SENTENZA. Cassazione Civile Sent. n. 411 del 24-01-1990



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SENTENZA Cassazione Civile Sent. n. 411 del 24-01-1990 Svolgimento del processo Con ricorso in data 17 dicembre 1982 Sparaco Salvatore chiedeva al Pretore di Caserta (adito) in funzione di giudice del lavoro la condanna della soc.p.a. "3M ITALIA" (suo datore di lavoro), convenuta in giudizio, al risarcimento dei danni "patrimoniali e non patrimoniali" subiti in conseguenza del dedotto "comportamento arbitrario" da questa mantenuto nei suoi riguardi per effetto del licenziamento (per eccessiva morbilità) intimatogli ingiustificatamente in data 4 maggio 1975. Spiegava in particolare il ricorrente che "reintegrato" nel posto di lavoro nel luglio 1976 a seguito della sentenza (a lui favorevole) del Pretore di Caserta in data 28.6.1976 (al quale esso si era rivolto lamentando l'illegittimità del licenziamento medesimo), ne era stato successivamente "allontanato" in data 4 marzo 1977 a seguito della sentenza del Tribunale di S. Maria Capua Vetere (che aveva riformato la sentenza del Pretore), peraltro successivamente "cassata" dalla Corte Suprema di Cassazione su ricorso del lavoratore; e che era stato - infine - (definitivamente) reintegrato in data 4 agosto 1980, avendo il giudice di rinvio (Tribunale di Napoli), nel frattempo, confermato irrevocabilmente la sentenza del Pretore di Caserta. L'adito Pretore, con sentenza in data 16.2.1984 accogliendo (in parte) la domanda, condannava la società convenuta a pagare al lavoratore la somma di lire 17.983.341 (oltre interessi e rivalutazione). Su appello dello Sparaco (che lamentava il mancato accoglimento della domanda diretta ad ottenere - anche - il risarcimento dei danni non patrimoniali subiti a causa della illegittima ed arbitraria condotta del suo datore di lavoro che lo aveva privato ingiustamente - e per due volte - del suo posto di lavoro, affidandogli poi mansioni "non confacenti" alla sua "qualifica", provocandogli così un "forte esaurimento nervoso") il Tribunale di S. Maria Capua Vetere, con sentenza pronunciata in data 4-29 aprile 1986, nel ricostituito contraddittorio confermava la decisione appellata, rigettando il gravame. Osservava in motivazione il Tribunale che la domanda di risarcimento danni poteva trovare accoglimento nei soli limiti (già peraltro correttamente delineati dal Pretore) fissati dagli artt. 1223 e sgg. del C.C., con riferimento alla (possibile) risarcibilità dei danni patrimoniali subiti dal lavoratore, con riferimento (specifico) alle "perdite" subite ed al "mancato guadagno" lamentato; esclusa la risarcibilità dei danni "non patrimoniali" (e del danno "biologico") dedotti, non potendo ravvisarsi dalla valutazione della condotta del datore di lavoro inadempiente (ma sul piano esclusivamente "contrattuale"):

a) né gli estremi di un "reato" a norma del combinato disposto di cui agli artt. 2059 C.C. e 185 C.P.; b) né gli estremi di un "illecito" civilistico ex art. 2043 C.C. Contro tale decisione propone ricorso per Cassazione lo Sparaco e deduce due diversi motivi di annullamento variamente articolati. Resiste con controricorso la soc. "3M ITALIA" regolarmente costituita. Motivi della decisione Con il primo motivo di ricorso, denunziata violazione e falsa applicazione dell'art. 2059 c.c. (art. 360, n. 3, c.p.c.) si duole il ricorrente della sentenza impugnata, per avere il Tribunale rigettato la domanda di risarcimento danni non patrimoniali, non ricorrendo l'ipotesi di "reato": seguendo però al riguardo un'interpretazione della terminologia del codice "restrittiva" (ed ormai) "superata". Richiamati i principi enunciati dalla Corte Costituzionale (decisione 26 giugno 1978, n. 88), deduce il ricorrente che la risarcibilità dei danni non patrimoniali non può essere restrittivamente limitata alla (sola) ipotesi di "reato" ma deve essere ammessa in tutti i "casi determinati dalla legge...", sotto il prospettato profilo della risarcibilità del "danno biologico"; e, pertanto, anche nel caso concreto dedotto in giudizio, in cui il lavoratore, ingiustamente licenziato, era stato colto, a seguito del licenziamento (e delle successive complesse vicende giudiziarie ricordate), da una "sindrome depressiva" conseguenza (questa) di un "forte esaurimento nervoso" subito. Con il secondo motivo, denunziata violazione e falsa applicazione dell'art. 2043 c.c. (art. 360, n. 3, c.p.c.), si duole il ricorrente, censurando sotto altra angolazione la sentenza impugnata, che il Tribunale, nel rigettare la domanda, non abbia sufficientemente considerato che, accanto alla responsabilità contrattuale del datore di lavoro, poteva essere giuridicamente prospettata anche quella "extra contrattuale" per avere lo stesso insistito reiteratamente nella ripetizione di atti e fatti illeciti ed arbitrari (lesivi della personalità del lavoratore) quali ad esempio la "dequalificazione" delle mansioni affidategli risultate non confacenti alla sua qualifica contrattuale. E che tale particolare tipo di responsabilità (art. 2043 c.c.) poteva essere giuridicamente configurata indipendentemente dal "dolo" e dalla "colpa", anche sulla base (soltanto) della semplice "omissione". Le censure sono (in parte) fondate, e il ricorso può essere accolto, per quanto di ragione, nei limiti qui di seguito precisati. Pur potendosi condividere, in linea di principio, la tesi di diritto (enunciata dal Tribunale) della non risarcibilità dei danni cosiddetti "morali" o "non - patrimoniali" (secondo la nozione tradizionale elaborata da dottrina e giurisprudenza) all'infuori dei (limitati) casi del fatto "illecito" costituente "reato" ex art. 2059 c.c. e art. 185 c.p. (di guisa che infondate si rivelano

innanzitutto le censure di cui al primo motivo del ricorso), va tuttavia rilevato (secondo quanto fondatamente deduce il ricorrente nel secondo motivo) - che il Tribunale, decidendo nei termini sopra ricordati, non ha considerato che il lavoratore - pur rivendicando (anche - ma solo nominalmente ed in modo improprio) il risarcimento di tali danni, aveva (peraltro) dedotto, a tal uopo, (sin dall'atto introduttivo del giudizio) di avere subito una grave sindrome nevrotica da "esaurimento nervoso" quale conseguenza del fatto "illecito" (non solo sul piano esclusivamente contrattuale) commesso ai suoi danni dal datore di lavoro. E ciò (secondo l'assunto del lavoratore) - non solo a causa dell'illegittimo licenziamento intimatogli (e delle consequenziali vicende giudiziarie ingiustamente subite, sino alla definitiva reintegra nel posto di lavoro), ma anche per avere (dovuto) esercitare (su ordine del suo datore di lavoro) mansioni di lavoro (dequalificate) non confacenti alla qualifica o categoria contrattualmente riconosciutagli. Deve essere, pertanto, annullato sul punto il giudizio conclusivo del Tribunale, chiaramente inficiato dai vizi di legittimità denunziati sub motivo secondo del ricorso. Come è noto, anche per la recente evoluzione dei nuovi principi elaborati in materia dalla Corte Costituzionale e dalla giurisprudenza di questa stessa Corte, il "bene della salute" (che deve intendersi ovviamente compromesso o leso dall'"esaurimento nervoso" lamentato, nel caso di specie, dal lavoratore), costituisce - come tale - oggetto di un autonomo diritto primario assoluto (art. 32 della Costituzione); di guisa che il risarcimento dovuto per la sua lesione non può essere limitato alle conseguenze che incidono soltanto sulla idoneità del soggetto a produrre reddito, ma deve autonomamente comprendere - anche il danno c.d. "biologico" inteso come menomazione della integrità "psicofisica" della persona in sé e per sé considerata, in quanto incidente sul valore "uomo" in tutta la sua dimensione; e che non si esaurisce nella sola attitudine a produrre ricchezza, ma si collega alla somma delle funzioni naturali riguardanti il soggetto nel suo ambiente di vita e di lavoro, ed aventi rilevanza non solo economica, ma anche biologica, sociale, culturale ed estetica. In altri termini, in caso di fatto illecito lesivo della integrità psicofisica della persona, il danno patrimoniale risarcibile - non è costituito soltanto dalle conseguenze pregiudizievoli correlate alla efficienza lavorativa ed alla capacità di produzione di reddito, ma si estende a tutti gli effetti negativi incidenti sul bene primario della salute in sé considerato, quale diritto inviolabile dell'uomo alla pienezza della vita ed all'esplicazione della propria personalità morale, intellettuale e culturale (cfr. per i principi enunciati: ad es. tra le più recenti Cass. 25 maggio 1985 n. 3212; Cass. 21 marzo 1986 n. 2012; Cass. 14 gennaio 1988 n. 208). Né si può sostenere (come ha fatto il Tribunale, che ha tuttavia - correttamente riconosciuto in linea di principio il concorso tra responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale, quale conseguenza di un

medesimo fatto che abbia violato contemporaneamente non soltanto diritti derivanti da contratto, ma anche diritti spettanti alla persona offesa, indipendentemente dal contratto medesimo) che non spettava, nel caso concreto, alcun risarcimento - sotto la particolare angolazione dedotta dal lavoratore, perché nessun "illecito" era configurabile in capo al datore di lavoro, al di fuori ed indipendentemente dal rapporto di lavoro instaurato con il ricorrente. Il Tribunale, infatti, non ha attentamente considerata la portata percettiva dell'art. 2043 c.c., il quale, stabilito il principio (generale) della risarcibilità del "danno ingiusto" senza altra qualificazione, prevede in via immediata la risarcibilità delle menomazioni di quello che è il complessivo valore della persona, nella sua proiezione - non solo economica ed oggettiva fatta palese dal patrimonio, ma (anche) "soggettiva" (biologica e sociale): nel senso e nei termini sopra richiamati. Non ha, poi, attentamente valutato nel merito il complessivo comportamento del datore di lavoro (sin dall'iniziale (illegittimo) licenziamento intimato - fino alla ultima e definitiva reintegra nel posto di lavoro del dipendente illegittimamente estromesso) tenuto conto al riguardo dei principi di diritto (e della loro successiva evoluzione: cfr. S.U. n. 1669 del 1982 e S.U. n. 2925 del 1988) in materia enunciati dalla giurisprudenza di questa Corte, in tema di "effetti" della riforma in appello della sentenza di primo grado, o della (successiva) cassazione (art. 336 c.p.c.); anche e soprattutto in relazione al (successivo) comportamento del datore di lavoro (e sul quale è mancata ogni e qualsiasi valutazione) che, dopo la "reintegra", ha affidato (fra l'altro) al lavoratore mansioni non corrispondenti alla sua qualifica o alla sua categoria, violando così (secondo l'assunto del ricorrente) un preciso obbligo previsto dalla legge (art. 2103 c.c.). E tale esame (e valutazione) era necessario per verificare se, al di fuori del piano esclusivamente contrattuale (nei cui limiti è stata circoscritta riduttivamente - la disamina del giudice del merito), si potesse configurare piuttosto un'ipotesi di responsabilità extra - contrattuale del datore di lavoro alla stregua dei fatti "illeciti" denunziati, con riferimento al danno alla salute lamentato dal lavoratore. Va conclusivamente accolto, per quanto di ragione, il ricorso; con conseguente annullamento della sentenza impugnata; e con rinvio ad altro giudice (che si designa nel Tribunale di Napoli) il quale, nel riesaminare la domanda del lavoratore, si dovrà uniformare agli enunciati principi di diritto; provvedendo infine anche sulle spese processuali di questo giudizio. P.Q.M. - La Corte Suprema di Cassazione, sez. lavoro - accoglie, per quanto di ragione, il ricorso;

- cassa la sentenza impugnata e rinvia, per nuovo esame in ordine ai motivi accolti e per la determinazione delle spese di questo giudizio, al Tribunale di Napoli. Così deciso in Roma, lì 27 giugno 1988. DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 24 GENNAIO 1990.