e dalla protezione che a questa fornisce la muscolatura del collo) ma anche che la compressione sia mantenuta per un tempo non inferiore a due o tre minuti; un tempo sicuramente apprezzabile e non compatibile con un'azione inconsapevole e frutto di un impulso istantaneo".

Ad ulteriore conferma della volontà omicida poteva poi farsi riferimento - sempre secondo il convincimento espresso dalla corte di merito - all'avvenuta manifestazione, da parte dell'imputato, a più riprese, nel passato (come emerso in particolare dalle dichiarazioni testimoniali della figlia), dell'intenzione di uccidere la moglie e quindi di togliersi la vita; intenzione, quest'ultima, ribadita anche in uno scritto diretto ai figli rinvenuto all'interno della stessa autovettura in cui si erano svolti i fatti. Quanto alla capacità di intendere e di volere del G. al momento del fatto, ritenne la corte di merito, sulla scorta del giudizio espresso dal consulente psichiatrico prof. P. nella relazione scritta, poi confermata e illustrata in dibattimento, che detta capacità non fosse né esclusa né grandemente scemata, potendosi soltanto dire che l'imputato aveva agito in presenza di uno stato emotivo e passionale di forte intensità (riconducibile essenzialmente a quello che gli appariva come l'ormai irrimediabile fallimento del matrimonio per volontà della moglie, di cui egli peraltro continuava ad essere innamorato); stato, quello anzidetto, che si "innestava su una personalità di tipo isterico e narcisistico" la quale era, peraltro, da considerare come rientrante "nelle variabili caratteriali e non in aspetti di patologia mentale vera e propria". Nel ricorso proposto dall'imputato e dai suoi difensori (con atti distinti ma di contenuto sostanzialmente identico), si lamenta, essenzialmente: 1) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta piena capacità d'intendere e di volere dell'imputato, pur in presenza di elementi fattuali (quali i ripetuti, pregressi tentativi di suidicio, culminati nell'ultimo, posto in essere, mediante assunzione di un forte quantitativo di psicofarmaci, nel contesto della lunga ed estenuante discussione con la moglie conclusasi con la morte di costei), che avrebbero dovuto indurre, unitamente all'accerta presenza di note caratteristiche di una "personalità isterico istrionica" nonché di uno stato depressivo conseguente, oltre che al fallimento del matrimonio, anche alla perdita del posto di lavoro, a riguardare come probabile (con correlativa necessità di approfondimenti sul punto), l'ipotesi che lo stato emotivo e passionale nel quale l'imputato aveva agito non fosse fine a sé stesso, ma avesse trasmodato in una vera e propria compromissione, di natura patologica, della coscienza del soggetto e della sua capacità di autodeterminazione; del che poteva essere indizio anche la circostanza che, per quasi tutto il periodo di sottoposizione alla custodia cautelare, il G. era stato ricoverato in reparti psichiatrici ospedalieri o degli istituti penitenziari; La difesa dell'imputato ha poi prodotto anche dei motivi aggiunti, in cui ribadisce le argomentazioni esposte nei motivi originari, corredandole di due pareri rilasciati, rispettivamente, dal prof. G. I., specialista in psichiatria, e dal dott. A. M., medico legale, l'uno a sostegno della tesi circa la momentanea insussistenza della capacità d'intendere e di volere, a cagione di quella che viene indicata come "fase di alterazione dello stato di coscienza, definibile come stato crepuscolare"; l'altro a sostegno della tesi dell'involontarietà dell'evento morte, sulla base dell'assunto che quest'ultimo sarebbe potuto derivare anche da una pressione manuale sul collo della vittima di gran

lunga inferiore, come durata, a quella ritenuta dalla corte di merito, ipotizzando, sulla scorta di rappresentate cognizioni scientifiche in materia e con citazione di letteratura specialistica, che la morte non fosse derivata da asfissia, ma da "arresto cardio circolatorio" conseguente all'attivarsi (frequente nella pratica), di un "meccanismo nervoso" prodotto dalla "abnorme stimolazione diretta delle strutture, per l'appunto, nervose presenti a livello del collo". In diritto Il ricorso è infondato. Quanto al primo motivo, occorre anzitutto ricordare che, per legge (artt. 88 e 89 cod. pen.), il vizio totale o il vizio parziale di mente in tanto sono riconoscibili, ai fini della esclusione o della riduzione della capacità d'intendere e di volere, in quanto riconducibili ad una "infermità", cioè ad un fattore di natura patologica, permanente o transeunte che esso sia. Sempre per legge, poi (art. 90 cod. pen.), "gli stati emotivi o passionali non escludono né diminuiscono l'imputabilità"; il che equivale a dire che essi non possono mai, di per sè, essere equiparati ad una "infermità"; e ciò pur essendo tali, per loro natura, da incidere, in modo più o meno massiccio, sulla lucidità mentale del soggetto agente (e, del resto, se così non fosse, non vi sarebbe stata neppure ragione di dettare la norma in questione). Ciò posto, ne consegue che, in presenza di stati emotivi e passionali, per sostenere che questi abbiano trasmodato fino a dar luogo alla configurabilità di una vera e propria "infermità" suscettibile di assumere rilevanza ai fini di cui agli artt. 88 e 89 cod. pen., non può bastare la dimostrazione che il soggetto, al momento del fatto, fosse privo della lucidità di mente propria di chi vive e opera in situazioni di normalità, ma occorre la dimostrazione che detta mancanza di lucidità sia, o possa essere plausibilmente dipesa da un "quid pluris" che, associato allo stato emotivo o passionale, si sia tradotto in un fattore propriamente patologico, sia pure di carattere transeunte e non inquadrabile nell'ambito di una precisa classificazione nosografica. Questo e non altro è, del resto, nella sostanza, quanto questa Corte ha già inteso affermare in altre precedenti pronunce sulla materia in esame (talune delle quali richiamate anche nei motivi di ricorso), in cui si ammette la possibilità che dalla riscontrata esistenza di stati emotivi o passionali possa passarsi alla configurabilità del vizio, totale o parziale, di mente. Alla detta possibilità, in particolare, si è fatto riferimento con riguardo alle c.d. "reazioni a corto circuito" affermandosi che esse, "anche se normalmente sono riferibili a stati emotivi e passionali non qualificabili come condizione patologica, possono tuttavia costituire, in determinate situazioni, manifestazioni di una vera e propria malattia che compromette la capacità di intendere e di volere, incidendo soprattutto sull'attitudine della persona a determinarsi in modo autonomo, con possibilità di optare per la condotta adatta al motivo più ragionevole e di resistere, quindi, agli stimoli degli avvenimenti esterni" (Cass. I, 23 marzo 1995, n. 3170, P.M. c. S., m. 200687); principio, questo, che va, peraltro, posto in correlazione con quanto puntualizzato, ad esempio, da Cass. I, 22-11-95 n. 11373, L., m. 203651, secondo cui "in tema di imputabilità, affinché una reazione a (corto circuito costituisca manifestazione di una vera e propria malattia che comprometta la capacità di intendere e di volere del soggetto, è necessario che essa si inquadri in una preesistente alterazione patologica

comportante infermità o seminfermità mentale", aggiungendosi poi che invece, "quando la reazione a corto circuito si ricolleghi a semplici manifestazioni di tipo nevrotico o ad alterazioni comportamentali prive di substrato organico, essa si configura come situazione di turbamento psichico transitorio, qualificabile come stato emotivo o passionale, tale da non escludere né diminuire l'imputabilità, a norma dell'art. 90 cod. pen.". Analogo orientamento era stato espresso, in precedenza, da Cass. I, 13 maggio 1993 n. 4954, Z., m. 194553 mentre, in modo più reciso, Cass. I, 27 giugno 1995 n. 7315, G., m. 301735, aveva riaffermato il principio generale secondo cui le "reazioni a corto circuito non escludono né diminuiscono la capacità di intendere e di volere in quanto sono ricollegabili a condizioni di turbamento psichico transitorio non dipendente da causa patologica, bensì emotiva o passionale". Quanto, poi, a stabilire se ed in quali casi sia individuabile quel "quid pluris" di cui si è detto in precedenza, e cioè il substrato patologico o patogeno in presenza del quale gli stati emotivi o passionali possono essere assunti a manifestazione di vera e propria infermità e quindi rilevare ai fini della esclusione o della diminuzione della imputabilità, è evidente come questo non possa essere compito della scienza giuridica, sibbene della scienza medico psichiatrica la quale, peraltro - se chiamata ad operare a supporto dell'assunzione di decisioni giurisdizionali - non potrà, nella vigenza dell'attuale quadro normativo, mai spingersi al punto di attribuire carattere di "infermità" ad alterazioni transeunti della sfera psico - intellettiva e volitiva che costituiscano il naturale portato dei suddetti stati emotivi o passionali. Tutto ciò premesso, e venendo quindi al caso di specie, rileva la Corte che nessun elemento, fra quelli che risultano essere stati portati all'attenzione del giudice di merito ed ai quali si è richiamato il ricorso, appare connotato dall'attitudine a costituire dimostrazione della certa o probabile esistenza del substrato patologico o patogeno dianzi accennato, in contrasto con le motivate conclusioni, fatte proprie dal detto giudice, alle quali era giunto il consulente medico psichiatra, secondo cui - come già ricordato in narrativa - il G., pur presentando le note caratteriali a suo tempo indicate, non era tuttavia portatore di alcuna forma patologica afferente la sfera psico-volitiva ma aveva semplicemente agito in presenza di uno stato di forte passionalità, come tale ricompreso ed esaurito nell'ambito delle previsioni di cui all'art. 90 cod. pen. Non risulta neppure, del resto, che tali conclusioni siano state confutate, in sede di merito, con specifici argomenti scientifici, da un consulente di parte, non facendosi di ciò alcun cenno tanto nell'impugnata sentenza quanto nei motivi di ricorso. Né può, in questa sede, attribuirsi rilievo alcuno al parere del prof. I., prodotto in allegato ai motivi aggiunti di ricorso, siccome implicante valutazioni di merito precluse al giudice di legittimità, pur potendosi, al riguardo, notare che, comunque, da detto parere altro non sembra emergere se non un generico dissenso dalle conclusioni del consulente prof. P., articolato - come già accennato in narrativa - sulla prospettazione della esistenza, nell'imputato, al momento del fatto, di uno "stato crepuscolare" dovuto alla concomitante azione della "intensa componente emotiva" e dell'assunzione di farmaci di natura ansiolitica; e ciò senza che risulti in alcun modo illustrato n, tanto meno, dimostrato, perché un siffatto "stato crepuscolare" sarebbe

stato da considerare di natura patologica, e quindi rilevante ai fini dell'imputabilità, pur derivando esso da fattori espressamente indicati dalla legge come irrilevanti ai fini anzidetti (la "componente emotiva", infatti, rientra nelle previsioni del più volte richiamato art. 90 cod. pen. e l'assunzione volontaria di farmaci, se ed in quanto questi ultimi avessero attitudine ad incidere sulla lucidità mentale, appare inquadrabile nelle previsioni di cui agli artt. 91 e 93 stesso codice). Anche il fatto, posto in evidenza nei motivi di ricorso, che l'imputato, nel corso della custodia cautelare, sia stato ricoverato in reparti psichiatrici ospedalieri o dell'amministrazione penitenziaria non appare, di per sè, determinante, ben potendo tali ricoveri essere dipesi dalle più varie ragioni, mentre di maggior rilievo avrebbero potuto essere le risultanze emergenti dalle cartelle o diari clienti che a quei ricoveri si riferivano; risultanze alle quali, peraltro, nei motivi di ricorso non si fa alcun cenno. Quanto al resto (pregressi e concomitanti tentativi di suicidio posti in essere dal G., stato depressivo derivante dal fallimento del matrimonio e dalla perdita del posto di lavoro, assunzione di psicofarmaci e quant'altro richiamato nei motivi di ricorso), trattasi di elementi che non risultano affatto ignorati nella consulenza del prof. P. (per quanto di essa è dato sapere dai richiami contenuti nella sentenza). Che, sulla base di essi, la difesa del ricorrente abbia ritenuto e ritenga di dissentire dalle conclusioni alle quali il detto consulente è giunto è, ovviamente, del tutto legittimo e naturale, ma, altrettanto ovviamente, ciò non può bastare a rendere configurabile, a carico della sentenza che quelle conclusioni ha motivatamente recepito, alcun vizio di legittimità, non risultando, in particolare, alcuna carenza o manifesta illogicità, sul punto dell'apparato motivazionale, tale da rientrare nelle previsioni di cui all'art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p. p.q.m. la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento. Così deciso in Roma, il 5 dicembre 1997 DEPOSITATA IN CANCELLERIA, 27 GEN. 1998 Cassazione penale sez. I, 05 dicembre 1997 (udienza), n. 967 Utente: Univ. di Bari Facolta Giurisprudenza Univ. di Bari Facolta Giurisprudenza Tutti i diritti riservati - copyright 2012 - Dott. A. Giuffrè Editore S.p.A.

Consenso dell'avente diritto Archivio selezionato: Sentenze Cassazione Penale ESTREMI Autorità: Cassazione penale sez. V Data udienza: 04 luglio 2008 Numero: n. 44306 CLASSIFICAZIONE REATO IN GENERE - Cause di giustificazione, in genere Vedi tutto CONSENSO DELL'AVENTE DIRITTO IN MATERIA PENALE - Attività pericolosa o sportiva GIUOCO IN MATERIA PENALE - In genere OMICIDIO COLPOSO E LESIONI PERSONALI COLPOSE - Lesioni personali colpose FATTO E DIRITTO 1.- La Corte di Appello di Roma, in riforma della sentenza del Tribunale della stessa città del 23 marzo 2006, appellata da M.A., ritenuta l'ipotesi di cui agli artt. 590 e 533 c.p., in relazione alle lesioni conseguite al calcio alla coscia, e l'ipotesi di cui all'art. 582 c.p., per il pugno sferrato al volto, determinava la pena in mesi due e giorni 10 di reclusione e confermava nel resto l'impugnata sentenza nella parte relativa al risarcimento dei danni nei confronti della parte civile. 2.- La Corte territoriale ha argomentato che le lesioni riportate dalla parte offesa e consistenti nella rottura "dei fasci muscolari del vasto laterale della coscia sinistra, con successivo ematoma, stiramento del legamento collaterale mediale e rottura parziale del legamento crociato anteriore del ginocchio", nel corso di una partita di calcio, non fosse conseguenza di un atto voluto da parte del M., bensì di uno sgambetto involontario, praticato dallo stesso, nei confronti del C., in occasione di un contrasto di gioco. C. Mancata applicazione dell'esimente dell'esercizio dell'attività sportiva. 7.- Va anche rigettato l'ultimo motivo concernente la deduzione circa l'insussitenza dell' esimente dell'attività sportiva. In proposito questa Corte ha affermato il principio che "configura un illecito penale la condotta di un calciatore che, nel corso di una partita a livello dilettantistico, provoca lesioni gravi ad un avversario, commettendo ai suoi danni un fatto volontario di tale durezza da esporto ad un rischio superiore a quello accettabile dal partecipante a tale genere di competizione, non potendo in tale caso operare l'esimente del consenso dell'avente diritto (nella specie, i giudici di legittimità hanno dichiarato l'estinzione del reato per intervenuta amnistia dopo avere qualificato lesioni colpose gravi la

condotta di un difensore di una squadra di calcio, resosi responsabile di avere atterrato da tergo, colpendolo con un calcio ad una gamba, un avversario della squadra avversaria, provocandogli così una frattura alla tibia, guaribile in più di quaranta giorni)". Cass., sez. 5, 30/4/1992, Lolli). Tale principio può applicarsi anche nel caso di un fatto colposo e a maggior ragione, nella specie, dato che la partita di calcio si volgeva, come risulta dalla sentenza impugnata, in modo amichevole, tra compagni di scuola, perché, in ogni caso, deve essere escluso il gioco pericoloso, consistito nello sgambetto, cioè nell'"azione di chi incrociando il proprio piede con le gambe dell'avversario tenta di farlo cadere per arrestare irregolarmente l'azione", in quanto estraneo alle caratteristiche della partita amichevole o amatoriale, nella quale il rischio di subire lesioni gravi, con effetti permanenti, come quelli causati al C., non solo non è preventivato, ma anche non può essere accettato. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonchè alla rifusione delle spese di parte civile che liquida in complessivi Euro 1.500,00 oltre accessori di come per legge. Così deciso in Roma, il 4 luglio 2008. Depositato in Cancelleria il 27 novembre 2008 Archivio selezionato: Sentenze Cassazione Penale ESTREMI Autorità: Cassazione penale sez. IV Data udienza: 20 aprile 2010 Numero: n. 21799 FATTO SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Il 14 novembre 2008 il G.U.P. del Tribunale di Sassari, a seguito di giudizio abbreviato, dichiarava non doversi procedere nei confronti di P.G.A.T. in ordine al reato di cui all'art. 590 c.p., comma 2, così qualificata la originaria imputazione di lesioni personali dolose, perchè estinto per prescrizione. All'imputato era stato originariamente contestato il delitto di cui all'art. 582 c.p., e art. 583 c.p., comma 1, n. 2, "perchè, in assenza di consenso informato del paziente, effettuava un