Vincenzo Zeno-Zencovich Ci vuole poco per fare una università migliore Guardando oltre la Riforma Gelmini

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1 Vincenzo Zeno-Zencovich Ci vuole poco per fare una università migliore Guardando oltre la Riforma Gelmini nuovi percorsi il Sirente

2 Questo libro, distribuito in licenza creative commons by-nc-nd, può essere acquistato in versione cartacea su

3 nuovi percorsi 1

4 ALCUNI DIRITTI RISERVATI Questo lavoro è edito con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Unported License. Vincenzo Zeno-Zencovich Ci vuole poco per fare una università migliore Guardando oltre la Riforma Gelmini Tu sei libero: di riprodurre, distribuire, comunicare al pubblico, esporre in pubblico, rappresentare, eseguire e recitare quest opera. Alle seguenti condizioni: Attribuzione Devi attribuire la paternità dell opera nei modi indicati dall autore o da chi ti ha dato l opera in licenza e in modo tale da non suggerire che essi avallino te o il modo in cui tu usi l opera. Non commerciale Non puoi usare quest opera per fini commerciali. Non opere derivate Non puoi alterare o trasformare quest opera, né usarla per crearne un altra. Prendendo atto che: Rinuncia È possibile rinunciare a qualunque delle condizioni sopra descritte se ottieni l autorizzazione dal detentore dei diritti. Altri Diritti La licenza non ha effetto in nessun modo sui diritti morali dell autore. Copyright 2011 Editrice il Sirente, Fagnano Alto isbn il Sirente

5 Indice p. 1 Introduzione. Il luogo comune 5 i. A che cosa serve l università 5 a) L università, un prodotto nazionale 6 b) L università come comunità 7 c) Le due gambe dell università 8 d) Università e società della conoscenza 9 e) L università come servizio pubblico 9 f) I limiti del confronto Europa-USA 12 ii. Gli studenti 12 a) Sono i buoni studenti che fanno i buoni professori 13 b) Cominciare dalle scuole superiori 15 c) Limiti e pregi di una cultura umanista 16 d) Gli studenti come fruitori di un servizio 18 e) L anacronistica concezione tributaria 19 f) La truffa del diritto allo studio 20 g) Il ruolo dell orientamento 21 h) L esamificio 23 i) Il grande e reale handicap: le lingue 25 l) L università per i giovani m)...e per chi già lavora 29 iii. I servizi e le strutture 29 a) L università come impresa di servizi 30 b) Il luogo dello studio 32 c) L importanza del personale amministrativo 34 d) Una carta dei servizi dello studente europeo 36 e) Dal cosa al come insegnare

6 x Indice Indice xi 38 iv. La ricerca 38 a) Il mito della ricerca pura 39 b) La commistione fra le diverse forme di ricerca 40 c) L università come consulente delle istituzioni 41 d) La naturale fuga dei cervelli 45 v. I professori 45 a) La cooptazione come processo di selezione 47 b) Quale professore? 48 c) La interazione fra docenti ed il resto del sistema 50 d) Le metodologie didattiche 51 e) Cosa insegnare? 53 f) I corsi in lingua 56 g) Le valutazioni degli studenti 57 h) Una organizzazione senza gerarchie 88 Conclusioni 91 Postilla 93 Appendice Legge 30 dicembre 2010, n. 240 Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l efficienza del sistema universitario. (in GU n. 10 del Suppl. Ordinario n.11) 60 vi. Riforme? No, grazie 60 a) Il termine riforma fra favola e inganno 62 b) Perché riformare l università? 63 c) Un approccio minimalista 65 d) Una sola riforma : le facoltà di medicina 66 e) Le politiche degli incentivi 68 vii. E i soldi? 68 a) I mendicanti nella città dell oro 70 b) L incomprensibile bilancio universitario 72 c) Le politiche di bilancio 73 d) Spesa statale, spesa individuale, spesa familiare 75 e) Una impresa a ciclo continuo 77 viii. La Riforma Gelmini 77 a) Un testo largamente condiviso 78 b) Una impostazione costruttivista 79 c) Dalla diarchia alla triarchia 80 d) Anno aetatis suae CMXXII obiit A.D. MMX 82 e) Dare i numeri 83 f) La sudditanza intellettuale verso il politically correct 84 g) I passi in avanti 86 h) Valutazione e concorsi: Plus ça change, plus c est la même chose

7 Introduzione Il luogo comune Con la ricetta della nonnina, zucchero, latte e fior di farina. Vien da canticchiare il jingle di un carosello di quasi mezzo secolo fa per dire che gli ingredienti di una università migliore sono semplici e a portata di mano. Il problema è che non basta scrivere la ricetta e impararla a memoria, per quanto semplice sia. Occorre prima di tutto liberarsi di una serie di luoghi comuni che soprattutto negli ultimi anni si sono accumulati, come materiali in una discarica, coprendo alla vista e alla ragione quel che invece c è. Questi luoghi comuni sono risaputi: l università italiana è arretrata, inefficiente, corrotta. È governata da baronie che mescolano uso spregiudicato del potere e nepotismo. Insegna poco e male. Sforna disoccupati i quali non sapranno cosa fare del pezzo di carta ottenuto ed entreranno rapidamente nel vizioso circolo del clientelismo. Di fronte a tale scenario sconfortante si può solo sperare in una ricostruzione ab imis fundamentis, preparata da un diluvio che spazzi via gli incompetenti ed i corrotti che imperversano. Nel frattempo sempre secondo la vulgata non c è alternativa per i giovani meritevoli che l emigrazione, quella fuga dei cervelli che impoverisce il nostro paese. All estero solo all estero potranno ricevere una vera istruzione universitaria, farsi valere e lavorare senza sottostare a umilianti vassallaggi. Beninteso per chi è convinto e lo urla ogni giorno ai quattro venti che l Italia è uno dei paesi peggiori al mondo: povero, ingiusto, senza libertà, corrotto e in mano a cricche criminali e politiche fra di loro alleate, è ovvio che l Università è solo una delle tante manifestazioni del malaffare nazionale. Come la scuola, la sanità, la pubblica amministrazione,

8 2 Il luogo comune Introduzione 3 i trasporti essa merita solo disprezzo. Ma verrà un giorno in cui le teste dei baroni rotoleranno nei cesti o almeno i loro polsi saranno stretti dalle manette ed il neo-proletariato intellettuale che ha vissuto per decenni fra stenti ed abusi prenderà il sopravvento inaugurando una nuova stagione di libertà. Chi invece guardi alla realtà con occhi meno offuscati si pone una semplice domanda: com è possibile che un paese che da decenni è fra i più produttivi del mondo, nel quale il tenore di vita è arrivato a livelli mai visti prima, nel quale la quasi totalità dei cittadini ama vivere e non pensa minimamente di emigrare abbia una università così disastrosa? È possibile che tutto il marcio si sia concentrato in una settantina di luoghi sparsi per il paese, esercitando una forza centripeta quasi fossero dei catalizzatori di sporcizia? Un marziano che guardasse dal suo pianeta verso lo stivale sarebbe piuttosto sorpreso da una simile conclusione. In società aperte, all interno e verso l esterno, articolate in una molteplicità di attività, enti, istituzioni largamente indipendenti fra di loro, è difficile che tutto il peggio o il meglio si racchiuda in un solo luogo. E poi, se davvero le cose stessero come ci vengono raccontate, perché mai centinaia di migliaia di giovani si affannerebbero ad iscriversi, a studiare libri pesanti e indigesti, trascorrere alcuni degli anni più belli della vita in luoghi inconcludenti e mefitici? Si va a scuola perché si è obbligati, in ospedale perché malati, si prendono i trasporti pubblici perché bisogna andare in un luogo. Ma nessuno li costringe ad affollare le aule degli atenei: sono solo stati abbindolati da padre Dante, ma invece di virtute e canoscenza, generazione dopo generazione imparano a loro spese che sarebbe stato meglio viver come bruti? E poi perché mai un certo numero di costoro, dopo anni trascorsi nelle università come studenti, decidono di protrarre la loro permanenza in questo luogo di nequizie, come se fossero sotto un oscuro incantesimo o fossero vincolati da una ancestrale servitù della gleba? Il buon senso ci dice allora che le cose probabilmente non stanno come si vorrebbe far credere. E questa impressione viene confermata se leggiamo con attenzione i dati sui nostri laureati, sul loro accesso al lavoro, sul loro reddito, sul loro giudizio sull università che hanno frequentato. Dati che forniscono un quadro ben diverso, ovviamente segnato da luci e da ombre, ma complessivamente positivo. Evidentemente la ricetta della nonnina, come l acqua calda o l ombrello, non ha bisogno di essere reinventata. C è già chi la conosce e la mette in pratica, senza che siano necessari super-poteri o furori ideologici. Di qui l utilizzo, nel titolo di questo lavoro, di un aggettivo comparativo, migliore, il quale vuole suggerire che nel nostro paese vi è già, diffusamente, una buona università che può e deve essere rafforzata nelle sue qualità. Ancora una volta conviene avvertire che gli aggettivi usati sicuramente esprimono valutazioni soggettive, le quali dipendono da una molteplicità di fattori: cosa ci si attende da una università; qual è il suo ruolo nella formazione di persone dotate di conoscenze avanzate; come si confrontano il livello dei laureati e quello della ricerca; che importanza dare al giudizio degli utenti. Variando questi fattori il risultato finale può cambiare, ed anche di molto. Tuttavia una avvertenza è necessaria: chi pensa che ci sia un unico metro per misurare la qualità delle istituzioni universitarie, applicabile indistintamente a Chicago e ad Osaka, a Helsinki o a Torino commette un grave errore. E se la proposta del metro unico proviene come spesso capita da accademici questo fa sorgere un legittimo dubbio in ordine alla qualità delle metodologie delle scienze sociali che hanno imparato, piuttosto che su ciò che si sforzano di misurare. Se misurazioni e confronti si devono fare e come si devono fare! converrà distinguere fra situazioni profondamente diverse (una facoltà di medicina ed una di lettere); scienze universali (la matematica) e ambiti legati al territorio (la storia); tenere conto dei fattori linguistici come dell organizzazione degli studi, sia prima che durante l università. Certamente va evitato il provincialismo di chi pensa di essere il migliore al mondo, perché appunto non ha messo piede fuori casa e dunque ignora che esiste un mondo al di fuori di essa. Ma parimenti occorre fuggire dal suo opposto, l esteromania che porta a ritenere, a priori, che ciò che succede fuori casa sia meglio. Più prudente e più attendibile appare dunque il confronto all interno di una realtà nazionale, e fra questa con la realtà di altri paesi in cui i punti di partenza e di arrivo

9 4 Il luogo comune sono omogenei. Peraltro scopo di questo lavoro non è quello di distribuire medagliette o penitenze, ma molto più semplicemente illustrare alcune semplici letture che possono contribuire a migliorare l università italiana. Se poi questa davvero non è all altezza di un giudizio positivo, vorrà dire che la ricetta potrà aiutare a conseguirlo. Insomma, messa da parte la pubblicistica arrabbiata e apocalittica, il principale difetto di una parte consistente di quella colta sta nella assolutezza dei parametri valutativi che utilizza, i quali impediscono di vedere quanto di buono c è e prospettano modelli per un verso irrealistici, per altro verso sotto molti aspetti opinabili. Il risultato cui pervengono entrambi i filoni è tuttavia identico: diffondere l idea che l università italiana, per sintetizzare il giudizio con una battuta, fa schifo. Su questo terreno la contestazione, anche violenta, di minoranze politiche trova la propria giustificazione; mentre chi ci lavora perde ogni motivazione: perché impegnarsi in un impresa in stato pre-agonico? Questo breve lavoro vuole puntare i riflettori su alcuni aspetti, solitamente negletti, che invece possono costituire dei punti di forza sui quali lavorare, senza bisogno di tanti apporti esterni ma facendo affidamento sulle risorse, umane e materiali, che già esistono. Capitolo primo A che cosa serve l università a) L università, un prodotto nazionale La critica alla fiorente pubblicistica distruttiva e la (ri)proposizione della ricetta della nonnina richiede una precisazione in ordine a quale idea di università si abbia in mente, quali i suoi mezzi, quali i suoi fini. Chiaramente ve ne possono essere tante, variabili nel tempo e nello spazio, tutte legittime posto che nessuna legge divina ha stabilito, per fortuna, come deve essere fatta e retta l università. Non si vuole fare sfoggio di un patetico orgoglio nazionale ricordando, però, che l idea di università, nel mondo occidentale, nasce in Italia, a Bologna, sul finire del XI /inizio XII secolo, e si diffonde rapidamente in tutta Europa. Lo si dice perché la fonte della ricetta non è esotica, ma vicina geograficamente e culturalmente a noi. Mille anni fa come oggi, giovani d ogni parte si radunano in un luogo per apprendere cose che non sanno e che pensano possa servire loro per una esistenza più ricca, economicamente e intellettualmente. L università nasce come un luogo di libertà: di pensare, di apprendere, di organizzarsi, di comportarsi. C è molta retorica, anche stucchevole, nella storia dell università, ma l elemento della libertà rimarrà costante e caratterizzerà questa organizzazione sociale (l università, appunto) per la scarsa propensione verso le gerarchie e le formalizzazioni amministrative. Si tratta di un fattore che sarebbe il caso di tenere a mente, soprattutto quando si propone di regolamentare l università immaginando che sia popolata di soldatini od operai che rispondono obbedienti agli ordini che provengono dall alto.

10 6 Capitolo primo A che cosa serve l università 7 La sociologia dell organizzazione universitaria, così semplice nei secoli e senza distinzione di frontiere, dice molte più cose di quanto tanti esperti ritengono, e soprattutto evidenzia la sua scarsa permeabilità ad approcci normativistici. b) L università come comunità Se c è un altra cosa che la storia e le vicende attuali ci insegna è che l università è, in primo luogo, una comunità di persone, che pur da prospettive diverse puntano ad obiettivi comuni. L approccio comunitario non ha alcuna connotazione ideologica, ma è un dato di fatto: quando un gruppo consistente di persone sono legate da rapporti di interazione, in maniera continuativa, per un numero consistente di anni vengono a crearsi delle dinamiche sociali ben diverse da quelle che normalmente avvengono in un mercato o nella erogazione di altri servizi pubblici, nei quali rilevano la occasionalità e la mutevolezza delle scelte. Nell università almeno in Europa (ma, in maniera significativa anche negli Stati Uniti) si è docenti per la vita, cominciando da giovani e progressivamente incanutendo, mentre gli studenti hanno sempre la stessa fascia di età. E una volta che lo studente si iscrive ad una università a parte gli abbandoni ed i rari trasferimenti vi rimane fino a quando non si laurea. Non si tratta di due corpi separati e casualmente accostati: essi interagiscono costantemente mettendo in moto delle dinamiche che talvolta possono essere antagonistiche, ma il più delle volte sono cooperative. Il senso di appartenenza ad una comunità che è una delle caratteristiche più distintive del mondo anglosassone, rispetto al modello mediterraneo, che guarda più al nucleo famigliare costituisce uno degli elementi vivificanti nei secoli delle istituzioni universitarie. Ed esso si fonda non tanto sul reciproco interesse, ma su un bisogno intellettuale che il mondo occidentale racchiude da più di tre millenni nel mito di Prometeo. L università come luogo di dialogo, discussione, approfondimento, scoperta, spesso senza un fine predeterminato ed in larga misura confidando nella universalità della conoscenza e nella casualità dei percorsi che portano ad allargarla, individualmente e collettivamente. Beninteso si tratta di una comunità aperta anzi apertissima al resto della società, ma se essa non esiste o la sua percezione è debole, essa non potrà mai svolgere il suo ruolo. c) Le due gambe dell università Tornando però ad un modello condiviso di università, si può dire che l università ha come fine la formazione di conoscenze specialistiche di livello elevato, necessarie in società complesse ed evolute. L università ne attesta l apprendimento, seleziona in base alle capacità e il merito, rende più fluido il mercato del lavoro favorendo l incontro fra chi ha talune competenze e chi cerca persone che ne dispongano. Se questi compiti possono apparire quasi banali, si immagini per un istante come funzionerebbero le società contemporanee senza di esse. Per conseguire questi scopi l università dispone, metaforicamente, di due gambe, fra di loro coordinate, la didattica e la ricerca. Gambe molto antiche se, come scrive verso la metà del 200 uno dei fondatori della Scuola di Bologna, studendo coepit docere. Mentre la prima è comune a tutte le istituzioni impegnate nell istruzione, la seconda costituisce la caratteristica dell università e ne è, sempre metaforicamente, il combustile. Senza ricerca l università è un luogo di mera trasmissione di conoscenze acquisite altrove, con un elevato tasso di obsolescenza. La ricerca fa sì che le nuove frontiere che vengono raggiunte nelle diverse discipline, appena consolidate, vengono trasferite attraverso la didattica aggiornando costantemente i suoi contenuti. Questo processo assume un rilievo centrale nelle società contemporanee. Passati dall economia dei beni primari, prodotti dalla terra e soggetti ad una modesta trasformazione, all economia secondaria fondata sulla rivoluzione industriale, per arrivare all economia del terziario, fondata sui servizi, il cuore della riflessione batte da alcuni decenni sulla conoscenza come il bene di maggiore valore e che viene prodotto attraverso un processo circolare ascendente. Le informazioni si intersecano

11 8 Capitolo primo A che cosa serve l università 9 con l esperienza pratica, generando nuove informazioni che vengono organizzate in modo sistematico suscettibile di essere utilizzate, attraverso un costante affinamento e miglioramento. Se questo processo è particolarmente evidente in talune branche tipicamente la medicina esso caratterizza anche le altre discipline, secondo dinamiche incrementali che hanno contraddistinto gran parte dell evoluzione dell umanità. d) Università e società della conoscenza Se la conoscenza costituisce la autentica ricchezza delle società contemporanee, le università sono uno dei luoghi principali ove essa viene creata, distribuita, rigenerata, certificata. Le università sono luoghi da sempre vocati a mettere a frutto la conoscenza che, secondo la classificazione degli economisti, è un bene pubblico: non esclusivo, non consumabile. In concreto l università è produttrice in proprio di conoscenze, ma per farlo attinge a quelle di altri luoghi produttori di conoscenze, in primo luogo di altre università. Attraverso la didattica le mette in circolo, formando persone che entreranno nelle varie attività con livelli di conoscenza più avanzati. Il confronto fra vecchio e nuovo darà vita ad una dialettica la cui sintesi contiene elementi dell uno e dell altro. Se, dunque, si vuole dare una lettura economicistica dell università, sarebbe opportuno considerare che essa è uno fra i principali luoghi di produzione della ricchezza contemporanea. Questa ricchezza va misurata, per quanto possibile, utilizzando non solo criteri di valutazione formalizzati (tipicamente: i brevetti che vengono registrati) e altri modelli contabili (il rapporto fra entrate e uscite) ma anche una serie di esternalità positive che apportano benessere materiale ed intellettuale a tutta la comunità. Se ne tratterà più diffusamente oltre, ma fin d ora va evidenziato come uno dei principali difetti di talune letture fortemente critiche del sistema universitario italiano sia quello di trascurare l approccio di economia della conoscenza e le implicazioni di social welfare. e) L università come servizio pubblico Con ciò si ritorna al tentativo di individuare i fini dell università nelle società contemporanee. A mo di postulato si può affermare che si tratta quantomeno in Europa, ma in generale in gran parte del mondo di un servizio pubblico. Il termine servizio pubblico ha assunto nel corso dell ultimo secolo una pluralità di significati, anche mutevoli nel tempo. Ciò che si vuole indicare, in questo libro, è che l università, al pari di altri servizi educativi (prima fra tutti la scuola), oppure della sanità, di talune forme di trasporto (come quello locale), viene offerto da soggetti pubblici, o sotto un penetrante controllo pubblico, per soddisfare esigenze che nelle società vengono considerati di importanza primaria anche per i diritti che vi sono sottesi (l istruzione, la salute, la possibilità di circolazione, appunto). L economia dei servizi pubblici è significativamente diversa da quella delle imprese private che forniscono servizi analoghi nel senso che, anche se non si tratta di servizi privi di prezzo, si dà per acquisito che il loro costo complessivo sarà posto a carico della collettività. È chiaro che ciò ha rilevanti implicazioni politiche, in quanto incide sul prelievo fiscale e sulle scelte redistributive compiute dagli elettori e dalle istituzioni che li rappresentano. Tale scelta non è certamente irrazionale, salvo pensare che la razionalità risiede solo in chi opera in un ambiente rarefatto dove le decisioni vengono assunte esclusivamente utilizzando il bilancino del dare e dell avere. Se si ritiene preferibile porre a carico del contribuente il costo dell università (come anche della scuola e degli ospedali) è perché si ritiene che esso produca, e sia in grado di produrre, effetti di beneficio generale, che poi è lo scopo dello Stato, almeno dal XVIII secolo in poi secondo talune non disprezzabili, nè tramontate, teorie politiche. f) I limiti del confronto Europa-USA A questo modello si oppone talvolta con propositi polemici quello statunitense, fondato prevalentemente sulla struttura privata delle

12 10 Capitolo primo A che cosa serve l università 11 università, senza oneri a carico dello Stato e basato su una sana logica di bilancio. Dalla grande ed entusiasmante, sotto tanti aspetti, esperienza americana si possono e si devono trarre molti ammaestramenti. Il primo dei quali è quanto valore, non solo economico, si attribuisce all istruzione; al giusto rapporto fra qualità dei servizi resi e loro corrispettivo economico; la costante spinta verso il miglioramento; le valutazioni basate sul merito dei singoli e delle istituzioni. Ma è bene evidenziarlo tutto ciò non è necessariamente una esclusiva di quel modello e lo si trova anche, sotto forme diverse, in Europa ed in Italia. In primo luogo va rimarcato che il sistema universitario statunitense in larga misura ricalca un generale modello sociale che attribuisce ai privati il compito di erogare taluni servizi sociali essenziali. L università non è diversa dalla scuola, dalla sanità, dalla previdenza. Nel complesso gli americani non amano politiche fiscali redistributive e preferiscono pagare meno tasse utilizzando i risparmi per acquistare quei servizi che in Europa sono offerti dalla fiscalità generale. In questo c è un consapevole esercizio della democrazia: se gli have not sono numericamente superiori agli have, perché non votano per un modello social-democratico? Chiaramente i cittadini americani, soprattutto quelli che aspirano ad un miglior tenore di vita, preferiscono wealth domani piuttosto che welfare oggi. E specularmente i cittadini europei altrettanto consapevolmente hanno optato per una soluzione diversa. Ed è poco utile e credibile sostenere che si tratterebbe di scelte irrazionali e inefficienti, quando sono compiute da qualche centinaio di milioni di persone, sotto cieli diversi e liberi di votare e determinare il proprio governo. Il modello americano trova poi le sue radici profonde in quell etica calvinista che ne plasmò le origini. Se da un lato occorre far fruttare i talenti che si sono ricevuti, una volta che questi siano diventati una fortuna la responsabilità morale impone di distribuirne una parte alla comunità. E negli Stati Uniti restiamo sempre ammirati per i musei, gli atenei, gli ospedali, i parchi, le fondazioni, nati dalla munificenza privata e che svolgono compiti che in Europa vengono svolti dallo Stato. Se vogliamo, non metaforicamente, guardare al soldo occorrerebbe chiedersi quanto di risparmiato dalle tasse le famiglie americane spendono per l istruzione dei figli; quanto incide l indebitamento degli studenti americani per pagarsi le rette universitarie sul loro ingresso sul mercato del lavoro. E confrontarlo con la spesa pubblica europea per l università. E, alla fine, stabilito questo costo complessivo confrontarlo con il risultato: la qualità dei laureati. Cosa sono in grado di fare, come affrontano le sfide, quale sarà la loro progressione economica e sociale? Non si tratta di affermare la superiorità di un modello su un altro, ma semplicemente di capirne la reale natura e la sua interdipendenza con altri fattori. Pare piuttosto evidente che in paesi nei quali la pressione fiscale si aggira intorno al 50% (e più) del reddito, solo coloro che sono molto abbienti possono o potrebbero permettersi di spendere ogni anno intorno ai euro per una istruzione universitaria privata, la quale peraltro viene fornita dallo Stato ad un decimo del prezzo (se non meno). L importazione del modello americano, da più parti suggerita, è, dunque, come l espianto del cuore di un leone ed il suo trapianto nel corpo di un elefante. È ozioso discutere su quale dei due animali sia superiore, e dunque invocare il sopravvento di una specie e l estinzione di un altra. È utile, invece, partendo dall assunto che al di qua e al di là dell Atlantico le università hanno il medesimo compito, vedere quali pezzi del loro complesso meccanismo possono essere trasferiti e sperimentati con successo in altri sistemi. Lo scambio, è bene chiarirlo, non è unidirezionale e ci sono molto cose che i pur grandi e ricchi Stati Uniti d America possono ancora imparare dalla vecchia Europa e, persino, dalla piccola Italia. Si può, a questo punto, passare ad esaminarne i vari ingredienti di buona università, che punta a migliorare le sue prestazioni.

13 Gli studenti 13 Capitolo secondo Gli studenti a) Sono i buoni studenti che fanno i buoni professori Quando i professori scrivono di università subiscono una compulsione interiore che li porta ad attribuire il ruolo di primo attore/prima donna alla propria categoria. Sono i professori che fanno l università, che la possono salvare come la possono distruggere. Ed attorno ad essi, e alle loro vicende dal reclutamento al governo degli atenei tutto si riconduce. Tale visione appare frutto di una notevole ipertrofia dell io, per certi versi soggettivamente comprensibile ma piuttosto lontana dalla realtà. A rischio di proporre un paradosso si dovrebbe dire che sono i buoni studenti a fare una buona università (e dunque a fare dei buoni professori) e non viceversa. Il paradosso va smussato considerando che si tratta di una relazione biunivoca e circolare nella quale i veri soggetti interagiscono (positivamente o negativamente) fra di loro. Non è dunque sbagliato partire dagli studenti. A qualcuno verrà da esclamare Bravi studenti? Ad averne!. Tale atteggiamento riflette uno dei più pervicaci modi di pensare dell umanità: ciascuna generazione, raggiunta la maturità ed avviandosi verso la senilità, ritiene che la generazione che la segue sia composta da persone ignoranti, incapaci, irrispettose. E questo sentimento è particolarmente acuito in tempi di rapido cambiamento: chi non riesce a comprendere o accettare i tempi nuovi si esprime negativamente nei confronti di coloro che ne sono i protagonisti. Ora si può dire, quasi da che mondo è mondo, che ogni padre ritiene il proprio figlio uno scapestrato fannullone, pieno di idee balorde. Ed ogni madre pensa che la propria figlia sia per dirla con parole di una volta immodesta, interessata solo ai divertimenti e ad amoreggiare con detestabili coetanei senza né arte né parte. Ma, se davvero le cose stessero così, l umanità sarebbe avviata verso una inarrestabile regressione, perdendo ogni conoscenza e capacità. Invece il percorso è inverso e, col metro dei tempi lunghi, da mille anni in Europa ogni generazione ha fatto dei passi avanti. Forse che gli inventori, i riformatori, i creatori di nuove filosofie che hanno superato quelle del passato venivano da un altro pianeta? Forse si tratta(va) di una eletta schiera che a dispetto dell imbarbarimento collettivo ha cambiato il corso della storia? Se si giunge alla conclusione che i conflitti generazionali fanno parte della nostra psiche e rispondono a meccanismi di autodifesa di chi si vede franare il terreno sotto i piedi, è meglio lasciare talune ricorrenti litanie alle deliziose commedie del Goldoni dove costituiscono l anima del divertimento. Non c è dunque nessun motivo per ritenere che gli odierni studenti universitari siano più stupidi o svogliati di quelli di una o due generazioni fa. Quello che non va non è la loro giovinezza bensì l età che hanno raggiunto le menti e gli occhi di chi li guarda. Questo non vuole dire avere un atteggiamento concessivo o, peggio, permissivo nei loro confronti. Anzi! Ma comporta valutare ciò che veramente conta e non ciò che se uno si guarda alle spalle era il modo con il quale si era visti dai propri genitori. b) Cominciare dalle scuole superiori Si parta dunque dalla considerazione che gli studenti di oggi non sono né migliori né peggiori di quelli del passato, e che dovranno imparare molto di più per affrontare una società più complessa. Come fare, dunque, per avere dei bravi studenti che migliorino l università? La prima risposta, apparentemente ovvia, è fare in modo che siano ben preparati nella e dalla scuola superiore. A questa considerazione si replica, solitamente, con un sorriso di compatimento, un gesto sconsolato, un garbato invito a sognare altrove.

14 14 Capitolo secondo Gli studenti 15 Anche in questo caso si coglie la pretesa ed autoattribuita superiorità dell università rispetto ai precedenti livelli di istruzione. L educazione e l istruzione sono, invece, un continuo di evoluzione e di formazione e non sarebbero pochi i pedagogisti che, al contrario, porrebbero al vertice dell importanza la scuola materna rispetto all università. Dunque quest ultima è interessata deve interessarsi a quanto avviene nella scuola superiore. Anziché cimentarsi nelle consuete geremiadi sugli studenti che fanno grossolani errori di grammatica e di sintassi; che sono incapaci di superare un semplicissimo test di matematica etc. etc. sarebbe forse il caso di chiedersi: cosa può fare l università per migliorare la scuola superiore? E le risposte in larga parte ci sono già: intensificare i rapporti negli ultimi due anni delle superiori, favorendo l orientamento e l emergere delle vocazioni. Trasmettere l idea che quello che può apparire un gradino finale, in realtà è quello iniziale per realizzare le proprie ambizioni. Questo in larga misura già lo si fa, e chi lo fa con attenzione è in grado di misurare i risultati. Ma quel che occorre soprattutto sono modi diversi di guardare dall università verso le scuole superiori. In primo luogo, abbandonando la fastidiosa supponenza del professore universitario l unico vero, autentico e certificato Professore verso chi insegna nelle scuole superiori fra mille difficoltà logistiche e di sistema, a fronte di una retribuzione a dir poco modesta. E non si tratta di una questione di bon-ton sociale, di benevolenza da dispensare generosamente verso classi di docenti ritenute svantaggiate. Significa valutare, criticare, stimolare, incoraggiare quanto viene fatto nelle scuole superiori, lavorando assieme per il raggiungimento di obiettivi che sono comuni. Basta, per cominciare, una azione semplice: segnalare a ciascun liceo o istituto la progressione di carriera dei loro studenti nel curriculum universitario, indicando livelli medi e punte di eccellenza e chiedendo che chi sta dietro si ponga degli obiettivi di miglioramento. Il secondo sguardo che andrebbe rivolto con maggiore lucidità è alla qualità comparativa dei diplomati delle scuole superiori italiane. Chiunque ha un minimo di esperienza di insegnamento all estero oppure ha dimestichezza con i non pochi studenti stranieri che vengono per un breve periodo presso le università italiane nel quadro degli scambi Erasmus, può toccare con mano un dato di fatto: uno studente di medio livello uscito da un liceo italiano è decisamente migliore dei suoi coetanei usciti da analoghe scuole di gran parte degli altri paesi dell Unione Europea, a cominciare dal fin troppo sopravvalutato Regno Unito. Non parliamo poi del confronto fra un liceo italiano e uno studente di una buona high school statunitense. c) Limiti e pregi di una cultura umanista Certamente e test empirici lo confermano l insegnamento delle materie scientifiche, a partire dalla matematica, è uno dei punti dolenti della scuola superiore italiana con il risultato che nelle aree dove più ci sarebbe bisogno di tali capacità l ingegneria, l informatica siamo in cronico deficit. Ma se è consentito azzardare una ipotesi questa non è una responsabilità della scuola italiana e dei suoi insegnanti. Come è stato da più parti sottolineato, il dominio intellettuale che per quasi mezzo secolo hanno esercitato sulla cultura italiana due grandi filosofi idealisti, Gentile e Croce (entrambi, in momenti diversi, con responsabilità anche politiche) ha generato, inter alia, un generale disinteresse se non una ostilità verso la scienza ed il pensiero scientifico, i quali si pongono agli antipodi, con la loro logica induttiva, rispetto al dogmatismo della concettuologia. Se dunque la cultura italiana ha una forte propensione ai piani bassi verso il chiacchericcio e ai piani alti verso l onanismo intellettuale, non è colpa della scuola se non viene data a differenza di altri paesi una importanza centrale alla matematica e alle scienze teoriche ed empiriche e di conseguenza alla formazione in questi campi. A questo limite considerevole fa però da contrappeso il punto di forza della scuola italiana: proprio per via di quella impronta idealista essa è permeata da una generale visione umanista, con la creazione di un quadrilatero di conoscenze fra di loro unite, costituito dalla storia, dalla filosofia, dalla letteratura e dalle lingue antiche. Questo significa

15 16 Capitolo secondo Gli studenti 17 che ogni anno in Italia centinaia di migliaia di giovani studiano le radici del mondo occidentale apprendendo i suoi blocchi fondanti e la inscindibile connessione evolutiva che la caratterizza da circa tremila anni. Qualcosa che è totalmente mancante se non con riguardo alla propria letteratura nel mondo anglosassone dove tutto questo è oggetto di un bricolage dai risultati modestissimi. In altri paesi europei in particolare in Francia ed in Germania si seguono percorsi analoghi all Italia, ma la nostra peculiarità, racchiusa nel liceo classico, è il legame fra lingua greca e latina e le loro espressioni di pensiero e di arte. Ovviamente bisogna essere consapevoli e saper trasmettere questa convinzione che il latino ed il greco non sono lingue morte, ma consentono di comprendere come l uomo occidentale sia tutto racchiuso nell odissea di Ulisse disposto a sfidare i nemici, la natura e persino gli dei per ottenere quel che ritiene il suo diritto; come l umanità ancora, e per sempre, sarà fatta di conflitti fra individuo e ordine, fra passione e ragione scolpiti nelle tragedie greche; come l esperienza romana è l archetipo di ogni impero successivo e attraverso la sua storia siamo in grado di interpretare realisticamente le dinamiche ed i fallimenti dell attuale impero statunitense. La digressione potrebbe sembrare fuor d opera se non fosse che consente di comprendere perché un gran numero di studenti universitari italiani, comparativamente, dispongono di un bagaglio di conoscenze all apparenza non congruenti con taluni percorsi di studio, ma che in realtà consentono loro di eccellere purché... d) Gli studenti come fruitori di un servizio Abbandonate le giaculatorie sui bei tempi andati e sulla decadenza cui siamo inevitabilmente destinati, si parta dalla constatazione che l università italiana dispone di un largo numero di studenti che hanno i mezzi intellettuali per affrontare con successo studi avanzati. Per valorizzare questo patrimonio di partenza non occorrono miracoli, ma semplicemente alcuni elementi lievitanti naturali, che contribuiscano a disperdere mentalità, qui davvero, sorpassate. Uno dei più diffusi preconcetti è quello di trattare per un verso gli studenti come dei soggetti inerti nella elargizione del sapere da parte dei professori; e per altro verso, contemporaneamente, quasi mossi da un senso di colpa, giustificare e legittimare ogni loro mancanza. Ritenere che gli studenti siano, in partenza, capaci non implica che essi debbano essere blanditi e vezzeggiati, né può eliminare la distanza fra chi sa e deve insegnare quel che sa e chi non sa e deve imparare. Mentre la scuola è per definizione legale il luogo dell obbligo, l università è il luogo della (auto)responsabilità. Il primo compito dei professori è convincere gli studenti che ciò che stanno studiando è importante per loro e per il loro futuro; che sono dei privilegiati rispetto alla stragrande maggioranza dei loro coetanei che l università non la vedranno mai o che l abbandoneranno; che quel che oggi costa uno in termini di fatica domani costerà cento; che per ogni lezione che perdono buttano via i soldi che hanno già pagato (in media fra i 2 e 3 euro per ora). Il generale approccio oggi è, a dir poco, primitivo e prescinde del tutto da come oggi si configura il rapporto di cittadinanza. Gli studenti sono cittadini maggiorenni che pagano per ricevere un servizio pubblico comprensivo di lezioni, esami, materiali didattici, orientamento nelle varie fasi della loro carriera, servizi bibliotecari fisici e digitali, spazi di studio, luoghi di incontro, di ristorazione, di attività culturale e sportiva extra-curriculare. Valutarlo solo sui primi due profili è davvero riduttivo. Questo servizio pubblico si distingue da altri (come la sanità e i trasporti) perché richiede una attiva cooperazione dei suoi destinatari. Il servizio del docente è del tutto inutile se colui cui è rivolto non studia. Alla fine della degenza il paziente, che lo voglia o no, viene dimesso; alla fine del viaggio l utente scende dal treno. Per lo studente la fine del servizio dipende dal superamento delle prove volte ad accertare che effettivamente abbia acquisito quelle conoscenze inerenti al servizio stesso. In questa necessaria interazione sta l essenza del servizio universitario: come fare in modo che lo studente possa effettivamente acquisire ciò per cui ha pagato e che dall esterno gli si richiede sappia?

16 18 Capitolo secondo Gli studenti 19 Per questo non ci sono pietistiche scorciatoie da proporre; e quelle che vengono offerte sul mercato da talune imprese private sono delle vere e proprie truffe per quel che costano e per quel che (non) danno. e) L anacronistica concezione tributaria Ma se è ovvio a chiunque guardi l università all interno di una società moderna che il rapporto fra studenti e istituzione è quello tipico fra utente ed erogatore di un servizio, questa percezione ancora sfugge al legislatore italiano il quale, imbarcandosi ciclicamente in faraonici progetti di riforma, trascura la circostanza che ha dell incredibile che il rapporto fra lo studente ed il suo Ateneo è di natura tributaria. Ciò che viene pagato è, lo dice il nome, una tassa universitaria e dunque lo studente si trova nel recinto sorvegliato e rigidissimo, del fisco. Dunque non è un utente, con precisi diritti (e responsabilità come si è visto), bensì un contribuente, che deve solo pagare. Tale impostazione ha, ovviamente, delle deleterie conseguenze sul governo del sistema universitario che anziché ragionare in termini di qualità ed efficienza, deve comportarsi da gabelliere di tasse decise da un sovrano distante e indifferente. In questo quadro assumono la natura di gargarismi retorici i discorsi sulla partecipazione degli studenti alle decisioni sul governo dell universitaria. Fuori della gabbia impositiva i cittadini partecipano, come si dice in America, con i piedi, e cioè semplicemente muovendosi per scegliere quel servizio che appare più confacente alle loro specifiche esigenze. Una volta riconosciuti gli studenti come utenti e non come tartassati ne consegue, naturalmente e senza bisogno di rivoluzioni, tutto ciò che questo status comporta: carte dei servizi, livelli misurabili della qualità, verifiche della soddisfazione, confronti fra atenei basati su questi dati, politiche di fidelizzazione nei confronti di chi è studente, lo è stato, lo sarà. La forte identificazione di un ateneo con il territorio, il suo vivere in simbiosi con una comunità, il saper creare fra i suoi studenti una duratura rete di rapporti che conta soprattutto quando gli studi sono finiti, richiede in partenza una leale intesa fra chi eroga il servizio educativo e chi lo sceglie fra tanti altri ed è messo in grado di valutarne la qualità. Occorre ribadire che la qualifica di utente attribuita agli studenti non è né una concessione, né risponde ad una visione populistica dell università. Se il rapporto deve basarsi su una intesa leale, occorre anche sgombrare il campo dal vergognoso inganno secondo cui qualsiasi diplomato può iscriversi all università. È ovvio che questo sta bene allo stato-gabelliere il quale è contento se cresce il numero di coloro che pagano le tasse universitarie, ed ancor più contento se questi le pagano, ma non usufruiscono dei servizi offerti, e dunque non aumentano in alcun modo il carico di lavoro. Come pure sta bene allo stato-statistico il quale può ridurre il numero dei disoccupati inserendoli nella casella degli studenti. f) La truffa del diritto allo studio Pare ormai entrato nella sfera di percezione anche dei più ottusi che l accesso libero all università, camuffato dalle altisonanti e false parole di diritto allo studio, costituisce, come tutte le politiche demagogiche, il peggior nemico di chi, asseritamente, si dice di voler proteggere. Il risultato di circa 40 anni di accesso libero è che coloro che all interno della classi sociali più svantaggiate non avevano nessuna, neanche lontana, attitudine allo studio universitario sono stati abbindolati a comprare il biglietto di una lotteria che non avrebbero mai potuto vincere, ed i cui ricavi sono andati a favore di coloro che, appartenendo a classi economicamente e culturalmente meno svantaggiate, potevano in qualche modo sopperire alle loro deficienze accademiche. I più poveri dunque hanno pagato gli studi degli abbienti. Una semplice correlazione ormai disponiamo di decenni di statistiche fra scuola superiore di provenienza ed abbandoni mostra come la politica dell accesso libero si è rivelata avere la credibilità del venghino, venghino dell imbonitore in una fiera di campagna. Che poi ci si lamenti della mortalità studentesca quando si sono aperti i cancelli a tutti, è come prima scoraggiare

17 20 Capitolo secondo Gli studenti 21 l uso dei profilattici e poi lamentarsi che in Africa milioni di bambini nascano (e poi muoiano) con l AIDS. La risposta a questo vero e proprio inganno non è in una politica malthusiana. Per questo basta guardare alla recessione demografica del nostro paese. Gli strumenti esistono già e sono semplicissimi. I test di accesso da sostenere prima della iscrizione, e che la legge da tempo impone, sono in primis un imperativo etico per l università. Senza neanche bisogno di ricorrere a complesse pianificazioni le quali consentono l adozione del numero chiuso, il serio svolgimento di una prova volta a cogliere reali capacità ed incolmabili lacune, eviterebbe un enorme spreco di risorse umane e materiali, per il singolo e per la collettività. Dietro il fenomeno degli abbandoni ci sono centinaia di milioni di euro sprecati per tasse, per testi, per mobilità. Centinaia di migliaia di ore che avrebbero potuto essere impiegate, almeno in parte, in attività lavorative o di formazione al lavoro. Ma soprattutto vi sono sogni ed ambizioni che vengono demoliti e generano frustrazione individuale e sociale. g) Il ruolo dell orientamento Anche qui l ingrediente lo offre la legge la quale prevede che nei test di accesso venga attribuito un valore, fino al massimo di un quarto, ai risultati conseguiti nella scuola superiore. Il che ovviamente crea una spirale virtuosa fra scuola e università e sprona studenti e insegnanti delle superiori a fare meglio. Chiedere che l università svolga una attività di orientamento all ingresso incoraggiando, indirizzando, dissuadendo implica il riconoscimento che, per fortuna, gli studenti sono diversi fra di loro ed il primo compito dell educatore è cogliere le potenzialità racchiuse nelle differenze, ma anche i limiti che ciascuno foss anche un genio ha. Una appropriata opera di orientamento prima della scelta universitaria si accompagna al servizio di orientamento in itinere. Accanto ad attività ovvie consigliare in ordine ad indirizzi, propedeuticità, tesi la sfida principale consiste nell individuare precise azioni volte a contrastare il fenomeno degli abbandoni e a porre dei concreti (in termini percentuali) obiettivi di riduzione del numero di quanti perdono il passo e progressivamente spariscono dalla vista della loro coorte. Il ragionamento è semplice: se lo studente è un utente, se per scegliere questo studente sono state impiegate risorse finanziarie ed organizzative (pubblicità, test), occorre fare di tutto per mantenere lo studente in corso. Il monitoraggio degli esami sostenuti, soprattutto nel primo anno (quello più a rischio) dovrebbe imporsi come la speciale cautela che si ha in un reparto di neonatologia. La segnalazione del ritardo, la manifestazione, non paternalistica, della preoccupazione dell Ateneo per la situazione; l offerta di servizi didattici di recupero; sono tutte azioni che ormai sono a portata di mano grazie alle nuove tecnologie informatiche e telematiche. È ovvio che se al secondo o terzo anno ci si accorge che il 20% degli iscritti è morto, ed un altro 30% annaspa lontanissimo dalla pur ravvicinata meta di una laurea triennale, i soccorsi giungeranno troppo tardi. Soprattutto il tempestivo rilevamento statistico dovrebbe far comprendere dove e perché si sta sbagliando: nei test di accesso? Negli indispensabili esami fondamentali? Nella distribuzione del carico didattico? Domande che in qualsiasi organizzazione produttiva (e l università produce conoscenza) sollecitano risposte e reazioni. Se si guarda allo studente non come una pecorella da tosare (il contribuente) o come un fastidio (secondo taluni docenti vale il principio meno siamo, meglio stiamo), bensì come un valore presente e futuro dell università cambia la politica nei suoi confronti, senza accondiscendenza ma con intelligente coinvolgimento. h) L esamificio Un altra manifestazione della demagogica visione del rapporto studente-università sta nel considerare quest ultima, tutt al più, come un esamificio. La smisurata moltiplicazione degli appelli di esami otto, nove, dieci l anno impegna ingenti risorse di tempo, sia dei docenti che dei

18 22 Capitolo secondo Gli studenti 23 discenti. Se poi si ignora del tutto la legislazione che vieterebbe tale pratica, lo studente prova, riprova, e riprova ancora l esame come se fosse il biglietto di una lotteria o un gratta-e-vinci. Alla fine con un po di fortuna, per sfinimento dell esaminatore, o per carità cristiana ce la farà. Ma è difficile che gli adepti di questa pratica si chiedano il senso di tutto ciò. In un processo di trasmissione della conoscenza l esame costituisce solo un piccolo momento della valutazione. Questa dovrebbe avvenire durante il corso, ed anche quando le classi sono particolarmente numerose ed impediscono un rapporto diretto fra docente e discente esistono tanti strumenti come ad esempio le prove intermedie che consentono di accertare il progresso (o il regresso) degli studenti. La moltiplicazione degli appelli un fenomeno tutto nazionale, che trova equivalenti solo in sistemi che difficilmente potrebbero fungere da modello costituisce la negazione della didattica: suppone che questa sia inutile o che, comunque, essa possa essere totalmente scissa temporalmente dalla prova di esame che può avvenire a distanza di mesi o di anni. Costituisce l invito, l incentivo a non frequentare, allo studente fai da te che si organizza gli esami pescando dal menù tutti i pasticcini e lasciando alla fine i piatti indigesti. Come se non ci fosse una modularità nella costruzione delle conoscenze, come se si potesse studiare la storia contemporanea prima di (o senza) quella medievale; l astrofisica prima della fisica; la patologia prima dell anatomia e via discorrendo. La resa alle richieste demagogiche di autoproclamate rappresentanze studentesche costituisce il massimo incentivo a finire fuori corso (tanto l esame lo si può dare quando si vuole) con conseguenze negative su tutto il sistema, in primo luogo sui docenti i quali preferiscono controllare che insegnare. Occorre infatti considerare il non trascurabile effetto di trascinamento che il binomio frequenza al corso esami produce su tutta la coorte degli iscritti ad un certo anno accademico. Non solo stimola una positiva emulazione, ma genera delle prassi che diventano il sentiero sul quale lo studente si incammina molto più facilmente in gruppo, che isolato. E, soprattutto, consente di individuare con facilità lo studente con difficoltà e proporre iniziative di sostegno e recupero. D altronde, per misurare la diversità dei modelli è sufficiente confrontare quei corsi di laurea nei quali la frequenza è obbligatoria, da quella in cui essa è facoltativa. Nelle prime la lezione diventa il luogo non solo di socializzazione della conoscenza ma anche dove si individuano i punti più difficili della materia, si imprimono meglio nella memoria concetti ed esempi. Per quanto i libri siano il fondamento dello studio universitario, il lavoro del docente è quello della mediazione con il testo, che viene presentato alla conoscenza da chi già sa e dunque può guidare rispetto al naturale smarrimento di chi deve ancora imparare tutto o molto. D altronde non occorre un grande sforzo di fantasia per individuare e mettere in pratica forme di valutazione diverse dal tradizionale esame orale, il quale se pure è utile per sviluppare capacità espositive e dialettiche spesso si rivela o in una giaculatoria ovvero in una moderna ordalia. Si può invece ampiamente diversificare a seconda della materia, del numero, del livello fra test, esami scritti, lavori individuali o di gruppo, giochi di ruolo, vere e proprie gare, trasformando l esame da semplice verifica a momento (anche) di apprendimento. i) Il grande e reale handicap: le lingue Se c è un aspetto nel quale gli studenti italiani risultano indietro rispetto a quelli di molti dei paesi europei (sicuramente a Germania e paesi nordici; alla pari dei francesi, meglio di spagnoli e inglesi) è nella conoscenza di una lingua straniera. In quasi il 90% dei casi questa lingua è l inglese, sia perché prevalente nell insegnamento delle scuole superiori, sia perché è ormai diventata la lingua veicolare globale, soprattutto per le giovani generazioni le quali vivono parte significativa della loro giornata connessi alla rete, dove l inglese è assolutamente dominante, a partire dal linguaggio gergale. Pare inutile sottolineare l importanza delle lingue nella istruzione universitaria: esse aprono a nuove culture, favoriscono la intercomprensione fra persone e comunità di nazionalità diverse e, soprattutto, costituiscono un titolo preferenziale nel mondo del lavoro. Un laureato con votazione finale modesta (ad es. 90/95) ma con buona conoscenza

19 24 Capitolo secondo Gli studenti 25 delle lingue, ha molte più chances di assunzione rispetto a quello che ottenuto il massimo dei voti e la lode ma è rigorosamente monolingue. Il valore della lingua è ben colto dalla molteplicità di imprese private che, a caro prezzo, organizzano corsi e rilasciano titoli della cui reale consistenza spesso è lecito dubitare. L università è il luogo ideale per l insegnamento del lingue, non solo per via della presenza di specialisti madrelingua e di esperti glottodidatti, ma anche perché esso si associa ad un sistema complessivo di formazione elevata. Ma anche il luogo di insegnamento necessario: se l università deve insegnare ad apprendere; se le conoscenze sono diffuse in molte lingue, di cui alcune - in talune epoche storiche - dominanti (banalmente: latino, italiano, francese, inglese); le carenze linguistiche non consentono allo studente di accedere ad uno straordinario patrimonio di conoscenze e ne limitano fortemente la crescita. Gli attuali limiti del sistema sono, per un verso la sottovalutazione dell importanza delle lingue da parte da un numero consistente di docenti che essendo cresciuti in un ambiente monolinguistico non ne sentono l esigenza; per altro verso il perverso sistema dei crediti minimi per le varie discipline fissato dai decreti ministeriali porta ad una aspra contesa di accaparramento lasciando solo il minimo indispensabile alla formazione linguistica. Se si considera che gli studenti hanno abilità linguistiche differenziate sia per qualità naturali che per formazione, ci si rende conto della esigenza di prevedere percorsi didattici adattati alle specifiche esigenze dei vari gruppi di discenti con l obiettivo di portare tutti i laureati al medesimo livello di uscita. Quello dell insegnamento delle lingue costituisce il tipico esempio di come un obiettivo interesse di tutti gli studenti possa venir sacrificato a favore di piccole e miopi esigenze ispirate da un malinteso enciclopedismo: si ritiene, spesso, più importante dal punto di vista formativo l impartire alcune nozioni obiettivamente marginali, piuttosto che sviluppare capacità la cui resa effettiva è almeno cento volte superiore. Anche qui però, si tratta di scelte che non sono imposte dall alto ma frutto di una irrealistica percezione della graduatoria delle cose che si devono imparare all università. Accanto all insegnamento delle lingue straniere, vi è anche l insegnamento dell italiano agli studenti stranieri: esistono già, a Perugia e Siena, due storiche università per stranieri che svolgono, fra l altro, il compito di formare coloro che intendono insegnare l italiano nel proprio paese di origine. Ma accanto a questo obiettivo alto vi è quello molto più semplice di rendere gli studenti stranieri in grado di seguire i corsi nelle nostre università. Mettendo da parte l esperienza, importante ma molto limitata nel tempo, degli studenti Erasmus, una delle ragioni per le quali non riusciamo ad attirare studenti a tempo pieno da paesi dove l istruzione universitaria è ad un livello decisamente inferiore al nostro è che non diamo sufficiente importanza al nostro patrimonio linguistico che si esprime non solo attraverso i vertici inarrivabili di Dante, Petrarca e Boccaccio, ma che permea tutta la cultura artistica italiana, da Michelangelo a Rossini. Sicuramente sarebbe compito in primo luogo dei governi quale che sia il loro orientamento - promuovere la diffusione della lingua italiana. Ma l università è il luogo ove la consapevolezza del patrimonio linguistico di cui disponiamo dovrebbe essere più vivo. Ed è il luogo dove è possibile, con semplicità ed anche a costi piuttosto modesti, promuovere l italiano come terza lingua per un numero significativo di studenti universitari, soprattutto dell area umanistica. L inarrestabile declino del francese che pure esprime un insieme di valori equivalenti ai nostri apre grandi spazi all italiano, che solo in parte sono contrastati dallo spagnolo, che per la sua diffusione fra centinaia di milioni di persone, e ragioni geopolitiche (l essere la prima lingua di quasi tutta l America latina e la seconda lingua negli Stati Uniti) ha una notevole forza d urto, ma una incomparabilmente minore attrazione culturale. l) L università per i giovani... Quando si parla di studenti universitari ci si riferisce generalmente ad una consistente classe di giovani che si iscrivono sui 18/19 anni e finiscono, se va bene, i due livelli di laurea intorno ai 24/25 anni.

20 26 Capitolo secondo Gli studenti 27 Ancorché omogenei per età questi studenti sono lo si ripete, per fortuna molto diversi fra di loro, e non solo per scuola di provenienza e retroterra culturale e sociale. Le differenze di attitudine, di capacità, di carattere costituiscono un fattore importante se si vogliono valorizzare gli studenti e metterli in grado di sfruttare appieno le loro potenzialità. Non si tratta certo di trasformare gli atenei in centri di consulenza psico-pedagogica, nè chiedere ai docenti di fare da consiglieri spirituali. Quel che si vuole mettere in luce e che verrà meglio analizzato nel seguito è che se si parte dall assunto che l università mette in moto processi di approfondimento conoscenza, la consapevolezza in ordine ai processi di trasmissione del sapere e alle caratteristiche dei discenti è molto importante. Saper distinguere fra studenti di primo e studenti di ultimo anno; saper distinguere fra studenti che già dispongono di una base (perché il corso è lo sviluppo modulare di altri) ovvero non ne dispongono affatto (un corso di economia in una facoltà di lettere; un corso di diritto in una facoltà di ingegneria) comporta un mutamento delle strategie didattiche, la focalizzazione su taluni aspetti rispetto ad altri. Sottolineare la centralità degli studenti e dei loro processi di apprendimento non risponde affatto a visioni caritatevoli, quasi fossero dei poveretti cui graziosamente dispensare l infinita sapienza che risiede nelle menti dei professori. Vuole invece valorizzare il ruolo della trasmissione del sapere, e dunque dare un senso alla didattica. Ma, soprattutto, significa spostare i riflettori, generalmente puntati sul cosa e sul quanto si insegna, sul come lo si insegna. Si sconta qui un alta fallacia del retaggio idealista: e cioè che chi sa, sa anche insegnarlo. E si misura il docente esclusivamente sulle centinaia o migliaia di pagine che ha scritto, non sulla sua capacità di trasferire nozioni, semplici o complesse, ad altri. Il che presuppone saper distinguere il pubblico cui ci si rivolge, guardare all effetto utile della comunicazione, tenere a freno l impulso narcisistico del parlarsi addosso. Questo non significa affatto che nell università italiana, in tutte le materie, non ci siano degli straordinari didatti, di cui a distanza di decenni si ricordano ancora i concetti presentati e spiegati. Ma queste qualità se non vengono apertamente derise (dire di un professore che è un ottimo didatta è come dire di una ragazza che ha dei begli occhi) certamente non sono evidenziate e indicate a modello, quasi fossero degli optionals. m)...e per chi già lavora Il discorso sulla didattica serve a mettere in luce come accanto alla gran massa degli studenti giovani ve ne sono, in numero crescente, altri che per varie ragioni sono diversi per molteplici ragioni. Per un verso l importanza che ha assunto anche nel nostro paese la formazione continua (il c.d. life-long learning ) pone l università a contatto con persone adulte già inserite nel mondo del lavoro per le quali l aggiornamento costituisce una necessità o una opportunità. La qualità di una università va valutata anche in relazione all approccio che ha nei confronti di questa tipologia di discenti, anche perché la mette a contatto diretto con il mondo del lavoro, la sua evoluzione e trasformazione, le nuove esigenze poste da un mondo globale. Il rapporto con questi studenti è particolarmente importante non solo per le implicazioni economico-sociali, ma perché stimola il docente ad un approccio diverso, a confrontare la teoria di cui è maestro con la pratica incarnata nei suoi studenti. Impara molto di realtà cui è spesso estraneo creando proprio quel processo circolare di acquisizione ed elaborazione che è tipico della conoscenza. All interno della categoria degli studenti adulti vi è quella degli studenti-lavoratori. Secondo un certo modo di vedere si tratta di una categoria svantaggiata per il fatto di non poter frequentare i corsi e dedicare molto tempo allo studio. L idea si associa ad iniziative nate già nel XIX secolo (i corsi serali ) per la promozione dei soggetti socialmente svantaggiati (i lavoratori, appunto). Se si guardano alle cose in maniera meno oleografica le considerazioni da svolgere sono differenti. Il punto di partenza è che si tratta di persone le quali hanno già in maniera maggiore o minore una occupazione. Circostanza non disprezzabile in periodi di elevata disoccupazione giovanile, che non fa di loro dei privilegiati ma li rende, sotto

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