ACCADEMIA ITALIANA DELLA VITE E DEL VINO

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1 ACCADEMIA ITALIANA DELLA VITE E DEL VINO Prolusione anno accademico 2015 I VITIGNI AUTOCTONI O ITALICI: PUNTI DI FORZA E DI DEBOLEZZA Egregi Accademici, in questa prestigiosa sede, quella dell Accademia dei Georgofili fondata nel 1753, il mio più sentito ringraziamento per l onore che mi fate oggi. Un onore doppio in quanto non solo sono stato invitato a svolgere la prolusione per l anno accademico 2015, ma anche per la possibilità che mi date di parlare a una platea di accademici e esperti par vostro di una mia grande passione, i vitigni autoctoni. Un ringraziamento particolare quindi al presidente dell Accademia, e anche al prof. Rosario Di Lorenzo che per primo mi ha contattato. Nel mio piccolo, sono da sempre legato al mondo accademico-universitaro e scientifico. Al mondo accademico-universitario in quanto sono stato in passato Research Professor in Viticoltura e Enologia e perché ancora oggi insegno al Master di Food Studies della New York University. E sono legato al mondo scientifico in quanto laureato in Medicina e Chirurgia, che mi ha portato, nelle successive specializzazioni conseguite in atenei nord americani, a agire anche da ricercatore in un laboratorio universitario di biologia cellulare e molecolare. Da sempre, l Accademia Italiana della Vite e del Vino, fondata nel 1949 a Siena quale ente scientifico-culturale ha l obbiettivo di promuovere l applicazione delle scienze all agricoltura e la tutela dell ambiente. Con i suoi vari gruppi di lavoro dedicati per esempio alla genetica, a vino e salute, e alla legislazione viticola, essa porta un contributo concreto allo sviluppo e il potenziamento della viticoltura e l enologia italiana. Con questo mio breve intervento oggi, ho la duplice speranza di dare anche io un piccolissimo contributo alla formattazione di quello che è ormai divenuta una vera e propria scuola di pensiero ma anche di promuovere una sempre maggiore attenzione verso i nostri vitigni autoctoni che rivestono un ruolo importantissimo nella società agricola che si va formando in Italia nel XXIesimo secolo. La mia passione per i vitigni autoctoni o italici nasce quasi trent anni fa quando mi resi conto che un vino Frascati poteva essere pessimo, quando quello prodotto da un altra azienda a pochi passi dalla prima era invece ottimo. Come quasi tutti, anche io in quell epoca pensavo che tutto si riducesse alla maggiore o minore bravura di chi produceva un determinato vino, ma una passeggiata tra i vigneti attorno a Roma in compagnia di un anziano ristoratore locale molto appassionato di vino mi mise davanti a un altra realtà. E cioè che i vini migliori venivano quasi sempre prodotti da uve diverse da quelle che usavano quasi tutti gli altri, uve spesso ormai molto rare e quasi del tutto dimenticate, che sopravvivano solo grazie alla passione di qualche anziano viticultore. Varietà di uve comunque sempre dall aspetto molto diverso dalle altri presenti (la maggioranza) nei vigneti della zona. Da lì nacque il mio desiderio di saperne di più e di studiare, per quanto possibile, i tanti diversi vitigni presenti nelle campagne italiane, convinto che avessero molto da dire in quanto a vini potenzialmente ottimi e soprattutto diversi dai tanti prodotti a partire da Cabernet Sauvignon, Merlot, Chardonnay e gli altri ben noti vitigni internazionali. E non perché i vini prodotti da uve internazionali in Italia o all estero siano in qualche modo inferiori o criticabili, anzi, sono ottimi.

2 Ma io ritenevo e ritengo tutt ora che i vitigni autoctoni italiani sono potenzialmente splendidi, e capaci di produrre vini altrettanto splendidi: non solo, ma che essi costituiscono anche una ricchezza inestimabile per la nostra nazione, ricchezza che non è stata forse sempre capita e apprezzata appieno. Innanzitutto, tengo a precisare il mio utilizzo dei termini autoctono, alloctono (o internazionale) e tradizionale in riferimento ai vitigni. Come dice la parola stessa (autoctono deriva dal greco auto e khthôn, cioè proprio e terra), i vitigni autoctoni sono quelli tipici di una data nazione, lungamente associati ad essa e che non crescono in genere altrove (a meno che non vi siano stati da poco esportati). Invece, i vitigni alloctoni sono quelli che vivono da poco tempo in un determinato luogo, in genere portati lì per replicare uno stilema di vino di successo ma proprio di altri paesi. Non sono quindi tipici (termine usato in questo ambito nel senso di lungamente associato a ) di una data regione o zona vitivinicola, come, per esempio, non lo sono o sarebbero il Gewurztraminer in Sardegna o il Petit Manseng in Molise. Invece, i vitigni internazionali acclimatatisi in un determinato luogo da secoli (almeno anni) sono invece da considerare tradizionali, come lo sono, per esempio, il Pinot Bianco e il Cabernet Franc in Friuli Venezia Giulia, arrivati in regione molto prima del Cabernet Sauvignon e dello Chardonnay. Personalmente, lamento una scarsa utilizzazione del termine vitigno tradizionale da parte dei professionisti della comunicazione e dai produttori stessi, quando invece l utilizzo del termine aiuterebbe non poco ad evitare confusione e inesattezze. E dico questo pur avendo presente come tutti oggi, in un momento in cui la parola autoctono tira molto anche commercialmente, vogliono dire di coltivare vitigni autoctoni. Ma di questo parlerò di nuovo a breve. Quali sono allora i punti di forza e quali i punti di debolezza dei vitigni autoctoni? In questa mia prolusione, ci terrei a soffermarmi soprattutto sui secondi, con la speranza di potere dare un contributo alla conoscenza, interpretazione, studio e lo sviluppo futuro dei vitigni autoctoni e dei vini da essi prodotti in Italia. In breve, i punti di forza dei nostri vitigni autoctoni sono moltissimi. Io sono fermamente convinto che essi rappresentano una enorme ricchezza per la nostra Italia e che abbiano una grande importanza culturale, ecologica, economica, e sociale. L agricoltura oggi torna a essere una attività fondamentale dell economia e della vita sociale del nostro paese, e i vitigni autoctoni hanno in questo un ruolo e importanza fondamentali. Una importanza culturale, in quanto l Italia ha il più grande numero di varietà di uve autoctone o ( italiche ) al mondo, più di Francia, Portogallo e Spagna messe insieme. L Italia riconosce ufficialmente 461 varietà di uve da vino (Registro Nazionale delle Varietà di Vite) ma le stime degli accademici sono ben più alte, tra i 500 e 1000 vitigni diversi, molti ancora da caratterizzare compiutamente. In confronto, oggi il 90% dei vini di Francia e degli USA sono prodotti a partire da solo 10 e 20 vitigni circa. Va sottolineato però che i vitigni autoctoni italiani non sono solo numerosi, ma anche molto antichi. E per via della loro lunga associazione a territori spesso circoscritti, hanno da secoli caratterizzato con la loro presenza specifiche zone viticole italiane. Così, hanno creato un legame indissolubile con la gente del posto, contribuendo a generare storie, tradizioni e abitudini locali. Non a caso Fernand Braudel ha scritto che per i contadini la conservazione di questi vitigni è una missione socio-culturale (Braudel, 1974).

3 Una importanza ecologica, in quanto la conservazione dei vitigni autoctoni aiuta a combattere la riduzione della variabilità genetica del nostro patrimonio vegetale mantenendo l invidiabile ricchezza di biodiversità viticola nazionale. Inoltre, sono varietà di piante che vivono in determinati luoghi da secoli (quando non millenni), e che hanno quindi raggiunto un equilibrio con il proprio habitat. Esse si adattano indubbiamente meglio di altre cultivar a specifici terroir e microclimi. I vitigni autoctoni contribuiscono a una agricoltura ecosostenibile, e concedendomi un neologismo, direi anche ecoamichevole. Infine, i vitigni autoctoni sono vere e proprie risorse genetiche della biodiversità ambientale e come tali andrebbero inquadrati, studiati e difesi. Ma su questo punto tornerò a breve. Una importanza economica, in quanto oggi il ritorno economico in agricoltura è strettamente legato alla tipicità dei prodotti storicamente associati a un territorio, e in questo i vitigni autoctoni sono assolutamente imbattibili. Tutti i trend di consumo nazionale e internazionale indicano chiaramente come gli appassionati oggi sono alla ricerca e acquistano più volentieri vini che abbiano qualcosa da dire ; e mentre, per esempio, le vendite di Supertuscan una volta molto ambiti oggi languono, nascono in tutto il mondo wine bar e ristoranti dalle carte dei vini dedicate solo a vini prodotti da vitigni autoctoni. Non a caso il sociologo francese Pierre Bourdieu ha coniato il termine capitalismo culturale per indicare quell insieme di fattori non finanziari che sostengono e spingono lo sviluppo di un popolo e una zona a raggiungere obbiettivi che non sarebbero per loro altrimenti raggiungibili (Bourdieu, 1986). Infine, una importanza sociale. Noi siamo italiani non solo per la nostra lingua, la nostra storia, i nostri monumenti, ma anche per via di quello che mangiamo e beviamo. E prima ancora che italiani, noi siamo friulani, toscani e lucani. Siamo liguri in quanto tendiamo a bere vini prodotti a partire da Pigato e Vermentino, siamo friulani perché tendiamo a bere vini da Ribolla Gialla o Friulano. Questo caratterizza liguri e friulani proprio come il loro mangiare preferibilmente cioppino e pesto al basilico, potizza e gubana. Predilezioni che si mantengono anche osservando le abitudini di coloro che hanno fatto parte di flussi migratori: anche coloro che si trasferiscono mantengono sempre negli anni una predilezione per i vini del loro passato, i vini che gli ricordano qualcosa. I vini da vitigni autoctoni, in quanto legati intimamente agli anni che passano, i luoghi della nostra infanzia, alle tradizioni e i ricordi, sono parte della carta d identità di ognuno di noi, ci ricordano chi siamo e da dove veniamo. E non c è futuro senza passato. Apriamo invece ora il cahier des doleances, ovverossia i punti di debolezza dei vitigni autoctoni o italici. Voglio enunciare da subito e in modo chiaro un concetto per me fondamentale: è assolutamente sbagliato, o comunque poco illuminato, sostenere che molti dei nostri vitigni autoctoni sono sovente scarsi, e non propedeutici a produrre vini di grande qualità. Tale affermazione potrà, potrebbe, essere anche vera per un numero di vitigni autoctoni che chiamano l Italia casa loro da secoli, ma la realtà è che molti sono stati abbandonati da tempo immemore e pochissimo studiati. Rendiamoci conto che perfino il Sangiovese, di gran lunga la più coltivata varietà di uva da vino in Italia, è diventato oggetto di studi universitari approfonditi solo negli anni 60 del XXesimo secolo, e veramente dettagliati solo negli anni 80 dello stesso secolo. Abbiamo quindi ancora molta strada da fare in termini di comprensione delle migliori esposizioni, terreni, giaciture, microclimi, portainnesti, biotipi, cloni, metodi di potatura, rese per ettaro, tecniche di vinificazione e modalità di affinamento e molto altro ancora prima di potere affermare giudizi equi sul potenziale vinicolo o meno di una data cultivar. Non fosse per la passione di qualche

4 viticoltore/produttore e di aziende particolarmente illuminate, oggi forse non potremmo parlare di vini da uve Schioppettino (essenzialmente dimenticato fino agli anni 70), Pecorino (desaperecido o quasi anche lui fino agli anni 80-90) o Uva di Troia. Per non parlare di Recantina, Roussin de Morgex o Roviello. Ricordo che nel 2000, quando partecipavo alla selezione regionale dei vini di Puglia per una nota guida ai migliori vini d Italia, non avevamo in esame un solo vino da Uva di Troia in purezza. Nel 2001, i campioni erano due o tre. L anno dopo otto-nove; oggi i produttori che si cimentano con questo vitigno a produrre vini in purezza sono più di una ventina. Solo dieci anni fa, i produttori etnei di vini da Nerello Mascalese in purezza in volumi commercialmente rilevanti si potevano contare sulle dita di una mano. Oggi sono più di sessanta. Avendo chiarito il mio pensiero in materia, voglio aggiungere molte delle difficoltà incontrate dai vitigni autoctoni ancora oggi non sono solo legate alla scarsa conoscenza degli stessi da parte di tutti gli addetti ai lavori, ma peggio ancora, alla molto scarsa conoscenza che hanno gli stessi produttori e i professionisti della comunicazione dell ampelologia. Ampelologia intesa come la scienza che racchiude tutte le scienze che concorrono allo studio della vite e dei suoi organi, e quindi ampelografia, ampelometria, studi biochimici (come ad esempio degli isoenzimi) e analisi del DNA (per esempio, con la ricerca dei micro satelliti). Non è raro sentire produttori affermare che Corvina e Corvinone sono cloni, quando i primi studi dimostrando che le due cultivar non sono nemmeno imparentate sono del lontano 1993 (Cancellier e Angelini), risultati poi ampliati nel 2003 con dati genetici (Vantini et al.). Lo stesso dicasi per Nebbiolo e Nebbiolo Rosé (Botta et al. 2000, Schneider et al. 2004). Ma al di fuori del mondo accademico, la confusione in merito a realtà anche semplici quali cloni e biotipi è totale. Una corretta identificazione varietale rappresenta un altro grande problema per i nostri vitigni autoctoni. Sinonimie e omonimie sono ancora all ordine del giorno, benché molto è stato fatto in questi anni per migliorare lo stato delle consocenze. Indubbiamente, la grande variabilità morfologica e genetica che caratterizzano il genere Vitis rappresenta una delle difficoltà maggiori nell arrivare a identificazioni varietali corrette. Inoltre, gli ambienti profondamente diversi in cui la Vitis vinifera abita da sempre ed e coltivata contribuiscono ulteriormente ad aumentare la variabilità all interno della specie. Variabilità che sarà poi tanto maggiore quanto è più antica la cultivar stessa, quanto più è stata oggetto di coltivazione, e quanto più esteso è l areale di coltivazione o la sua distribuzione geografica. Di conseguenza, rischiamo oggi non solo un eccessivo revisionismo ( quella non è la varietà che hai sempre creduto ) ma anche di un eccessivo riduzionismo ( queste due, tre, quattro varietà sono tutte le stesse del nostro patrimonio varietale e della nostra storia. L applicazione di nuove tecniche di biologia molecolare è stato un grande passo avanti per lo studio della variabilità della vite. Grazie allo sviluppo di marker molecolari quali RAPD, AFLP, SNP e soprattutto gli SSR abbiamo potuto chiarire in molti casi quali accessioni siano identiche e quali no: come sappiamo, viti con lo stesso profilo SSR appartengo alla stessa cultivar mentre varietà differenti presentano profili alleli SSR diversi. Come logica conseguenza di ciò, sono stati creati interi database molecolari per identificare le diverse varietà di vite (e anche diverse specie di vite). Ma le analisi microsatellitari sono alla mercé delle analisi ampelografiche eseguite a monte, che quando non effettuate correttamente, portano fatalmente a delle conclusioni errate anche dal punto di vista genetico. Gli esempi sono moltissimi, per esempio la confusione in USA tra Mondeuse

5 Noire e il nostro Refosco o quella australiana tra Albarino e Savagnin ; anche in Italia abbiamo avuto molte identificazioni che poi sono dovute essere riviste. Ma se in un vigneto dicono esserci solo Aglianico quando in realtà ci sono anche piante di Tronto, Piedirosso, Tintore e magari anche qualche uva bianca, allora solo l esperienza e la meticolosità dell ampelografo che per primo stabilisce l identificazione della pianta ci può salvare da tutti i problemi che ne potrebbero seguire. E se oggi le analisi genetiche rimangono essenziali per la corretta identificazione delle differenti varietà, uno studio di un numero troppo esiguo di marker SSR (sopratutto per quelle varietà molto imparentate) può anche portare a identificazioni non esatte. Fermo restando che solo perché alcuni segmenti di DNA sono all apparenza, o meglio, allo stato attuale delle nostre conoscenze identici, ciò non vuole dire che essi siano trascritti e tradotti in modi uguale per ogni varietà in esame. In molti accademici e studiosi sostengono, a mio parere non a torto, che vitigni geneticamente identici allo stato attuale delle nostre conoscenze ma dal fenotipo diverso e che producono vini anche diversi, dovrebbero essere considerati come vitigni differenti. Infatti, tornando un attimo alla creazione dei database molecolari ai quali si attinge per completare gli studi molecolari, faccio solo notare che diversi autori hanno evidenziato come accessioni coltivate in collezioni varietali aventi lo stesso profilo SSR non debbono essere automaticamente considerate ridondanti, come anche che viti che hanno lo stesso profilo SSR ma fenotipi diversi e che danno vini diversi non vanno considerate identiche ma addirittura come varietà diverse (Pelsy et al., 2010; Emanuelli et al., 2013). Infine, gli SSR non sono utilizzabili, come del resto illustrato recentemente anche in una presentazione all AIVV del 14 Giugno 2013 degli Acc. Meneghetti et al. per distinguere tra cloni e biotipi di una varietà, un non piccolo problema considerando la ricchezza fenotipica dei nostri vitigni. Per fortuna, sappiamo da studi recenti che la difficoltà presentata dalla grande variabilità intravarietale della Vitis vinifera, dovuta a una variabilità morfologica ma anche genetica, con la creazione di più biotipi o sotto-varietà della cultivar di partenza può essere affrontata con studi più approfonditi. Per esempio, attraverso una combinazione di marker quali gli SSR, AFLP, ISSR, SAMPL, e M-AFLP. Questo insieme di metodiche ci permette da un alto di identificare con sicurezza il vitigno in esame (grazie agli SSR), e dall altro di evidenziare le differenze genetiche presenti negli stessi. I micro satelliti SSR rimangono fondamentali per identificare alla meglio le singole varietà, ma l utilizzo dei quattro altri marker permette di evidenziare molti più polimorfismi e quindi di discriminare tra vitigni simili fra loro. Così oggi invece si può non solo identificare la varietà in esame, ma si può stabilire un profilo molecolare diverso per ogni accessione in esame raggruppandole anche in base alla provenienza geografica. Studi di ricerca utilizzando questo approccio hanno contribuito non poco ad illuminare la situazione complessa di varietà quali Malvasia Nera di Lecce/Brindisi e del Cannonau (Meneghetti et al., 2011; Meneghetti et al., 2012). I risultati di questi studi hanno un valenza non solo intellettuale, ma anche pratica. Oggi si può e si deve arrivare a una propagazione di materiale vegetale che sia attenta al territorio originale di provenienza del materiale stesso, arrivando così a salvaguardare il patrimonio di biotipi tipici di ogni singolo territorio. In altre parole, non dovrebbe essere più permesso l impianto a caso di biotipi di, per esempio, Aglianico di Taurasi in Basilicata (e viceversa), oppure di Cannonau tipico di una parte della Sardegna in altre zone dell isola. In altre parole, dovremmo pensare a una propagazione

6 non più clonale ma per biotipi territoriali, che per certi versi è quello che hanno da sempre fatto i contadini con le loro selezioni massali. Anche così si difende e si qualifica un territorio, e la produzione alimentare che lì nasce. In conclusione, i vitigni autoctoni rappresentano una grande ricchezza per la nostra nazione, ma vanno studiati, difesi e promossi con rigore scientifico evitando strattagemmi dalle gambe corte che non aiuteranno il settore vitivinicolo italiano a crescere nel tempo. Peggio, si rischia di buttare via una nostra grande risorsa attraverso logiche commerciali di corto respiro. In questa ottica, la legge 82 del 20 Febbraio 2006 che stabilisce come autoctono un vitigno piantato da cinquant anni in un determinato territorio è una grande occasione persa. Il mio augurio è che tutti gli accademici e gli appassionati di vino aiuteranno a portare avanti un discorso più attento e qualitativo in futuro, valorizzando i nostri tanti vitigni autoctoni, così contribuendo a rendere sempre più prospere le nostre campagne.

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