FISICA/ MENTE LA LUCE

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1 FISICA/ MENTE LA LUCE Roberto Renzetti Gen 1:1 Nel principio Dio creò i cieli e la terra. 2 La terra era informe e vuota, le tenebre coprivano la faccia dell'abisso e lo Spirito di Dio aleggiava sulla superficie delle acque. 3 Dio disse: «Sia luce!» E luce fu. 4 Dio vide che la luce era buona; e Dio separò la luce dalle tenebre. 5 Dio chiamò la luce «giorno» e le tenebre «notte». Fu sera, poi fu mattina: primo giorno. CAPITOLO 1 file:///c /$A_WEB/STORIA_LUCE.htm (1 of 215)28/02/

2 INTRODUZIONE Come per molte altre cose, le origini delle teorie della visione e della luce, di quanto cercherò cioè di studiare e raccontare, si perdono nei meandri più reconditi della storia. La cosa si potrebbe indagare fin dove vi sono documenti ma non credo ne tireremmo fuori altro che miscugli di magia e superstizione, insieme a molta metafisica. E' invece certo, per quanto si può supporre, che l'argomento luce deve essere stato molto complesso per l'uomo di ogni cultura. Riuscire ad individuare il fenomeno illuminazione come sovrapposto ai fatti naturali, dai quali si può separare e comprendere, non è semplice. Così come deve essere stato complesso capire come scindere la luce dall'organo della visione. Detto con parole di oggi, per comprendere di cosa parlo, si potrebbe dire che se lancio un sasso contro una pietra in mezzo al prato, e voglio studiare il fenomeno, sono meglio in grado di comprendere gli oggetti che devo capire separatamente per poi ricomporre in una spiegazione fisica. Vi è una mano che lancia un qualcosa, vi è un oggetto che viaggia, vi è una certa traiettoria disegnata dal sasso in moto, vi è il sasso che colpisce la pietra, vi sono gli effetti sulla pietra colpita e sul sasso che ha colpito. Ma la luce, ancora detto con le nostre conoscenze, cos'è? essa è sfuggente in più modi. Se accendiamo una lampadina tutta la stanza si illumina simultaneamente, almeno così appare con evidenza. Ma poi, di che natura è? Scalda, permette la visione, parte da un luogo mentre arriva in un altro luogo... E' un oggetto materiale? Insomma è decisamente ostica. Tanto ostica che la Bibbia la separa dalla sua fonte: nella Genesi prima si crea la luce e poi il Sole... E nella comprensione posteriore gli studi sulla luce in connessione con i corpi che la emettevano (lanterne) non ha mai comportato le condanne che aveva la discussione di chi ruota intorno a chi tra Terra e Sole. Anche qui vi era discordanza tra Bibbia e una qualche teoria fisica. Ma la cosa era ben capita: era chiaro cosa fosse il copernicanesimo nella sua affermazione contrastante con la Bibbia. Nel caso della luce che, nella creazione, viene prima del Sole, anche se la luce era chiaramente studiata in connessione con i corpi emittenti e si sapeva bene che il giorno e la notte si hanno nell'apparire e scomparire del Sole, ebbene qui a nessuno venne in mente di porre la questione di un altro non accordo con la Bibbia. Ma perché la luce è, ripeto molto più complessa, più sfuggente, meno localizzabile, più metafisica. file:///c /$A_WEB/STORIA_LUCE.htm (2 of 215)28/02/

3 Ed allora cercherò di risalire a qualche questione relativa alla luce che si cominciò a porre, in ambito eminentemente filosofico, nell'antichità classica, per seguire rapidamente le varie concezioni che si ebbero di essa fino ad arrivare a quando i problemi vengono riproposti in ambito scientifico a partire dalla metà del Seicento. In tutto ciò che dirò è necessario tener presente che le motivazioni che spingevano a capire la luce e la visione discendevano anche da esigenze pratiche. L'osservazione astronomica, lo sviluppo dell'arte e dei colori erano elementi di grande rilievo ai quali presto si sommerà quello della prospettiva che avrà la sua esplosione nel Rinascimento italiano. Una motivazione presente era anche quella di tipo psicologico ben riassunta (sembra) da Epicuro di Samo (IV, III sec. a. C.) e successivamente ripresa da Lucrezio: "L'inganno e l'errore è nell'opinione, che si aggiunge in seguito ad un'azione che avviene entro di noi e che si unisce alle nozioni fornite dalla vista. Bisogna dunque frenare l'opinione, e impedire che il suo intervento guasti tutto" [scritto di Epicuro, riprodotto nel libro X di Diogene Laerzio (III sec. d.c.)]. Per questa prima parte del lavoro sulla luce è infine utile tener presente la seguente carta geografica che situa i vari luoghi della Grecia classica in cui furono sviluppate le prime teorie sulla visione (*). file:///c /$A_WEB/STORIA_LUCE.htm (3 of 215)28/02/

4 Tratta da Farrington LE PRIME TEORIE SULLA NATURA DELLA LUCE Per quanto ne sappiamo (1) le prime cose sulla natura della luce, che poi volevano essere soprattutto ipotesi sui meccanismi della visione, le leggiamo nel VI secolo a.c. nella scuola pitagorica (Archita di Taranto) che si sviluppò nella Magna Grecia, a Crotone. Sono i nostri occhi che emettono file:///c /$A_WEB/STORIA_LUCE.htm (4 of 215)28/02/

5 un qualcosa che può assomigliare ad un fluido (un fuoco invisibile). Tale fluido va a colpire gli oggetti circostanti per poi ritornare all'occhio. E questa teoria poteva essere sostenuta dall'osservazione della luminescenza degli occhi degli animali notturni. La teoria aveva una facile obiezione. Nel caso fosse stata certa come mai per vedere non erano sufficienti gli occhi e gli oggetti da vedere? Perché occorreva, almeno agli umani, anche la luce? Le obiezioni non impedirono comunque che, con varianti, la teoria continuasse ad essere sostenuta restando quella di maggior successo, insieme a quella della scuola democritea che vedremo subito dopo. L'idea che dall'occhio si diparte una qualche sostanza (teoria emissionistica dall'occhio) fu una delle teorie che si svilupparono in Grecia. Probabilmente l'osservazione delle scintille scagliate dal fuoco fecero pensare all'occhio come ad una lanterna dalla quale vengono emessi i raggi di luce che ci permettono di vedere. In ogni caso questa fu la scuola di pensiero più feconda (i concetti base li ritroviamo in Euclide, quindi in Tolomeo ed infine in Eliodoro, in un arco cioè di 700 anni). A lato di teorie emissioniste dall'occhio ve ne furono anche di quelle che pensavano l'emissione dall'oggetto guardato: un flusso di corpuscoli che si stacca dai corpi conservandone la forma investe gli occhi determinando la visione. E' il caso delle teorie sviluppate dalla scuola democritea (Leucippo di Mileto, V sec. a.c.). La nostra anima non esce dal nostro interno per andare a toccare gli oggetti, sono gli oggetti che vengono a toccare la nostra anima passando attraverso i sensi, ma noi non vediamo gli oggetti avvicinarsi: bisogna che essi mandino alla nostra anima delle immagini, specie di ombre o simulacri materiali che rivestono i corpi, si agitano sulla loro superficie e possono staccarsene, per portare alle nostre anime le forme, i colori e tutte le altre qualità degli oggetti (2). Democrito di Abdera (V sec. a.c.), secondo ciò che ci racconta Teofrasto di Efeso, insieme a cose che non hanno più molto significato, dice una cosa di interesse, e cioè che l'aria interposta tra l'occhio e l'oggetto riceve l'impronta come conseguenza della compressione esercitata su di lei dall'occhio e dall'oggetto. Egli introduce quindi una entità che trasporta le informazioni dagli oggetti all'occhio ed assegna alla luce una natura meccanica più che materiale. Democrito inoltre attribuisce il colore degli oggetti al cambiamento di direzione degli atomi. In questo contesto teorico si sviluppa la grande opera poetico-filosofica di Lucrezio. A questi due tipi di spiegazione si aggiunge anche quella che vuole l'emissione di un qualcosa file:///c /$A_WEB/STORIA_LUCE.htm (5 of 215)28/02/

6 dall'occhio verso l'oggetto e quella di un altro qualcosa dall'oggetto verso l'occhio. Empedocle di Agrigento nel IV sec. a.c. sostiene che i due flussi sono uno esterno e di natura corpuscolare (da tutti gli oggetti fuoriescono degli effluvi), che porta tutte le informazioni sull'oggetto (ordine, forma, colore); l'altro emesso dall'occhio per mezzo di un "fuoco" (non nel senso che noi diamo a questa parola ma come spirito o simile entità). E la luce è appunto un fuoco che s'incontra con un altro fuoco: la fine e dolce fiamma che l'amore ha captato entro l'acqua dell'occhio e che esce dai piccoli fori della pupilla (3). A questo doppio flusso aveva aderito anche Platone ma naturalmente in modo del tutto differente in quanto Platone detestava i corpuscoli democritei. Si trattava di un qualcosa che doveva soprattutto riguardare la psicologia della visione. Vi è poi la posizione di Aristotele di Stagira (IV sec. a.c.) poco presa in considerazione perché profondamente oscura (come del resto molte delle teorie già viste - e che vedremo - anche perché disponiamo di frammenti e spesso le cose che sappiamo provengono da citazione di altri autori). Egli rifiuta l'ipotesi di Empedocle e Platone dell'emissione della luce dall'occhio (a motivo, argomenta, dell'impenetrabilità dei corpi) e sembra avanzare l'idea di un movimento che si propaga tra l'oggetto e l'occhio e che modifica lo stato dei corpi diafani (trasparenti). Il corpo diafano al buio è in una condizione potenziale, è diafano in potenza. Lo stesso corpo si dice che è in luce, quando è diafano in atto. La luce è l'attività di ciò che è trasparente. Di modo che l'aria e l'acqua non sono trasparenti di per sé ma solo quando la luce eccita la sua trasparenza. Essa non è una sostanza in quanto due raggi possono incrociarsi senza scontrarsi come invece farebbero le sostanze materiali. La sorgente di fuoco modifica il mezzo, riusciamo a vedere perché c'è o un moto o un'alterazione del mezzo (4) il quale, se diafano, contiene già in sé le immagini dell'oggetto osservato, non in moto ma semplicemente lì.. L'idea principale consiste allora nel considerare la luce che si propaga in analogia con il suono, attraverso un mezzo interposto. Non è quindi qualcosa di corporeo a entrare nell'occhio, ma è l'occhio a percepire le «vibrazioni» del mezzo diafano. Il diafano grazie all'azione del fuoco passa dalla potenza all'atto, cioè alla luce, così come una percussione che dà luogo a una vibrazione mette in movimento il mezzo intermedio, cioè l'aria. La luce è dunque lo stato di perfezione, di completamento del mezzo. Infine i colori sono per Aristotele una mescolanza a diverse proporzioni di luce ed oscurità: c'è più ombra nel viola che nel rosso ed a partire da file:///c /$A_WEB/STORIA_LUCE.htm (6 of 215)28/02/

7 questi due colori fondamentali si ottengono gli altri come mescolamento (questa teoria sarà ripresa da Goethe nell'ottocento). Si deve notare che l'assunzione aristotelica che la luce, come qualunque altro evento naturale, è una modificazione di una qualità porta a includere i fenomeni ottici in uno schema interpretativo più vasto, diretto essenzialmente allo studio dei moti. EUCLIDE A cavallo tra il IV ed il III secolo a. C. abbiamo qualche documento più consistente: due opere di ottica attribuite ad Euclide (non si sa se siciliano o alessandrino), una delle quali, Euclidis Optica, si è stabilito essere proprio sua, l'altra, la Catottrica (che vuol dire, etimologicamente: studio dei fenomeni di riflessione della luce), con vari dubbi. Si tratta di una specie di divulgazione delle idee di Platone di Atene (V, IV sec. a.c.) (5), chiarite e ampliate, sull'argomento, idee alle quali Euclide aderisce. Come fa un buon matematico, Euclide inizia con il mettere sul tappeto tutte le ipotesi su cui baserà i suoi ragionamenti. Si tratta, come fa un matematico, di 12 postulati dell'ottica e di 7 nella Catottrica, postulati, è meglio subito dire, che non si sa bene da dove provengano (6) : Ottica: 1 ) I raggi emessi dall'occhio procedono per via diritta. file:///c /$A_WEB/STORIA_LUCE.htm (7 of 215)28/02/

8 I raggi visivi inviati dall'occhio 2 ) La figura compresa dai raggi visivi è un cono che ha il vertice all'occhio, e la base al margine dell'oggetto guardato. 3 ) Si vedono quegli oggetti a cui arrivano i raggi visivi. Un oggetto lontano, che non sia intersecato dai raggi visivi non è visto. file:///c /$A_WEB/STORIA_LUCE.htm (8 of 215)28/02/ ) Non si vedono quegli oggetti ai quali i raggi visivi non arrivano. 5 ) Gli oggetti che si vedono sotto angoli maggiori, si giudicano maggiori. 6 ) Gli oggetti che si vedono sotto angoli minori, si giudicano minori. 7 ) Gli oggetti che si vedono sotto angoli uguali, si giudicano uguali. 8 ) Gli oggetti che si vedono con raggi più alti, si giudicano più alti.

9 9 ) Gli oggetti che si vedono con raggi più bassi, si giudicano più bassi. 10 ) Gli oggetti che si vedono con raggi diretti a destra, si giudicano a destra. 11 ) Gli oggetti che si vedono con raggi diretti a sinistra, si giudicano a sinistra. 12 ) Gli oggetti che si vedono con più angoli, si distinguono più chiaramente. 13 ) Tutti i raggi hanno la stessa velocità. 14 ) Non si possono vedere gli oggetti sotto qualsiasi angolo. Catottrica: 1 ) Il raggio è una linea retta di cui i mezzi toccano le estremità. 2 ) Tutto ciò che si vede, si vede secondo una direzione rettilinea. 3 ) Se lo specchio sta su di un piano, e su questo stai un'altezza qualsiasi elevata ad angoli retti, la retta interposta tra lo spettatore e lo specchio ha la stessa ragione con la retta interposta tra lo specchio e l'altezza considerata, che l'altezza dello spettatore con l'altezza presa in considerazione. 4 ) Negli specchi piani l'occhio posto sulla perpendicolare condotta dall'oggetto allo specchio, non vede l'oggetto. 5 ) Negli specchi convessi, l'occhio posto sulla retta condotta dall'oggetto al centro della sfera, di cui lo specchio è una porzione, non vede l'oggetto. 6 ) Lo stesso accade per gli specchi concavi. 7 ) Se si pone un oggetto qualunque al fondo di un vaso, e si allontana il vaso dall'occhio, finché l'oggetto non si vede più, l'oggetto torna visibile a quella distanza se si versa dell'acqua nel vaso. Per ciò che interessa al fine degli ulteriori sviluppi si può dire che qui vi è l'affermazione della propagazione rettilinea (7) della luce, l'introduzione del concetto di raggio inteso come direzione di propagazione della luce, come filetto elementare di luce, che la luce che si propaga attraverso quel raggio è emessa dall'occhio. Il resto è quanto si deve essere ricavato da esperienze elementari di carattere empirico, particolarmente dall'osservazione delle ombre e delle loro dimensioni in relazione alla sorgente luminosa. Inoltre, questa impostazione geometrica getta le basi per la possibilità di file:///c /$A_WEB/STORIA_LUCE.htm (9 of 215)28/02/

10 studiare scientificamente i fenomeni luminosi. Le idee di Euclide ebbero un seguito, come accennato, in Ipparco di Nicea (II sec. a.c.) e, soprattutto, in Claudio Tolomeo (II sec. d.c.) a cui seguirà Eliodoro di Larissa. CLAUDIO TOLOMEO ED ELIODORO DI LARISSA Dobbiamo fare un salto di oltre sei secoli per trovare un altro lavoro ottico di interesse, si tratta dell'ottica dell'alessandrino Claudio Tolomeo. Insisto ancora su quanto già accennato: abbiamo perso una enorme quantità di opere dello splendido periodo classico. Opere che furono bruciate e distrutte dal fondamentalismo cristiano, come ad esempio nella biblioteca di Alessandria che fu incendiata non prima di vedere orrendamente assassinata la sua direttrice, la matematica e filosofa Ipazia (IV, V sec. d. C.), dall'incitamento alla folla, di monaci ed analfabeti arruolati allo scopo, del patriarca-episcopo Cirillo (era l'anno 415, appena 24 anni dopo il 391, quando Teodosio aveva decretato il cristianesimo religione di Stato). Perdite immense, in tutti i campi del sapere, perdite per le quali non smetterò di lamentarmi. E tra queste perdite vi è anche l'ottica di Tolomeo. Ne conosciamo solo una parte (manca il libro I e si interrompe al libro V) in traduzione latina (fatta dall'ammiraglio Eugenio Siculo nel XII secolo) da una traduzione araba (dal greco) incompleta e che neppure sappiamo bene se è proprio del Tolomeo autore dell'imponente opera astronomica Almagesto, opera che comunque ci è pervenuta proprio per merito degli arabi. Sembra non all'altezza del Tolomeo astronomo ma è molto probabile che successive traduzioni l'abbiano resa tale con successive semplificazioni e interpolazioni. La novità che si apprezza in questa opera è, dopo quello della riflessione, file:///c /$A_WEB/STORIA_LUCE.htm (10 of 215)28/02/

11 lo studio della rifrazione (forse iniziato da Ipparco in opera persa). E la cosa è perfettamente comprensibile se si pensa che la rifrazione della luce gioca un ruolo fondamentale nelle osservazioni astronomiche in quanto, ad effetto della rifrazione dell'atmosfera vediamo le stelle in posizioni diverse da quelle occupate. Egli quindi studia il fenomeno seguendo il cammino della luce quando passa da sostanze trasparenti di diversa densità (aria-acqua, aria-vetro, file:///c /$A_WEB/STORIA_LUCE.htm (11 of 215)28/02/

12 acqua-vetro). Nel passaggio da un mezzo più denso ad uno meno denso (acqua-aria) trova il valore dell'angolo limite. Questo studio origina delle tabelle che sono abbastanza corrispondenti a quelle che possediamo oggi e che gli servirono soprattutto per avere una prova di regolarità di comportamento del fenomeno (per trovare la legge che regola la rifrazione occorrerà attendere i lavori di Snellius del XVI secolo). Riesce poi a stabilire che il raggio incidente e quello riflesso giacciono in uno stesso piano normale alla superficie riflettente. Ed occorre anche ricordare che Tolomeo tentò di spiegare il potere di ingrandimento delle sfere di vetro riempite d acqua, probabilmente al fine di capire se il fenomeno potesse essere utilizzato in astronomia. Tal cosa diventa sempre più probabile alla luce di scoperte archeologiche: si stanno trovando lenti molto ben lavorate e quindi non più da considerare file:///c /$A_WEB/STORIA_LUCE.htm (12 of 215)28/02/

13 solo come monili (così si erano interpretati i ritrovamenti di Pompei). Per altri versi sembrerebbe (con tutti i soliti dubbi dovuti alla perdita di lavori ed alla conoscenza di essi attraverso frammenti di citazioni da altri autori) che Tolomeo abbia misurato il diametro di Venere e la cosa sembra impossibile da farsi ad occhio nudo. Dal punto di vista più strettamente ottico, Tolomeo aderisce alla teoria emissionista (emissione di raggi da parte dell occhio) di Euclide, con ampio uso della geometria, modificandola ampiamente. Intanto sostituisce ai coni che hanno vertice nell'occhio, delle piramidi, quindi contesta al modello di Euclide, inteso come visione per raggi discreti, di portare a un assurdo: non si potrebbero infatti vedere cose colpite da singoli raggi visivi perché singoli raggi incidono in singoli punti, ed essendo il punto senza dimensione, nulla si potrebbe vedere. Il suo studio riguardò anche la visione binoculare e lo sdoppiamento delle immagini quando le due piramidi con vertici nei due occhi non si combinano opportunamente. I colori furono considerati come proprietà superficiali dei corpi ed infine passò alla determinazione della grandezza degli oggetti osservati mediante costruzioni geometriche che mettevano in relazione l'altezza della piramide con la sua base. Sarà Eliodoro di Larissa, ne La prospettiva (8), che farà un piccolo ma importante cambiamento alla piramide di Tolomeo: sposterà il vertice della piramide dalla superficie dell'occhio al suo centro geometrico. Ma altre cose si devono a questo personaggio di cui non sappiamo quasi nulla, tra l'altro un qualcosa che sembra anticipare quanto farà Fermat 14 secoli dopo: egli afferma che il tragitto rettilineo per la luce è il più naturale in quanto richiede il minor tempo ad essere percorso «perché se la vista debbe andare quanto più presto sia possibile alla cosa da vedersi, è necessario che vadia per linea retta? essendo, che questa è la minore di tutte le linee che hanno i medesimi termini;...». (9) Riferendosi poi alla riflessione e riportando cose di Erone alessandrino (del I sec. a. C. la cui opera è giunta a noi solo in una versione latina) dice: file:///c /$A_WEB/STORIA_LUCE.htm (13 of 215)28/02/ «Essendo che ha dimostrato il Mecanico Herone, nel libro degli specchi, che quelle

14 rettilinee, che ad angoli uguali si rompono, sono minori di tutte le altre, che dalle medesime simili parti vengono, e si rompono alle parti medesime ad angoli ineguali. Il che havendo dimostrato disse: Se la natura non ha in darno operato intorno al veder nostro, il rompimento del vedere si fa con angoli pari. Et questo si vede chiaro, poiché i raggi del Sole si rompono ad angoli pari...». (9) Cosa resta alla fine di tutte queste cose? Di Eliodoro, di Tolomeo, di Euclide e degli altri, intendo? Molto poco ma certamente il fatto che la luce è geometrizzabile con la scoperta dei raggi che si propagano in modo rettilineo. E la cosa, che discende dalla grandezza dei greci in geometria, non è da poco. A parte il lavoro di Eliodoro, restava comunque una importante confusione, un mescolamento di ottica geometrica, fisica, psicologica, fisiologica. Occorreranno una dozzina di secoli per iniziare a sbrogliare il tutto, secoli in cui i contributi più importanti provengono da studiosi arabi (10). Prima Al Kindi (XI sec. d.c.), che seguì la teoria della visione di Pitagora; successivamente Al Hazen affermò che i raggi luminosi partono dall oggetto e penetrano nell occhio, che da ogni punto dell oggetto si distacca un fascio di raggi, il quale ha il punto per vertice e la pupilla dell occhio per vaso. Cercò inoltre di dimostrare la legge della propagazione rettilinea e della riflessione della luce. Al Hazen trovò che il teorema di Tolomeo che affermava una sorta di costanza fra l angolo d incidenza e quello di riflessione non vale per tutto il quadrante; si occupò anche della rifrazione astronomica. Almeno un cenno infine ai contributi del polacco Witelo (che studiò tra Parigi e Padova nel XIII sec. a.c.) il quale conobbe Guglielmo di Moerbecke al quale dedicò l'importante opera di ottica Perspectivorum libri, relativa alla diffrazione e ad altri fenomeni fisici della luce. Egli osservò che non tutta la luce si rifrange nel momento in cui incontra un oggetto, ma una parte si riflette e che perciò nella rifrazione ed anche nella riflessione vi è sempre perdita di luce. Egli negò che i raggi uscissero dall occhio, come sosteneva Platone: perché se questi raggi sono corporei, come può essere che l occhio li scagli fino alle stelle più lontane? A questo punto è inutile andare a fare operazioni pignole di ricerca di contributi particolari. La mano passa decisamente al Rinascimento (11) ed al Barocco. Nel primo periodo con i contributi di artigiani, artisti ed architetti, e nel secondo con quelli, successivamente di file:///c /$A_WEB/STORIA_LUCE.htm (14 of 215)28/02/

15 Kepler ( ) Galileo ( ) Snell ( ) Cartesio ( ) Fermat ( ) Grimaldi ( ) Huygens ( ) Hooke ( ) Romer ( ) Newton ( ) Studierò, con dettagli, l'opera di questi scienziati nei capitoli seguenti. CAPITOLO II file:///c /$A_WEB/STORIA_LUCE.htm (15 of 215)28/02/

16 CARATTERI SALIENTI DEL PERIODO CHE VA DAL RINASCIMENTO AL BAROCCO (1) Tutti gli autori concordano nel ritenere che, a partire da un certo momento storico (tra il Quattrocento ed il Cinquecento), i portati della tecnica nei campi della meccanica e dell'architettura civile e militare fecero riconoscere nella matematica uno strumento indispensabile. Particolarmente in Italia, dove meccanica, architettura ed arte avevano uno sviluppo clamoroso, si ponevano i problemi di misurazioni sempre più accurate di lunghezze, angoli, aree. Occorreva calcolare i volumi, fare degli studi prospettici, di simmetria. Si passò così dalle cose realizzate per mera intuizione alle cose progettate razionalmente con l'uso di proporzioni, simmetrie ed armonie. Fu nel Quattrocento, in Italia, che si iniziò la pubblicazione di svariate opere che facevano largo uso della matematica: opere di Brunelleschi, di Leon Battista Alberti, di Piero della Francesca (che ci fornì la "divina proporzione", la sezione aurea, e ci fornì importanti studi di prospettiva, ora nel senso moderno), di Giorgio Martini, di Luca Pacioli. Come si vede si tratta (a parte Pacioli) di architetti ed artisti di varia natura che per la prima volta ci offrono opere che nascono ampiamente studiate e progettate con l'ausilio della matematica. È chiaro che la ricerca era delle migliori proporzioni, dell'armonia; è quindi evidente che sullo sfondo campeggia l'immagine del platonismo, sia nella sua veste pitagorica che in quella eudossiana. Elemento di grande importanza è che svariati autori iniziano a pubblicare trattati di matematica scritti in modo divulgativo, molto chiaro, accessibile a molti. La matematica inizia anche ad entrare come insegnamento impartito nelle Università, anche se non allo stesso rango di logica e dialettica (si pensi che come "matematico" Galileo guadagnava dalle cinque alle dieci volte meno dei suoi colleghi filosofi che insegnavano nella stessa Università). Gli studenti cominciano a diventare curiosi ed esigenti. Prima ci si accontentava dell'esposizione degli "Elementi" di Euclide, ora si volevano conoscere tutte le applicazioni pratiche della matematica, si volevano apprendere cose che poi, appena terminati gli studi, sarebbero state di immediata utilità. La domanda era così grande che addirittura sorse la professione di matematico pratico (il primo manuale di matematica pratica è file:///c /$A_WEB/STORIA_LUCE.htm (16 of 215)28/02/

17 l'aritmetica di Treviso del 1478 in cui compare la prima chiara spiegazione della moltiplicazione e della divisione!). E nel frattempo venivano pubblicate, in traduzione latina, opere di classici greci fino ad allora sconosciute. La prima edizione latina a stampa di Euclide vide la luce a Venezia nel Nella prima metà del Cinquecento vennero pubblicate da F. Maurolico, monaco siciliano, traduzioni latine di Archimede, Apollonio e Diofanto e da F. Commandino (intorno al 1560) traduzioni di Euclide, Apollonio, Pappo, Erone, Archimede ed Aristarco. Pian piano i seguaci di Archimede crebbero. Ed ecco Niccolò Tartaglia, Guidobaldo dal Monte, Giambattista Benedetti, Giambattista Della Porta, Gerolamo Cardano. Sono tutti grandi matematici che porteranno l'algebra, la geometria e l'aritmetica a risultati del tutto insospettabili solo qualche decennio prima ed anche nel periodo più fulgido dei matematici greci. Si realizzò anche una svolta decisiva che vide l'algebra assumere il primato sulla geometria, a seguito proprio dei suoi più recenti successi (Tartaglia ci terrà a sottolineare che le sue elaborazioni non sono tratte né da Platone né da Plotino). Ed ecco ancora Bombelli, insieme all'intera scuola dei matematici bolognesi, che riesce ad affrancare la matematica dal suo uso pratico ed a farla marciare per sue linee di sviluppo totalmente indifferenti ad ogni applicazione pratica. Come osserva Federico Enriques, l'abito scientifico sorge nel comune italiano come era sorto nella città greca, dalla contemplazione della natura, concepita come una grande opera d'arte. E questo è il motivo per cui è inscindibile il momento della crescita della scienza da quello della produzione artistica nell'italia del Rinascimento e del Barocco. La natura: con numeri, proporzioni ed armonia. È ciò che ritroviamo in tutti i grandi artisti dell'epoca che, insieme, furono matematici e scienziati. Quindi progresso tecnico, nascita della borghesia, disponibilità economiche, riconquista della natura e studio di essa. Da tutto ciò anche la città riceve grossi impulsi e cresce non solo in bellezza ma anche come motore di progresso. Come ormai concordano quasi tutti gli autori, il Rinascimento è possibile più per la miriade di artigiani, medici, architetti, costruttori, inventori che si sono succeduti negli ultimi tre o quattro secoli che non dalla pur importante riscoperta dei classici. Due aspetti peculiari caratterizzavano la rivoluzione del Cinquecento e del Seicento: da una parte il riconoscimento della necessità di sporcarsi le mani, di toccare la natura, magari attraverso la tecnica, file:///c /$A_WEB/STORIA_LUCE.htm (17 of 215)28/02/

18 di misurare, di ripetere i procedimenti che non fanno più parte di un gioco ma servono per sopravvivere, dall'altra parte, proprio questo approccio più metodico richiedeva metodi quantitativi più precisi ed affidabili, insomma serviva una matematica a lato di una strumentazione più affidabile e precisa. Tutto questo rappresenta, visto con i nostri occhi, il bisogno di saldare le due principali tradizioni, l'aristotelica e la platonica. La difficoltà nasceva però non già dai procedimenti eventualmente scelti come approccio ai fatti naturali, ma nel fatto che dietro l'aristotelismo od il platonismo, le due principali scuole di pensiero ereditate dall'antichità classica, non vi erano né Aristotele né Platone ma la metafisica, il dogma, le guerre di religione, il mantenimento di privilegi e, in definitiva, il potere. Si capisce quindi che i rami della scienza che ebbero gli sviluppi più clamorosi furono proprio quelli in cui i processi di misura entrarono più massicciamente. Insomma i dati osservativi di Aristotele, di Platone o di Galileo sono gli stessi. Cambia il modo di interpretare le stesse cose. Occorre ora andare oltre la spiegazione ingenua, nasce l'uomo teorico. Da questo momento non è più il dato osservativo in sé che gioca un ruolo importante ma è l'interpretazione non ingenua della realtà che fa nascere e crescere il nuovo mondo. Mondo che è in marcia, che inizia ad affrancarsi dalla statica per costruire una dinamica, che inizia a comprendere che è possibile studiare la natura e descriverla con leggi sempre più affidabili. E sarà proprio del Seicento lo svincolare le leggi naturali dalle leggi divine, il rendere naturale il soprannaturale, il sostituire la fisica alla metafisica o alla magia per la descrizione del mondo naturale (2). KEPLERO La ripresa dei temi ottici che, come abbiamo visto nel Capitolo 1, erano molto oscuri, non poteva che essere fatta da parte di astronomi. E questi avevano ben poco da riprendere dal passato se non quella parte d'interesse che oggi chiamiamo ottica geometrica (la luce che viaggia in modo rettilineo, il raggio di luce, la legge della riflessione, un poco di rifrazione). file:///c /$A_WEB/STORIA_LUCE.htm (18 of 215)28/02/

19 Keplero, probabilmente per risolvere alcune questioni legate ai problemi osservativi derivanti dalla rifrazione, scrisse un trattatello di ottica che fece il punto su quanto si sapeva con notevoli perfezionamenti. La sua opera Ad Vitellionem (3) paralipomena (Aggiunte a Witelo, un titolo che vorrebbe minimizzare il suo contributo) del 1604 fu molto importante, perché con essa Keplero gettò le fondamenta della moderna ottica geometrica. Tra le altre cose, egli analizzò la struttura dell'occhio umano e fornì la prima esposizione corretta del suo funzionamento integrando il tutto con le correzioni dei difetti della vista mediante l'uso appropriato di lenti. Kepler riprese la tradizione prospettivistica che era stata di Alhazen ed alla quale Bacone aveva dato un qualche contributo. Egli analizza la natura e il comportamento della luce (da ogni punto dell'oggetto osservato partono raggi di luce in ogni direzione) e i processi di formazione e di localizzazione delle immagini. Secondo Keplero "i corpi esterni [sono] costituiti da un complesso di punti ciascuno dei quali emette raggi in tutte le direzioni, raggi infiniti ed infinitamente estesi finché non incontrano un ostacolo. Quindi un punto isolato è come una stella che emette raggi in tutte le direzioni; se di fronte ad essa si trova un occhio, in esso penetreranno tutti i raggi che costituiscono un cono col vertice nella stella e con la base nella pupilla. Essi si rifrangono sia attraverso la cornea, sia attraverso le parti interne dell occhio andando a formare un nuovo cono che ha per base la pupilla e per vertice un punto della retina. Keplero arriva a questa conclusione studiando la rifrazione per mezzo di una sfera di acqua. E continuerà questo studio fino a dare una corretta descrizione del funzionamento dell'occhio superando in particolare il problema del capovolgimento delle immagini (che era sorto in connessione ai primi studi di Leonardo e Maurolico sulla camera oscura): la retina (o la psiche) ha la facoltà di interpretarle correttamente. Altri contributi di Keplero riguardano l individuazione della regola secondo la quale viene determinata la posizione dell oggetto osservato nello spazio, attraverso la direzione lungo la quale si trova l'oggetto e la sua distanza dall'occhio. Tale regola detta del triangolo distanziometrico, triangolo che ha per vertice il punto-oggetto e per base la pupilla, consisteva nella capacità dell occhio di file:///c /$A_WEB/STORIA_LUCE.htm (19 of 215)28/02/

20 eseguire la misura dell angolo acuto del suddetto triangolo e la determinazione dell orientamento del suo asse (in pratica, l'occhio «sente» la divergenza dei raggi in arrivo emessi da un singolo punto e può quindi ricostruire la distanza del punto emettente). Dopo aver risposto affermativamente a chi gli chiedeva della bontà del cannocchiale di Galileo, Keplero scrisse la Dioptrice (1611), nella quale espone una teoria delle lenti che entrano finalmente nel mondo accademico come oggetti di studio. La cosa è importante soprattutto per il fatto che si fornisce una base scientifica a quanti avevano sollevato dubbi sull'attendibilità delle cose che aveva visto Galileo (erano illusioni? erano fenomeni che stavano dentro il cannocchiale?...). Ora l'intero strumento di Galileo ha una teoria che, tra l'altro, ne permette la riproducibilità. E viene messa sul tappeto quella cosa che sempre più si verificherà in futuro: la dialettica tra lo strumento e l'esperimento, la comprensione dell'interazione tra i due soggetti per validarne l'attendibilità reciproca. In questo modo anche lo strumento esce fuori da un'operazione meramente tecnica per diventare esso stesso oggetto di elaborazione teorica. Per Keplero la luce viaggia dalla sorgente a distanze infinite, viaggia in linea retta (si muove secondo un infinito numero di linee rette che si chiamano raggi) con velocità infinita (essa non si muove nel tempo ma all'istante) e viene immaginata come una superficie di inviluppo delle estremità dei singoli raggi (una sorta di prefigurazione del fronte d'onda) che in se stessi non hanno consistenza fisica e quindi sono analoghi a traiettorie di corpi in movimento. La luce si muove lungo i singoli raggi ma questi non si muovono e neppure sono luce ma solo linee rette nello spazio comode per la nostra descrizione del fenomeno. Ciò che si muove sono delle superfici perpendicolari ai raggi come mostrato in figura. E la figura mostra anche la legge dell'inverso del quadrato, il fatto cioè che, al raddoppiare la distanza da una fonte di luce, la sua intensità diventa un quarto di quella che si aveva a distanza uno (proprio perché tutta la file:///c /$A_WEB/STORIA_LUCE.htm (20 of 215)28/02/

21 Tratta da Park luce di cui disponevamo si deve ora distribuire su una superficie 4 volte più grande). Luce e colore hanno la stessa natura, non è la luce che ha colore. Esso viene acquisito, liberato, nella riflessione della luce su corpi colorati. Keplero inoltre unifica e risolve il problema della visione con quello della riflessione e rifrazione. L'immagine di un oggetto si crea nella mente che la colloca nel punto di convergenza dei raggi che partono dai due occhi e ciò vale anche per raggi riflessi, nel qual caso l'oggetto lo vediamo dietro la superficie riflettente, come mostrato in figura. Per quel che riguarda i fenomeni ottici Keplero, mentre riesce file:///c /$A_WEB/STORIA_LUCE.htm (21 of 215)28/02/

22 Tratta da Park a dare una spiegazione completa della riflessione su specchi piani, non riesce a formulare la legge della rifrazione che pure era la cosa che a lui interessava di più. A questo punto, dopo questo lavoro di Keplero, in accordo con Ronchi, il problema non è più quello di definire la luce in relazione alla nostra capacità di «vedere» gli oggetti «esterni». Il problema diventa piuttosto quello di definire più specificamente la luce in sé, in particolare se sia materia o movimento, luce di cui si dà per certo che sia un qualcosa esterno all'osservatore, file:///c /$A_WEB/STORIA_LUCE.htm (22 of 215)28/02/

23 che si propaga in linea retta, si riflette, «estrae colore» dai corpi, si rifrange, trasporta calore, forma immagini attraverso le lenti e stimola la retina. In definitiva gli aspetti fisiologici e psicologici del processo della visione cedono il posto ad una raffinata analisi degli aspetti fisici. In questo scenario si inserisce un altro contributo galileiano di rilievo: il tentativo di misurare la velocità della luce. GALILEO Galileo, nella Giornata Prima dei Discorsi e dimostrazioni matematiche (1638), ci racconta di un suo esperimento per misurare la velocità della luce (4). Il problema era evidentemente nell'aria e già si era compreso che, contrariamente a Keplero e vari altri, la luce è una entità che parte da una sorgente, si propaga ed arriva sugli oggetti non in tempo zero ma occupando tempo. L'esperimento proposto da Galileo è il seguente. Due persone si dispongono ad una data distanza (due colline contrapposte più o meno alla distanza di un paio di chilometri) l'una di fronte all'altra munite di due lanterne. La prima persona scopre la propria lanterna, la seconda esegue la medesima operazione non appena scorge il segnale proveniente dalla prima. In tal modo la prima persona avrebbe dovuto avere la possibilità di misurare il tempo necessario alla luce per compiere il percorso di andata e ritorno. L'esperimento è semplice ma non poteva che dare risultato nullo, infatti la velocità della luce è veramente troppo grande per essere misurata su tragitti così brevi e, per di più, con il battito del polso come misuratore del tempo. Si può osservare che la cosa è di rilievo come è di rilievo il fatto che l'esperienza sia stata nulla. A questo proposito vi sono due osservazioni da fare. La prima è relativa al fatto che Galileo non trae una conclusione definitiva, non dice cioè che poiché non è riuscito a trovare una velocità finita per la luce essa deve essere infinita. Si rende invece conto che la sua è una strumentazione insufficiente per lo scopo che si è prefisso. La seconda osservazione riguarda il risultato nullo di una esperienza. Credo sia file:///c /$A_WEB/STORIA_LUCE.htm (23 of 215)28/02/

24 indispensabile sottolineare che esperienza di questo tipo, per tutte le implicazioni che hanno e le strade che aprono, siano altrettanto significative di quelle che forniscono dei risultati. In ogni caso, questa misura di Galileo insieme ai suoi contributi nell'ottica pratica (telescopio e microscopio) sono gli unici passi che Galileo fa in questo campo che invece, all'epoca, inizia ad essere dissodato a dovere. SNELL La legge della riflessione, l'uguaglianza dell'angolo di incidenza di un raggio luminoso con quello di riflessione era nota fin dai tempi di Euclide. Già da allora si conosceva il fenomeno della rifrazione, il cambiamento di direzione che subiscono dei raggi file:///c /$A_WEB/STORIA_LUCE.htm (24 of 215)28/02/

25 luminosi nel passaggio attraverso la superficie che separa due mezzi di diversa densità. Ma non si era stati in grado di trovare una legge che descrivesse il fenomeno. Si sapeva che nel passaggio da un mezzo meno denso ad uno più denso il raggio rifratto si avvicina alla perpendicolare n tracciata alla superficie di separazione dei due mezzi e che nel passaggio inverso il raggio rifratto si allontanava da tale perpendicolare. Il fenomeno era stato file:///c /$A_WEB/STORIA_LUCE.htm (25 of 215)28/02/

26 Nel passaggio da un mezzo più denso ad uno meno denso il raggio rifratto si allontana dalla perpendicolare (r<i). Occorre comunque osservare che vi è sempre un raggio riflesso che si accompagna a quello rifratto. Per un dato angolo di incidenza (angolo limite) il raggio non passa più nell'altro mezzo ma resta intrappolato nel primo: è il fenomeno della riflessione totale. studiato da Tolomeo che aveva trovato una certa regolarità nel rapporto tra angolo di incidenza ed angolo di rifrazione, che risultava quasi costante per una data coppia di mezzi. Vari studiosi avevano tentato una qualche relazione che descrivesse il fenomeno. Niente. Fu l'olandese Willebrord Snell nel 1621 che risolse il problema pur senza pubblicarlo ma solo comunicandolo ai suoi corrispondenti (5). file:///c /$A_WEB/STORIA_LUCE.htm (26 of 215)28/02/

27 Riferendoci alla figura, Snell si accorse che la relazione cercata dipendeva certamente dagli angoli i ed r ma attraverso delle loro funzioni. Data una coppia di sostanze attraverso le quali si realizza la rifrazione, per qualsiasi angolo i di incidenza, si ha un angolo r di rifrazione che soddisfa alla seguente relazione dove d i e d r sono i due segmenti di figura che hanno una precisa relazione con, rispettivamente, il seno dell'angolo di incidenza e quello dell'angolo di rifrazione, mentre n è una costante che conosciamo oggi come indice di rifrazione relativo ai due mezzi (rappresentati dai subindici 1 e 2). Poiché, con linguaggio di oggi, d i = cosec r e d r = cosec i, la relazione vista diventa: file:///c /$A_WEB/STORIA_LUCE.htm (27 of 215)28/02/

28 CARTESIO Il primo studioso che fece conoscere, pubblicandola, la legge di Snell fu Cartesio nella sua Dioptrique del Egli la scrisse come oggi la conosciamo, introducendo il rapporto tra i seni degli angoli di incidenza e rifrazione. Ancora riferendoci all'ultima figura, si ha: ed ora l'indice di rifrazione n acquista un significato più pregnante. E' sempre l'indice di rifrazione ma risulta legato alla velocità della luce nei differenti mezzi in cui si propaga. Più precisamente è il rapporto tra la velocità della luce nel mezzo più denso e la stessa velocità nell'aria (come vedremo tra un poco, rapporto tra una velocità maggiore ed una velocità minore). Ma il contributo di Cartesio fu più articolato, anche se confuso e molto poco innovativo, per cui file:///c /$A_WEB/STORIA_LUCE.htm (28 of 215)28/02/

29 vale la pena discuterlo, a partire dalle sue concezioni relative alla luce, ormai divenuta un oggetto fisico. Per Cartesio la luce ha una velocità infinita (siamo nel 1637), la sua propagazione doveva essere istantanea (questa è la parola usata da Cartesio. Dioptrique pag. 101) e ciò vuol dire che non si ha propagazione. La cosa veniva ricavata da Cartesio dall'ombra della Terra, immaginata nella situazione astronomica aristotelica, proiettata sulla Luna in una eclisse. Se la luce del Sole che ci viene riflessa dalla Luna durante la durata di una eclisse marciasse con una velocità infinita noi vedremmo, come vediamo, l'eclisse quando Sole, Terra e Luna sono allineati. Se invece la luce avesse una velocità finita (e qui Cartesio ha il pregiudizio di una velocità relativamente piccola), essa, quando dal Sole ha superato la Terra per raggiungere la Luna, impiegherà del tempo per percorrere il tragitto fino alla Luna e del tempo per tornare sulla Terra di modo che noi possiamo vedere il fenomeno. Cartesio fa l'ipotesi che il tempo necessario alla luce per fare il tragitto Terra-Luna-Terra sia di una ora. Ciò vuol dire che noi vedremmo l'eclissi un'ora dopo che la luce ha lasciato la Terra per andare sulla Luna ed allora Cartesio si chiede cosa accade nel frattempo del Sole. L'astro avrebbe percorso un'ora della sua traiettoria, tempo che farebbe si che non vi sarebbe più allineamento tra i tre corpi celesti. Poiché da sempre quei tre corpi risultano allineati, Cartesio conclude che la la luce ha velocità infinita. Vi è qui da osservare che il pregiudizio è sempre stato di grave ostacolo alla ricerca (6). E Cartesio si chiude una strada che poteva essere fertile, a seguito del suo metodo che prevedeva delle regole per fare filosofia che non andavano d'accordo con il metodo sperimentale. Vi era anche il fatto che Cartesio aveva in odio il solo nome di Galileo. Egli probabilmente seppe da Marsenne che Galileo sperimentava sulla velocità della luce e questo fatto gli fece affermare qualcosa che contrastava con le ipotesi del pisano (7). In ogni caso il ragionamento di Cartesio che ho riportato verrà confutato da Huygens nel suo Trattato sulla luce (scritto nel 1678 e pubblicato nel 1690) proprio sul terreno che Cartesio amava poco, quello sperimentale con misure di distanze e di velocità. file:///c /$A_WEB/STORIA_LUCE.htm (29 of 215)28/02/

30 La luce è conseguenza della teoria del mondo considerato come un tutto pieno eternamente in moto a vortici (una specie di maionese). La materia è estensione e l'estensione deve essere materia. Conseguenza di queste assunzioni a priori è che la luce diventa un oggetto materiale, fisico e quindi studiabile. La trasmissione istantanea della luce, di cui ho detto, è pensata come una pressione esercitata dalle particelle di una materia sottile che riempie l'universo, l'etere (ecco che questa entità metafisica entra nella fisica e la tormenterà per oltre 250 anni). E l'etere è inteso come un corpo rigido ideale. La prima particella preme sulla seconda che preme sulla successiva e così via (resta aperto il problema dell'origine del moto). L'intero discorso di Cartesio sembra voler non considerare la luce come entità a sé ma solo in quanto gli permetterà poi di studiare gli strumenti ottici. Così egli ci dice le cose sulla luce servendosi di analogie. Inizia con una analogia che era già stata fatta 2000 anni prima, quella della luce come un bastone nelle mani di un cieco: l'azione vivace che passa attraverso l'aria ed arriva ai nostri occhi agisce nello stesso modo che la resistenza fatta da un bastone di un cieco quando incontra dei corpi. In questa visione i colori non sono propri dei corpi ma del diverso modo in cui i corpi riflettono il movimento della luce per rinviarcelo agli occhi. E questa cosa, ancora con l'analogia del bastone, corrisponde al fatto che il bastone si accorge di toccare un albero, una pietra, dell'acqua,... (8) La luce è per Cartesio un qualcosa che ha anche una qualche analogia (un'altra) con una palla da tennis (in ogni figura della Dioptrique vi è un omino con una racchetta che scaglia una palla in modo che la sua traiettoria sostituisca quella della luce) e, contemporaneamente, non è corpuscolare (senza file:///c /$A_WEB/STORIA_LUCE.htm (30 of 215)28/02/

31 essere ondulatoria). Da una parte, cioè, la sua vorrebbe essere una teoria emissionistica, dall'altra il modello esplicativo della luce di Cartesio implicava che la luce si propagasse tramite il mezzo. Data la sua teoria dell'universo tutto pieno, sarebbe stata impensabile una eventuale propagazione di corpuscoli nel vuoto. Vedremo subito a quale contraddizione porterà la sua teoria a proposito di velocità di propagazione della luce in differenti mezzi, Cartesio afferma che la luce viaggia più velocemente nell'acqua e nel vetro che non nell'aria, viaggia cioè più velocemente nei mezzi più densi. Ma prima di discutere questa vicenda, descrivo meglio le teorie di Cartesio sulla luce. Ogni qualcosa che si trova sulla Terra è permeata da questo etere che entra nei meandri più reconditi, nei suoi pori, come dice Cartesio. All'interno di questi pori le particelle di etere non stanno ferme ma ruotano e deviano, con alcune regole. Quando si muovono di moto rettilineo, la loro velocità propria di rotazione è all'incirca uguale a quella di rotazione. Ma quando ci si trova sulla superficie di separazione tra i file:///c /$A_WEB/STORIA_LUCE.htm (31 of 215)28/02/

32 corpi in considerazione ed il loro esterno allora le particelle di etere, che si trovano nella condizione di non avere loro simili nelle vicinanze, a seconda del verso di rotazione che si trovano ad avere, avranno una velocità di traslazione che diventerà più o meno grande di quella di traslazione. Da queste variazioni di velocità vengono fuori i differenti colori (e questo è il modo con cui vengono spiegati i colori con la seconda analogia). Il colore è quindi una conseguenza della condizione del moto. Con un disegno di D'Agostino è possibile avvicinarsi a comprendere l'argomento: le situazioni del primo e del secondo disegno sono identiche, cambia solo il verso di rotazione della particella ma, a questo cambiamento di verso, corrisponde un cambiamento sostanziale nel moto finale della particella medesima. Il discorso della Dioptrique prosegue ma le cose si fanno confuse. In un primo tempo Cartesio sembra aderire alle concezioni dei pitagorici: qualcosa fuoriesce dai nostri occhi, colpisce gli oggetti e, tornando indietro, ci annuncia gli oggetti medesimi. Più oltre però egli sembra virare verso le concezioni platoniche, quando dice: file:///c /$A_WEB/STORIA_LUCE.htm (32 of 215)28/02/

33 «gli oggetti della vista possono essere sentiti non soltanto per mezzo dell'azione che, essendo in essi, tende verso gli occhi, ma anche per mezzo di quella che, essendo negli occhi, tende verso essi. Tuttavia, poiché quest'azione non è altro che la luce, bisogna notare che si trova soltanto negli occhi di coloro che possono vedere nelle tenebre della notte, come i gatti; e che gli uomini ordinarii non vedono che per l'azione che viene dagli oggetti,...». Prima di passare all'occhio ed alle lenti, cose delle quali non mi occuperò, Cartesio discute la riflessione, la rifrazione e la riflessione totale (10) (ma, come osserva Ronchi, non della luce ma delle palle da tennis che, alla fine del discorso, ritornano luce senza tener conto di quella sciocchezza che è la gravità). Per la prima la cosa era semplice ed era stata trovata e confermata più volte in passato. Per la rifrazione egli fa tutta una serie di costruzioni geometriche fino ad arrivare ad una che può essere riassunta con la seguente (11) (Cartesio disegna due circonferenze affiancate e con raggi diversi): file:///c /$A_WEB/STORIA_LUCE.htm (33 of 215)28/02/

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