INTRODUZIONE A TOMMASO D AQUINO

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1 Sofia Vanni Rovighi INTRODUZIONE A TOMMASO D AQUINO Bari, Laterza, 1986 [compendio] I. L uomo e l opera. Tommaso nasce nel 1225 a Roccasecca da Landolfo e Teodora. Frequenta l Università di Napoli ( ) e vi conosce l Ordine dei Predicatori. T. parte nel 1245 e dal 1248 al 1252 è discepolo di S. Alberto Magno a Colonia, dove viene soprannominato il bue muto. Nel 1252, richiesto di un giovane bacelliere da avviare all insegnamento all Università di Parigi, Alberto vi manda T., che vi insegna come baccalaureus biblicus ( ) e b. sententiarius ( ); ne risulta il vasto Scriptum in libros quattuor Sententiarum, insieme di questioni suddivise in articoli. Vi afferma già che in Dio si identificano essenza ed essere, distinte in ogni creatura, dottrina che dice di assumere da Avicenna. Nel 1256 T. diviene magister e tiene la prolusione De commendatione Sacrae Scripturae. Nel 1255, alle accuse di Guglielmo di St.Amour contro i frati nel De periculis novissimorum temporum, T. risponde col Contra impugnantes Dei cultum et religionem. Alessandro IV con la bolla Quasi lignum vitae ( ) prende posizione a favore dei frati. Il magistero parigino di T. dura fino al Vi scrive il Commento al De Trinitate di Boezio; Quaestiones disputatae de Veritate; parte delle Quaestiones quodlibetales; De ente et essentia; comincia probabilmente la Summa contra Gentiles. Nelle Quaestiones de Veritate si rilevano influssi avicenniani e agostiniani, come nella frase all inizio della I q.: Illud quod intellectus concipit quasi notissimum et in quod conceptiones omnes resolvit est ens, ut Avicenna dicit in principio Metaphysicae suae, e per l accentuazione del tema d. riflessione (q. 1, a. 9 la conoscenza della verità suppone una riflessione dell intelletto su di sé; q. 24, a. 2 la libertà nel giudizio è una caratteristica della ragione che riflette sul suo atto, mentre nella Summa th. si insiste sulla caratteristica della ragione di conoscere il bene in universale più che sulla capacità di riflettere. Nel Comm. al De Trinitate è già delineata la dottrina della conoscenza delle opere d. maturità: anche i primi principi, fondati sulle nozioni di ente e uno, sono conosciuti per astrazione dell intelletto agente dalle immagini sensibili (q. 7, a. 4). Il tit. originale d. S.c.G. è De veritate catholicae fidei Summa philosophica in certe edd. d. XIX sec.. T. dichiara la complementarietà d. meditazione d. verità con la confutazione d. errori. In essa tratta a partire dalla ragione quale base condivisa universalmente, non potendo dare per acquisita la Scrittura. Nell estate 1259 T. si trasferisce in Italia, dove segue la corte pontificia ad Anagni ( papa Alessandro IV), Orvieto ( Urbano IV), Roma ( Clemente IV), Viterbo (1268 Clemente IV). Ha il titolo di predicatore generale dell Ordine. In risposta a problemi postigli da principi o superiori dell Ordine scrive alcuni opuscula: De regimine principum ad regem Cypri ( ) [incompiuto, completato da Tolomeo di Lucca]; Contra errores Graecorum, ecc. Ne scriverà anche in seguito: Responsio ad fratrem Joannem Vercellensem de articulis XLII (1271 in gran parte sul rapporto fra gli angeli e i moti celesti); Declaratio triginta sex quaestionum ad lectorem Venetum (126.). In Italia T. porta a termine la Summa c. G., scrive le Quaestiones disputatae de potentia e, negli ultimi anni, la prima parte della Summa Theologiae. 1

2 Secondo Chenu il piano d. Summa è suggerito dallo schema platonico d. emanazione e d. ritorno, produzione e finalità, exitus e reditus. Posto lo scopo di comunicare la conoscenza di Dio, non solo per quel che Dio è in sé, ma anche in quanto è principio e fine della realtà, T. afferma prima tratteremo di Dio, in secondo luogo del cammino d. creatura razionale verso Dio, in terzo luogo di Cristo il quale, in quanto uomo, è per noi la via che ci porta a Dio (I, q. 2, proemio). La S. Th. è strutturata in trattati / questioni / articoli. nell articolo è circoscritto e posto un problema. Ogni art. è costituito di 4 parti: una serie di obiezioni, introdotte da un Videtur quod, la posizione della tesi dell autore, introdotta dal Sed contra, la giustificazione di questa tesi Respondeo e la soluzione d. obiezioni: Ad primum, Ad secundum,... In un altra ottica consta di 2 parti: una storica (obiezioni e Sed contra) ed una teoretica (Respondeo e soluzione d. obiezioni). Quaestiones disputatae de spiritualibus creaturis; Quaestiones disputatae de anima ( ). Alla fine del 1268 T. è richiamato a Parigi, dove rimane dal 1269 al 1272, insegnandovi. Qui scrive la seconda parte della S. Th., le Quaestiones disputatae de malo, le Quaestiones disputatae de virtutibus in communi, le prime 6 Quastiones quodlibetales; De unitate intellectus; De aeternitate mundi; alcuni Commenti ad Aristotele, in parte già iniziati in Italia. Richiamato in Italia, a Napoli, come reggente degli studi nello Studium generale dell Ordine, scrive Commenti alla Bibbia, al De causis, la III parte d. S. Th. Dal dicembre 1273 non scrive più. Ricevuto l ordine di Gregorio X di partecipare al Concilio di Lione, all inizio del 1274 si mette in viaggio e muore a Fossanova il II. I fondamentali concetti filosofici esposti nel De ente et essentia ( ). Ente ed essenza sono concetti fondamentali, perché impliciti in tutti gli altri (Quae primo intellectu concipiuntur). Ente è il concreto, mentre essenza è l astratto, perché la nostra esperienza è di cose concrete, di cui poi ci chiediamo che cosa le costituisca tali. L ente può essere reale o logico: quello reale è di diversi generi (come sostanza, come accidente e più precisamente come qualità). L ente logico è quello della copula: il verbo essere come esprimente connessione di concetti ma non l esistenza dei concetti connessi. In questa distinzione si affaccia l idea che non tutto ciò che è oggetto di pensiero esiste così come è pensato: non bisogna ipostatizzare i nostri concetti e credere che ad ogni nostro concetto corrisponda una cosa (posizione antirealistica di T.). Solo a proposito dell ente reale si può parlare di essenza. Ente è già implicito in ogni concetto; ogni altro concetto deve aggiungere qualcosa alla nozione ente (Q. de veritate I, 1: Unde oportet quod omnes aliae conceptiones intellectus accipiantur ex additione ad ens ). Ma se ente è già implicito in qualsiasi concetto, nulla può aggiungersi dal di fuori all ente; piuttosto si ha l esplicitarsi o esprimersi di quanto già implicito nella nozione di ente, e può avvenire in due modi: o che il modo espresso specifichi l ente, e si passa dall ente alle categorie, o che il modo espresso appartenga universalmente ad ogni ente. Ora non c è nessun predicato affermativo che appartenga ad ogni ente se non la sua essenza. L essenza è ciò che si esprime nella definizione (che cosa è un ente quidditas); è detta forma (n. terminologia aristotelica l elemento determinatore della cosa); è detta natura (specialmente quando è considerata come il principio dell attività propria di un ente). Il modo di essere fondamentale è quello della sostanza; l essenza è fondamentalmente e propriamente delle sostanze, e secondariamente degli accidenti. Vi sono sostanze semplici e composte. L essenza delle composte non è né la sola forma né la sola materia ma la sintesi delle due. Per T. il principio di individuazione è non la materia in genere ma la materia signata, et dico materiam signatam quae sub determinatis dimensionibus consideratur (c. 2). Così nella definizione di un universale è compresa la materia, ma non la materia signata. L ente è concepito da T. come l unica vera realtà che solo l inadeguatezza del nostro intelletto ci fa conoscere prima più indeterminatamente, e che poi cerchiamo di stringere più da vicino mediante aggiunte di una nozione all altra. L essenza generica o specifica non è altro che l essenza individuale considerata indeterminatamente. L universale espri- 2

3 me l essenza dell individuo indeterminatamente, non nella sua individualità. T. distingue due modi di considerare l essenza o natura di una cosa: in quello che significa (absolute) o nel modo in cui si realizza. L essenza absolute non è né universale, né particolare, perché prescinde dal suo modo di realizzarsi. IV: Dell essenza delle sostanze separate (incorporee). Una sostanza capace di conoscere intellettivamente non può essere costituita di materia e forma (come pensava Avencebrol); le sostanze separate sono forme pure, per cui ognuna fa specie a sé. Differiscono da Dio per il fatto di esservi composizione di essenza ed esistenza. Ogni realtà in cui si distinguono essenza ed esistenza deve aver ricevuto l essere da altro: da quello che è il suo stesso essere: Dio. L essere è ciò per cui (quo) un essenza esiste realmente (subsistit in rerum natura). VI: Essenza degli accidenti: L accidens è la determinazione, la modificazione di una cosa per sé esistente (substantia). III. Dio e la creazione. 1. Le vie per dimostrare l esistenza di Dio. Le dimostrazioni dell esistenza di Dio servono a giustificare la fede. L esistenza di Dio non è immediatamente evidente all intelletto, né può essere scoperta solo con la riflessione sull idea di Dio (Anselmo). Bisogna partire da ciò che è primo nell ordine della conoscenza, anche se è dopo nell ordine dell essere (STh I, q. 2, a. 1). Nello Scriptum sulle Sentenze Tommaso afferma che per dimostrare l esistenza di Dio bisogna partire dalle creature sensibili (I Sent., dist. III, q. 1, a. 3). Nel De ente et essentia il discorso è più approfondito: l essere sussistente è uno solo; dove dunque vi è molteplicità e differenza, l essere è ricevuto; le realtà molteplici non sono dunque la realtà originaria, ma hanno ricevuto l essere dall unica realtà o- riginaria, l ipsum esse subsistens, Dio (c. 4). In I Sent., dist. VII, a proposito d. immutabilità di Dio, compare l argomento aristotelico per dimostrare l esistenza di un primo motore immobile, ma ha un posto marginale, mentre [I via] è in primo piano n. ScG (I, 13) e resta la prima et manifestior via anche n. STh, ridotta all analisi d. motus inteso come mutamento o divenire in generale, passaggio dalla potenza all atto, e una cosa non può esser portata all atto se non in virtù di un ente che sia già in atto. Ma non è possibile che la medesima cosa sia insieme in atto e in potenza sotto il medesimo aspetto. È impossibile dunque che, secondo il medesimo aspetto e allo stesso modo, un ente sia origine e soggetto di mutamento (movens et motum), ossia muti se stesso; dunque tutto ciò che muta deve essere mosso da altro. T. applica il principio omne quod movetur ab alio movetur anche ai moti dello spirito; anche ragione e volontà sono mutevoli. Segue la dimostrazione che in una serie di movimenti che siano ragion d essere del mutamento non si può procedere all infinito, per cui bisogna affermare l esistenza di un primum movens quod in nullo moveatur, un immutabile, e questo è colui che tutti intendiamo Dio. II via - parte dalla considerazione della causa efficiente, osservata nelle realtà sensibili. Poiché una cosa non può produrre se stessa e non si può procedere all infinito, bisogna approdare ad una prima causa incausata, Dio. III via - desunta dal generarsi e corrompersi d. cose. Ciò che può essere e non essere ha una causa che lo fa essere. Ma nelle cause non è possibile procedere all infinito, per cui è necessario porre che qualcosa sia indefettibilmente. E nella serie d. enti indefettibili bisogna porre un primo ente necessario per se stesso, Dio. IV via - dai gradi di perfezione che si riscontrano nelle cose: il più e il meno (buono, vero, ecc.) si dicono di cose diverse in quanto si avvicinano diversamente ad un massimo. Vi è dunque un ente verissimo, ottimo e nobilissimo, quello che è in grado massimo, perché ciò che è supremamente ve- 3

4 ro è anche supremamente essere, come afferma Aristotele (Met. 993b). Ciò che è migliore in genere è causa di tutto ciò che appartiene a quel genere. Vi è dunque qualcosa che è causa dell essere, d. bontà e d. perfezione di tutti gli enti, Dio (qs. argomento è presente anche in S. Agostino, De Trinitate VIII, 3; S. Anselmo, Monologion cc. 1-4). V via - dalla considerazione della finalità. Alcuni enti privi di conoscenza operano per un fine, in modo da conseguire ciò che è meglio. Non raggiungono il fine per caso ma perché vi sono orientati [ex intentione]. Ma gli enti che non hanno conoscenza non tendono al fine se non vi sono diretti da uno che ha conoscenza e intelligenza. Dunque vi è un principio intelligente dal quale tutte le cose della natura sono ordinate ad un fine, ed è Dio. La V via non parte da una finalità di tutto l universo, ma constatata in alcune cose. La conclusione et hoc omnes intelligunt (o nominant) Deum, va intesa come un anticipazione, perché T. dedica ancora molte questioni d. STh e molti capitoli d. ScG agli attributi divini. 2. Gli attributi di Dio. Teologia negativa: la nostra conoscenza di Dio procede per successive negazioni, rimuovendo da lui ciò che non gli deve essere attribuito (I, q. III, Proem.). Nella ScG questa rimozione parte dal concetto di immutabile. Dio è atto puro (ScG I, c. 16) e da lui è esclusa ogni composizione. Dio è Ipsum esse subsistens, la pienezza dell essere, la totale attualità d. essere, sublime verità rivelata in Es 3,14. T. vuole però evitare la confusione tra l essere divino e l essere comune a tutte le cose, per cui l essere divino sarebbe l esse formale omnium (conclusione panteistica di Amalrico di Bène), l essere per cui sono (formalmente) tutte le cose. T. osserva che l essere comune è solo un concetto, è solo pensato, mentre l ipsum esse subsistens è senz altra aggiunta (ScG I, 26; STh I, q. 3, a. 4, ad 1 um ) perché è già in sé ogni attualità e perfezione. Contro la tesi di Maimonide, che il significato d. nostre proposizioni intorno a Dio sia puramente negativo, T. obietta che il significato di una negazione si fonda sempre in quello di un affermazione. Le creature rappresentano in similitudine le perfezioni di Dio. Le perfezioni che nel mondo dell esperienza sono separate e molteplici, in Dio sono unite et simpliciter (STh I, q. 13, a. 5) e si identificano con il suo essere (Q. de Veritate II, a. 11). La nostra è una conoscenza di Dio per analogia. L analogia esprime il carattere imperfetto, approssimato, d. nostra conoscenza. Fra gli attributi divini hanno una particolare importanza l intelligenza e la volontà, presupposti per la concezione di Dio come provvidente e redentore. I Sent. dist. 35, q. 1, a. 1: secondo lo Ps.-Dionigi ascendiamo dalle creature a Dio per tre vie, per remotionem, per causalitatem, per eminentiam e per ognuna di esse si può dimostrare che in Dio c è conoscenza. Per remotionem, si esclude da Dio ogni materia ostacolo all intelligenza per cui Dio, sommamente immateriale, è intelligente. Per causalitatem Dio è un intelletto come causa di un mondo organizzato. Per eminentiam l intelligenza è un attributo che segue la perfezione d. ente. L oggetto immediato e adeguato d. intellezione divina può essere solo Dio stesso, che come causa efficiente e consapevole conosce pure ogni altra realtà. Il motore immobile di Aristotele non è causa efficiente del mondo e non conosce alia a se, il Dio di T. è Creatore intelligente e libero. Tutto ciò che non è Dio non è ma ha, riceve l essere da chi è l essere, ne partecipa (STh I, q. 44, a. 1; ScG II, c. 15, 4; De Pot. III, a. 5), Dio, e poiché Dio è intelligenza, sa ogni possibile partecipazione del suo essere (STh I, q. 14, a. 5) e fa essere quello che vuole. Il concetto di volontà è legato a quello di intelligenza. Negli enti intelligenti il dinamismo per cui ogni ente tende a mantenersi n. essere è consapevole (vuole essere); la suprema intelligenza è quindi anche suprema volontà (STh I, q. 19, a. 1; ScG I, 72); oggetto immediato d. volontà divina è Dio stesso, che vuole altre cose perché partecipino d. sua bontà. 3. La creazione. Il concetto di creazione è accessibile alla ragione umana ed è stato raggiunto dai filosofi pagani, nel concetto di causa universale, misto ad errori, contro i quali T. afferma che 4

5 le cose procedono da Dio per un atto consapevole e libero [non per necessità] e, se si intende così la creazione, nulla impedisce che da un primo essere uno e semplice proceda immediatamente una molteplicità di enti (De Pot. III, 4). Dio crea liberamente il mondo (STh I, q. 19, a. 3; ScG I, 81; De Pot. III, 15); se infatti qualcosa d altro da Dio fosse necessariamente, Dio non sarebbe più la perfezione. Qui la netta divergenza da Avicenna e Averroè. Dio, fonte di tutto l essere, crea consapevolmente e liberamente. In De veritate I, 1, T. afferma che le determinazioni dell ente esprimono un suo modo di essere, o come uno speciale modo di essere (generi, categorie) o perché il modo e- spresso segue universalmente ogni ente. Del II caso, due modi esprimono il rapporto d. essere con lo spirito, che è coestensivo all essere (anima quodammodo est omnia Arist., De an. 431b). Nello spirito di distinguono la conoscenza e la tendenza o appetito: la corrispondenza dell essere con l appetito è espressa dal termine Bene; con l intelletto dal termine Vero. Per T. lo spirito coestensivo all essere è Dio. Le cose sono vere in rapporto all intelletto, ma ciò può darsi in due modi: necessariamente o accidentalmente. Ha un rapporto necessario con l intelletto dal quale dipende nel suo essere; ha un rapporto accidentale con l intelletto che può conoscerla. Così le cose artificiali si dicono vere per rapporto al nostro intelletto; le cose d. natura per rapporto all intelletto divino (STh I, q. 16, a. 1). Analogamente, le cose sono buone in quanto volute da Dio. Dio conosce quindi e vuole la realtà fino all individuo (STh I, q. 14, a. 11; q. 47, a. 1; ScG I, 63-71; 78). Dio può volere le creature come esistenti ab aeterno o con inizio, e se la volontà di Dio è eterna, non è necessario che produca un effetto eterno (STh I, q. 46, a. 1, ad 6; ScG II, 35; De Pot. q. III, a. 17); la temporalità d. creatura è un carattere posto dalla libera volontà divina, è un articulus fidei, non una conclusio rationis (STh I, q. 46, a. 2). T. dedicò al problema l opuscolo De aeternitate mundi contra murmurantes. Ogni cosa è naturalmente inclinata al bene (De veritate XXII, a. 1), perché la volontà divina è alla radice della stessa natura delle cose. In ciò che è voluto liberamente da Dio c è una necessità ipotetica (necessarium ex suppositione), quella d. coerenza, d. non contraddizione (posizione intermedia tra un arbitrarismo di tipo cartesiano e quella di Abelardo, ripresa da Leibniz) (contro la tesi che Dio deve volere il meglio T. osserva che non si può parlare di meglio di fronte a Dio, poiché ogni bene finito è infinitamente distante da quel bene infinito che è unico oggetto adeguato d. volontà divina, ed è Dio stesso) contro i seguaci di al-ash ari ( ) che negano alle creature ogni efficacia causale opinione che svuota la natura di ogni forza e valore, toglie alle cose il loro spessore ontologico e le riduce a semplici schermi d. azione divina (ScG III, 69). Per T. sono le creature che operano e producono nuovi enti trasformando la materia. T. interpreta le rationes seminales di S. Agostino come le capacità di agire che seguono la natura stessa d. cose create (STh I, q. 115, a. 2), e si rifiuta di interpretarle come forme incomplete preesistenti n. materia secundum quamdam quasi inchoationem (II Sent., dist. 18, q. 1, a. 2). Nelle generazioni dei corpi non si crea una nuova forma: ciò che esiste è il composto, non la forma per sé. 4. Il male. In STh. I, q. 2, a. 3, la risposta all obiezione all esistenza di Dio dall esistenza d. male è tratta da S. Agostino: Dio non permetterebbe il male se non fosse così onnipotente e buono da trarre anche dal male un bene, poi ampliata in q. 48. Il male è una privazione, o mancanza di un elemento naturale (malum poenae pena di una colpa originale) o di ordine al fine proprio liberamente voluta da una creatura razionale (male morale malum culpae il più grave, STh I, q. 48, a. 6). Una causa può dare origine al male o perché è causa a sua volta difettosa, o perché dispone di una materia difettosa (una casa che crolla per difetto di materiale), o perché è capace di trarre da un difetto (male) particolare un bene maggiore (STh I, q. 49, a. 1). Dio, causa prima, può dare origine al male (permissione) solo nel terzo senso. 5. Il bello. Nel Commento al De divinis nominibus, T. usa espressioni che paiono predicare il bello di ogni ente. Lo Ps.-Dionigi afferma che Dio è il bello sovraessenziale. T. commenta che la 5

6 bellezza è partecipazione d. causa prima quae omnia pulchra facit (lectio V, 337). Il bello si distingue dal bene perché, mentre bene è ciò che è oggetto di tendenza (appetitus), bello è ciò la cui conoscenza suscita piacere (STh I, q. 5, a. 4, ad 1; I-II, q. 27, a. 1, ad 3), secondo una sorta di intuizione estetica. Il bello è una risultante d. forma (fundatur super formam), ossia d. principio di intelligibilità presente in ogni cosa; elemento d. bellezza è la claritas (STh I, q. 39, a. 8) insieme con l integritas o compiutezza e la debita proportio o consonantia. Bello è ciò che rivela un intelligibilità che dà piacere. IV. L uomo. 1. La natura dell uomo: anima e corpo. Definizione agostiniana d. anima: substantia quaedam rationis particeps regendo corpori accommodata (De quantitate animae, XIII, 22). Nel De anima di Aristotele, per spiegare la conoscenza, si distingue un intelletto attivo e un intelletto passivo. Il primo sta agli oggetti come la luce ai colori: è separato, impassibile, non mescolato alla materia, immortale, eterno; il secondo è corruttibile (III, 430a, 10ss), ma resta oscuro quanto al rapporto con l anima che è forma del corpo. Alessandro d Afrodisia identifica l intelletto attivo con una sostanza separata, Dio stesso, dal quale è illuminato il nostro intelletto passivo. Temistio: l intelletto attivo è parte d. anima umana. Avicenna: nell uomo vi è una sostanza che apprende gli oggetti intelligibili ricevendoli in sé (De anima, V, 2), una sostanza incorporea e indipendente dal corpo (l oggetto intelligibile è indivisibile, astratto a quantitate designata et ab ubi et a situ (ivi, 89), ha una infinità potenziale poiche l universale è predicabile di infiniti individui. La conoscenza di sé esclude che l attività intellettiva si compia mediante un organo corporeo, poiché questo farebbe da schermo fra l atto di intendere e l oggetto inteso (93ss)) e conclude che l anima umana, in quanto capace di conoscenza intellettiva, non è impressa n. corpo né ha l essere mediante il corpo, ma ne è legata da una affectio che la porta ad aver cura d. corpo e a governarlo. Per Avicenna l anima razionale ha avuto inizio per creazione, insieme al corpo che deve governare (De anima V, 3). L intelletto umano, in potenza ad intendere, non passa all atto se non per opera di una causa che possieda già in atto quel conoscere al quale il nostro intelletto è in potenza (applicazione d. principio aristotelico omne quod movetur ab alio movetur); tale causa è l intelligenza agente, separata, unica per tutta la specie umana, che illumina le singole anime. Le immagini sensibili preparano l intelletto umano a ricevere le nozioni universali, astratte dalle condizioni materiali. Secondo Averroè la definizione aristotelica d. anima come atto primo d. corpo non è applicabile univocamente all anima vegetativa, sensitiva e intellettiva (come per Alessandro d Afrodisia), ma solo equivocamente all anima intellettiva, e l intelletto in potenza, che Averroè chiama materiale, non è forma d. corpo umano, ma è una sostanza separata, unica per tutta la specie umana, così unico e separato è il principio per cui l uomo è soggetto conoscente. Fra il 1265 e il 1270 si forma una corrente averroistica all Università di Parigi (maggiore esponente Sigieri di Brabante). Tommaso reagisce n. ScG e n. De unitate intellectus, dove dimostra l errore d. teoria di Averroè anche quanto all esegesi aristotelica (mentre S. Bonaventura reagisce e denuncia l averroismo come logica conseguenza di Aristotele). T. formula nella I q. De anima il problema: Utrum anima humana possit esse forma et hoc aliquid: se l anima possa essere insieme forma del corpo e sostanza, e risponde che l anima umana è puramente forma sussistente, ha l essere in proprio (aspetto platonico dell antropologia di T.). Nel De anima 403a10-12 Aristotele dice che se vi è un attività o una passione propria dell anima, l anima potrà essere separata. Separata è, per Aristotele, l attività intellettiva, ma di chi è propria? Dell uomo singolo o di un intelletto unico? T. trova la premessa min. in Avicenna: Il principio intellettuale che si chiama spirito (mens) o intelletto ha un attività alla quale il corpo non partecipa. Ora, non può operare per sé se non ciò che sussiste per sé [...]. Dunque l anima umana, che si chiama anche intelletto o spirito, è qualcosa di incorporeo e di sussistente (STh I, q. 75, a. 2). 6

7 In II Sent., dist. 19, q. 1, a. 1, T. indicava tre tipi di attività alle quali non può partecipare il corpo: la conoscenza di tutti i corpi, la conoscenza per concetti universali, l autocoscienza (sulla I insisteva Averroè, sulle II-III la fonte è Avicenna). Se l anima umana è forma subsistens, cioè ha l essere per sé, indipendentemente dal corpo, essa sarà anche immortale (STh I, q. 75, a. 6; ScG II, 55; 79). Argomento principale: una cosa può corrompersi o per sua natura (per se) o perché dipende da una realtà corruttibile (per accidens); è corruttibile per sua natura il corpo, composto di materia e forma, perché può trasformarsi in un altro corpo; è corruttibile per accidens la forma non sussistente (es. quella di un albero) o l accidente. L anima umana, in quanto forma, non può corrompersi per se, perché la forma è principio dell essere e in quanto sussistente non può venir meno per accidens, quindi è per sua natura incorruttibile (STh I, q. 75, a. 6), e neppure Dio le toglierà la vita: Deus, qui est institutor naturae, non substrahit rebus id quod est proprium naturis earum (ScG II, 55). L anima umana, proprio quella che è principio di attività intellettiva (la mens) è forma del corpo. La forma è il principio determinatore dell essenza di una cosa: è ciò per cui una cosa è quel che è ed ha la propria attività; l intelligere (il conoscere intellettivo) è attività dell uomo; quindi il principio intellettivo è ciò per cui l uomo è uomo, è la sua forma sostanziale. Non c è identità di anima e uomo, e il sentire implica il corpo: ipse idem homo est qui percipit se et intelligere et sentire: sentire autem non est sine corpore (STh I, q. 76, a. 1). Secondo Averroè il nostro sapere sta all intelletto come il sentire sta al senso. Come il sentito si realizza in due soggetti nella cosa sentita e nel senziente il concetto ha due soggetti: l immagine dalla quale è astratto e l atto di conoscere intellettivamente che è nell intelletto possibile. Ora, nell atto intellettivo si realizza l unione tra l intelletto possibile, che è l intelligenza separata, e l immagine, che è nel singolo individuo umano, che diventa partecipe dell intelligenza per continuationem intellecti, perché a lui si unisce l intellectum (l inteso, il noema). T. obietta che se l intelletto possibile si unisce ai singoli uomini nell atto conoscitivo per continuationem intellecti, l uomo individuo, che fornisce all intelletto separato l immagine, sarebbe conosciuto e non conoscente (ScG II, 59; De unitate int. III, 66). Per T. l anima intellettiva è l unica forma sostanziale dell uomo, col che è sottolineata l unità dell uomo in tutti i suoi aspetti; la forma sostanziale è quella che dà l essere simpliciter, fa che una cosa sia; se l anima intellettiva si unisse ad un corpo già formato (già esistente, già determinato), potrebbe modificarlo, ma non farlo essere (STh I, q. 76, a. 4). L anima, forma sussistente, comunica il suo essere al corpo (STh I, q. 76, a. 1, ad 5), fa essere il corpo (ScG II, 69). Questa teoria fu condannata a Oxford nel 1277 da R. Kilwardby e nel 1286 da Giovanni Peckham. Di fronte alla difficoltà di pensare una vita dell anima separata dal corpo (ScG II, 81) è necessaria la Rivelazione. T. cerca di chiarire la polarità di questi due aspetti dell anima forma e sostanza, ricorrendo alla distinzione tra l essenza dell anima e le sue facoltà o potenze. Le facoltà di un soggetto sono espressione di ciò che definisce la sua essenza. L anima umana, forma del corpo, ha molte facoltà che operano solo nel corpo, mediante organi corporei, ma poiché non si esaurisce nel suo attuare la materia e costituire il corpo, può avere una facoltà, l intelletto, con la quale opera indipendentemente dal corpo. 2. Le attività umane: la conoscenza. Le facoltà che caratterizzano l uomo sono l intelletto e la volontà, e nella concezione di T. suppongono una complessa vita sensitiva, con la quale comincia la coscienza (immutatio spiritualis) (gli scolastici posteriori es. Pietro Aureolo parleranno di esse intentionale). T. distingue modificazione fisica da modificazione spirituale: a) la forma del modificante è ricevuta nel soggetto moificato secondo l essere fisico (es. il calore è ricevuto nel corpo scaldato); b) secondo l essere spirituale (es. quando la forma d. colore è n. pupilla che lo vede e che non per questo diventa colorata). Ora, per l attività sensitiva occorre una modificazione spirituale in virtù della quale nell organo di senso ci sia la presenza intenzionale della forma sensibile [per quam intentio formae sensibilis fiat in organo sensus]; altrimenti, se per la sensazione bastasse la 7

8 sola modificazione fisica, tutti i corpi naturali sentirebbero quando fossero modificati (STh I, q. 78, a. 3). Complessità della vita sensitiva: oltre ai 5 sensi esterni T. ammette il senso comune (la coscienza sensitiva, il sentire di sentire), l immaginazione, la memoria sensitiva e l aestimativa (istinto) in luogo del quale nell uomo c è la cogitativa (quasi un raziocinio sul particolare, senza concetti universali). L uomo conosce per concetti universali, caratteristica dell intelletto che mostra il non essere l anima umana totalmente coinvolta nel corpo. L intelletto possibile, facoltà di conoscere per concetti universali, è passiva: non conosce attualmente se non è determinato a conoscere a qualcosa di esterno, da un oggetto (STh I, q. 79, a. 1). L oggetto è proporzionato alla facoltà conoscitiva. Vi sono facoltà conoscitive che sono atto di un organo corporeo (la vista è atto dell occhio): i sensi; vi sono facoltà conoscitive proprie di intelligenze separate (gli angeli); vi è una facoltà conoscitiva, l intelletto, che è facoltà di un anima che è forma del corpo e forma sussistente. Vi corrisponde come oggetto il mondo corporeo, considerato attraverso concetti universali, astrattamente: È proprio dell intelletto umano conoscere la forma che esiste, sì, individualmente nella materia corporea, ma considerarla non così come è in tale materia. Ora, conoscere ciò che è nella materia individuale, ma non così come è in tale materia, vuol dire astrarre la forma dalla materia individuale, che è rappresentata dall immagine [phantasma]; e perciò si deve concludere che il nostro intelletto conosce le cose materiali per astrazione dalle immagini sensibili, e mediante le cose materiali così considerate perviene ad una certa conoscenza delle realtà immateriali (STh I, q. 85, a. 1). L oggetto proprio dell intelletto umano è dunque l essenza d. cose corporee: quidditas sive natura in materia corporali existens (STh I, q. 84, a. 7), quidditas rei materialis (q. 88, a. 3): la realtà corporea considerata nella sua essenza, che è ciò in cui l intelletto scopre la prima volta l essere, ciò che per primo coglie come ente. Conosciamo infatti le cose procedendo dai concetti più universali ai meno universali (STh I, q. 85, a. 3) e il più universale dei concetti è quello di essere, quale sfondo di ogni realtà implicito in ogni concetto [ Rosmini!]. La conoscenza dell universale è il modo in cui l uomo va oltre l urto del sensibile per cogliere l intelligibile, ma è comunque una conoscenza confusa della realtà, che è individua. La conoscenza intellettiva del singolare nella sua singolarità si realizza solo nella conoscenza divina. Ne segue che non è possibile attivamente pensare senza riferirsi ad un immagine sensibile (STh I, 84, a. 7); che l intelletto umano non conosce il singolare se non indirettamente et quasi per quamdam refleionem (STh I, q. 86, a. 1) (il processo di questa reflexio è descritta n. q. 10 De Veritate, a. 5: la mens conoscendo il suo oggetto, che è un essenza universale, ritorna alla conoscenza del suo atto, e della species che è principio del suo atto, e infine dell immagine dalla quale è astratta la species, e così ha una certa conoscenza del singolare : l intelletto umano ha coscienza che ciò di cui si forma una nozione universale (indeterminata) è quello stesso che gli è presente nella sua immagine. Poiché l intelletto procede dal confuso al distinto, anche la conoscenza delle differenze specifiche ci sfugge per lo più; ci si avvicina col giudizio (componere et dividere) (aggiungiamo nuove note all ogg. concepito confusamente, e lo determiniamo) e il ragionamento. Tuttavia T. afferma anche che l intelletto apprende prima l essenza della cosa, che è il primo e proprio oggetto dell intelletto, e poi conosce le proprietà, gli accidenti e i rapporti che derivano dall essenza [lett. che circondano l essenza] della cosa [circumstantes essentia rei] (STh I, q. 85, a. 5): c è in T. oscillazione tra il concetto di un intelletto che deve faticosamente approssimarsi al reale e la persuasione (comune al suo ambiente culturale) che l intelletto legga immediatamente nella natura le essenze delle cose. Condizioni del conocere: secondo Aristotele, come è interpretato da T., oggetto intelligibile è l universale, e non esistono universali in rerum natura: rendere intelligibile significa universalizzare, astrarre dalle note individuanti, che è funzione dell intelletto agente (STh I, q. 79, a. 3), facoltà dell anima umana (ogni natura creata deve avere in sé le facoltà che le sono necessarie per compiere le attività che le sono proprie)(sth I, q. 79, a. 4). Vi è un intelletto superiore dal quale l anima intel- 8

9 lettiva umana riceve la capacità di intendere. Essa partecipa dell intelletto attivo, per cui deve esserci un intelligenza più alta, dalla quale l anima è sostenuta nell intendere (STh I, q. 79, a. 4), ed è Dio che dà all uomo l intelletto agente, ossia la facoltà di rendere presente l aspetto intelligibile del sensibile. Mentre per Agostino Dio ci offre l oggetto intelligibile (già fatto), per T., con la sua illuminazione, Dio ci dà i mezzi per elaborare l oggetto intelligibile. 3. Volontà e libertà. La volontà è tendenza razionale (appetitus intellectivus, appetitus rationalis). In ragione della concezione finalistica, ogni ente non solo è, ma ha da essere ciò per cui è stato fatto: tendenza a conservarsi, a realizzarsi (appetitus naturalis). Negli enti dotati di coscienza, questa tendenza è consapevole, è condizionata da una conoscenza, e se la coscienza è solo sensitiva, anche la tendenza è solo sensitiva; dove (come nell uomo) vi è anche coscienza intellettiva, vi è la volontà, la cui caratteristica è di tendere ad un oggetto considerato sotto un aspetto universale: la volizione è motivata dal realizzare un certo valore, una certa ratio boni. La volontà tende ad un oggetto perché le si presenta come bene (STh I, q. 82, a. 5). Di qui la libertà del volere: radix libertatis est voluntas sicut subiectum, sed sicut causa est ratio (STh I-II, q. 17, a. 1, ad 2). Se è proposto alla volontà un oggetto che sia totalmente bene, la volontà tende ad esso necessariamente, se vuole qualcosa [...]; ma se le è proposto un oggetto che non sia bene sotto ogni aspetto, la volontà non è portata ad esso necessariamente (STh I-II, q. 10, a. 2). Ora, nesun oggetto particolare è bene sotto ogni aspetto: nessun bene finito ha il potere di determinare la nostra volontà. T. riprende Et.Nic. III: si vuole un fine (intentio finis), la beatitudo; ci si chiede se questo particolare oggetto sia un bene per noi (se ci conduca al fine) e si istituisce un consilium (la bouvlesi" di Aristotele), che è un ragionamento nell ordine pratico: una specie di sillogismo pratico (premessa magg. la ns. volontà di bene / prem. min. il riconoscimento d. carattere di bene in qs. particolare operabile / conclusione: la scelta (electio) di questo. La volizione è determinata da un giudizio (arbitrium) che segue un confronto fra beni e un ragionamento (De Veritate XXIV, a. 1) dove ha un peso la volontà. 4. L etica e il diritto. C è un etica filosofica che, come la metafisica, non esaurisce quanto l uomo ha bisogno di sapere per regolare la propria condotta, e va integrata dalla Rivelazione. A fondamento delll etica di T. stanno la concezione finalistica del reale e la libertà umana. Omnia a- gentia necesse est agere propter finem, esordisce la parte dedicata all etica (STh I-II, q. 1, a. 2; ScG III, 2), come n. Et.Nic., ma in T. dipende da una concezione della realtà come dipendente da un Creatore intelligente e libero: ogni cosa ha un fine da conseguire perché risponde a un idea divina che ha presieduto alla sua creazione (STh I-II, q. 1, a. 2; ScG III, 1-2). L uomo, consapevole della sua finalità, si dirige ad un fine liberamente (STh I-II, q. 1, a. 2). Il fine ultimo dell uomo e di ogni sostanza intellettuale si chiama felicità o beatitudine (ScG III, 25 ). La beatitudine dell uomo consiste nella contemplazione del sommo intelligibile, Dio. La gioia è richiesta dalla beatitudine come concomitans (STh I-II, q. 4, a. 1), segue la beatitudine e la accompagna. Il piacere è il senso di una perfezione raggiunta, di un bene conseguito, ed ha luogo in noi nella tendenza sensitiva, comune a- gli animali, e nella tendenza intellettiva, comune con gli angeli (STh I-II, q. 31, a. 4, ad 3). L ideale umano è l armonia fra passione sensibile e volontà morale. La bontà morale consiste nella rispondenza al fine dell uomo, voluto da Dio nel crearlo (STh I-II, q. 19, a. 9-10); l uomo si dirige al fine volontariamente, quindi la bontà morale si realizza nella volontà. Affinché la volontà sia buona si richiede che sia volontà del bene in quanto bene, cioè che voglia il bene per il bene (STh I-II, q. 19 a. 7, ad 3). T. parla di legge nella ScG a partire da III, 14 e nella STh da I-II q. 90, quando tutti i concetti fondamentali dell etica sono stati esposti. Nella STh c è un trattato De lege (lo schema si ispira ad un trattato anon. di scuola francescana). Il concetto di legge, originariamente giuridico, è applicato solo analogicamente alla morale. La legge non è altro che il modo di operare [ratio operis]; il mo- 9

10 do di operare si desume dal fine, e perciò chi è capace di legge riceve la legge da colui che lo conduce al fine [...] la creatura razionale ha il suo fine da Dio e lo consegue in lui. Fu dunque conveniente che Dio desse una legge agli uomini (ScG III, 114). Il concetto di legge dipende da quello di fine. La legge è la via al fine. A fondamento di ogni legge sta la lex aeterna che è l ordine dell universo esistente nella mente divina, ratio gubernationis rerum in Deo existens (STh I-II, q. 91, a. 1); la lex naturalis è la partecipazione della legge eterna nella creatura razionale (I-II, q. 91, a. 2). Ogni cosa porta in sé una traccia della lex aeterna; la creatura razionale ne partecipa consapevolmente e razionalmente, per cui la partecipazione della legge eterna nella creatura razionale si chiama propriamente legge (I-II, q. 91, a. 2, ad 3). La partecipazione alla legge eterna si attua perché Dio ci ha dato il lume della ragione naturale per discernere cosa sia il bene e cosa sia il male (I-II, q. 91, a. 2). La premessa universalissima della ragion pratica è che si deve fare il bene ed evitare il male. T. presuppone che ci sia un bene, perché fonda l etica sulla concezione finalistica: ogni cosa ha un fine da realizzare. Il primo principio della ragion pratica è il principio di finalità. Il precetto si fonda sul bene e la lex naturalis lo comanda, ma non è bene per il fatto che la legge lo comanda; il bene dell uomo si determina in beni umani (bona humana) (STh I-II, q. 94, a. 2). Esempio di beni cui l uomo tende come razionale: conoscere la verità e vivere in società. La ragione pratica valuta il caso concreto, spesso estremamente complesso, con aspetti positivi e negativi (la ragione speculativa termina a proposizioni necessarie e universali). Nel valutare moralmente, il giudizio può essere distorto (STh I-II, q. 94, a. 4), onde la necessità della prudenza, recta ratio agibilium (STh II-II, q. 47, a. 5), che presuppone già un orientamento al bene, una buona disposizione circa i fini (STh I-II, q. 57, a. 4). Nella terminologia di T. sinderesi è la conoscenza dei principi morali più universali, coscienza è la valutazione del caso concreto. La prudenza è l abito dell intelletto pratico che permette di arrivare a retti giudizi di coscienza. La coscienza è il frutto di un ragionamento pratico, è il risultato dell applicazione dei principi pratici alla situazione concreta. La volontà può essere cattiva se vuole qualcosa che le è presentato come male dalla ragione, pur non essendolo (STh I-II, q. 19, a. 5). La coscienza risulta così vincolante, anche se erronea. Il giudizio di coscienza è un giudizio sulla doverosità di un azione. Non sempre il giudizio cui si conferma la volizione è il giudizio di coscienza. T. chiama indictium electionis l ultimo giudizio determinante la volizione, in cui la volontà dà peso ad un particolare aspetto e per cui si afferma la libertà. Al libero arbitrio compete il giudizio quasi per partecipazione, poiché per sé non compete alla volontà il giudicare, e perciò il giudizio di scelta [iudicium electionis] è già del libero arbitrio. Il giudizio per sé o è universale o particolare: il primo appartiene alla sinderesi, il secondo, quando resta nei limiti della conoscenza, appartiene alla coscienza. Sicché, sia la coscienza come la scelta sono conclusioni su ciò che si deve fare in particolare, ma la coscienza è una conclusione solo conoscitiva, la scelta è una conclusione affettiva, come sono le conclusioni che riguardano l azione, come dice Aristotele nel VI libro dell Etica (II Sent., dist. 24, q. 2, a. 4, ad 2). Virtù e vizi sono habitus e non singoli atti; habitus è una qualitas inclinans (STh I-II, q. 50, a. 5), una piega ad operare in un modo. Sono habitus anche il possesso di una scienza, anche certe agilità corporee sottomesse alla volontà (I-II, q. 50, a. 1). Fra le virtù morali emerge la giustizia, come fra le virtù teologali emerge la carità. La giustizia è praeclarior inter omnes virtutes morales (II-II, q. 55, a. 12), perché è diretta al bene comune, più alto del bene del singolo. La definizione di legge si applica in primo luogo alla legge giuridica e secondariamente ad altre leggi, ontologicamente anteriori, come la lex aeterna e la lex naturalis. La legge giuridica è posta dagli uomini, la lex humana: è necessaria per regolare la vita civile. Mentre Agostino riteneva lo Stato come una necessità storica, dipendente dal peccato originale e dalla corruzione della natura umana, T. lo considera una necessità naturale (derivante dalla natura dell uomo in quanto tale). Le leggi poste da chi regge lo Stato possono fondarsi in due modi sulla legge naturale: in quanto la 10

11 specificano (come quando proibisce l omicidio) e in quanto la applicano a situazioni storiche determinate (come quando stabilisce una determinata pena per l omicida, o quando regolamenta l uso di oggetti particolari della tecnica del tempo per il rispetto della vita altrui) (STh I-II, q. 95, a. 2). La legge naturale si impone alla coscienza, ma non è coazione esteriore. La legge umana ha carattere coercitivo e serve alla pace pubblica, ma ha anche una funzione educativa; non reprime tutti i vizi dai quali si astengono gli uomini virtuosi, ma solo i più gravi; essa non ha da comandare tutti gli atti virtuosi, ma solo quelli necessari al bene comune (STh I-II, q. 96, a. 2-3). La legge umana, quando non è in contrasto con la legge naturale, obbliga moralmente (in foro conscientiae), ma possono darsi leggi ingiuste e possono non essere osservate quando vanno contro il bonum humanum del cittadino, non devono essere osservate quando vanno contro il bonum divinum (q. 96, a. 4), compreso tutto ciò che viola la personalità morale dell uomo. Per gli aspetti comuni con tutti i viventi e gli animali, l uomo è subordinato alla comunità politica e deve sacrificare il bene individuale alla comunità, mentre per la ragione deve realizzare certi valori connessi con la sua individualità. Il De regimine principum (De regno) ribadisce la necessità naturale dello Stato, retto da un autorità. Affinché l autorità si eserciti rettamente, i governanti devono mirare al bene comune. Tra le varie forme di governo T. preferisce la monarchia come più a- datta a mantenere la pace civile. Per contro, la tirannia è la peggiore perché una forza operante il male è più nociva quando è unita (De regno I, 4, 10). Nel De regimine principum, XIV, T. affronta il problema dei rapporti tra l autorità civile ed ecclesiastica. Fine dello Stato è di promuovere la vita virtuosa, ovvero autenticamente umana per tutti i cittadini, e richiede un certo benessere materiale, ma pure è orientata ad una perfezione soprannaturale, da svolgersi nella Chiesa, e poiché il fine della vita soprannaturale è il valore supremo che l uomo possa raggiungere, nella legge di Cristo i re debbono essere soggetti ai sacerdoti. «La dottrina di T. è forse l espressione più tipica, nella storia del pensiero cristiano, di un atteggiamento ottimistico di fronte alla natura in genere, alla natura umana in ispecie, e ai suoi valori» (p. 132). Ne sono indicative espressioni come Gratia non tollit naturam, sed perficit (STh I, q. 1, a. 8); Deus, qui est institutor naturae, non substrahit rebus id quod est proprium naturis earum (ScG II, 55). 11

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