BACK TO THE FUTURE CASTELLO DI RIVOLI SECONDA GIORNATA (17 MARZO 2012) POMERIGGIO

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1 BACK TO THE FUTURE CASTELLO DI RIVOLI SECONDA GIORNATA (17 MARZO 2012) POMERIGGIO Massimo Arvat: Io lavoravo già, in effetti, alla Zenit, che è una casa di produzione che fondammo nel 1992, quindi abbiamo compiuto quest anno, a febbraio di quest anno, 20 anni, e quindi da questo punto di vista, ecco, devo dire che... devo dirvi che... come dire, indubbiamente mi considero... ci consideriamo noi, perché siamo una cooperativa di 10 soci che siamo resistiti nel tempo... quindi ci consideriamo nostro malgrado un pezzo di storia di questa città. Credo che la cosa interessante e in generale dell iniziativa che state facendo voi oggi è che la ricostruzione storica di... insomma... direi degli ultimi 30 anni che ha vissuto questa città rispetto alla cultura, nello specifico rispetto al cinema e all audiovisivo, credo sia una cosa molto molto importante. Io stesso appunto sono stato molto contento di avere assistito questa mattina a questa... a questa... a questi discorsi, perché credo che, purtroppo, uno quando fa le cose tende a rifletterci poco sopra, no? Però invece stamattina mi rendo conto dell importanza di... come dire, di risentire queste esperienze, di riuscire a trovare... come dire, a creare, a metterle in prospettiva, perché credo che sia fondamentale oggi nel momento in cui viviamo ovviamente un forte momento di crisi la necessità di pensare al futuro, cosa non semplice. Sicuramente, la riflessione sulla prospettiva è più che mai vitale per potere arrivare a questo, quindi mi congratulo innanzitutto con questa iniziativa che state facendo perché penso che sia necessaria, necessaria oggi, ma sarà secondo me necessario dare continuità a iniziative di questo genere. Per quello che mi riguarda credo che sia veramente strategico, ecco. Detto questo, io quello che posso raccontarvi oggi e dare un contributo è un po la mia storia personale, che in qualche modo è una storia condivisa, una storia... perché appunto credo che il percorso mio, il percorso della Zenit è un percorso che in qualche modo è stato condiviso da questa città e da altre realtà, credo da un certo punto di vista non tanto storicizzato, ecco questo secondo me è importante. C è tutta secondo me un area che ha portato secondo me dei risultati importanti in questa città che è quello che Davide Ferrario stamattina citava, il discorso sul documentario, come addirittura uno... diciamo degli ambiti su cui puntare anche rispetto al futuro. Ecco, questa parte qua secondo me non è stata ancora veramente, non si è forse storicizzata, nel senso capita fino in fondo, e credo che sia uno sforzo che andrebbe probabilmente fatto anche in questo senso. Allora, io, visto che abbiamo... Ah, addirittura parlo dietro... Questo non è il nostro logo, questo qui rispecchia appunto anche l estetica un po così, ovviamente il periodo in cui siamo nati. Allora, visto che abbiamo compiuto 20 anni, abbiamo preparato... abbiamo fatto una festa con Piemonte Movie, avevamo preparato un video, tra amici, diciamo così, un amarcord, allora io ho estratto 3 minuti, che ovviamente sono montati con lo spirito del filmato per gli amici che vi propongo, perché tanto più o meno ci conosciamo tutti... esatto... e ve lo farei vedere perché mi serve... come dire, racconta brevemente un po il percorso che abbiamo fatto e poi lo supporterò con un minimo di informazioni in più.

2 Questo tra l altro parte con un filmato che era stato fatto nel 92, credo da Max Chicco, che lavorava per qualche canale, non mi ricordo più... ed era venuto a farci un intervista perché avevamo fondato da poco la cooperativa. Molto vintage, questo piace anche a te, è quasi videoarte ormai. (Segue video) Ecco, diciamo che... insomma, questo collage di cose messe insieme è in realtà... appunto la funzione qual è? Quella di tracciare molto rapidamente quello che un po è stato il nostro percorso, diciamo come casa di produzione dagli anni Novanta fino ad oggi. Percorso, devo dire, che... come dire, in qualche modo abbiamo condiviso nell arco di questi anni con alcuni attori della città e che credo sia forse stata la cosa più importante, cioè il fatto che oggi, credo, il nostro percorso sia un percorso appunto che non è solo nostro ma un percorso in qualche modo più collettivo. Da dove parte questo percorso? Allora, parte sostanzialmente dagli anni Novanta, quindi diciamo dal... forse dal 1990 quando c è stata la Pantera? Nel 1990? Ecco, diciamo che la maggior parte delle persone... gennaio, ecco... la maggior parte delle persone che sono anche qua, perché voglio dire ci siamo conosciuti a quell epoca e forse non a caso. Quindi un esperienza che nasce diciamo culturalmente come scambio, come persone, insomma... che si sono incontrate all interno di un movimento politico nato all interno di un università. L università fece un corso di formazione a cui alcuni di noi parteciparono e alcuni di noi decisero poi di formare questa cooperativa. Quindi sembra... come dire, quasi un circolo virtuoso: l università, un movimento sociale e addirittura un università che fa innovazione sulla didattica. Ci tengo a precisare che era un corso, tra l altro, europeo che si chiamava corso per registi programmisti invece che programmisti registi per cui alla fine alla RAI non vale perché avevano invertito il nome... cioè, per dirti... quindi, come dire, c era l esigenza di innovare ma ancora il collegamento tra università e mondo dell industria non esisteva tanto, non so se adesso è cambiato, ce lo dirai tu. Comunque, nasce da quell esperienza lì. Nasce in una città che comunque... sicuramente negli anni Novanta aveva anche una sua vivacità culturale nel panorama musicale e nel panorama dei centri sociali. La prima cosa che abbiamo fatto, non a caso, è stato questo documentario Suoni della città che esplorava un po il mondo della musica indipendente emergente di allora. In realtà a Torino, ma Torino era diventato un documentario con circolazione nazionale, perché a Torino arrivavano, c erano tutti... come dire, era uno scenario che attirava comunque gruppi importanti. C erano gente che oggi... i 99 Posse, gli Assalti Frontali... insomma, non sto a dirveli. Però, per dire, era un esperienza... era come dire, c era sicuramente un terreno culturale molto molto vivace. La cosa interessante, secondo me, è che noi abbiamo fatto un po questa scelta: uno, volevamo fare qualcosa, volevamo costruire anche una prospettiva di lavoro, perché eravamo in questo senso anche un po precisi. Quindi abbiamo deciso di creare una società di produzione che voleva dire, uno, fare la scelta di non andare a Roma, e alcuni di noi avevano anche provato ad andare a Roma, ma c era stata questa scelta: no, costruiamo qualcosa qua, sul territorio. L altra cosa era, a quel punto, però, che cosa

3 voleva dire produrre una società di produzione? E io devo dirvi che, col senno di poi, credo che allora quello l ho scoperto molto tempo dopo, quando ho iniziato a frequentare i mercati internazionali credo che allora il problema era che c era una sorta di arretratezza culturale dell Italia rispetto agli altri Paesi, era la cosa che veniva fuori dalle cose che diceva Gianfranco Barberi stamattina. Quando si andava in giro, poi ti trovavi... cioè, da noi abbiamo frainteso la produzione indipendente, il concetto di indipendente con il concetto dell autoproduzione. Per cui c era questa cosa che, secondo me, è molto rimasta e forse rimane ancora un po nel panorama italiano, che la produzione indipendente è quella fuori dal sistema del mercato. Questo secondo me è stato il problema principale culturale di questo Paese. E credo che... laddove in quegli stessi anni stava emergendo in tutta Europa invece una fortissima dimensione di produzioni indipendenti, proprio attorno a fine anni Ottanta e anni Novanta che ruotava molto attorno a un esperienza di un canale televisivo che ha finanziato molto la cultura che era quello di Arte in Francia, in Germania, ma anche in altri Paesi, dove in realtà l idea dell artisticità si saldava all idea del mercato, quindi degli investimenti, no? Allora, noi purtroppo questa dimensione qua per tutti i primi anni Novanta non l abbiamo sfiorata neanche, per cui abbiamo iniziato a pensare che l unico modo per produrre fosse o il sistema romano, che tutti sappiamo come funziona, oppure l autoproduzione inventandoti magari qualcosa di... appunto, dei piccoli budget lavorando per esempio con le istituzioni, e allora le istituzioni in qualche modo entravano in una dinamica di un mercato, ma che non era un mercato perché... come dire, l istituzione non può sostituire un mercato, può incentivare, ma non può sostituirlo. E direi che è il discorso che ha fatto oggi Paolo della Film Commission, che oggi lavora in quest ottica indipendente, cioè l istituzione sostiene, ma non sostituisce il mercato, aiuta da volano rispetto al mercato. Allora, quello che secondo me è stato fondamentale, e credo poco storicizzato ancora da questo punto di vista, a Torino e che ha fatto di Torino, secondo me, obiettivamente un esempio di avanguardia rispetto a... e come dire, un faro a livello italiano, è proprio stata invece la capacità di costituire un ponte con l Europa. Cioè, qua noi siamo stati i primi sicuramente a capire che bisognava andare non solo a guardare l Europa, ma imparare ad agire all interno di un mercato internazionale. E questa esperienza è arrivata da dove? È arrivata da qualcosa che secondo me non era nel DNA di questa città. Cioè, non era chi aveva sviluppato... cioè, non era... come dire, chi aveva già delle posizioni riconosciute dal punto di vista autoriale e produttivo che ha scoperto questa cosa, ma è stata... come dire, è stata un invenzione quasi casuale di alcune persone specifiche che per prime, per storia personale, hanno iniziato casualmente a frequentare questi posti a livello internazionale. Credo che il motore di tutto questo sia stata, e mi dispiace che è oggi forse un pezzo mancante di questa storia, è stata l associazione FERT, un associazione che è stata creata più o meno nel di cui io facevo parte sin dalle origini, ma ero troppo giovane... come dire, ero a ruota, ma penso a persone chiave di quel momento: c erano Stefano Tealdi, Alessandro Signetto, Claudio Papalia... cioè, persone che hanno iniziato a capire che l Europa era il modello da seguire. E quindi l associazione FERT ha fatto un interessantissima operazione di internazionalizzazione con i quattro disgraziati che eravamo qua e ha iniziato a portarci nei mercati internazionali, a farci frequentare le

4 formazioni per produttori indipendenti dove ti trovavi con chi faceva veramente produzione in Europa, a portare esperienze come Documentary in Europe, le sessioni di pitching sul territorio e a portarlo in Italia, quindi permetterti di non dovere andarli a cercare, ma addirittura ce li avevi in casa e lì, secondo me, è stato la partenza veramente di una serie di opportunità a cui poi il territorio ha risposto e progressivamente alcune case di produzione, alcuni autori, alcune... insomma, ha costituito un volano che ha portato, secondo me, poi allo sviluppo di questa dimensione del documentario come prodotto indipendente all interno del mercato, ovviamente del mercato internazionale più di quello italiano, perché in Italia non si è mai creato un vero e proprio mercato, che ha permesso a una generazione in qualche modo di produttori, che è quello che è sempre un po mancato in questa città, di formarsi e oggi direi che ci sono sicuramente a Torino quattro, cinque, sei case di produzione che sono le più attive a livello italiano... a livello internazionale e italiano. Non esistono a Roma, non esistono da nessun altra parte. Allora, questa è un po la traiettoria che io ho vissuto e credo che in qualche modo, appunto, non è forse ancora tanto storicizzata. Chiudo dicendo appunto che la cosa che è stata fondamentale è che, a partire sostanzialmente dagli anni Duemila, questa esperienza, la ricchezza di questa esperienza, che era un patrimonio sul territorio di persone che in qualche modo erano accomunate da un fare, si è strutturata a sistema grazie proprio al discorso Film Commission, quando comunque dall intuizione di Steve e di Paolo e soprattutto dalla capacità di un disegno politico... politico... perché qua oggi non ne abbiamo parlato, ma di accogliere queste esigenze e di strutturarle in un progetto di lunga durata, di tipo, quindi... con una riflessione politica... questo ha creato un vero sistema che, come dire, ha permesso in qualche modo di eccellere e adesso chiaramente siamo alla fase calante, perché i soldi... i tagli arrivano dappertutto, arrivano anche lì e stiamo cercando di resistere, però si sono formate intanto associazioni, il territorio si sta organizzando, insomma... questo percorso, secondo me, è un percorso virtuoso dove però, magari adesso poi lo riprenderò alla fine perché il finale del mio discorso vorrebbe proprio essere questo... dove però, secondo me, il convitato di pietra non è solo il pubblico, ma è la politica. E poi però ne riparliamo dopo, perché sennò... Francesco Bernardelli: Facciamo un passo indietro e introduciamo appunto Alessandro Amaducci, che siamo lieti di avere qui. Scusatemi, prima non vi avevo introdotto Massimo Arvat, come si è poi giustamente presentato da sé, eccellentemente. (segue bio di Alessandro Amaducci) Ecco, noi chiederemo ad Alessandro di rifare un attimo giusto questo... ripercorrere questi anni di cesura e di passaggio che in qualche maniera possiamo definire, come dire, la transizione da questa fase più embrionale che abbiamo definito oggi un po la fase dei festival appunto, non so, gli anni Ottanta a quella che invece comincia a diventare poi una serie di professionalità invece che trovano, o non trovano... però, insomma, sperimentano alcuni percorsi diciamo di attività professionale.

5 Alessandro Amaducci: Devo dire che poi la visione di questo promo interessante perché ci sono dei personaggi che si riverberano in qualche modo nella mia formazione, perché Sergio Fergnachino che adesso è parte attiva della cooperativa Zenit è colui che mi ha insegnato le prime cose che riguardano il video, perché io ho imparato ad usare il video andando in un luogo che si chiamava Centro Arti Visive Archimede dove c era Sergio Fergnachino che insegnava. E poi io ho sostituito un altra persona dell associazione che era Lorenzo Chiabrera, che lavorava in un altro centro audiovisivi della Provincia, per cui ho cominciato a lavorare insegnando video in questo centro insieme a Sergio, per cui ci sono tutta una serie di incroci. E poi c è stato in realtà, come dire, l incontro fatale con l Archivio Cinematografico della Resistenza che, insieme all Archimede, hanno costituito due case per me, ma due case nel vero senso del termine perché, soprattutto l Archivio che all epoca era diretto da Paolo Gobetti aveva questa funzione molto forte di essere un laboratorio vero e proprio e di essere... Paolo aveva, secondo me, un idea molto chiara e molto viva di cosa doveva essere un laboratorio, cioè un luogo in cui, da un lato lavoravi, dovevi fare delle cose, perché l Archivio comunque doveva rispettare delle attività, e dall altro poteva essere un luogo in cui eri lasciato assolutamente libero di fare quello che volevi e di usare le attrezzature del laboratorio per fare anche i tuoi video. In Archivio funzionava così, io e Daniele facevamo quello che dovevamo fare di giorno e la sera, la notte, era nostro, avevamo le chiavi e potevamo andare a fare i nostri video, ognuno con i suoi riferimenti, diciamo così. Daniele più cinematografico e io più sperimentale, diciamo così. E secondo me è stato importante per la mia formazione la frequentazione di questi due luoghi che erano due luoghi attivi, cioè, non erano solamente luoghi di lavoro in cui anche imparavi determinate cose, ma erano luoghi in cui venivi, appunto, lasciato libero di fare più o meno quello che volevi senza dovere giustificare niente a nessuno. Quindi per me quello è servito molto ad andare avanti anche con una logica che, appunto, è una logica probabilmente un po mia, un po autarchica, per cui ho pensato... cioè, per me il lavorare sul video ha sempre significato avere le macchine a disposizione, cioè, per me l idea produttiva mia personale è sempre stata quella, per cui per un certo periodo ho frequentato laboratori, situazioni, luoghi che mi permettevano di avere delle macchine a disposizione e c è stato anche il CLAU per un certo periodo il laboratorio dell università piuttosto frequentarlo un po... così, da clandestino, frequentando... presentando progetti o altre cose, per poi arrivare... gli anni Novanta per me sono stati importanti anche dal punto di vista tecnologico, perché è arrivata la tecnologia digitale, per poi capire che in un qualche modo, e questo l ho capito in Archivio che è stato il primo posto che stavo frequentando in quel momento che si era dotato di un sistema di montaggio non lineare, la video machine, che è un sistema terrificante, però era un computer che gestiva tutto quanto. Dal momento in cui ho visto quella macchina entrare in Archivio ho intuito la possibilità che quella macchina potevo averla a casa, banalmente parlando, per cui potevo in un qualche modo gestire tutto l iter produttivo dall inizio alla fine senza dover chiedere niente a nessuno. Per me è sempre stata importante questa cosa di non avere a che fare con la figura del produttore, ma in un qualche modo di gestirmi e autoprodurmi le mie cose dall inizio alla fine.

6 E poi ovviamente c era un humus in quel periodo, io avevo visto le cose di Barberi-Di Castri che mi avevano aperto determinate vie, ad esempio, per quello che riguarda il rapporto fra il video e l idea di documentazione, c era Alberto Signetto... Io quando mi sono laureato ho fatto una tesi su Zbigniew Rybczynski, sul quale avevano fatto una rassegna al Lingotto anni prima e l aveva curata Alberto Signetto, e quindi anche con lui ci sono stati una serie di collegamenti importanti. Poi c era un festival, il Festival Cinema Giovani, che aveva uno Spazio Italia in cui si vedevano cose anche che a me interessavano di più rispetto ad altro. Anche il Cinema Massimo, con la gestione Turigliatto, con delle proiezioni pomeridiane che per me sono state importanti. Io la prima cosa di videoarte che ho visto... Dopo, sì.. Sì, dopo ho organizzato alcune cose per il Museo del Cinema. Però appunto la prima cosa di videoarte che mi ha aperto la testa l ho vista lì al Massimo ed era The Art of Memory di Woody Vasulka, che arrivava da una selezione del Cinema di Pesaro presentata a Torino. Per cui c era un fermento di vario genere, a Torino bene o male c erano molte realtà produttive autonome o piccole, indipendenti, c era anche Daniele Segre, c era la possibilità in un qualche modo di vedere molte variabili, diciamo così, dell utilizzazione del video in settori anche molto diversi. Per cui sicuramente quell atmosfera lì, insieme all università e a tutto il resto, mi ha aiutato molto. E c era, devo dire, una scena se così possiamo definirla. Cioè, è nata in un qualche modo una scena che non era solamente visiva, ma anche musicale... insomma, c è stato quel momento... Sì, anche performativa. Poi c era anche un altro luogo, che era Hiroshima mon amour, che per un certo periodo si è aperto anche a un altro genere di esperienza. Per me, anche quel luogo è stato importante, per tante cose. Lì, io ho iniziato a fare un po il VJing, perché mi è stato proposto da Fabrizio Gargarone, era una cosa che io non avevo mai fatto, ma lui in quel momento aveva... come dire, sotto mano un gruppo di DJ e voleva organizzare delle cose anche visive, per cui... E poi, appunto, c era anche un apertura dal punto di vista teatrale, anche il Teatro Juvarra per me è stato un laboratorio e una situazione importante. Lì praticamente si facevano corsi di formazione professionale finanziati dalla Comunità Europea, perché poi c è tutto anche... come dire, una storia, se così vogliamo, della didattica a Torino che, secondo me, sarebbe interessante, perché Torino è stata appunto una delle città che più di altre ha cominciato a fare corsi di formazione professionale sull audiovisivo finanziati dalla Comunità Europea... all epoca c era Germanetto che si occupava un po di tutta questa situazione e, ad esempio, allo Juvarra si facevano dei corsi audiovisivi per il teatro e con il teatro, che è una cosa interessante, e alla fine dei corsi si facevano dei piccoli stage che erano in realtà degli spettacoli teatrali fatti con gli studenti in cui, bene o male, si mettevano in pratica le cose che si erano fatte durante il corso. E quindi anche lì, quando ho cominciato a dover usare il video dal vivo per forza, per questo tipo di situazioni, mi è venuto in mente anche un altro fronte che a me interessava parecchio, cioè la collaborazione teatro e soprattutto danza, io poi mi sono un po specializzato nel rapporto con la danza e con quel tipo di performatività che partiva anche già dall Archimede, perché fra le tante attività che si facevano all Archimede, c era quella di documentare gli spettacoli teatrali di danza organizzati dalla Circoscrizione, per cui in realtà, come dire, anche tutta una sorta di attività documentativa mia è partita da quel tipo di attività. Per cui, in quel momento

7 c erano vari luoghi, diciamo così, della città che si mettevano in sinergia anche senza volerlo, in maniera abbastanza istintiva e le persone che in un qualche modo giravano dentro quei luoghi erano a volte anche praticamente le stesse, insomma, ci si incontrava eccetera... E secondo me, appunto, la cosa importante non era tanto il luogo Torino, quanto i luoghi, c erano alcuni luoghi che effettivamente funzionavano da collante e da crocevia. Potevi sperimentare delle cose, incontrare delle persone, discutere eccetera. Olga Gambari: (non udibile) Massimo Arvat: Adesso abbiamo portato tutto su un versante romantico e mi fate tornare sulla politica... mi fa venire i brividi. No, mi piacerebbe terminare... come dire, in argomento rispetto a Ritorno al Futuro, perché credo che siamo tutti qua oggi, sì per ricordarci, ma con l urgenza di costruire la possibilità di poter ricordare qualcosa tra 20 anni, perché sennò rischiamo di non potere neanche ricordare. Io da questo punto di vista credo che è evidente che ci troviamo, è stato detto, non lo sto a ridire... in una crisi profonda... fa ridere perché nel 92 già dicevo siamo in crisi, si chiude il ciclo, cioè, ci siamo di nuovo, ma è una crisi un po diversa questa, perché è una catastrofe più che... però... come dire, per metterla in modo positivo, credo che non sia solo una crisi, credo che sia un vero e proprio cambio di paradigma, che è qualcosa di molto più profondo. Allora, da questo punto di vista, è evidente che quello che è stato negli ultimi 30 anni avrà una trasformazione, secondo me, molto profonda, perché è proprio un cambio di paradigma. Come in ogni cambio di paradigma, oddio, cosa succederà?, però il problema è capire, comprendere questo cambio di paradigma e cercare di costruire delle modalità nuove. Allora, io credo che questa sia un po l esigenza che oggi tutti noi abbiamo, cioè iniziare a fare girare questo switch, cioè iniziare a pensare che sì, dobbiamo difendere quello che abbiamo conquistato, ma dobbiamo veramente reinventarci profondamente quello che costituirà la nostra azione da domani. E soprattutto non pensare solo a domani, perché, cioè... iniziare a sviluppare di nuovo un discorso più a lungo termine. Io credo che questa cosa... la città, questa città abbia una grande capacità di creatività e di invenzione, di essere all avanguardia, l ha sempre dimostrato, c è una fortissima tradizione in questo, in tutti i campi, non solo in quello creativo. Credo che il nostro problema sia, come diceva forse Steve stamattina, molto di agire spesso per compartimenti stagni, quindi questa è la nostra grande debolezza. Quello che poi in fondo diceva anche Ferrario, non c è una scuola, secondo me è quello che vuole dire lui: quando le cose succedono e succedono a massa critica diventano un movimento, qualcosa che è riconoscibile, aldilà degli individui, quindi in questo senso fa scuola, diciamo così. Allora credo che oggi questa città ha questa energia, è necessario però un grossissimo sforzo di... messa a rete fa ridere, perché sembra... mi manca anche il linguaggio, di invenzione, diciamo, di modalità di linguaggio e di pratiche che possano veramente andare a costruire qualcosa nel futuro, e io credo assolutamente che, con il cambio di paradigma, la contaminazione e le contaminazioni tra i settori, cioè, il ricominciare a pensare che la creatività è trasversale, non è più solo il cinema, non è più solo il documentario, poi c è il documentario per la sala e poi c è... cioè, secondo me, è

8 lavorare su questa trasversalità perché come in ogni campo del paradigma, c è bisogno di innovazione e di sperimentazione. E questo, secondo me, è il primo punto fermo. Per fare questo, di cosa c è bisogno? La base c è, l energia in giro c è, ma c è bisogno di metterla a rete, di strutturarla e di avere delle politiche di medio e lungo termine su questo. Per questo dico che se noi non ci mettiamo tutti insieme... la base c è e dobbiamo organizzarla, e dobbiamo rivendicare che la politica riconquisti il suo... come dire, la sua funzione, che è quella di non... come dire, oggi sembra che quando uno diventa un assessore... allora, a parte che l unica missione ormai è quella di tagliare, ma sembra che stia gestendo una cosa sua. No, è un patrimonio pubblico, quindi tu devi essere lì, se sei in una posizione di potere, devi essere lì a capire cosa succede, ascoltare ed essere interprete di quel movimento con delle politiche adeguate. Quindi, questo... se riusciamo a rimettere in piedi questo circolo, credo che abbiamo la possibilità di costruire qualcosa. Se questo circolo rimane interrotto a qualche livello, credo che a fronte del disastro che molti... sarà difficile potere fare resilienza, come si dice e va di moda oggi... Olga Gambari: Grazie. Vi ringraziamo molto e adesso cambio di... Allora, adesso invitiamo Franco Torriani e Piero Gilardi ed esploreremo attraverso loro questo rapporto tra arte e vita, e soprattutto arte e nuove tecnologie e nuovi media. Attraverso le loro esperienze dirette di un lavoro oramai ultra... pluridecennale. Infatti giusto su Franco Torriani e anche su Piero Gilardi che sono figure note, però giusto per dire dei punti che a noi servono in questa prospettiva di invito che vi abbiamo fatto... Franco Torriani dall inizio degli anni Settanta studia i rapporti tra scienza e tecnologie, vecchi e nuovi media artistici e creativi, in anni recenti si è specialmente indirizzato sui rapporti tra forma e mezzi espressivi e scienze della vita. Membro da fine anni Ottanta di Ars Technica tra Parigi e Torino, erano questi i due poli, cofondatore di Ars Lab Torino, che è una delle esperienze che loro ci racconteranno, purtroppo conclusa per ora, e consigliere editoriale di Noemalab.org. Franco Torriani: Buonasera, scusate questo piccolo dialogo fra di noi. Perché abbiamo pensato con i curatori, che ringraziamo dell invito, e con Piero Gilardi di fare un dialogo... forse per noi è più appropriato. Io, devo dire, ho molto apprezzato quello che ho sentito finora, oggi pomeriggio, quindi non lo ripeto perché abbiamo, credo, pochissimi minuti a testa. Io credo che... vabbé, noi siamo qui per parlare di rapporti, come dire, interdisciplinari o transdisciplinari che hanno più o meno caratterizzato, nelle nostre differenze, di persone che comunque si conoscono e si stimano da molti anni, direi quasi da molti decenni, da quando più o meno esiste il rapporto arte-scienza in senso direi contemporaneo. Quello di cui... per rimanere a Torino, ma sarò brevissimo su questo, perché vorrei fare pochissima storia e pensare più a un presente futuro, a dire la verità condivido l idea di programmazioni lunghe e non quelle ansiose della politica, anche se a volte le capisco quelle della politica, pur non essendo un politico capisco perché sono ansiosi. In effetti, quello che è successo, sia quello che abbiamo fatto noi Ars Technica, Ars Lab, compresi

9 dei rapporti con i colleghi del FERT, opportunamente citati prima non è caduto, come dire, in maniera metafisica dall alto, cioè il contesto di più discipline tecniche, culturali, artistiche, universitarie e così via, direi che l humus della città è quello che, a mio modo di vedere, ha permesso che senza poi delle fatiche bestiali, con del lavoro molto pesante, ma senza delle fatiche bestiali, fosse possibile mettere insieme a fine anni Ottanta... allora era un progetto, che poi si realizzò in un programma più o meno decennale, che diventò un nodo di una rete, cioè un punto di riferimento, questo l ho imparato fuori dall Italia, quando ti considerano un punto di riferimento che non è un onore ma è una constatazione. In questo, credo che ci siano ancora le possibilità per uscire da una Torino per certi aspetti disassemblata... cito un autore americano molto interessante che ha scritto un libro Disassembled Detroit, che è stato curiosamente tradotto in italiano, mi pare... è un libro di fotografia... C era una volta Detroit. Per fortuna Torino c è ancora, forse anche Detroit, che non conosco, ma detto questo, ci siano delle forze per potere andare in questo rapporto arte-scienze o scienze della vita, che è poi quello che interessa i contaminati storici e genetici, come Gilardi ed io e molti altri contaminati nel senso disciplinare o interdisciplinare e potere mettere insieme quelle cose che esistono ma che, in realtà, non tanto non collaborano solo perché sono, come dire, autoreferenziali, stagne e così via, e c è una ragione a volte anche in questo, cioè, non hanno sempre torto, ecco. Detto però questo, se non ci si mette insieme, certe produzioni non si fanno. Io credo, per finire il mio brevissimo intervento, poi vediamo se posso dire ancora qualcos altro, su questi... chiamiamoli legami possibili su quello che già esiste in tutte le varie declinazioni delle scienze della vita e di quello che si fanno, quindi le biotecnologie, la robotica e altre cose, ci sono, diciamo, a Torino sono di qualità importante, penso alle nanotecnologie, per esempio, un altro aspetto delle scienze della vita che alcuni artisti hanno preso, anche a Torino ogni tanto, come possibilità creativa. Ecco, su questo si può entrare, come dire, a fare parte di una rete ed essere un punto significativo di una rete, che è già molto nel mondo di oggi. Sono convinto che stiamo cambiando i paradigmi, sicuramente è saltata via l idea di centralità che noi abbiamo avuto nel nostro orizzonte culturale forse un po troppo eccessiva, nella storia, adesso i cambiamenti geopolitici finiscono, sono tali da effettivamente stare attenti ai paradigmi che vengono fuori...e compresi dove si situano nel mondo. Attenzione a una cosa, le reti non sono orizzontali, come ci hanno insegnato, le reti hanno dei punti di... come dire, di acume: cerchiamo di diventare un punto di acume. Piero Gilardi: Grazie, Franco, che mi hai dato l agio per cominciare. Le immagini che scorrono sullo schermo si riferiscono a questa stagione delle mostre Ars Lab, cioè della presenza viva a Torino del movimento dell arte dei nuovi media dalla fine degli anni Ottanta e fino al Duemila... presenza articolata in mostre, ma anche in dibattiti, anche in seminari, anche in produzioni artistiche da parte di artisti qui di Torino, come Ennio Bertrand, che è qui in sala, Sergio Vaccarino, Renato Prosdocimo, ecco... Questo è stato un aspetto della fecondità di Torino. È vero quello che dice Franco, che la crisi che ci attanaglia qui a Torino, però non va a toccare il fatto che ormai la cultura di Torino, i protagonisti della cultura di Torino in tutte le arti sono inseriti in flussi internazionali o,

10 meglio, in una rete internazionale. Questo è molto importante, perché essere dentro una rete internazionale vuol dire che i condizionamenti locali, sia pure così concreti, non sono determinanti nell ammutolire la creatività, nell ammutolire dei movimenti artistici. Poi vedete, ad esempio, questa è un installazione in realtà virtuale, prima abbiamo sentito parlare molto di cinema, ma accanto ai cinema, a partire dagli anni Ottanta ci sono stati anche i nuovi media, e anche lì Torino ha espresso e prodotto. Questa stagione, a un certo punto, si è trasformata in una nuova prospettiva, in un nuovo progetto di movimento artistico che è quello della bioarte. Qui vedete l immagine di Genesis che è forse l opera fondatrice della bioarte o, meglio, della biotech arte. Diciamo che gran parte degli artisti che lavoravano nell ambito dei nuovi media, a un certo punto, hanno cominciato a interessarsi alle biotecnologie perché quello era il cambio di paradigma, relativo alla scienza, relativo al modello di sviluppo complessivo del nostro sistema antropico. Oggi questa dimensione della bioarte rimane, per me, il progetto che si proietta anche sui prossimi 10 anni, perché è profondamente legato alla situazione cruciale in cui ci troviamo. Abbiamo chiaro che il postcapitalismo liberista, io uso appositamente post, perché del capitalismo oggi non c è più nessun elemento evolutivo, c è più solo questa deformazione, degradazione del capitalismo finanziario, del capitalismo che si fa rapace e cerca di svuotare tutto l humus della società e considera l ambiente come una cosa da sfruttare fino in fondo, fino al termine, fino a quando l aria sarà irrespirabile e non ci saranno più risorse. Allora qui siamo di fronte a una problematica epocale che richiede un nuovo paradigma, e sono molto grato ad Arvat che ha tirato fuori questo discorso del paradigma. Paradigma che, anzi, bisognerebbe dire non un paradigma unico, ma tanti paradigmi. Ma c è un focus molto particolare, che occorre una profonda revisione del modello di società, dobbiamo andare verso una grande riconversione ecologica e nel contempo verso una società dei beni comuni, cioè una società glocal che sappia recuperare dei rapporti democratici e solidali ed esprimere una capacità decentrata, reticizzata, di produzione. Oggi si è parlato molto del come riorganizzare i nostri gruppi di produzione artistica, naturalmente è venuta fuori la cooperativa, è venuta fuori l associazione, tutte quelle forme organizzate che oggi nascono dal basso, che hanno quella libertà che non esisteva nelle vecchie scuole o nelle vecchie situazioni culturali quando appunto esistevano le nostalgiche scuole, la scuola di Parigi o la scuola di New York, ancor più pesante, ancor più accademica e pesante. Ma dobbiamo pensare che queste forme di autoorganizzazione che ci daremo per rivendicare l uso degli spazi pubblici, quindi saltando il discorso dei finanziamenti a pioggia di cui ci hanno tanto accusato, ma rivendicando giustamente l uso degli spazi pubblici prima che un governo Monti non svenda tutti gli edifici pubblici con la cartolarizzazione... dobbiamo cogliere fin da adesso la connessione tra questo nostro progetto artistico, fatto di produzione, solidale, fatto di interscambio internazionale... ma non ha più senso internazionale, diciamo di scambio interculturale, io aggiungerei anche internaturale, visto che la natura è vista ancora in tanti modi differenti nelle culture del pianeta, e connetterlo al movimento dei beni comuni, cioè di vederlo concretamente nell alveo del movimento di lotta dei beni comuni, perché questa è l unica alternativa per uscire dall impasse, dal disastro ecologico, dal disastro antropologico in cui siamo calati.

11 Franco Torriani: Ho ancora 5 minuti? Grazie. Io riporterei, anche in omaggio al Castello di Rivoli, di cui vedo qui l amico Massimo Melotti che ha diviso insieme a noi molte cose sui vari campi di creatività. Io vorrei anche un po riportare, un po sulla linea di fondo anche, il discorso di tante cose fatte in questi ormai più di 30 anni. Sicuramente c è un elemento che non so se si possa chiamare nuovo paradigma, ma sicuramente entra nei nuovi paradigmi ed è un elemento, tra virgolette, scientifico che è quello del dubbio. È una delle parole chiave di un prossimo convegno importante che ci sarà a Praga e a cui sto lavorando sull incertezza. Ovviamente siamo incerti in questa fase, siamo anche incerti fra le varie discipline, dove vanno a finire e così via. Il Parco dell Arte Vivente di cui Piero è stato il progettista, il visionario e anche ha contribuito ovviamente alla sua creazione, con cui ogni tanto ho il piacere di essere chiamato a collaborare. Dicevo, partivo dal Castello di Rivoli... la mia generazione ha avuto dei rapporti ciclici con i media. Non è importante il mio curriculum, semplicemente sappiate che sono arrivato alle arti visive da adulto, quindi so quasi niente, francamente parlando. È vero però che con le arti visive, a parte il rapporto storico arte-media che ho letto qua e là, specie nei libri dell amico Taiuti, voglio dire... ha avuto anche da parte nostra, più sui media, delle considerazioni molto diverse. In effetti, complimenti agli organizzatori che hanno avuto l idea di mettere insieme così tante discipline che hanno dei sistemi concettuali diversi, cioè molte volte si è un po divisi o non si collabora anche perché si è legati a sistemi concettuali diversi oltre che, per dirla di brutto, ad una clientela diversa. Detto però questo, che cos è che ha fatto sì stiamo a Torino un momento che alcuni di noi che eravamo tutti più o meno operanti sul terreno, da una parte o dall altra... ha fatto sì che certe cose potessero scoccare qui, al di là del fatto che c erano Experimenta, Extramuseum, poi il Centro Scienze, cioè abbiamo... per essere chiari, lavorare con un fisico del livello di Tullio Regge è stato molto semplice per la sua intelligenza, ma anche per la sua presenza. E potrei citarne altri... altri famosi, altri importanti. Questo sicuramente, localmente, ha permesso delle cose, molte cose. Abbiamo imparato molte cose, io sicuramente. Quello che viene chiamato ancora convenzionalmente l idea dei nuovi media, delle nuove tecnologie, che è un po il fondamento di alcuni nostri lavori, a parte i nostri, ma di tante cose fatte a Torino, penso ad esempio alla mostra Macchina nel 1985, di cui ebbi il piacere di essere uno dei curatori, in cui vennero poi fuori delle personalità da Studio Azzurro ad altre cose, poi emerse nel tempo, c è stato Germanetto... perché io sono stato uno dei docenti di questa scuola, quindi mi ricordo bene questa bellissima esperienza, durata poco, purtroppo. Ma c è una ragione su questo, una ragione non banale: non si riuscì a fare massa critica sul piano del lavoro concreto, perché io credo alle cose che si producono e si realizzano. Si possono avere molte visioni, ma poi quello che conta è ciò che produci, questa è la verità. Almeno, questa è la mia verità. Noi siamo, vado brevemente, partiti ad occuparci e qui mi interessa molto andare avanti anche qui, altrove andiamo già avanti, ma anche qui, su quelli che sono i rapporti tra le arti, al plurale, e quelle che sono le evoluzioni, i cambiamenti, difficili, complessi, contraddittori e inquietanti in molti casi delle tecnologie, delle scienze e delle cosiddette

12 tecnoscienze, perché appena arriviamo al vivente, lì ha senso parlare di tecnoscienza. Quando siamo passati, anni fa, a livelli diffusi, cioè i nostri livelli, dalle macchine meccaniche alle macchine intelligenti, siamo passati a qualcosa di sensibile, chiamiamolo così. Che ci fossero degli organi sensibili macchinistici l aveva già detto Wiener nel 1948, quando scrisse il famoso libro cult Cybernetics. Queste macchine qui hanno permesso di instaurare un dialogo con le persone, con lo spazio, con gli ambienti, con l ambiente, che è un po alla base delle cose che sono successe dopo e anche sicuramente alla base non solo di paradigmi, ma ci siamo fatti per decenni delle domande su quali sono i nuovi paradigmi e qual è il ruolo della sensibilità e quindi anche dell estetica, quindi se vogliamo di una scrittura di carattere artistico su queste cose. A un certo momento, e non è una conseguenza, cioè non è un rapporto di causa-effetto necessario, alcuni di quelli che hanno lavorato con le tecnologie, l elettronica, ci sono tantissimi nomi su questo, tutti leciti, sono passati a qualcosa che è più legato a quello che la mia amica Nicole Karafyllis, filosofa tedesca di origine greca, chiama i biofatti, cioè il bios greco con l artificio del latino, io non ho fatto il classico, però fin lì... me l ha insegnato Karafyllis ed è importante, cioè è qualcosa che ci porta fuori dall ossessione del cyborg e tante altre cose. Questo è il punto, da quel punto di vista lì in avanti parte qualcosa che, se vogliamo slanciarlo, finisco sulla scala della complessità, dal più semplice al più complesso, quindi che riguarda il vivente, arrivo ad un qualcosa che interessa anche i sistemi ecologici, anche i sistemi organizzativi e così via, su cui si possono avere anche opinioni molto diverse, ma sono qualcosa con cui noi facciamo, come dire, attenzione. Anche perché, quando si partì anni fa, e purtroppo ancora oggi, non si parte mai da un dato demografico fondamentale: che noi fra poco saremo 7 miliardi e avremo 5 miliardi di ovini e bovini. Quindi, quando parliamo del vivente e del carico di altre... pensiamo anche a quanti siamo. Quindi, per esempio, quando 30 anni fa facevamo le analisi sulle interdiscipline, avevamo alla base il sistema di informazione, poi è finita la fisica sostanzialmente, siamo passati poi al sistema biologico del vivente, quindi i processi viventi, sia quelli simulati via intelligenza artificiale e artificial life, vita artificiale, scusate l inglesismo, siamo poi passati ad altro. Detto però questo, noi 10 anni fa non pensavamo, per quanto possa valere in pratica, ad analizzare il nostro rapporto percettivo e sensoriale con il corpo, quindi che interessa quella che è l investigazione anche artistica attraverso il sistema dei neuroni-specchio. Cioè, noi di questa specchialità, scusate l italiano, non avevamo coscienza. Oggi credo che ci siano gli elementi anche qui per entrare, per ricercare e per produrre in questo senso, quello che dobbiamo chiedere ai contesti il contesto è molto più di una città è di darci o di compartecipare a darci, diciamo, la materia prima e il sistema produttivo necessario per realizzare queste cose. Questo è il punto. Dal mio punto di vista posso mettere a disposizione il poco che ho, far sistema vuol dire fare un sistema attraverso la complessità dei sistemi esistenti, non vuol dire ammucchiare. Credo di aver finito. Piero Gilardi: Cerco di concludere questo dialogo con un progetto artistico che in qualche modo dà corpo a quanto ha detto Franco fino ad adesso. Lui ha parlato del biofatto, una parola che da una parte sta ad indicare un fatto concreto, un evento materiale, ma dall altra parte un intelligenza biologica. In questo momento, al PAV è in

13 corso il lavoro di un gruppo americano, nostro fratello, chiamiamolo così, che si chiama Critical Art Ensemble. Il lavoro che è in corso, è un lungo workshop partecipato con una ventina di partecipanti di Torino, questo è un altro elemento della condivisione che abbiamo visto in tutte le proposte di laboratorio e di autoformazione anche cinematografica eccetera. Un gruppo di 20 persone che partecipa a questo progetto che consiste in questo: coltivare delle piante di specie in via di estinzione che sono protette dalle leggi, andarle a mettere là in quell ambiente dove è prevista la costruzione di un ammorbante centro commerciale o è previsto dell asfalto, per impedire che in quel luogo, in base alle leggi che proteggono le piante estinte, possa essere rilasciato il permesso di costruzione. La dinamica di questa azione artistica è un biofatto, perché da una parte ci sono delle piante in via di estinzione, quindi una realtà biologica, dall altra parte c è un azione antropica, l azione di un gruppo di persone, di una comunità a cui si sono affiancati degli artisti per realizzare questa azione. Ecco, questo per dare l idea di cosa può essere un biofatto. Da questo punto di vista, io penso che c è un elemento che secondo me ci fa uscire dal pessimismo, dal fondato pessimismo, sulla situazione in cui ci troviamo per la crisi della cultura, la crisi del sostegno pubblico alla cultura... per tutte le cose orribili che si ripetono e si moltiplicano nella nostra società schiacciata dal neoliberismo. E questa energia che andiamo a condividere con delle piante in via di estinzione si chiama catanca caerulea questa in particolare e condividiamo l energia del sopravvivere andando in terreni nuovi, andando a ibridarci in posti sconosciti, questo è il rischio che noi dobbiamo affrontare: essere capaci di ibridarci e allearci con la vita. Grazie. Francesco Bernardelli: Adesso siamo lieti di passare ad altri due case histories: uno è dedicato all esperienza del festival di Torino Share ed è l attività quindi portata avanti da Simona Lodi e l altro invece, proseguendo in questa esplorazione di quelli che sono i festival che stanno un po ridefinendo i formati, le attività e le finalità di quello che sono un po le attività legate alle arti elettroniche, e chiaramente anche la parte dedicata a Club to Club. Cominciamo con il contributo di Simona Lodi. (segue bio) Abbiamo qui un suo breve comunicato perché Simona non è qui con noi. Simona Lodi (videointervento): Chiacchierando con Olga e Francesco della scena torinese attuale, che attraversa un momento di crisi molto forte, si pensa di fare un percorso a ritroso e quindi anche di fare una storia degli ultimi 30 anni di attività culturale torinese... è un passaggio necessario fondamentale per poi capire dal passato quale può essere poi lo sviluppo futuro e i progetti di rilancio della città. Io sono il direttore artistico di Share Festival, che è un festival di arti in epoca digitale, abbiamo deciso di adottare questo payoff perché è nato come un festival specializzato in un certo tipo di arte, un arte che è stata designata in miliardi di modi, sempre connotata con una forte relazione con la tecnologia, ma a me piace adottare il termine che Lyotard aveva usato nel 1985 in Les Immatériaux, cioè come quest arte è immateriale. Immateriale non nel senso che aveva usato Yves Klein negli anni

14 Cinquanta, come arte spirituale, ma come un arte connessa con l informazione. Un arte che in quel momento stava emergendo, nasceva una scena scusate la doppia parola una scena forte, molto interessante, che non aveva in Italia un luogo, un ambiente, una situazione che poteva farla emergere e quindi farla risaltare. Per cui siamo partiti alla fine degli anni Novanta/inizio Duemila con un progetto che doveva comunque occuparsi di un arte diversa, proprio perché globale, connessa, orizzontale, legata alle tecnologie, però una tecnologia open source, legata alla condivisione, un atto orizzontale dal punto di vista proprio dei valori etici ed estetici che poi sono emersi. L idea del festival era un idea semplice, era quella di aggregare momenti diversi: mostre, ma anche performance, ma anche momenti di eventi musicali, approfondimenti rispetto a quello che stava accadendo in quel momento nel mondo dell arte, che non era forse nemmeno chiaro a noi, perché stavamo iniziando a mettere una serie di canoni estetici, che poi nel tempo sono diventati delle basi da cui partire. Quindi c era proprio un discorso di sperimentazione in laboratorio. Share Festival quindi era una non-esposizione, cioè quest idea di non esporre le cose, ma di far partecipare il pubblico a un evento in modo anche orizzontale, che è l aspetto dell interattività che non è soltanto schiacciare un bottone e fare funzionare una macchina, ma dare qualcosa di proprio e contribuire alla realizzazione, alla concretizzazione dell oggetto artistico. Voleva dire ribaltare anche il concetto di autore eccetera eccetera. Veniva da questo punto di vista, cioè dal punto di vista del dare mezzi economici, servizi, interlocutori politici, interlocutori amministrativi, avere un sistema anche se la parola sistema non mi piace perché poi è troppo chiuso come tipo di... concettualmente è troppo chiuso ma comunque creare una scena torinese estremamente vivace ha dato la possibilità di una crescita esponenziale e di un richiamo fortissimo in città. Un po la proposta culturale sinteticamente... e ci sono anche altre realtà a Torino che lo stanno facendo, primo tra tutti il Parco d Arte Vivente, è quello di pensare a una terza cultura e quindi non più dividere la parte umanistica da quella tecnico-scientifica. Quindi potenziare la ricerca artistica che ingloba anche aspetti legati alla teoria dell informazione e alla globalizzazione, perché è la realtà della vita che viviamo tutti i giorni. Senz altro, potere innestare un progetto come Share Festival in una città come Torino vuole dire innestare un pezzo di DNA che già esiste nella città e che è legato a politiche culturali che hanno visto la città veramente come un laboratorio, come dicevo, magari anche inconsapevole, 30 anni fa forse alcuni hanno avuto, anzi, molti hanno avuto visioni estremamente interessanti che poi hanno portato negli anni a costruire un contesto culturale unico italiano. Noi in pochissimi anni siamo diventati uno dei festival più importanti in Europa, essendo l unico sopravvissuto in Italia, questo grazie al fatto che c è stato finora un ambiente culturale fertile straordinario... non so, realtà istituzionali che si confrontano con realtà non istituzionali, l ambiente dell associazionismo che è stato enorme a Torino, e spesso questa è una cosa di cui io mi lamento con... non tanto con i politici che ce l hanno in mente questa cosa, ma con chi gestisce le istituzioni museali, che tende un po a ignorare la parte dell attività invece delle associazioni e degli eventi spontanei. Sabato ero a un convegno in cui si parlava di come le istituzioni intercettano i movimenti artistici... ed è dura! Che le istituzioni, così

15 come si sono strutturate fino ad adesso, e soprattutto quelle museali, riescano ad intercettare dei movimenti artistici, la vedo molto dura. Viceversa, uscire dalla parola sistema cultura, che vuol dire che se tu sei al di fuori di questo sistema non sei visibile, non sei visibile al sistema, vuol dire limitare tantissimo lo sviluppo culturale della città e quindi il rilancio. Il rilancio deve venire, come è sempre stato, dal basso, soprattutto oggi che è diventato motivo... contribuire al network è diventato un cavallo di battaglia. Il concetto di network e il concetto di peer to peer, cioè di collaborazione orizzontale, è proprio un concetto intrinseco in quel mondo hacker, in quel mondo politicizzato, in quel mondo dove si pensano anche forme di democrazia alternative, che hanno poi fatto nascere internet, la rete e hanno valorizzato il sistema di comunicazione globale. Ripensare, quindi, a un progetto di sviluppo culturale a Torino, come dicevo, partendo dal basso, dal grassroots, proprio dalle radici e da quello che sta nascendo nella città, non è un processo facile, perché ci sono delle abitudini radicate, ci sono delle chiusure eccetera, ma può essere una proposta forte. Ora non ci sono i soldi, ma c è l energia delle persone, io vorrei lavorare sull energia delle persone, vorrei lavorare sulla voglia di fare, cioè sull uscire da questo immobilismo, sull uscire dal tanto non ci sono soldi. Intanto i soldi da qualche parte ci sono e nessuno sta facendo niente, i soldi ci sono in Europa, ci sono bandi in continuazione, nessuna istituzione o non-istituzione culturale, o pochissime, a Torino hanno una formazione adeguata per potere affrontare un bando europeo. Un bando europeo, il più banale, quello dove tu ricevi il 90% dei soldi dall Europa e tu metti di risorse proprie il 10%, ha come minimo una guideline di 80 pagine in un burocratese stretto, ovviamente in inglese. Allora occorrono alla città dal punto di vista culturale, per esempio, degli esperti che ci facciano avvicinare a queste cose, che ci facciano anche da formazione, che ci aiutino, che facciano il loro pezzo di lavoro, che è un lavoro specifico, che è un lavoro anche burocrate, che è un lavoro dove ci vuole un attenzione particolare, dove la lotta da oggi in poi sarà molto dura, perché tutti i Paesi si rivolgeranno all Europa, dove l Italia mette già dei soldi, cioè ci sono già questi soldi, semplicemente noi non li stiamo prendendo. Francesco Bernardelli: Adesso introduco rapidamente ancora il contributo, mi scuso per averli messi uno in fila all altro, però per ragioni organizzative, pratiche e logistiche, abbiamo dovuto accorpare le due comunicazioni di Gilardi e di Torriani. Segue la presentazione fatta dai due direttori artistici del Club To Club Festival. Anche qui, non vi stupiate di questa scelta, in realtà l abbiamo volutamente e consapevolmente scelto perché il festival è interessante in quanto processo in continua maturazione, è abbastanza cambiato e sta diventando qualcosa di molto interessante anno dopo anno. Lo stesso modello pratico organizzativo e soprattutto gestionale del festival è un esempio molto interessante, anche perché è qualcosa in questo senso che, pur sperimentando e aprendosi a diversi linguaggi, oltretutto rappresenta anche un terreno particolarmente... diciamo sano da un punto di vista economico, perché è un festival, mi veniva spiegato, che vive praticamente con il 20% di quello che è l intero budget di finanziamenti pubblici, quindi potete immaginare l importo delle cifre che muove e che loro riescono a trovare, in questo senso, autonomamente. Chiaramente esiste tutta una dimensione spettacolare e anche di divertimento che è anche implicito,

16 ma in realtà gli stessi caratteri della manifestazione sono tali, adesso lo sentirete, che lo presentano e lo caratterizzano come qualcosa di non così semplicemente etichettabile come un semplice festival, diciamo, del divertimento. Facciamo partire il contributo di Roberto Spallacci e Sergio Ricciardone, i due direttori artistici. Roberto Spallacci (videointervento): Roberto Spallacci parte fine anni Settanta con un diploma di perito chimico ad alti voti mai utilizzato, drammaticamente non mi ricordo assolutamente nulla adesso, quasi, se non probabilmente un impostazione mentale abbastanza positiva data da questi studi. In realtà, grande crisi della chimica in quel periodo in Italia, zero lavoro e quindi inventarsi un qualcosa. Inventarsi un qualcosa, per me, è stato diventare inizialmente un dj, manipolatore di suoni e quindi inizia un mio percorso che, tra l altro, inizia con delle persone che poi sono vicino a noi, come per esempio Edoardo Di Mauro, nel campo dell arte, che in quel periodo organizzava con me delle serate con lui tra l altro abbiamo fatto suonare per la prima volta dal vivo a Torino i mitici Righeira. Era il periodo di inizio della new wave, per cui si facevano serate anche un po naïf, tematiche, tipo la serata ma erano assolutamente delle sperimentazioni in quel periodo. Dopodiché, entra sempre in questo ruolo un po di dj, ma anche di organizzatore, propositore di idee, entra in gioco uno dei locali capisaldi degli anni Ottanta del rinnovamento musicale della città, che in quel periodo era pervasa più che altro da suoni magari più da discoteca, insomma, della disco music, del funky... Entra in campo il Tuxedo, a pochi passi da qua, siamo a San Salvario, qui siamo in via Goito, e proprio qua dietro in vie Belfiore, c è il Tuxedo, ahimè adesso ha chiuso, ma in realtà nel frattempo nel quartiere stanno nascendo nuovi poli musicali e altri ne nasceranno. E il Tuxedo dal 1980 al 1986 circa è una bellissima avventura musicale con altri personaggi, amici ancora di adesso, lì coinvolti, come Alberto Campo, ad esempio, e altri ancora. Un posto che parte con la New wave, ma poi in realtà si contamina molto e di nuovo un apertura coraggiosa per la città, perché è uno dei primi locali ad esempio a suonare l hip hop, il rap quando arriva, non ha paura di scostarsi da quello che era una sorta di presidio positivo raggiunto, che era quello di essere la culla della New wave, ma in realtà si continua a sperimentare con i generi musicali che arrivano. Dopo il 1986 si passa all avventura, direi anche questa per Torino abbastanza importante, dello Studio 2. Con Lorenzo e Joe, formiamo la Latin Superb Posse e mandiamo avanti più o meno l avventura dello Studio 2 fino al Grande periodo anche questo di nuova musica, arrivano i primi suoni elettronici, arriva in particolare la prima techno di Detroit, la prima house, grandi entusiasmi, momenti di anche nuovo modo di vivere la notte, orari dilatati, quindi un nuovo modo anche di affrontare il week end, la città, i primi afterhour in Italia, per cui comunque questo fatto che a volte la serata non terminava magari alle 5 di mattina, ma le persone partivano e andavano verso altre regioni, conoscevano quindi altri movimenti, altre proposte musicali, altre situazioni. Dopo lo Studio 2, giunge il Crossover a Settimo, altro momento direi importante perché un vero e proprio sito industriale trasformato in laboratorio musicale, in dancefloor,

17 assolutamente spoglio, glabro, con un grandissimo impianto e quindi abbastanza anomalo in quel momento per la città e direi anche per il nord Italia, tant è vero che partivano veramente da mezz Italia per venire a ballare al Crossover. Nel frattempo era nato anche tutto un discorso di apertura nazionale e internazionale di questi luoghi, per cui c era una fortissima proposta musicale, e di alto livello, per cui, accanto a resident dj o meno in continuazione, c era una proposta musicale molto forte. Nel circa incontro Sergio Ricciardone e Giorgio Valletta e loro mi fanno la proposta di collaborare anche con loro su un progetto che loro avevano già fondato e che era in azione ai Red Docks, un altro polo molto importante per la stagione del clubbing, del dancefloor torinese, che erano i Docks Dora. E da lì inizia la nostra collaborazione, prima con la sigla Xplosiva, che era una one night e poi si arriva alla fondazione dell associazione Situazione Xplosiva nel 2000 che ancora adesso, come vedete da questi uffici, è in azione. In mezzo, ricordo solo di avere aperto con Ivano Bedendi, Silvio Mossetto e Gianpiero Gallina di Musica90 lo Yo-Yo Club in via Burzio, che è stato credo il primo discobar torinese, cioè il primo luogo che non era discoteca e che, però, aveva anche la possibilità di un piccolo dancefloor e che quindi, diciamo, era un po più libero da certi meccanismi che magari invece ricadevano nel club normale, quindi non c era magari il biglietto, insomma, un avvicinamento a quelle che erano magari le modalità che in Inghilterra o in Spagna c erano già e che ha avuto 2 o 3 anni di ottimo successo e che è stato un bell esperimento anche quello. Sergio Ricciardone(videointervento): Ho fatto soprattutto radio nella prima metà degli anni Novanta, l esperienza più importante è sicuramente Radio Flash, che aveva la direzione artistica, tra l altro, proprio di Alberto Campo. Con Giorgio Valletta e un altra serie di collaboratori, facciamo il primo programma musicale, di nuovo, che parla di musiche varie, cioè non solo musica New wave, all epoca si parlava di Indie, ma anche la musica elettronica, ovviamente con una grossa resistenza da parte del pubblico, che però, nell arco di pochi mesi, decise di abbracciare anche questo nuovo linguaggio musicale. E scrivo per varie riviste, tra l altro ho avuto la fortuna di intervistare per primo i Radiohead quando suonarono a San Colombano al Lambro. Diciamo che ero molto interessato, in quel periodo, più che a fare e creare degli eventi, a informare su quello che succedeva. Poi dall incontro con Giorgio Valletta, invece, nasce il desiderio di alzare un po l asticella e provare a proporre dei suoni che, parlando al pubblico del rock, al pubblico indie, facesse conoscere anche le tendenze della musica elettronica. C era in quegli anni il pieno boom della musica inglese tipo... dagli Underworld ai Chemical Brothers, banalmente. La serata va talmente bene, diciamo che quella serata lì si chiama Elastica, come il nome di una, per fortuna, dimenticata band inglese era esattamente una proto-serata che incarnava già tutti i fermenti che poi hanno caratterizzato il percorso successivo. Dalle ceneri di Elastica è nata Xplosiva, nel 97, di nuovo come diceva giustamente Roberto, in un area incredibile, quella dei Docks Dora, che per me ha anticipato la Berlino che conosciamo oggi. Cioè, i Docks Dora erano nel , esattamente quello per cui la gente si muove adesso per andare a Berlino a ballare, o in altre città. Quindi noi avevamo in casa un rarissimo esempio di polo del divertimento intelligente.

18 Noi facevamo i primi esperimenti di musica. Ovviamente, stiamo ancora parlando di serate in cui non ci sono ospiti, cioè, non chiamavamo degli ospiti, eravamo noi a proporre la musica. Solo nel 98 abbiamo fatto i primi ospiti che furono, se non ricordo male, Jacques LuCont e i Faithless, che poi sono diventati molto famosi, ai Red Docks. I Docks Dora erano un esempio di città all avanguardia, cioè, il linguaggio parlato in quell area, o comunque a Torino in quegli anni, era assolutamente... ripeto, secondo me Berlino ci è arrivata dopo. Questo lo dico con totale onestà. Dall incontro con Roberto nel 98 cerchiamo ancora di migliorare quello che noi sapevamo fare, quindi provare a lavorare su linguaggi diversi. Infatti, per dire, siamo stati i primi a sperimentare i visual durante le serate e in quegli anni tra l altro il ricordo è talmente vivo, perché sono passati fondamentalmente anni, ma sono veramente stati anni incredibili c erano tutte le cellule creative che ancora oggi raccontano in qualche modo una Torino, secondo me, all avanguardia. La grafica ce la curava lo Studio Bellissimo, che sono ancora i nostri grafici per Club to Club, i visual ce li facevano i Softly Kicking, che adesso si sono trasformati in azienda che si chiama Todo, azienda di interaction design all avanguardia, e che hanno la base qui a Torino. Collaboravamo anche con altre persone, che tuttora incarnano sicuramente una grande vocazione al contemporaneo. Nel 2000 fondiamo l associazione culturale, che ha 12 anni, e l associazione culturale inizia a fare tutta una serie di progetti. Secondo me, nel 2000 noi diventiamo impresa culturale a tutti gli effetti, perché diversamente forse da quella che è la storia di altre realtà, noi siamo stati abituati fin da subito a pensare ai nostri progetti come un mix di finanziamenti. Quindi, avevamo una parte di biglietteria, che ci arrivava dagli eventi che noi proponevamo, una parte ovviamente di finanziamenti pubblici e una parte di sponsor privati che credevano nella nostra progettazione. Quindi in quegli anni, all inizio del 2000, iniziamo a fare anche il festival Club to Club, che nasce nel 2002, e nasce l anno dopo il progetto Piemonte Groove, da lì abbiamo iniziato a progettare sempre di più. La domanda che ci facciamo quando progettiamo è che cosa merita veramente progettare. Perché prima di progettare, la domanda che ci facciamo sempre e che è veramente oggetto di grande scrupolo, è proprio che cosa merita di essere progettato. Roberto Spallacci(videointervento): Partendo da Club to Club agli esordi, dal 2001, ovviamente c è un primo approccio un po più naïf, un po più iniziale, in cui però secondo me, fin dagli inizi, c era l idea di voler prendere un mondo, che era quello del club, del dancefloor, di certi suoni, che era catalogato come in Italia, soprattutto qualcosa di molto definito, racchiuso in certi steccati, impossibile da contaminare... fin dall inizio, secondo me, la nostra idea è stata proprio quella di, invece, iniziare a comunicare tramite il festival che quel mondo là aveva veramente un caleidoscopio di possibilità enormi e non poteva essere catalogato in una maniera così precisa e riduttiva. Di conseguenza, il percorso culturale e propositivo del festival va, appunto, sempre di più verso un range di possibilità intense, che vanno dall idea di avere attività diurne, di confronti, di workshop, di lab con il pubblico e gli stessi attori del festival, magari come musicisti, esperi o meno, l idea di andare a contaminare luoghi che normalmente non ricevevano questo tipo di attività o di suoni, e quindi di aprirsi appunto a sedi non convenzionali, che sono state poi tantissime nel corso delle varie

19 edizioni: quest anno arriviamo alla dodicesima edizione del festival e ci sono state da fondazioni d arte a musei, il Museo del Cinema, allo stesso tessuto urbano della città, siamo stati tra i primi a utilizzare le navette, per esempio, per trasportare il pubblico in sicurezza tra le varie sedi del festival. E quindi, a un certo punto giunge anche la scelta di spostare il festival nel periodo di Artissima, con una scelta veramente molto meditata, sull idea che ci sia veramente una trasmissione di interessi tra i pubblici del nostro festival e dell arte contemporanea in tutte le varie forme che, in quei giorni, rendono Torino sicuramente in Italia capitale dell arte contemporanea per tutto quello che succede in città in quei giorni. Quindi direi che sicuramente il festival è riuscito a tracciare un percorso in continua salita culturale, in continua sfida, spostando l asticella della possibilità sempre in avanti, proprio sul discorso di porsi delle domande progettuali, come diceva prima Sergio, e quindi non soltanto della scelta dell artista, su cui siamo sempre molto attenti e anche là cerchiamo sempre di non essere prevedibili e quindi di poter avere la frontiera più avanti del suono, o magari un mélange di offerta che non sia, per come è composta poi la squadra che va a fare per esempio i suoni al Lingotto, che è un evento da migliaia di persone... che non sia una squadra prevedibile, e quindi la contaminazione è continua in questo senso. Sergio Ricciardone(videointervento): Per quanto riguarda Club to Club, come diceva Roberto prima, ci sono una serie di parametri che noi abbiamo ben chiari in testa e che è proprio come utilizzare gli spazi urbani, quali artisti chiamare... Gli artisti non sono gli artisti più in voga, gli artisti sono gli artisti che noi crediamo, in maniera un po presuntuosa, possano rimanere nei libri di storia della musica o di storia dell arte. Quindi, a volte ci azzecchiamo e a volte non ci azzecchiamo, ma non sono quelli che fanno vendere più biglietti, questo per capirci. Una comunicazione sempre molto attenta. Noi da quando siamo nati, proprio per il fatto che sia io che Giorgio, ma anche Roberto, avevamo bene in mente cosa succedeva in Europa e avevamo un idea dell Europa come termine di paragone immediato, anche prima della rete, la comunicazione per noi è sempre stata prioritaria. Nel senso, il modo di comunicare, il modo in cui cerchi di coinvolgere anche i pubblici o gli sponsor o tutta una serie di attori... a noi interessano molto i creativi indipendenti, quelli che firmano i progetti, spesso non vengono pagati, ma firmano dei grandi progetti. Bene, questa rete di creativi indipendenti ha iniziato a supportare il festival nel A noi interessa fare rete e quindi la comunicazione serve anche per costruire la rete. E poi il quarto parametro... Quindi location, artisti, comunicazione, e il quarto parametro è sicuramente il cofinanziamento. Cioè, i nostri progetti nascono sempre con l idea di stare sul mercato, perché un tavolo con 4 gambe o con 3 gambe, se vogliamo fare gli inglesi può durare di più di un tavolo con una gamba sola. Per quanto riguarda il futuro immediato, il festival sta facendo proprio in questi giorni una grande riflessione sulla parola elettronica. Riteniamo che parlare di musica elettronica nel 2012 sia parlare di qualcosa che è già stata assimilata e non è più interessante. È tutto elettronico, anche Lady Gaga è elettronica. Per quel che ci riguarda, quello che è importante in questo momento è parlare di contemporaneo e di sguardo sul contemporaneo. Club to Club ha sempre avuto questa vocazione, per cui in questo momento stiamo proprio cercando

20 di capire come arrivare a comunicare meglio questa nostra urgenza e questa nostra esigenza di raccontare il contemporaneo e le possibilità del contemporaneo. Dall altra parte, una cosa molto importante è che noi cerchiamo di ragionare non più come Noi siamo a Torino e progettiamo a Torino. Diciamo che i giorni di Artissima, se parliamo di Club to Club, sono i giorni in cui Torino è un non luogo, a Torino succede tutto e il contrario di tutto, e quello che ci interessa è che Torino diventi centrale rispetto alla nostra progettazione, ma il modo in cui noi cerchiamo di progettare adesso... ad esempio a noi interessa molto il discorso sulle macrocittà, pensiamo a Torino e Milano come un unico bacino d utenza. Per noi la gente può venire... Avremo un evento tra una settimana, tra l altro, a Milano e ci sarà molta gente che si sposterà da Torino, al Teatro Parenti, tra l altro. Quando facciamo le cose a Torino, il pubblico che ci segue da Milano è tantissimo, è vastissimo, sennò non riusciremmo a fare i numeri che facciamo. Quindi per noi l idea di rete con le altre città e non solo con gli attori indipendenti è fondante, cioè è parte della nostra progettazione. Per questo motivo, da qualche anno stiamo investendo anche su azioni del festival fuori, quindi abbiamo fatto Berlino, Barcellona, Rotterdam, Bruxelles, siamo a Istanbul da 3 anni, perché riteniamo che Istanbul abbia un po la stessa vocazione al contemporaneo che aveva Torino negli anni Novanta. E quest anno dovremmo essere anche a Londra, se il budget ci permetterà di essere a Londra. Però l idea è che il festival si svolge a Torino, ma ha una capacità di parlare e di attrarre pubblico anche a Milano e di ragionare su un territorio che è quello europeo e non soltanto quello locale. Olga Gambari: Allora adesso entriamo nel vivo di questa ultima e conclusiva tavola rotonda che vuole essere dedicata all idea di auto-organizzazione e impresa. Questi tre interventi video che avete appena visto e che ha introdotto Francesco, arrivavano a un discorso che vorrebbe essere al centro di questa conversazione che adesso avremo: e cioè su questa cultura dal basso e diffusa che dev essere l attivatore, forse, di un nuovo modo di fare, di operare, di creare, anche di produrre. E poi queste altre idee buttate da Ricciardone e Spallacci su, per esempio, concetti come la macrocittà e quindi l idea di vedere il territorio in maniera sempre più estesa come rete, ma non solo come rete di attori all interno di una città, ma proprio come aperture anche geografiche e quindi di risorse, anche di altro tipo di energie. E poi quest idea dell impresa, cioè di abbinare sempre un progetto creativo che deve partire da lontano e quindi muoversi molto prima di rendersi conto di non avere delle risorse proprie economiche e di abbinare questi due aspetti fondamentali per continuare ad andare avanti. Quindi, ricollegandoci un po alla partenza di ieri legata agli anni Ottanta, abbiamo reinvitato Guido Costa, che ieri ci aveva dato quel suo contributo legato più a un periodo storico lontano dal presente, ma non così lontano, sull idea di questa scena creativa torinese molto diffusa, con degli spazi e dei progetti, delle realtà che nascevano indipendenti, autogestite, però in maniera quasi inconsapevole, prima ancora che nascesse un sistema, una relazione pubblico-privato. Molte di queste realtà, secondo noi, ma è un evidenza, stanno assolutamente rinascendo e sono uno dei lati positivi della crisi, cioè quel fenomeno per cui nei momenti di crisi spesso vengono fuori delle

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