Razionalismo e empirismo

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Razionalismo e empirismo 1. La filosofia moderna e l'esistenza della realtà esterna Il problema della corrispondenza delle nostre rappresentazioni con la realtà esterna è il problema specifico della filosofia moderna fino a Kant. È stato chiamato "problema gnoseologico", cioè problema del valore della "conoscenza" (gnósis). Razionalismo e empirismo possono essere considerati come i due modi in cui la filosofia moderna precritica (prekantiana) tenta, nel XVII e XVIII secolo, di risolvere il problema della capacità del nostro pensiero di cogliere la realtà esterna. Due modi diversi, che non hanno tuttavia in comune soltanto il problema, ma anche quelle fondamentali convinzioni teoriche che consentono il costituirsi del problema: l'indubitabilitá delle nostre rappresentazioni e l'esistenza della realtà a esse esterna. Il nostro "senso comune" è convinto dell'esistenza della realtà esterna, e cioè che le cose, o quel tipo di cose che appartengono alla natura, esistono indipendentemente dalla coscienza che ne abbiamo. Una convinzione, questa del senso comune, che è condivisa anche dalla filosofia realistica e, oltre che dalla scienza moderna, anche dalla filosofia moderna. All'inizio del processo di rifondazione dell'epistéme, Cartesio mette di certo in discussione - almeno apparentemente - anche l'esistenza della realtà esterna; ma lo sviluppo di quel processo conduce a riconfermare tale esistenza. È vero che ciò che per il realismo e il nostro senso comune è realtà esterna, per la filosofia moderna è idea, rappresentazione (e proprio attraverso il rilevamento che questo mondo in cui viviamo è nostra rappresentazione, la filosofia moderna può affermare che la realtà esterna non è immediatamente concepita); ma anche la filosofia moderna giunge ad affermare che la realtà vera e propria esiste indipendentemente dall'io. La differenza visibile è che la filosofia moderna dimostra l'esistenza della realtà esterna, mentre per la filosofia realistica, il senso comune e la scienza moderna tale esistenza non ha bisogno di dimostrazione ed è affermata immediatamente. Ma si dovrà mettere in rilievo - e la cosa avrà un'importanza decisiva - che questa dimostrazione è solo apparente, ossia che essa presuppone proprio ciò che intende dimostrare. Intanto, va ribadito che anche se nella storia della filosofia moderna, fino a Kant compreso, la determinazione, la configurazione della realtà esterna andrà variando (nel senso che la realtà esterna è per Cartesio qualcosa di diverso da ciò che essa è per Locke, o per Leibniz, o per Kant), rimarrà però costante il presupposto dell'affermazione dell'esistenza della realtà esterna. Tale esistenza verrà essa stessa coinvolta nella problematizzazione del rapporto tra pensiero e realtà, avviata da Cartesio, solo con l'idealismo, ossia col superamento di quell'opposizione di certezza e verità, che caratterizza la filosofia moderna preidealistica. Si verificherà allora una sorta di ritorno al primo momento, ossia al momento dell'identità di certezza e verità, secondo, appunto, l'indicazione di Hegel, il massimo rappresentante della filosofia idealistica. 2. La passività del sentire e il suo carattere rivelativo e occultante La filosofia moderna ha in comune con la tradizione filosofica anche il principio della "recettivitá", o "passività" del soggetto (o dell'io) rispetto alla realtà esterna. Non solo la realtà vera e propria è esterna alla mente, ma è anche attiva sull'apparato percettivo-sensitivo dell'uomo. Si è già visto che questo principio consente a Cartesio di dimostrare l'esistenza, nella realtà in sé, dei corpi. Già Aristotele aveva inteso la realtà sensibile come motore (causa agente) delle nostre sensazioni. Quando, ad esempio, percepiamo un colore o un suono, o avvertiamo una resistenza, i nostri organi di senso sono passivi o recettivi rispetto a una attività esercitata su di essi dalla realtà esterna. 1

Anche il modo in cui la scienza moderna (ad esempio nell'ottica o nell'acustica) spiega il prodursi di una sensazione, conferma questa passività del soggetto rispetto alla realtà esterna. In questa prospettiva, la passività è propria della sensibilità umana: noi non siamo liberi di sentire o di non sentire, o di sentire diversamente, un certo contenuto sensibile (ad esempio un suono); siamo invece liberi di pensare o di non pensare, o di pensare diversamente ciò che pensiamo. II contenuto sensibile si impone all'uomo; e gli si impone proprio perché è l'effetto dell'azione della realtà esterna sugli organi di senso. Ma il sentire umano, l'aspetto sensibile dell'esperienza, ha, insieme, un carattere rivelativo e un carattere occultante. Rivelativo, perché la sensazione (ossia ciò che Cartesio chiama "idea avventizia"), come effetto di una causa esterna, rivela in qualche modo tale causa: l'effetto, come tale, è un modo di mostrarsi della causa. (Si suole dire che l'albero si giudica dal frutto.) Ma la sensazione è anche occultante la realtà esterna: se non altro, perché l'effetto non è la causa (anche se si può presumere che in qualche modo la riveli). Come effetto della realtà esterna, proprio perché è effetto, la sensazione è un velo che nasconde l'autentica conformazione della causa. (Anche la coscienza religiosa vede nel mondo - effetto della causa divina - una rivelazione di Dio; ma vi vede anche un nascondimento di Dio.) 3. II razionalismo Ebbene, il razionalismo, a cominciare da Cartesio, ha sottolineato il carattere occultante della sensazione; l'empirismo ne ha invece sottolineato il carattere rivelativo. Sulla base di questo rilievo, si presenta anche la possibilità di penetrare più a fondo il significato di alcuni luoghi comuni intorno a queste due forme del pensiero filosofico. Si dice usualmente che il razionalismo basa il sapere sulla ragione, e che invece l'empirismo basa il sapere sull'esperienza. Innanzitutto, che cosa significa qui "sapere"? Sulla scorta di quanto si è detto nelle pagine precedenti, il "sapere" è appunto il conoscere che è stato problematizzato dalla filosofia moderna. Il "sapere" che ha bisogno di una "base" o "fondamento" - e la "ragione" e l' "esperienza" intendono essere appunto un siffatto fondamento - è appunto la conoscenza della realtà esterna: la conoscenza che non si riduce alla semplice certezza delle nostre rappresentazioni, ma che ha verità, ossia coglie la struttura autentica della realtà esterna, della realtà in sé stessa. Il "sapere" è dunque ciò che si porta al di là delle nostre rappresentazioni; o anche: è l'insieme delle nostre rappresentazioni in quanto è in grado di cogliere la realtà esterna. Che significa, allora, affermare che per il razionalismo la base del sapere è la "ragione"? Si può rispondere a questa domanda servendosi della distinzione, sopra indicata, tra funzione rivelativa e funzione occultante della sensibilità umana. Il razionalismo ha coscienza del carattere occultante della sensibilità: per conoscere ciò che sta al di là delle nostre rappresentazioni sensibili - questo è il punto di vista specifico del razionalismo - non potremo e non dovremo mai basarci sulle nostre rappresentazioni sensibili. Per conoscere ciò che è al di là dell'esperienza non potremo e non dovremo mai basarci sull'esperienza. La costruzione del "sapere" dovrà allora avvenire sulla base di principi non attinti dall'esperienza. Come tali, tali principi sono detti "a priori" o "innati". È la via inaugurata da Cartesio, dove la conoscenza della realtà esterna dei corpi è fondata sull'idea innata di Dio e sulla dimostrazione che a questa idea corrisponde un contenuto reale; e tale dimostrazione è a sua volta basata su un principio - "il nulla non produce alcunché" - che non è attinto dall'esperienza, ossia è valido in sé stesso, indipendentemente da essa. 2

Contrariamente a quanto può sembrare, la conoscenza "a priori" non è una conoscenza che volti le spalle alla realtà e se ne stia chiusa in sé a elaborare un suo proprio contenuto. All'opposto, per il razionalismo la conoscenza "a priori" (o "innata") è la parabola, il "ponte" che scavalca l'esperienza - ossia scavalca la dimensione occultante - e porta a contatto con la realtà esterna. La metafisica razionalistica è appunto questa parabola, questo oltrepassamento delle nostre rappresentazioni sensibili, che, proprio perché è in grado di oltrepassarle, non deriva da esse. Nella filosofia premoderna, la "metafisica" è un portarsi "al di là" (metà) delle "cose fisiche" (physikà). Le cose fisiche sono gli enti divenienti. La metafisica li oltrepassa, nel senso che, dapprima, si domanda se esistano altri enti oltre a quelli divenienti, e poi dimostra l'esistenza dell'ente immutabile al di là dell'ente diveniente. Nella filosofia moderna, la "metafisica" è un oltrepassamento, un trascendimento di diverso significato: non si tratta di andare da un certo tipo di realtà (la realtà diveniente) a un cert'altro tipo di realtà (la realtà immutabile), ma si tratta di andare dalle nostre rappresentazioni alla realtà. Se il problema della filosofia moderna è "come andare al di là delle nostre rappresentazioni", e poiché, in esse, l'aspetto sensibile è per il razionalismo l'elemento occultante (ossia è il responsabile della differenza tra rappresentazioni e realtà esterna), ne viene che l'oltrepassamento della semplice certezza - ossia della situazione in cui le nostre rappresentazioni sono sì certe, ma non ancora vere - potrà avvenire solo in quanto non ci si basi, ossia non si assumano come fonti di verità le nostre rappresentazioni sensibili, ma solo in quanto ci si basi su rappresentazioni che sono principi "a priori", non attinti cioè dall'esperienza e quindi immuni dal suo carattere occultante. La storia del razionalismo è la vicenda dei tentativi di costruire la parabola metafisica che riesca a condurre dalle nostre rappresentazioni alla realtà esterna. Mentre nella filosofia premoderna la metafisica determina la verità che si ritiene sia originariamente posseduta dal pensiero, nella storia del razionalismo la metafisica ha invece il compito di condurre a quell'unificazione di certezza e verità, che è il punto di partenza del modo tradizionale di filosofare. Il punto di partenza diventa cosi il punto di arrivo: la metafisica diventa, nel razionalismo, lo strumento mediante il quale viene risolto il problema del valore del conoscere. Il risolvimento del problema metafisico è il fondamento del risolvimento del problema gnoseologico. 4. Razionalismo e empirismo Il problema comune al razionalismo e all'empirismo può essere illustrato con una metafora. Supponiamo di voler sapere che cosa ci sia al di là di un muro. Possiamo allora seguire due vie. La prima è quella di tentare di scavalcare il muro. Chi tenta di scavalcarlo dimostra con questo suo atto che per lui l'ispezione della superficie visibile del muro non ha alcuna utilità ai fini della conoscenza di ciò che sta al di là di esso: per conoscere quello che sta al di là è inutile essere informati del colore, grado di rugosità, umidità, pendenza del muro. Per conoscere quello che sta al di là ci si dovrà mettere in una prospettiva diversa da quella di chi, stando al di qua del muro, si limita a prendere atto della sua conformazione visibile. La seconda via consiste nel raggiungere la conoscenza di ciò che sta al di là del muro, basandosi (magari dopo aver visto che è difficile scavalcarlo) proprio sull'ispezione della sua superficie visibile. Chi sceglie questa seconda via procede sulla scorta della convinzione che l'al di là del muro deve in qualche modo rivelarsi nell'al di qua. Ogni elemento che emerge dall'ispezione della superficie visibile è allora un sintomo, un effetto sintomatico, rivelativo di ciò che accade al di là del muro. La prima è la via del razionalismo, la seconda è quella dell'empirismo. La superficie visibile del muro è l'insieme delle nostre rappresentazioni sensibili. Ciò che sta al di là del muro è la realtà vera e propria che esiste al di là e indipendentemente dalle nostre rappresentazioni. Lo scavalcamento 3

del muro è la parabola metafisica che porta al di là delle nostre rappresentazioni sensibili, partendo da principi non desunti da esse. Il porsi, scavalcando il muro, in una prospettiva diversa da quella di chi si limita a guardarne la superficie visibile è appunto l'appoggiarsi su elementi o principi non desunti dalla sensibilità, e quindi "a priori" o "innati" rispetto a questa. Chi tenta di scavalcare il muro ritiene che la sua superficie visibile nasconda ciò che sta al di là di esso; chi invece si propone di desumere la conformazione dell'ai di là sulla base della conformazione visibile del muro, ritiene che quest'ultima sia rivelativa dell'ai di là. È, questo secondo - si è detto -, l'atteggiamento empiristico, che nella sensibilità vede l'unico reale rapporto, l'unico reale legame tra il mondo delle nostre rappresentazioni e il mondo della realtà in sé stessa: le nostre sensazioni sono runico elemento, interrogando il quale possiamo sapere qualcosa intorno alla realtà esterna. È quindi chiaro che l'empirismo si presenta sostanzialmente come una critica alla metafisica razionalistica, e che tale critica viene a coincidere con il rifiuto dell' "innatismo" e dell' "apriorismo" razionalistico. La parabola metafisica che scavalca la sensibilità si appoggia e parte da conoscenze innate, non attinte dall'esperienza sensibile. Sul valore di queste conoscenze si addenseranno sospetti sempre più gravi. D'altra parte, quel che le sensazioni ci dicono intorno alla realtà esterna (e, se ce ne fosse ancora bisogno, si ribadisca che tale realtà non è quella sensibilmente percepita, ma è quella che si trova al di là delle percezioni e delle sensazioni umane) è ben poco e incerto: l'empirismo stesso andrà progressivamente rendendosi conto dei limiti della rivelatività delle sensazioni. Ma mentre per il razionalismo la coscienza di tali limiti sarà accompagnata dalla convinzione di poter oltrepassare la soggettività sensibile (la sensibilità soggettiva) mediante la ragione, per l'empirismo la coscienza di tali limiti sarà invece accompagnata dal rifiuto sempre più radicale della "ragione" in quanto facoltà di conoscere la realtà in sé stessa. Tuttavia, la negazione empiristica della "ragione" non ha nulla a che vedere con l'antica concezione del sensismo materialistico, per la quale ogni nostra conoscenza altro non è che "sensazione". L'empirismo si sviluppa infatti, come il razionalismo, all'interno della scoperta cartesiana dell'indubitabilitá del pensiero. Attorno al nucleo essenziale dell'empirismo si sono certamente aggiunti degli sviluppi sensistici (si pensi, ad esempio, al sensismo di E. Condillac, nel XVIII secolo); ma la differenza tra le due posizioni è netta. Il sensismo identifica la coscienza alla sensibilità: non si avvede che la sensibilità, di cui parla, è, appunto, contenuto della coscienza. Colori, forme, suoni, sapori, ecc., sono appunto ciò di cui siamo consapevoli, ciò di cui abbiamo coscienza. Per questo, Cartesio può affermare che la sensazione è idea. Ma già nel pensiero antico, con Socrate e Platone, il sensismo è esplicitamente e definitivamente superato: se con la vista vediamo i colori di un frutto, con il tatto ne percepiamo la ruvidezza e con il gusto il sapore, con quale "organo di senso" percepiremo l'unità di questa molteplicità sensibile (colore, sapore, ruvidezza, ecc.), quella unità che noi indichiamo appunto col nome del frutto? Platone chiamava "anima" la facoltà che percepisce tale unità, e con questa parola intendeva precisamente riferirsi alla coscienza che ha come contenuto la sensibilità e l'unità del sensibile. Ed è ancora la coscienza ciò per cui possiamo dire che altro è un colore e altro è la consapevolezza, da noi posseduta, che questo è un colore. Ebbene, l'empirismo non nega la coscienza (cioè non è un sensismo), ma, nella sua forma più matura, quella assunta in David Hume, nega che la coscienza possa avere di per sé stessa un contenuto reale non sensibile. Quando l'empirismo nega la "ragione", non intende cioè negare il nostro essere consapevoli, ma intende negare quella parabola metafisica, che appoggiandosi su conoscenze innate, "a priori", non attinte dall'esperienza, ritiene di poter cogliere la realtà come essa è in sé stessa al di là della nostra sensibilità. La "ragione" rifiutata dall'empirismo è cioè una coscienza che presume di potersi costituire indipendentemente dalla sensibilità. La "ragione" è cioè il sapere 4

"metafisico", in senso razionalistico. Pertanto, il fondamento del sapere è, per l'empirismo, la coscienza sensibile, ossia la coscienza che ha come contenuto la sensibilità. Tale coscienza è appunto l'esperienza. La storia dell'empirismo è la vicenda del progressivo rifiuto della "ragione", accompagnata dalla consapevolezza sempre più netta dei limiti della sensazione come strumento rivelativo della realtà esterna. Sia il carattere rivelativo, sia quello occultante della rappresentazione sensibile poggiano infatti sulla convinzione, comune dunque al razionalismo e all'empirismo, che la sensazione sia l'effetto dell'azione esercitata dalla realtà esterna sulla nostra sensibilità: tale azione è un rapporto causale, dove la realtà esterna è la causa e la sensazione l'effetto. Ma Hume elabora una delle critiche più radicali del principio di causalità, portando cosi al massimo il processo di riduzione, cui si è accennato, del carattere rivelativo della sensazione. Se infatti si deve rifiutare il principio di causalità, in base al quale è consentito di porre la sensazione come effetto della realtà esterna, allora il carattere rivelativo della sensazione nei confronti di tale realtà scende a zero, e la sensazione resta un puro fenomeno, sulla cui base non è più consentito affermare alcunché intorno alla realtà esterna. La stessa affermazione di tale realtà diventa per Hume una fede inerente alla "natura umana". 5. Nota sui limiti delle considerazioni svolte Lo schema relativo allo sviluppo del rapporto tra certezza e verità proviene, come già abbiamo rilevato, dall'idealismo hegeliano, dove però il rapporto "dialettico" tra certezza e verità coincide con lo stesso sviluppo in cui la coscienza assoluta (che è la stessa realtà assoluta) va realizzandosi. Invece in queste pagine tale schema ha principalmente un valore euristico; si tratta cioè di una prospettiva idonea a introdurre a una prima comprensione dello svolgimento storico del sapere filosofico, la quale è pertanto essa stessa destinata a essere integrata da una più concreta e essenziale comprensione della storia della filosofia (che d'altra parte, data la natura di questo libro, deve qui rimanere del tutto assente). Si può osservare inoltre che le considerazioni svolte sul rapporto tra razionalismo e empirismo sono esse stesse uno schema astratto, che lo stesso movimento storico si è incaricato di correggere. I due pensatori che più vi si rispecchiano sono Cartesio, per il razionalismo, e Locke, per l'empirismo, e anche qui con le riserve opportune. Per quanto riguarda il razionalismo, si può infatti osservare che già con Malebranche, e poi con Spinoza e soprattutto con Leibniz entra in crisi il principio che la sensazione sia l'effetto dell'azione della realtà esterna (causa) sul soggetto conoscente. Malebranche anticipa, sia pure con risultati diversi, la critica di Hume al principio di causalità. Spinoza accetta ancora questo principio, ma esclude che la realtà esterna corporea possa essere causa di idee (e queste effetto di quella): la causalità si esercita tra termini omogenei, ossia o tra corpi, o tra idee. E Leibniz, dicendo che le "monadi" (cioè le sostanze reali) non hanno porte o finestre dalle quali possa entrare o uscire qualche cosa, intende appunto affermare (innanzitutto a proposito di quella monade che è la coscienza stessa) che la realtà esterna non può entrare nella coscienza, ossia non può imprimervi, come suoi effetti, le sensazioni (le quali, come vedremo, sono per lui già tutte contenute "virtualmente" nella coscienza). Anche nell'empirismo, il concetto di "sensazione", proposto da Locke, va incontro, con Berkeley e Hume, a profonde modifiche, che spingono sempre più sullo sfondo il presupposto che la sensazione sia l'effetto di un'azione esercitata sul soggetto conoscente da parte della realtà esterna. Ciononostante, l anima del razionalismo consiste pur sempre nel guardare verso la realtà in sé stessa, scavalcando l'esperienza con un occhio che non attinge pertanto da essa la luce, ma da 5

principi in cui si esprime l'essenza della realtà che esiste al di là dell'esperienza. E l'anima dell'empirismo consiste pur sempre (anche in seguito alle crescenti difficoltà cui va incontro la costruzione razionalistica del sapere) nel principio che l'autentico contatto con la realtà in sé stessa può essere dato soltanto dall'esperienza anche quando, con Hume, l'affermazione filosofica dell'esistenza di una realtà in sé, al di là dell'esperienza, diventerà (a parte la "fede" in essa, che per Hume appartiene alla natura umana) qualcosa di completamente implicita ma non per questo meno presente. 6