LE CAUSE DI GIUSTIFICAZIONE



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LEZIONE: L ANTIGIURIDICITÀ PROF. GIUSEPPE SACCONE

Indice 1 LE CAUSE DI GIUSTIFICAZIONE --------------------------------------------------------------------------------------- 3 1.1. SEGUE: LA SCRIMINANTE PUTATIVA ------------------------------------------------------------------------------------ 4 1.2. SEGUE: C) L ECCESSO NELLE CAUSE DI GIUSTIFICAZIONE ----------------------------------------------------------- 5 2 IL CONSENSO DELL'AVENTE DIRITTO------------------------------------------------------------------------------ 7 2.1 SEGUE: NATURA GIURIDICA E REQUISITI DEL CONSENSO ---------------------------------------------------------------- 8 3 L'ESERCIZIO DEL DIRITTO --------------------------------------------------------------------------------------------- 11 3.1 SEGUE: IL DIRITTO DI CRONACA -------------------------------------------------------------------------------------------- 12 3.2 SEGUE: GLI OFFENDICULA -------------------------------------------------------------------------------------------------- 13 3.3 SEGUE: LO IUS CORRIGENDI ------------------------------------------------------------------------------------------------- 14 4 L'ADEMPIMENTO DEL DOVERE -------------------------------------------------------------------------------------- 16 4.1 SEGUE: L'AGENTE PROVOCATORE ------------------------------------------------------------------------------------------ 18 4.2 LA LEGITTIMA DIFESA: A) L'AGGRESSIONE INGIUSTA ------------------------------------------------------------------- 18 4.3 SEGUE: B) LA REAZIONE LEGITTIMA --------------------------------------------------------------------------------------- 21 4.4 SEGUE: C) LEGITTIMA DIFESA E DIRITTO ALL'AUTOTUTELA NEL PRIVATO DOMICILIO: PRESUPPOSTI E LIMITI ---- 23 5 LO STATO DI NECESSITÀ ------------------------------------------------------------------------------------------------ 24 6 PROVOCAZIONE ATTENUANTE E PROVOCAZIONE SCRIMINANTE ------------------------------------ 27 9 LA RITORSIONE ------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 29 10 LA PROVA LIBERATORIA O EXCEPTIO VERITATIS ------------------------------------------------------------ 30 11 LE SCRIMINANTI NON CODIFICATE -------------------------------------------------------------------------------- 32 12 L'ATTIVITÀ MEDICO-CHIRURGICA --------------------------------------------------------------------------------- 33 2 di 34

1 Le cause di giustificazione Le cause di giustificazione o scriminanti sono determinate situazioni in presenza delle quali un fatto che è vietato in quanto costituisce reato deve, invece, considerarsi lecito poiché vi è una norma dell' ordinamento che lo autorizza o lo impone; ricorrendo tali situazioni, pertanto, un fatto conforme alla fattispecie astratta rimane esente da pena perché l'ordinamento lo autorizza, lo consente o l'impone: così se il cagionare la morte di un uomo costituisce illecito penale, non lo è ove la vittima stava a sua volta uccidendo l'omicida. Le scriminanti vanno ricomprese nella più ampia categoria delle cd. esimenti che costituiscono una categoria generale a cui sono riconducibili tutte le ipotesi di non punibilità richiamate dall'art. 59 ultimo comma c.p. Nell'ambito delle esimenti rientrano, come sottospecie, le cause di giustificazione (legittima difesa, esercizio del diritto etc.); le scusanti riconducibili al principio di «inesigibilità», come impossibilità di esigere dal soggetto un determinato comportamento (es. stato di necessità determinato dall'altrui minaccia: art. 54, comma terzo); nonché altre ipotesi di non punibilità determinate da ragioni di opportunità politico-criminale (es. art. 649 c.p.: non punibilità del furto tra stretti congiunti). Le cause di giustificazione si distinguono dalle cause di esclusione della colpevolezza che operano sul piano dell'elemento soggettivo; si distinguono dalle cause di esclusione della pena in quanto mentre le prime escludono che un fatto possa qualificarsi reato rendendolo lecito ab origine, le seconde, invece, escludono semplicemente che al fatto-reato consegua la concreta inflizione della pena; si distinguono infine dalle cause di estinzione del reato che sopravvengono allo stesso. Le cause di giustificazione sono soggette alla applicazione di talune norme, contenute negli artt. 55 e 59 c.p., che pongono i principi generali della materia. In base al comma primo dell'art. 59 c.p. «le circostanze che [...] escludono la pena sono valutate a favore dell'agente anche se da lui non conosciute, o da lui per errore ritenute inesistenti». Ciò significa che le cause di giustificazione esplicano il loro effetto scriminante obiettivamente, per il solo fatto di esistere ed a prescindere dalla consapevolezza della loro ricorrenza che ne abbia l'agente. Ne deriva, ad esempio, che dovrebbe andare esente da pena colui che spari ed uccida un terzo con intenzione aggressiva senza accorgersi che in un momento appena anteriore questi stava a sua volta per ucciderlo; in tal caso infatti ricorre, da un punto di vista meramente oggettivo, una situazione di legittima difesa anche se l'agente non ne era consapevole ed ha sparato non per difendersi ma per offendere. 3 di 34

1.1. Segue: La scriminante putativa Il comma terzo dell'art. 59 c.p. stabilisce che «se l'agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena, queste sono sempre valutate a favore di lui. Tuttavia se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo». La norma comporta l'equiparazione della ritenuta esistenza di una causa di giustificazione alla sua esistenza effettiva (cd. scriminante putativa). Si pensi al caso di Tizio che per errore di percezione crede di essere aggredito da Caio con una pistola per cui reagisce e lo uccide. Tizio, se l'errore non è stato determinato da colpa, andrà del tutto esente da pena. La ratio della norma è chiara: in una situazione siffatta non può certo dirsi che Tizio abbia sparato per uccidere, con il dolo proprio dell' omicidio, bensì per difendersi. Quindi la regola per la quale l'erronea supposizione della ricorrenza di una scriminante fa venir meno la punibilità costituisce applicazione della disciplina generale dell'errore sul fatto prevista dall'art. 47 c.p.. Infatti chi commette il reato nell'erronea supposizione dell'esistenza di una causa di giustificazione vuole un fatto diverso da quello che costituisce reato. È, peraltro, evidente che l'erronea supposizione della sussistenza di una scriminante non può basarsi su un mero criterio soggettivo, riferito al solo stato d'animo dell'agente, ma deve essere sostenuta da dati di fatto concreti, che siano tali da giustificare l'erroneo convincimento in capo all'imputato di trovarsi in tale situazione (Cass. 13-1- 2005, n. 436). In tal senso, in relazione alla legittima difesa putativa, la Cassazione ha di recente sostenuto che l'errore scusabile che può giustificare la scriminante putativa deve trovare adeguata giustificazione in qualche fatto che, seppure malamente rappresentato o compreso, abbia la possibilità di determinare nell'agente la giustificata persuasione di trovarsi esposto al pericolo attuale di un'offesa ingiusta sulla base di dati di fatto concreti, e cioè di una situazione obiettiva atta a far sorgere nel soggetto la convinzione di trovarsi in presenza di un pericolo presente ed incombente, non futuro o già esaurito, di un'offesa ingiusta (Cass. 2-2-2006, n. 4337). Se tuttavia 1' erronea supposizione è dovuta a colpa dell' agente, a precipitazione, a carente ponderazione della situazione, la punibilità dell'agente non è esclusa se il fatto è previsto dalla legge come delitto colposo. Così, nell' esempio precedente, se Tizio ha sparato troppo precipitosamente, in una situazione nella quale poteva rendersi conto che Caio non lo stava effettivamente 4 di 34

aggredendo, dovrà rispondere di omicidio colposo poiché il delitto di omicidio è preveduto dalla legge anche nella sua forma colposa. Occorre tuttavia precisare che affinché possa operare la disciplina suddetta l'errore deve cadere sui presupposti di fatto della scriminante; l'agente cioè deve credere di operare in una situazione di fatto tale che, se effettivamente esistente, ricorrerebbe una delle cause di giustificazione previste dalla legge. Non si avrà, invece, alcuna efficacia scriminante quando il soggetto creda per errore sul precetto che nella situazione in cui si trova la sua azione sia imposta, autorizzata o consentita dall'ordinamento: così non si applicherà l'art. 59 ultimo comma c.p. ma l'art. 5 c.p. se il soggetto per esempio reagisca di fronte alla provocazione verbale dell'avversario erroneamente credendo che tale provocazione scrimini la sua condotta ritenendo la provocazione una vera e propria causa di giustificazione invece che una mera circostanza attenuante. 1.2. Segue: c) L eccesso nelle cause di giustificazione Altra regola generale in tema di cause di giustificazione è prevista dall'art. 55 c.p. che stabilisce che «quando nel commettere alcuni dei fatti preveduti dagli articoli 51, 52, 53 e 54, si eccedono colposamente i limiti stabiliti dalla legge o dall'ordine dell'autorità ovvero imposti dalla necessità, si applicano le disposizioni concernenti i delitti colposi, se il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo». In tali casi si parla di eccesso colposo. Esso si ha quando nella situazione concreta ricorrono i presupposti di fatto di una causa di giustificazione ma l'agente, per colpa determinata da imperizia, negligenza o imprudenza, supera i limiti oggettivi di queste scriminanti nel senso che il comportamento dell'agente fino ad un certo punto è sorretto da una causa di giustificazione realmente esistente ma nel suo sviluppo successivo ne travalica i limiti; e questo superamento dei limiti deve essere dovuto a colpa. Si pensi al caso di Tizio che, aggredito da Caio con un frustino, lo scambi per un'arma da taglio e così si difenda con un coltello ferendo Caio; qui per un errore di valutazione sui limiti della aggressione e quindi della azione scriminata si è arrecata una offesa più grave all'aggressore di quella consentita dalla situazione di fatto e quindi dalla gravità della aggressione. Sussiste eccesso colposo anche nel caso di Tizio che valuta esattamente la gravità della aggressione e quindi i limiti della liceità della sua difesa ma, nella concitazione del momento, per un errore nell'uso dei mezzi difensivi, cagioni all'aggressore una offesa più grave di quella consentita. 5 di 34

In entrambi i casi la causa di giustificazione sussiste effettivamente e fino ad un certo punto scrimina la condotta dell'agente ma va al di là o per un errore di percezione (errore - motivo) o per un errore nella fase esecutiva della difesa (errore - inabilità); il soggetto risponderà del fatto a titolo di delitto colposo se la legge ne prevede la punibilità anche a titolo di colpa. L'eccesso colposo deve distinguersi: a) da un lato, dall'eccesso incolpevole che si ha quando il superamento dei limiti di liceità dell'azione non sia rimproverabile al soggetto ma dipenda da caso fortuito o forza maggiore o da un errore scusabile di percezione (in questo caso il soggetto andrà del tutto esente da responsabilità anche a titolo di colpa); b) dall'altro dall'eccesso doloso che ricorre quando il soggetto, pur rendendosi conto della situazione e dei limiti di liceità del suo agire, volontariamente li travalichi. In tal caso la ricorrenza della scriminante è solo un pretesto per il compimento di una più grave azione delittuosa della quale quindi l'agente risponderà a titolo di dolo: si pensi al caso di Tizio che pur rendendosi conto che l'intenzione di Caio è solo quella di schiaffeggiarlo lo uccide deliberatamente esplodendogli contro dei colpi di pistola. La disposizione relativa all' eccesso colposo è applicabile anche in caso di scriminante putativa quando cioè l'eccesso si riferisca ad una causa di giustificazione che non esiste nella realtà ma è solo supposta dall'agente che pertanto supera i limiti che avrebbero dovuto essere rispettati se la scriminante fosse stata realmente esistente: così ad esempio nel caso di chi, erroneamente ritenutosi aggredito reagisce esageratamente. 6 di 34

2 Il consenso dell'avente diritto A norma dell'art. 50 c.p. «non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto col consenso della persona che può validamente disporne». Il consenso quale causa di giustificazione deve essere tenuto distinto dal consenso inteso come volontà che fa venir meno un elemento del reato. Ciò accade quando il dissenso sia requisito implicito o esplicito dello stesso; si pensi al reato di violenza sessuale: il dissenso della vittima è elemento del reato per cui l'eventuale consenso non funge da causa di giustificazione ma determina il venir meno di un elemento costitutivo del reato 1. Il consenso funge, invece, da vera e propria causa di giustificazione quando il fatto, per come è realizzato, è tipico, è conforme cioè alla fattispecie astratta 2. In conclusione, mentre nel primo caso è esclusa la ricorrenza di un fatto tipico, nel secondo invece è esclusa 1' antigiuridicità di un fatto tipico. Requisiti del consenso giustificante sono i seguenti: esso deve avere ad oggetto un diritto disponibile; deve essere prestato dal soggetto titolare del diritto(legittimazione), che sia capace e che lo presti validamente (validità); deve esistere al momento del fatto. Il consenso dell'avente diritto trova il fondamento della sua efficacia scriminante nel venir meno della tutela dell'interesse protetto in quanto lo stesso titolare vi ha rinunciato. Ne deriva però che una simile efficacia scriminante può riguardare solo ed esclusivamente interessi che non hanno un rilievo anche per lo Stato o per la collettività affinchè la loro lesione non determini un danno sociale e tocchi il solo titolare. Per questo la norma ne limita l'efficacia ai soli diritti-interessi disponibili mentre è esclusa per la lesione dei diritti indisponibili, che hanno cioè una diretta rilevanza superindivinduale come ad esempio la vita (è infatti reato l'omicidio del consenziente ex art. 579 c.p.). 1 Per cui, ove venga provato il consenso della presunta vittima al rapporto sessuale, l'imputato andrà assolto con la formula «perché il fatto non sussiste». Il consenso infatti qui fa venir meno non l'antigiuridicità ma, ancora prima, la stessa conformità del fatto alla fattispecie incriminatrice. 2 In questo caso, ricorrendo il consenso della vittima, l'imputato andrà assolto con la formula perché il fatto non costituisce reato. 7 di 34

Pur essendo impossibile rinvenire un criterio generale e dovendosi necessariamente procedere caso per caso anche in considerazione della entità della lesione, può dirsi che debbono ritenersi indisponibili, con conseguente irrilevanza del consenso, i diritti tutelati in quanto appartenenti alla collettività, nonché i diritti dell'individuo che sono di interesse pubblico e che quindi vengono tutelati indipendentemente dalla sua volontà. Possono, perciò, considerarsi disponibili i diritti patrimoniali come il diritto di proprietà purché non si eccedano certi limiti (così può consentirsi alla distruzione o all'incendio di una cosa propria sempreché il fatto non ponga in pericolo la comunità); entro certi limiti possono considerarsi disponibili i diritti della personalità come l'onore purché però l'offesa recata allo stesso non sia tale da ridurre del tutto il valore sociale della vittima; parzialmente disponibili sono anche i diritti della persona fisica come ad esempio il diritto all'integrità fisica; in questo campo il criterio direttivo è costituito dall'art. 5 c.c. a norma del quale «gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente dell'integrità fisica o quando siano contrari alla legge, all'ordine pubblico o al buon costume». Da ciò deriva che potrà consentirsi, salvo le ipotesi previste dalle legislazione speciale (es. trapianto di reni tra viventi), solo a quelle lesioni della propria salute che non cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica della vittima; oltre questa soglia il fatto costituirà sempre reato (es. amputazione di un braccio) anche se attuato con il consenso della persona offesa 3. 2.1 Segue: Natura giuridica e requisiti del consenso Quanto alla natura giuridica dell' atto di prestazione del consenso questo va inquadrato nell'ambito dell'atto giuridico in senso stretto con il quale si attribuisce al destinatario il potere, il permesso, e non l'obbligo, di agire. Legittimato a prestare il consenso è solo il titolare dell'interesse protetto, cioè colui che sarebbe soggetto passivo del reato; parte della dottrina, ritenendo che lo stesso vada prestato personalmente, esclude la possibilità della rappresentanza in materia. Per altra dottrina (MANTOVANI) la rappresentanza è ammissibile purché compatibile con la natura del diritto e dell'atto da consentire. Colui che presta il consenso deve essere capace di intendere e di 3 In tema di lesioni personali, il consenso dell'avente diritto ha efficacia, come causa giustificatrice, se viene prestato volontariamente nella piena consapevolezza delle conseguenze lesive all'integrità personale, sempre che queste non si risolvano in una menomazione permanente che faccia perdere rilevanza al consenso prestato. 8 di 34

volere al momento della prestazione ed avere una maturità psicofisica sufficiente a comprendere il significato del consenso prestato. Per quanto riguarda la capacità di agire, in alcuni casi è il legislatore stesso a fissare un'età minima: es. diciotto anni per i reati in materia patrimoniale, quattordici per la violenza sessuale etc. Negli altri casi la dottrina più recente (FIANDACA-MUSCO) ritiene che si debba indagare di volta in volta. Il consenso deve essere espresso in maniera libera e non viziata e, soprattutto consapevole (questo aspetto rimanda al problema del cd. consenso informato). Deve, inoltre, essere manifestato all'esterno, anche se non è richiesta una forma particolare. L'esistenza del consenso può essere infatti anche desunta da un comportamento concludente del tutto incompatibile con la volontà di non consentire (cd. consenso tacito). Il consenso deve, poi, essere lecito e cioè non contrario a norme imperative, ordine pubblico e buon costume e attuale, cioè deve esiste- re al momento del fatto per cui non deve essere revocato e non può essere successivo. Dal consenso tacito, che è effettivamente esistente, vanno distinti il consenso putativo ed il consenso presunto. 6. Segue: consenso putativo e consenso presunto Si parla di consenso putativo quando colui che agisce ritiene, per errore, sussistente il consenso della persona offesa. In questo caso difetta il dolo per cui, se errore non dipende da colpa, l'agente andrà esente da responsabilità; se invece l'errore è colposo risponderà di delitto colposo ove il fatto sia punibile che a tale titolo (si applica chiaramente la regola prevista dall' art. 59, comma terzo, c.p. di cui già si è detto). Si ha invece consenso presunto, secondo la teoria oggettiva, quando colui che agisce sa che non vi è il consenso ma compie ugualmente l'atto perché gli appare vantaggioso per l'avente diritto: così non commette reato colui che si introduce con effrazione nell' abitazione altrui per chiudere il gas. Secondo la teoria soggettiva, invece, il consenso presunto ricorre quando 'avente diritto non abbia potuto esprimere il consenso ma può ritenersi che lo avrebbe prestato ove avesse potuto conoscere il fatto e pronunciarsi in relazione ad esso. Particolarmente complessi sono i rapporti tra il consenso e l'attività medico-chirurugica che saranno più diffusamente trattati nella parte relativa alle ed. scriminanti non codificate. In questa sede è sufficiente dire che il consenso costituisce un indefettibile presupposto di liceità. In tale 9 di 34

campo non viene in considerazione l art. 5 c.c. perché il fine è quello della tutela della salute e quindi non operano i limiti previsti dalla norma citata: si pensi alla amputazione di un arto per evitare il diffondersi della cancrena e quindi la morte del paziente. Al riguardo occorre distinguere. Ove vi sia il consenso e l'esito sia favorevole non si avrà alcuna menomazione della integrità fisica e quelle che dovessero eventualmente verificarsi sono comunque funzionali al recupero della vita o della salute del paziente. In caso di esito infausto, invece, eccone distinguere: se vi è il consenso e non vi è alcuna colpa del medico lo stesso andrà del tutto esente da responsabilità trattandosi di una attività autorizzata che si muove nell'ambito di un rischio consentito; se invece, pur sussistendo il consenso del paziente, l'esito infausto si verifica per negligenza o imperizia del sanitario, questi risponderà dell'evento a titolo di colpa. In caso di difetto di consenso se l'esito dell'intervento è positivo comunque residuano i reati di sequestro di persona o di violenza privata a meno che il medico che abbia agito senza o contro la volontà del soggetto possa invocare lo stato di necessità; se, invece, l'esito è negativo ricorreranno le lesioni dolose o l'omicidio preterintenzionale a seconda dell'evento che si dovesse verificare. Il consenso del paziente deve essere manifestato preventivamente al trattamento medico-chirurgico da eseguire. Il chirurgo non è abilitato ad eseguire un diverso intervento, non preventivato nè consentito ed al di fuori di una condizione di necessità ed urgenza per la salute del paziente. Le lesioni derivanti da un intervento chirurgico eseguito senza consenso del malato configurano il delitto di lesioni personali volontarie. Si delinea il delitto a art. 584 c.p. qualora dalle lesioni consegua, come evento non voluto, la morte del paziente 4. 4 Il chirurgo che, in assenza di necessità ed urgenza terapeutiche, sottopone il paziente ad un intervento operatorio di più grave entità rispetto a quello meno cruento e comunque di più lieve entità del quale lo abbia informato preventivamente e che solo sia stato da quegli consentito, commette il reato di lesioni volontarie, irrilevante essendo sotto il profilo psichico la finalità pur sempre curativa della sua condotta, sicché egli risponde di omicidio preterintenzionale se da quelle lesioni derivi la morte. 10 di 34

3 L'esercizio del diritto L'art. 51 comma primo c.p. stabilisce che «l'esercizio di un diritto [...] esclude la punibilità». Per spiegare la rado della tradizionale regola qui iure suo utitur neminem laedit si ricorre ad una ragione logica ed una sostanziale. La prima va ravvisata nel principio di non contraddizione in quanto sarebbe logicamente inconcepibile che l'ordinamento prima concede un potere di agire e poi ne sanziona penalmente l'esercizio. La seconda va ravvisata nella prevalenza dell'interesse di chi agisce esercitando un diritto rispetto ad interessi eventualmente confliggenti: infatti se l'ordinamento ha riconosciuto ad un soggetto una data facoltà vuol dire che ha riconosciuto la prevalenza del suo interesse rispetto agli interessi contrari. In ordine a questa scriminante si pongono problemi in relazione alla individuazione delle fonti che prevedono il diritto, al concetto stesso di diritto ed ai limiti dello stesso. In relazione alla portata del concetto nella prassi applicativa si interpreta il termine diritto in modo restrittivo nel senso che si richiede un vero e proprio diritto soggettivo protetto dalla norma in modo individuale e diretto e di cui sia titolare il cittadino uti singulus. La dottrina dominante, invece, tende a conferire all'espressione la massima estensione possibile per cui vi si fa rientrare qualsiasi potere giuridico di agire quale che sia la relativa denominazione legislativa o dogmatica. In questo senso la scriminante abbraccia tutte le attività giuridicamente autorizzate. Non rientrano, invece, gli interessi legittimi e semplici in quanto non strutturalmente suscettibili di esercizio. Quanto alla fonte del diritto l'opinione tradizionale ritiene che possa essere la più varia: la legge ordinaria, il regolamento, il provvedimento amministrativo, il contratto di diritto privato, la legge regionale, la consuetudine etc. L'esistenza e l'esercizio del diritto non valgono di per sé ad escludere la punibilità occorrendo all'uopo un'altra serie di condizioni. In primo luogo occorre che il soggetto ponga in essere una condotta che costituisce estrinsecazione delle facoltà inerenti al diritto e di conseguenza la scriminante non è invocabile se l'esercizio del potere esuli dal fine per il quale è attribuito. È necessario, quindi, un rapporto di congruenza tra esercizio del diritto e fatto commesso; in tal senso si afferma che non basta che l'ordinamento attribuisca un diritto perché il fatto commesso nel suo esercizio non sia punibile ma occorre che la legge consenta di esercitarlo, quantomeno 11 di 34

implicitamente, proprio attraverso quella determinata azione che costituisce reato (ANTOLISEI); si richiede cioè che la condotta con i caratteri concreti posti in essere dall'agente rientri tra quelle previste dalla norma attributiva del diritto. Ai fini della operatività della causa di giustificazione, il fatto penalmente rilevante deve essere stato determinato dalla necessità di esercitare il diritto. Poiché è necessario un rapporto di proporzione tra interesse protetto dal diritto ed interesse leso, occorre individuare i limiti cui va incontro l'esercizio del diritto per la salvaguardia di altri interessi meritevoli di tutela. In proposito si è soliti distinguere tra limiti interni e limiti esterni. I primi derivano dalla natura e funzione del diritto esercitato per cui essi segnano l'esatto ambito della norma attributiva del diritto. I secondi, invece, vanno ricavati dal complesso delle norme giuridiche di rango pari o superiore alla norma attributiva e consistono nella salvaguardia di quei diritti o interessi che abbiano valore uguale, o addirittura maggiore, di quello del cui esercizio si discute. Quanto ai diritti riconosciuti da norme costituzionali essi non possono essere limitati da norme di rango inferiore. Nell'eventuale contrasto tra diritti costituzionalmente protetti e norme incriminatrici, prevalgono i primi 5. Importanti applicazioni dell'art. 51 c.p. si rinvengono in relazione ai diritti di cronaca, di critica, di sciopero, di difesa della proprietà 'e di correzione nei confronti dei minori. 3.1 Segue: il diritto di cronaca LA cronaca giornalistica, sia questa giudiziaria o di altra natura, rientra nella più ampia categoria dei diritti pubblici soggettivi relativi alla libertà di pensiero e di stampa consacrati dall'art. 21 Cost. per cui il suo esercizio scrimina eventuali reati commessi. Posta questa premessa si è allora affermato che il diritto di cronaca può essere esercitato anche quando derivi danno all'altrui reputazione purché vengano rispettati determinati limiti e cioè: 1. che la notizia sia vera o, quantomeno, seriamente accertata (cd. limite della verità); 5 Così nella prospettiva della salvaguardia dei diritti costituzionalmente garantiti la Cassazione è giunta ad ammettere che la causa di giustificazione in esame è applicabile al reato di rivelazione del segreto d'ufficio se la rivelazione è fatta per difendersi in giudizio essendo il diritto di difesa ex art. 24 Cost. prevalente rispetto alle esigenze di segretezza e buon andamento della P.A. 12 di 34

2. che esista un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti medesimi nel senso che la loro divulgazione contribuisca alla formazione di una opinione pubblica su fatti oggettivamente rilevanti per la comunità (limite della pertinenza); 3. che la esposizione della notizia sia mantenuta nei limiti della obiettività, serenità ed adeguatezza del linguaggio senza che si travalichi da una esposizione e da una critica civile anche se vivace (limite della continenza). Dal diritto di cronaca occorre distinguere il diritto di critica in quanto quest' ultimo, a differenza del primo, non si sostanzia nella narrazione di fatti bensì nell'espressione di un giudizio o, più genericamente, di un'opinione che, come tale, non può pretendersi rigorosamente obiettiva, posto che la critica, per sua natura, non può che essere fondata sull'interpretazione necessariamente soggettiva di fatti e comportamenti. I1 fondamento del diritto di critica, anch'esso riconducibile all'art. 21 Costa, va rinvenuto nella circostanza che, svolgendo il soggetto la sua attività in campi che interessano tutti i consociati, può da tutti essere valutato positivamente o negativamente. Il limite essenziale del diritto di critica è costituito dal principio del neminem laedere e dal rispetto del decoro; di conseguenza la critica deve mantenersi nell'ambito della correttezza del linguaggio e del rispetto dell'onore e della reputazione altrui. Tale limite può ritenersi superato quando l'agente trascenda ad attacchi personali, diretti a colpire, su un piano individuale, senza alcuna formalità di interesse pubblico, la figura morale del soggetto criticato giacchè in tal caso l'esercizio del diritto, lungi dal rimanere nell'ambito di una critica misurata ed obiettiva, trascende nel campo dell'aggressione alla sfera morale altrui, penalmente protetta. In giurisprudenza si è, altresì, posto il problema dei limiti al diritto di critica giudiziaria. In particolare, si è sostenuto che le sentenze possono essere oggetto di critica, anche aspra, per gli argomenti che ne sostengono le interpretazioni dei fatti e delle norme, che sono spesso opinabili. Non è, invece, consentito presentarle come risultato di complotti o strategie politiche, poiché in tal caso non si manifesta un dissenso (fondato e motivato o meno) dalle opinioni espresse dai giudici, ma si afferma un fatto lesivo che deve essere rigorosamente provato (Cass. 4-1-1995, n. 4). 3.2 Segue: gli offendicula In relazione al diritto di proprietà occorre partire dalla premessa che esso attribuisce al proprietario la facoltà di predisporre mezzi idonei alla sua tutela. Vengono pertanto ricondotte 13 di 34

nell'ambito di operatività della scriminante dell'esercizio del diritto le offese a terzi cagionate dai cd. offendicula. Tuttavia la facoltà di predisporre tali mezzi idonei a provocare danni a terzi non è ammessa se questi operano in maniera cd. «alla cieca», senza cioè distinguere tra offensore e non offensore, ovvero se producono un danno sproporzionato (rispetto) al bene che si vuol tutelare. È allora necessario bilanciare gli interessi in conflitto per cui l' offendiculum deve ritenersi lecito se la sua attitudine lesiva è proporzionata al bene da difendere e se consente di salvaguardare l'incolumità dei terzi non aggressori. La giurisprudenza ammette gli offendicula come strumenti di tutela a condizione che presentino una non eccessiva attitudine al ledere e siano forniti di adeguata pubblicità, cioè facilmente visibili. Devono quindi considerarsi banditi i mezzi insidiosi e quelli particolarmente lesivi dell'integrità fisica. 6 3.3 Segue: lo ius corrigendi Nell'ambito dei rapporti familiari i genitori, nell'esercizio della loro potestà genitoriale sui figli, in quanto titolari di un diritto di correzione, possono porre in essere azioni che di regola costituiscono reato (percosse, ingiurie, limitazioni alla libertà personale). L' art. 571 c.p. infatti prevede come reato l' abuso dei mezzi di correzione presupponendo, quindi, l'esistenza di uno ius corrigendi. Il diritto di correzione però deve rispettare dei limiti per non sfociare nell'abuso; l'art. 571 citato non stabilisce precisamente questi limiti rinviando ai criteri di valutazione sociale ed al caso concreto. La giurisprudenza ritiene che siano leciti i mezzi di correzione tradizionali mentre sono punibili gli eccessi che possono mettere in pericolo la vita o l'incolumità del soggetto. Occorre poi 6 La liceità del ricorso agli offendicula va ricollegata alla causa di giustificazione dell'esercizio di un diritto: quello della difesa preventiva del diritto stesso, di natura patrimoniale o personale; ciò per l'assenza, al momento della predisposizione di essi, dei requisiti della attualità del pericolo e della necessità di difesa da questo, tipici della legittima difesa. Affinché, però, la difesa del diritto mediante il ricorso agli offendicula possa ritenersi consentita, occorre che gli stessi non siano idonei a cagionare eventi di rilevante gravità, come le lesioni personali o la morte di colui che il diritto protetto aggredisce; se, invece, si tratta di strumenti che abbiano un'intensa carica lesiva e siano, dunque, idonei a cagionare conseguenze dannose all'incolumità personale, occorre per l'applicazione della causa di giustificazione di cui all'art. 51 c.p. effettuare, anzitutto, un giudizio di raffronto e di proporzione fra il bene difeso ed aggredito e quello offeso ed, altresì, accertare se la presenza degli offendicula era stata debitamente segnalata ed evidenziata, in modo che l'aggressore potesse e dovesse conoscere il pericolo al quale volontariamente si esponeva (Cass. 24-1-1990 in Riv. Peri., 1991, 218). 14 di 34

che il fine perseguito sia obiettivamente disciplinare. In considerazione di ciò ritiene che siano incompatibili con lo ius corrigendi i metodi che fanno ricorso alla violenza. 15 di 34

4 L'adempimento del dovere L'art. 51 c.p. al comma primo stabilisce che «.. l'adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica autorità esclude la punibilità». Anche la ratio di questa scriminante va ravvisata nel principio di non contraddizione: è infatti impensabile che l'ordinamento da un lato imponga una determinata condotta e dall'altro ne faccia derivare una sanzione penale. Il dovere può derivare da una norma giuridica o da un ordine di una autorità pubblica. Deve trattarsi di dovere giuridico per cui è escluso che possa giustificare la commissione di un reato l'adempimento di un dovere morale. Il problema che si pone al riguardo attiene alla individuazione delle possibili fonti della norma impositiva del dovere. Nulla quaestio se si tratta di legge ordinaria o di atto equiparato. Posizioni diverse in dottrina si riscontrano per i doveri che hanno la loro fonte nelle leggi regionali, nei regolamenti e nella consuetudine. Infatti chi ritiene che il principio di stretta legalità attenga anche alla materia delle cause di giustificazione esclude l'efficacia scriminante di un dovere posto da fonte inferiore alla legge ordinaria che non può porre limiti alla norma penale prevista da una fonte di rango primario. Questa tesi è invece respinta da coloro che ritengono che le norme che prevedono cause di giustificazione non hanno natura penalistica e quindi non sono soggette al principio di stretta legalità ma sono invece sono desumibili dall'intero ordinamento giuridico 7. Si afferma, conseguentemente, che l'ordine scriminante può derivare anche da legge regionale, conforme ai principi della legge statuale, da regolamento conforme alla legge, da consuetudine secundum legem. L'indirizzo consolidato in giurisprudenza ritiene, invece, che la locuzione «dovere imposto da norma giuridica» vada inteso nel senso più lato, comprensivo di qualunque precetto giuridico non importa se emanato dal potere legislativo o esecutivo. L'ordine dell'autorità consiste in una manifestazione di volontà che il soggetto, munito per legge di un potere di supremazia di diritto pubblico, rivolge al subordinato imponendogli di tenere una determinata condotta. 7 Il problema e la soluzione data allo stesso hanno ovvie ricadute sotto il profilo della ammissibilità della applicazione analogica delle norme che prevedono cause di giustificazione. 16 di 34

Affinché l'esecuzione dell'ordine possa avere efficacia scriminante occorre quindi che tra i due soggetti intercorra un rapporto di supremazia di diritto pubblico mentre non scrimina l' adempimento di un ordine di un'autorità privata come accade nel campo del lavoro subordinato. In ordine al concetto di pubblica autorità è pacifico che vi rientrino i pubblici ufficiali mentre si discute se siano compresi anche gli incaricati di pubblico servizio o gli esercenti servizi di pubblica necessità. Affinché sorga l'obbligo di una determinata condotta, e quindi l'efficacia giustificante dell'adempimento del dovere, occorre che l'ordine sia legittimo da un punto di vista formale e sostanziale. Sotto il primo profilo l'ordine deve essere emanato dal soggetto munito del relativo potere, diretto al soggetto competente ad eseguirlo, e rivestito dei requisiti di forma previsti dalla legge. Sotto il secondo profilo devono sussistere i presupposti previsti dalla legge: l'ordine legittimo scrimina chi lo dà e chi lo esegue. Se l'ordine è illegittimo di regola il destinatario ha la possibilità di sindacarne la legittimità formale e sostanziale e, in caso di esito negativo della valutazione, ha l'obbligo di non eseguirlo. Se lo esegue, del fatto commesso in esecuzione dell'ordine, risponde chi lo ha impartito unitamente con chi lo abbia eseguito. La responsabilità penale presuppone la possibilità di sindacato da parte del subordinato e quindi, che tale responsabilità non sussiste laddove l'ordine è insindacabile. Tanto prevede l'ultimo comma dell'art. 51 c.p. a mente del quale «non è punibile chi esegue l' ordine illegittimo, quando la legge non gli consente alcun sindacato sulla legittimità dell'ordine». Quando tale possibilità manchi si parla, di ordine illegittimo vincolante, come accade nei rapporti di natura militare o assimilati in cui si richiede all'esecutore la più stretta e pronta obbedienza. Anche quando l'ordine è insindacabile si tratta sempre di una insindacabilità relativa nel senso che il sottoposto non può valutarne la legittimità sostanziale (così l'agente di Polizia Giudiziaria deve eseguire l'ordine di carcerazione anche se emesso in mancanza dei gravi indizi di colpevolezza) ma può sempre sindacarne la legittimità formale (non deve eseguirlo invece se non è emesso dal Giudice per le Indagini Preliminari o se difetta della sottoscrizione). Dottrina e giurisprudenza concordano nel ritenere l'esistenza di un limite alla stessa insindacabilità sostanziale dell'ordine da parte del subordinato astretto alla più rigorosa osservanza: tale limite è individuato nella manifesta criminosità dell'ordine. 17 di 34

Se, infine, l'errore è dovuto a colpa dell'esecutore, questi ne risponde qualora il fatto sia previsto dalla legge come delitto colposo. 4.1 Segue: l'agente provocatore Dibattuti in dottrina e giurisprudenza sono i limiti di liceità dell attività dell'agente provocatore, cioè di colui che provoca altre persone a commettere reati per farle scoprire e punire. Per un primo orientamento, quella dell'agente provocatore è una condotta socialmente adeguata. In contrario, però, si è affermato che l'adeguatezza non sussiste perché il fine dell'attività di polizia è quello di prevenire i reati e non quello di reprimerli dopo averli provocati. Per la giurisprudenza l'attività dell'agente provocatore è scriminata dall' adempimento del dovere (art. 51) perché la Polizia Giudiziaria ha l'obbligo di ricercare le prove ed assicurare i colpevoli alla giustizia 8. Si è poi precisato che l'agente provocatore non è punibile, soltanto se il suo intervento è indiretto e marginale nell'ideazione ed esecuzione del fatto, se, cioè, il suo intervento costituisce prevalentemente attività di controllo, di osservazione e di contenimento dell'altrui azione illecita; mentre è punibile a titolo di concorso nel reato, se la sua condotta si inserisce con rilevanza causale rispetto al fatto commesso dal provocato, nel senso che l'evento delittuoso che si produce è riferibile anche alla condotta dell'agente provocatore. 4.2 La legittima difesa: a) L'aggressione ingiusta A norma dell'art. 52 c.p. «non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un'offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all'offesa». Anticamente indicata con l'espressione viri vi repellere licei, la legittima difesa è da sempre riconosciuta in tutti gli ordinamenti non potendo il diritto ad un tempo tutelare un bene ed imporre al soggetto di sopportarne il pregiudizio. La legittima difesa ruota sui due poli della aggressione ingiusta e della reazione legittima. Tanto l'aggressione, per legittimare la reazione, quanto la reazione, per essere legittima, devono presentare determinati requisiti. 8 Qualora si tratti di un privato, che operi come agente provocatore, è necessario, per l'esclusione della punibilità, che il suo intervento sia giustificato da un ordine della pubblica autorità, sicché possa, per questa via, trovare applicazione la scriminante di cui all'art. 51 c.p. 18 di 34

L'aggressione deve provenire da una condotta umana. Può derivare sì anche da animali o cose ma sempre che sia individuabile un soggetto giuridicamente tenuto ad esercitare una vigilanza su di essi. In tal caso l'aggredito beneficerà della scriminante tanto se reagisca contro l'animale o la cosa quanto se reagisca contro la persona tenuta alla vigilanza. Quanto alle modalità dell'aggressione non si richiede una violenza poiché il codice Rocco, a differenza del codice Zanardelli, parla di offesa. La legittima difesa è pertanto ammessa anche contro il comportamento passivo di un soggetto che per esempio si pari davanti alla porta di una abitazione per impedire al proprietario di entrarvi. Essa può consistere anche in una condotta omissiva: si pensi al caso della minaccia rivolta ad un automobilista affinché provveda all'urgente soccorso di un ferito o alla demolizione di una cosa pericolante alla quale non ha provveduto il proprietario. Non è necessario che l'aggressione si sia concretata nel tentativo di un delitto. Oggetto dell'aggressione deve essere un diritto. Mentre sotto il vigore del codice previgente ci si domandava quali beni fossero difendibili, e i più restringevano l'applicabilità della scriminante agli attentati contro la persona, il codice attuale, utilizzando il termine diritto, ha esteso la facoltà di tutela a tutti i diritti, e, secondo taluni, a tutte le situazioni soggettive attive a prescindere dalla loro qualificazione formale. In giurisprudenza si ritiene che restano, invece, escluse dalla sfera applicativa della norma le semplici situazioni di fatto, dalle quali ogni cittadino può trarre o trae determinati vantaggi o utilità soggettive nell'estrinsecazione della sua attività economico-sociale (Cass. 3-3-2000, n. 3692). È certo comunque che la scriminante è ammessa non solo a tutela dei diritti personali ma anche dei diritti patrimoniali 9. Soggetto passivo dell'aggressione può essere, oltre che il soggetto che si difende, cioè il soggetto attivo della reazione, anche un terzo. La scriminante è infatti ammessa anche a tutela di un diritto altrui; in tal caso si parla di soccorso difensivo. Il soccorso di persona in pericolo è tuttavia facoltativo in quanto ricorre una aggressione in atto che può tradursi in pericolo anche per il soccorritore. Il soccorso è invece necessario, ex art. 593 c.p., quando tale pericolo non sussista, o l'aggressione sia esaurita o la persona soccorsa versi in pericolo per altre cause. Così l'intervento per 9 Aderendo ad un orientamento sostanzialmente consolidato, la Cassazione ha, da ultimo, precisato che la legittima difesa può applicarsi ai diritti patrimoniali, difendibili anche con atti di violenza, a due condizioni: 1) che vi sia proporzione fra il potenziale danno e la reazione posta in essere; 2) che la violenza sia l'unico mezzo per evitare l'aggressione al patrimonio e non costituisca esclusivamente occasione per una ritorsione. 19 di 34

impedire il suicidio, nella normalità dei casi, costituisce un obbligo giuridico eccetto il caso in cui sussiste pericolo per l'agente derivante dalla resistenza dell'aspirante suicida. L'aggressione poi deve aver provocato un pericolo attuale di lesione del diritto, cioè il rischio, la elevata probabilità del verificarsi della lesione. Pericolo attuale di una offesa significa rischio incombente al momento del fatto per cui la reazione non può essere né anticipata (cd. pericolo futuro) né posticipata (cd. pericolo passato). Non scrimina quindi il pericolo futuro cioè la probabilità che si verifichi una situazione pericolosa in quanto in tal caso il soggetto ha tutto il tempo per rivolgersi all'autorità nè il pericolo passato in quanto in simili casi la reazione coinciderebbe con una vendetta o rappresaglia. Oltre al pericolo incombente va considerato attuale anche il cd. pericolo perdurante che si ha quando la lesione è in corso al momento della reazione con la quale possono essere evitati gli ulteriori sviluppi, oppure quando la lesione non si è ancora consolidata non essendosi completato il passaggio dalla situazione di pericolo a quella di danno effettivo. Così nei reati permanenti in cui la vittima può reagire contro il pericolo dell'ulteriore protrarsi della lesione al proprio diritto, come pure nel caso del ladro che fugge nei confronti del quale è possibile la reazione per reintegrarsi nel possesso della cosa. La legittima difesa opera soltanto se il pericolo, oltre che attuale, sia anche involontario e ciò perché se il pericolo è volontariamente cagionato dal soggetto verrebbe meno il requisito della necessità della difesa o quello dell'ingiustizia dell'aggressione. Muovendo dal presupposto che la legittima difesa sia incompatibile col pericolo volontariamente cagionato da chi reagisce la giurisprudenza deduce che l'art. 52 c.p. sia inapplicabile al provocatore a meno che la reazione dell'avversario risulti assolutamente imprevedibile e del tutto sproporzionata 10. Per quanto detto la legittima difesa è altresì ammissibile contro la reazione eccessiva, vale a dire contro una reazione che vada oltre i limiti della necessità e che perciò è ingiustificata. Così un soggetto che si scagli contro un altro con l'intento evidente di percuoterlo leggermente potrà invocare la legittima difesa se l'aggredito si difenda con una pistola. Ulteriore requisito dell'aggressione è che deve aver causato il pericolo di una offesa ingiusta. Tradizionalmente per offesa ingiusta si intende l'offesa contra ius, cioè antigiuridica. Occorre in pratica che essa sia volta a ledere od ad esporre a pericolo un diritto, restando invece 10 Anche il provocatore può versare in stato di legittima difesa, se il provocato ecceda nella reazione, sì da creare necessità di difesa (Cass. 20-12-1984 in Riv. Pen., 1986, 218). 20 di 34

escluse dalla sfera applicativa della norma semplici situazioni di fatto dalle quali ogni cittadino può trarre o trae determinati vantaggi o utilità soggettive nell'estrinsecazione della sua attività economico-sociale (Cass. 3-3-2000, n. 2692). In tal modo però, da un lato si dà all'aggettivo un significato pleonastico ed inutile, dall'altro si circoscrive la legittima difesa alle sole offese colpevoli, dolose o colpose. Essa va intesa, invece, come offesa ingiustificata, non iure, arrecata cioè al di fuori di qualsiasi norma che la imponga (adempimento del dovere legittimo) o la autorizzi (esercizio del diritto). In tal senso è da considerarsi ingiusta l'offesa minacciata da chi versi in stato di necessità, in quanto semplicemente tollerata dall'ordinamento, come l'offesa minacciata in stato di eccesso di legittima difesa. Inoltre per l'ingiustizia dell'attacco non è necessario che esso integri un reato che sia punibile. Così la reazione è ammessa contro il fatto di coloro che godono di immunità penale e contro i soggetti non imputabili. Ciò si spiega considerando che antigiuridicità della condotta dell'aggressore, ai fini della applicabilità dell' art. 52 c.p., rileva in termini puramente oggettivi. È sufficiente cioè che l' aggressore ponga in essere un comportamento oggettivamente contrastante con l'ordinamento giuridico anche se manca l'illiceità penale per difetto di requisiti di natura soggettiva. Quando si verifichi la situazione delineata, cioè il pericolo attuale di una offesa ingiusta, è consentito all'aggressore compiere nei confronti dell'aggredito un' azione che normalmente costituisce reato. Occorre allora esaminare i requisiti richiesti dalla legge perché la reazione sia legittima. 4.3 Segue: b) La reazione legittima Innanzitutto occorre che la reazione sia necessaria per salvaguardare il bene in pericolo nel senso che il soggetto non possa evitare l'offesa al suo diritto se non difendendosi, se non arrecando a sua volta offesa all'aggressore. Il soggetto deve cioè trovarsi nella impossibilità di scegliere tra più condotte alternative, di agire altrimenti; necessità della reazione equivale, infatti, ad inevitabilità della stessa e la reazione è realmente inevitabile quando non è sostituibile con un'altra azione meno dannosa ugualmente idonea ad assicurare la tutela del bene posto in pericolo. Va precisato che la necessità della reazione va valutata non in astratto ma in concreto tenendo conto di tutte le circostanze del caso singolo come le condizioni dell'aggredito, i mezzi di cui dispone, il tempo e il luogo dell' attacco etc. Così una reazione che può apparire necessaria per 21 di 34

un soggetto debole o in certe condizioni di tempo e di luogo non è più tale in relazione ad una persona robusta o in altre condizioni di tempo e di luogo. Per essere legittima la reazione deve cadere sull' aggressore. Particolari problemi si pongono nei casi di aberratio ictus nella legittima difesa allorché l'aggredito, o per errore nell'uso dei mezzi difensivi (sbaglio di mira) o per altra causa (repentino spostamento dell'aggressore) rechi offesa a persona estranea. In questi casi non può trovare applicazione l'art. 82 c.p. che presuppone l'assenza di scriminanti mentre nel caso in esame la reazione è legittima e diretta contro l'aggressore. Neppure può applicarsi l'art. 52 c.p. perché la reazione non colpisce l'aggressore ma terzi. E neppure l'art. 54 c.p. visto che l'offesa al terzo non è necessaria per salvare il diritto proprio o altrui. Infine occorre che la difesa sia proporzionata all'offesa. In tal senso non sarà mai consentito ledere un bene personale o addirittura la vita per difendere un bene patrimoniale; ciò risulta anche dall' art. 2 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo per il quale «la morte non è considerata illecita solo quando è imposta dalla necessità di difendersi da una violenza illegittima». Ne deriva che solo l'assoluta necessità di difendere la propria persona può far ritenere legittima la morte inflitta ad altri. Il raffronto tra beni in conflitto va fatto in concreto tenendo conto del grado di aggressione e delle altre circostanze del caso concreto. Si tratta di un giudizio relativo perché non va dimenticato che il rapporto è pur sempre tra un bene dell'aggressore ed un bene dell'aggredito e perché una reazione più forte può rassicurare maggiormente sulla efficacia della difesa. Nella legittima difesa quando manca la proporzione tra difesa ed offesa, per eccesso nell'uso dei mezzi adoperati dall'aggredito nel difendersi, occorre differenziare tra eccesso dovuto a negligenza, imperizia, imprudenza ed, in genere, a colpa nella valutazione della entità dell'offesa o della misura della difesa, ed eccesso consapevole e volontario; nel primo caso ricorre l'eccesso colposo, nel secondo il delitto è doloso perché la condotta e l'evento sono volontari e previsti; la scelta deliberata di una determinata condotta, ancorché reattiva, la quale superi i limiti imposti dalla necessità della difesa, e non per precipitazione, imprudenza od errata valutazione delle circostanze di fatto, bensì per consapevole determinazione, esclude l'eccesso colposo perché radica la volontarietà dell'evento, che diviene semplicemente punitivo, trovando nella precedente azione altrui, pretesto, non causale. Quanto alla legittima difesa putativa, ai fini della configurabilità della stessa, è necessario che la pretesa opinione soggettiva dell'esistenza del pericolo, da parte dell'agente, trovi una logica 22 di 34