L OBESITA COME FATTORE DI RISCHIO CARDIOVASCOLARE



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L OBESITA COME FATTORE DI RISCHIO CARDIOVASCOLARE Alberto Lomuscio RIASSUNTO L'obesità rappresenta un problema cronico in continua e progressiva crescita. Dal punto dì vista clinico la sua importanza è conseguenza delle numerose complicanze associate. Negli ultimi tempi si è andato evidenziando che, oltre al grado di obesità, per lo sviluppo delle complicanze metaboliche un ruolo importante viene svolto dalla distribuzione corporea del grasso. L'obesità addominale, ossia quella caratterizzata da una distribuzione del grasso di tipo viscerale, si correla strettamente alle malattie metaboliche, segnatamente al diabete mellito. La diagnosi di obesità si basa sui valori dell'indice di Massa Corporea (IMC, o BMI, Body Mass Index) mentre la valutazione della distribuzione dell adipe può essere eseguita in modo semplice misurando la circonferenza a livello della vita. Il nesso patogenetico che lega il grasso viscerale alle malattie metaboliche è l'insulino-resistenza. L'obesità viscerale porta ad una riduzione della sensibilità insulinica attraverso diversi meccanismi; i più importanti tra questi sono l'incremento dei livelli di acidi grassi ed il rilascio di ormoni e citochine che vengono prodotti dall adipocita. Da un punto di vista terapeutico le variazioni dello stile di vita, dell alimentazione e dell attività fisica rimangano l'intervento più efficace e sicuro sia per la prevenzione che per la terapia dell'obesità viscerale e del diabete. PREMESSA Le abitudini di vita nel mondo occidentale sono da molti anni sotto accusa, in quanto sono basate su uno stile di vita poco compatibile con la nostra struttura genetica. Peraltro questa società ci ha portato a vivere molto più a lungo ed inevitabilmente sono emerse alcune patologie che solo 150 anni fa erano molto rare, e che tuttora lo sono in aree meno industrializzate e ricche della terra. Nei prossimi decenni si ritiene che vi possa essere un incremento significativo del diabete di tipo secondo e delle conseguenze cliniche ad esso collegate. Di particolare rilevanza nel determinare la progressione verso la malattia diabetica sono il soprappeso e l obesità, tutte situazioni che favoriscono la resistenza all'insulina contribuendo in modo importante a determinare la sindrome metabolica. E di fondamentale importanza rammentare il rapporto tra sovrappeso e rischio cardiovascolare, seguendo un percorso che inizia con la epidemiologia di popolazione passando per la valutazione della correlazione tra questa condizione e alcuni dei fattori di rischio principali per le malattie cardiovascolari, quali ad esempio le varie forme di dislipidemia e l ipertensione, allo scopo di poter giungere alla valutazione di come questi fattori giochino nel determinare la sindrome metabolica. Questo approccio metodologico puo contribuire a chiarire alcuni aspetti di rilevanza sociale e medica relativi ad un problema, l adiposità, che sempre più frequentemente si presenta nella pratica clinica giornaliera.

OBESITA ADDOMINALE Il concetto di obesità addominale come fattore associato ad altri in un profilo di rischio cardiovascolare sfavorevole è stato proposto sessant'anni fa. Infatti, nel 1947, Juhan Vague focalizzava l'attenzione sull'adiposità della parte superiore del corpo (obesità androide o di tipo maschile), considerandola come un fenotipo di obesità spesso associato ad alterazioni metaboliche, a loro volta associate a diabete di tipo 2 e malattie cardiovascolari. L'associazione tra obesità e dismetabolismo lipidico e glucidico veniva notata da un gruppo di ricerca dell'università di Padova e pubblicata nel 1967, in italiano, in un articolo firmato da Pietro Avogaro, Gaetano Crepaldi, Giuliano Enzi e Antonio Tiengo. Nel 1988 Gerald Reaven illustrava nella Banting Lecture il ruolo dell'insulino-resistenza in questo tipo di soggetti, che definiva affetti da Sindrome X, e da allora l'associazione tra obesità addominale, dismetabolismo glicolipidico e ipertensione arteriosa, caratterizzata da un aumento del rischio cardiovascolare, ha suscitato sempre più interesse ed è stata definita in vari modi, come ad esempio sindrome da insulino-resistenza, quartetto mortale e sindrome metabolica. Quest'ultimo termine ora prevale, grazie anche alle iniziative per sviluppare una definizione riconosciuta in sede internazionale, in particolare quelle dell'organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e dello European Group for the Study of Insulin Resistance (EGIR), ma è soprattutto la pubblicazione del terzo aggiornamento (ATPIII) del programma statunitense di riduzione del colesterolo (NCEP), che ne ha aumentato la popolarità, utilizzando semplici criteri clinici per la sua identificazione. La costellazione delle alterazioni metaboliche della sindrome comprende intolleranza al glucosio (diabete di tipo 2, ridotta tolleranza al glucosio o alterazione della glicemia a digiuno), insulino-resistenza, obesità centrale, dislipidemia e ipertensione, tutti fattori di rischio ben documentati per malattie cardiovascolari. Queste condizioni coesistono in un individuo in misura maggiore di quanto ci si potrebbe attendere da una distribuzione casuale. Oltre a quelle già riferite sono comunque apparse in letteratura altre definizioni della sindrome metabolica, in particolare quelle proposte dall'american College of Endocrinologists e dall'lnternational Diabetes Federation e recentemente l'atpiii ha modificato il criterio glucidico. Questa variabilità dipende essenzialmente dal fatto che le cause della sindrome non sono state ancora del tutto chiarite e che i vari criteri sono basati più sul consenso degli esperti che su dati sperimentali, anche se alcuni interessanti tentativi in tal senso sono stati condotti. Ben si comprende, da quanto finora detto, che le varie definizioni della sindrome metabolica condizionano sia gli studi della sua prevalenza che quelli della sua predittività di rischio di eventi cardiovascolari, tanto nella popolazione generale che in popolazioni speciali. Infine è di grande attualità la valutazione del grado di predittività della sindrome metabolica in relazione ai metodi di stima del rischio coronarico e cardiovascolare globale proposti dalle Linee Guida. Un altro punto da considerare è che negli studi prospettici talora gli autori includono i soggetti diabetici, compresi in tutte le definizioni, per valutare gli esiti cardiovascolari, talaltra essi considerano solo i soggetti con alterata glicemia a digiuno o intolleranti al glucosio ma non diabetici per valutare non solo gli esiti cardiovascolari ma anche l'incidenza di diabete. Senza addentrarci ulteriormente in questi aspetti, negli studi italiani prospettici sulla sindrome metabolica sono stati usati i criteri OMS, EGIR e ATPIII originale. Analizzeremo brevemente i risultati italiani in relazione alle definizioni citate per poter comprendere l'impatto dei dati di prevalenza sia nella popolazione generale che in popolazioni selezionate; ci sembra infatti importante considerare l'obesità addominale nel contesto della sindrome metabolica. La Tabella 1 presenta alcuni metodi per la valutazione della massa corporea.

------------------------------------------------------------------------------------------------------------- TABELLA 1. Metodi per la valutazione della massa corporea BMI (Body Mass Index) Peso ideale Peso Altezza x Altezza Altezza 100 (M) Altezza 104 (F) Relative Body Weight Peso x 100 Peso ideale -------------------------------------------------------------------------------------------------- OSSERVAZIONI EPIDEMIOLOGICHE Dalla valutazione della letteratura scientifica sulla prevalenza dell'obesità addominale e della sindrome metabolica in Italia, emerge, soprattutto dagli ampi studi recenti di popolazione, che esse hanno una notevole frequenza nella popolazione generale, coinvolgendo rispettivamente il 30% ed il 23% dei soggetti fra i 35 e i 74 anni di età, secondo la definizione ATPIII originale. Questi dati sono paragonabili a quelli presenti in altre popolazioni, dove siano stati usati gli stessi criteri: ad esempio nell'ampio studio statunitense NHANES III, condotto tra il 1988 e il 1994, su 8.814 americani oltre i 20 anni di età, la prevalenza di obesità addominale era del 38,6% (29,8% negli uomini e 46,3% nelle donne), quella di sindrome metabolica del 23,7% (24,0% negli uomini e 23,4% nelle donne). Anche in popolazioni mediterranee come quella greca o sud-europee come quella portoghese, la prevalenza di obesità addominale è risultata relativamente simile: 31,8% negli uomini e 29,7% nelle donne in Grecia, 14,9% negli uomini e 40,6% nelle donne in Portogallo; anche la prevalenza della sindrome metabolica appare paragonabile: 19,8% (25,2% negli uomini e 14,6% nelle donne) nello studio greco ATTICA, 19,1% negli uomini e 27,0% nelle donne della città di Porto. Se si considera la relazione tra obesità addominale, sindrome metabolica e stile di vita, il potenziale della prevenzione nelle popolazioni occidentali, compresa quella italiana, appare evidente. Gli studi osservazionali sulle popolazioni dimostrano l'esistenza di rapporti significativi tra peso corporeo e concentrazioni lipoproteiche nel plasma, così che i valori di trigliceridemia (cioè delle VLDL) e quelli della colesterolemia totale (o meglio quella LDL) si correlano significativamente con l'aumento del peso, almeno tra i 20 e 50 anni. Esiste invece una relazione inversa tra valori di colesterolo HDL e peso corporeo a qualsiasi età ed in entrambi i sessi. L'adiposità addominale si correla molto più strettamente di quella sottocutanea con le concentrazioni lipoproteiche. Studi osservazionali indicano che ì soggetti con obesità addominale hanno valori medi di trigliceridemia compresi tra 102 e 226 mg/dl, mentre nell'obesità sottocutanea questi valori sono tra 50 e 145 mg/dl; il colesterolo totale nell'obesità addominale varia tra 173 e 256 mg/dl ed in quella sottocutanea tra 157 e 216 mg/dl. Il colesterolo delle HDL è compreso tra 37 e 50 mg/dl nell'obesità addominale e tra 44 e 53 mg/dl in quella sottocutanea. Non necessariamente un soggetto obeso presenta quindi dei valori particolarmente alterati di lipidi plasmatici. Appare quindi che nell'obesità sia addominale che sottocutanea non si trovano importanti modificazioni delle concentrazioni dei lipidi plasmatici. Il tessuto adiposo presente

in ambito addominale profondo (misurato con la tomografia assiale computerizzata) è il parametro che meglio correla con i valori lipoproteici, soprattutto con il rapporto tra colesterolo LDL ed HDL. Solo in caso di sovrappeso la quantità di tessuto adiposo addominale acquista un ruolo nell'influenzare i parametri lipidici, rendendoli più aterogeni. Il rapporto vita-fianchi (espressione del tessuto adiposo sia sottocutaneo che viscerale addominale) si correla oltre che con il rapporto LDLVHDL anche con i trigliceridi e le VLDL. OSSERVAZIONI BIOCHIMICHE La diminuzione ponderale conduce ad un miglioramento dell'assetto lipoproteico ma in modo abbastanza differenziato per le diverse classi di lipidi, perché è sufficiente qualche settimana di dieta ipocalorica o di attività fisica per ridurre i trigliceridi, mentre occorre qualche mese per ridurre il colesterolo. Per ottenere un aumento significativo del colesterolo delle HDL occorre mantenere per almeno 3-8 mesi un ridotto peso corporeo. Con le diete fortemente ipocaloriche (semidigiuno) il colesterolo delle HDL tende a ridursi, così come si riduce l'attività della lipasi lipoproteica. I migliori risultati sul profilo lipidico si ottengono quando una dieta ipocalorica si associa ad un incremento dell attività fisica. Nell'obesità grave trattata con dieta o con bypass gastrico o gastrobendaggio spesso si osserva un aumento del colesterolo LDL e HDL mentre i trigliceridi si riducono. Nel paziente obeso con obesità addominale, ma ancora di più se si trovano associate altre patologie metaboliche, in particolare il diabete, si incontrano alterazioni sia di tipo quantitativo che qualitativo delle lipoproteine. Le alterazioni quantitative riguardano l'aumento dei trigliceridi plasmatici e la riduzione del colesterolo delle HDL. Le alterazioni qualitative consistono nella presenza di LDL e di HDL più piccole e più dense del normale, modificazioni che vanno in senso pro-aterogeno. Anche in presenza di normali valori lipidemici l'obesità si caratterizza per un aumento sia della sintesi che del catabolismo delle principali lipoproteine. In presenza di un incremento dell arrivo al fegato di acidi grassi liberi (Free Fatty Acids, FFA), la sintesi delle lipoproteine si adegua con un aumento della produzione di lipoproteine ricche di trigliceridi (VLDL), che presentano dimensioni incrementate rispetto al normale, e proprio queste sono alla base delle LDL piccole e dense. Nei pazienti obesi vi è un aumento del rischio di complicanze cardiovascolari, per diversi motivi, ivi comprese le alterazioni lipidiche. La possibilità di raggiungere un peso corporeo ideale, ed di mantenerlo nel tempo, permette di migliorare la dislipidemia tipica di questi pazienti e conseguentemente di ridurre il rischio cardiovascolare. L'attività fisica, contribuendo a correggere le alterazioni del metabolismo lipidico e di quello glucidico, migliora i risultati lipidici ottenibili con la sola dieta incrementandone gli effetti, soprattutto sulla riduzione dei trigliceridi e l'aumento delle HDL. UNO SGUARDO AL FUTURO E nozione diffusa che la prevalenza del sovrappeso e dell'obesità nella popolazione generale è andata progressivamente e continuamente aumentando nei Paesi Industrializzati, soprattutto in questi ultimi decenni, e stime recenti fanno ritenere come entro una ventina d anni queste condizioni assumeranno un vero e proprio carattere "epidemico", con conseguenze enormi in termini di morbilità e mortalità cardiovascolare a livello mondiale. A proposito di ciò, sebbene numerose evidenze derivanti dai grandi studi internazionali abbiano chiaramente dimostrato la stretta correlazione esistente tra aumento ponderale ed incidenza di eventi cardiovascolari maggiori, come infarto del miocardio ed ictus ischemico, e soprattutto tra obesità e rischio di insorgenza di diabete mellito tipo 2, e nonostante quanto espressamente raccomandato dalle recenti linee guida internazionali per la gestione del paziente ad elevato rischio cardiovascolare, il trattamento di questo importante fattore di rischio viene spesso considerato di poca importanza nella pratica clinica quotidiana, con evidenti importanti ricadute in termini di carico globale di malattia cardiovascolare. Anche in virtù della patogenesi estremamente complessa ed eterogenea di questa conduzione clinica, il trattamento dell'obesità

deve essere, pertanto, inserito nell'ambito di una strategia integrata e multidisciplinare, volta non solo al contenimento del peso corporeo, quanto piuttosto alla riduzione del profilo di rischio cardiovascolare ed alla prevenzione dello sviluppo di diabete mellito. Nuove e promettenti scoperte scientifiche stanno progressivamente chiarendo alcuni dei numerosi aspetti correlati alla fisiopatologia dell'obesità, aprendo in questo modo nuove frontiere nell'ambito del trattamento (farmacologico e non) di questa importante condizione di rischio cardiovascolare, e consentendo interventi sempre più efficaci e ben tollerati, al fine di ottenere una valida prevenzione primaria e secondaria delle malattie cardiovascolari. CONCLUSIONI Una soluzione ottimale del problema obesità rimane collegata ad una migliore campagna di informazione sanitaria da parte degli Organi Pubblici Nazionali e delle società scientifiche, per sensibilizzare la popolazione generale ad una maggiore attenzione nella scelta degli alimenti, ad un'adesione più estesa ed equilibrata all'attività fisica, ad un più esteso utilizzo delle modificazioni dello stile di vita. La campagna di sensibilizzazione del pubblico deve probabilmente includere anche un'informazione più adeguata circa i rischi che il sovrappeso e l'obesità comportano, particolarmente in termini di eventi cardiovascolari. Ovviamente, ogni qualvolta gli interventi volti a correggere le abitudini alimentari e lo stile di vita dovessero risultare insufficienti a contenere il rischio cardiovascolare, la terapia farmacologica può basarsi su una scelta equilibrata degli interventi più appropriati per ridurre il rischio cardiovascolare, e quindi non essere concentrata esclusivamente sulla riduzione del peso corporeo, ma anche di tutti quei fattori di rischio che possono essere presenti nel paziente in sovrappeso o obeso, e che possono essere adeguatamente trattati attraverso l'impiego di tarmaci (antiipertensivi, ipolipidemizzanti, anti-diabetici orali, etc.) BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE Abbasi F et Al: Relationship between obesità, insulin resistance, and coronary heart disease risk. JACC 2002,40:937 Alberti KG et Al, for the IDF Epidemiology Task Force Consensus Group: The metabolic sindrome, a new worldwide definition. Lancet 2005,366:1059 American College of Endocrinology Task Force on the Insulin Resistance Syndrome: American College of Endocrinology position statement on the insulin resistance syndrome. Endocr Pract 2003,9:236 American Diabetes Association and National Institute of Diabetes, Digestive and Kidney diseases. The Prevention or Delay of Type 2 Diabetes. Diabetes Care 2002,25:742 Batch JA et Al: Management and prevention of obesity and its complications in children and adolescents. Med J Aust 2005,182:130

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