l'essere ontologia Senofane critica della concezione antropomorfica degli dei

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GLI ELEATI: LA SCOPERTA DELL ESSERE. L'indagine della cosiddetta scuola di Elea (da cuie Eleati) venne rivolta non più solo nei confronti del comune principio delle cose della natura, ma altresì all'individuazione di un superiore principio di verità, sia della realtà fisica che del pensiero e della ragione. L'intendimento era di superare l'apparenza del divenire per cercare un principio unico al di sopra del divenire stesso, giudicando, per la prima volta nella storia del pensiero occidentale, il divenire delle cose come mera illusione. Il principio non venne più identificato con un determinato elemento naturale bensì con l'essere in quanto tale (ossia con la realtà in generale), concepito come entità razionale metafisica, trascendente (al di sopra) l'esperienza sensibile, dando quindi avvio all'ontologia (quella parte della filosofia che indaga l essere). Si affaccia una nuova visione del mondo in cui viene superata la preesistente distinzione fra le cose reali da un lato, il pensiero che le indaga dall altro e la parola che le esprime dall altro lato ancora. La realtà coincide col pensiero e col linguaggio. Anzi, il pensiero e linguaggio, e quindi il ragionamento logico, sono la realtà autentica, la quale ha una portata più ampia e più vera della realtà sensibile poiché esprime inoltre concetti che non corrispondono a cose visibili. La verità più autentica non si coglie con i sensi ma appartiene alla ragione, che va oltre le apparenze sensibili. Senofane. Non è stato il fondatore della scuola eleatica, ma piuttosto un pensatore solitario e indipendente, presentando affinità solo generiche con gli Eleati. Per primo, comunque, ha affermato l'unità dell'essere supremo, cioè di Dio, contro il politeismo e l antropomorfismo della tradizione religiosa dell'epoca. Mentre gli Eleati fondarono la problematica ontologica, la problematica di Senofane è soprattutto di carattere teologico e cosmologico. Il tema centrale è la critica della concezione antropomorfica degli dei. L'errore di fondo, per Senofane, è stato quello di attribuire agli dei forme esteriori nonché caratteristiche psicologiche e passioni uguali o del tutto analoghe a quelle degli uomini, solo quantitativamente maggiori, ma qualitativamente non diverse. Critica l'ingenuità di questa concezione che attribuisce agli dei tutto ciò che l'uomo stesso compie, nel bene e anche nel male: come gli uomini, anche gli dei rubano, dicono menzogne, si ingannano reciprocamente, lottano fra di essi. Secondo tale ingenuo pensiero, obietta Senofane, avverrebbe che anche gli stessi animali, se avessero pensiero e immaginazione, concepirebbero gli dei in forma animale. Altrettanto ingenue ed inverosimili sono per Senofane le spiegazioni mitiche dei fenomeni naturali attribuiti agli dei. Alla concezione antropomorfica Senofane oppone una concezione filosofica, razionale, della divinità. Dio è uno perché sommo e supremo ed in quanto sommo non ve ne possono essere altri 1

come lui. È anche immobile (non ha bisogno di mutare e perfezionarsi) perché perfetto dall'eternità. A breve distanza dalla sua nascita, la filosofia mostra in tal modo la sua potente carica innovatrice: rivoluziona radicalmente il modo di vedere Dio quale era proprio dell'uomo antico. Peraltro, non essendo ancora stata maturata la concezione creazionistica del mondo da parte di Dio concepito come persona, ben si comprende come da Senofane Dio venga identificato con il cosmo. Dio è il principio immobile che tiene insieme l'universo. La divinità non è quella che viene adorata nei templi, ma è la totalità della natura (concezione immanentista e panteistica). Non c'è ancora il concetto di trascendenza, ma può essere comunque colta la rivoluzionaria novità nel concepire Dio come sommo principio regolatore dell'universo, colto attraverso la ragione e la ricerca filosofica anziché attraverso l'immaginazione mitologica. Non meno radicale è stata la critica di Senofane contro i valori tradizionali della società aristocratica, che aveva esaltato le virtù guerresche, l'agonismo e la forza fisica. I valori autentici stanno invece, per Senofane, nell'intelligenza e nella sapienza, soprattutto nelle buone leggi e nella saggezza degli uomini. Parmenide. Nato ad Elea intorno al 540 avanti Cristo. È stato il fondatore della cosiddetta "Scuola eleatica", di cui Zenone e Melisso sono stati i più noti allievi. È morto verso la metà del quinto secolo avanti Cristo. Si deve a Parmenide l inizio di una nuova fase della filosofia, non più interessata allo studio della natura, del cosmo e della sua origine (come per la scuola di Mileto), ma interessata invece al problema di quale sia la realtà vera e profonda. Con Parmenide, al posto della cosmologia o filosofia della natura, sorge l'ontologia, che significa filosofia della realtà in generale, ossia filosofia dell'essere, poiché la realtà in generale può anche essere chiamata "l'essere": tutto ciò che è. Nell'uomo, dice Parmenide, vi sono due forme di conoscenza: la conoscenza sensibile, attraverso i sensi, e la conoscenza razionale, attraverso la ragione, il pensiero. Ma solo il pensiero, il ragionamento, è in grado di conoscere la realtà vera e profonda, mentre i sensi si fermano alla superficie, all'apparenza delle cose. Dunque, quella sensibile non è vera conoscenza ma solo semplice opinione. Quello di Parmenide è il problema della realtà autentica, dell'essere autentico della realtà, ma anche, contemporaneamente, il problema della ragione e del linguaggio che l'uomo adopera per parlare delle cose e della realtà in generale. Per Parmenide vi è identità fra realtà, ragione e linguaggio. Infatti, si può pensare e parlare solo di ciò che è, ossia della realtà vera, mentre ciò che non è non può essere né pensato né se ne può parlare. Realtà, 2

pensiero e parola sono i tre aspetti fondamentali dell'essere e tutti obbediscono ad una medesima legge, che è contemporaneamente legge logica e legge della realtà: l'essere coincide con la logica (il pensiero) e con il linguaggio che descrive l'essere, cioè la realtà; la logica e il linguaggio coincidono a loro volta con la realtà; l'ordine del mondo coincide con l'ordine del pensiero che lo pensa e del linguaggio che lo descrive. Parmenide parte dall'osservazione che è vero ciò che è ed è falso ciò che non è e la esprime dicendo che "l'essere è mentre il non essere non è". Collega cioè l'essere e il non essere con la verità e la falsità. Espone la sua dottrina attraverso un poema, di cui ci restano 154 versi. Protagonista del poema è una dea, che simboleggia la verità, la quale rivela che ci sono due modi, due vie lungo le quali l'uomo procede nella conoscenza. La prima via è quella della verità, certa e sicura, mentre la seconda è quella dell'opinione (in greco "doxa"), fallace e sbagliata: è la via dell apparenza. Solo la prima via conduce alla verità, quella che parte e si basa sul principio che l'essere è e non può non essere, mentre il non essere non è e non può in alcun modo essere. L'essere è qui inteso da Parmenide come l'essere puro, assoluto, l'essere in generale, per cui il non essere che gli si contrappone è il nulla assoluto, l assolutamente niente, ed il niente, ossia il non essere, non solo non esiste, ma neppure può essere pensato né descritto. L'essere è la proprietà generale, la proprietà prima e comune di tutte le cose. Infatti qualsiasi cosa, prima di essere qualcosa di specifico (per esempio un tavolo, un tramonto, una persona, un'idea), deve innanzitutto essere, cioè esistere, esserci. Ogni cosa è quindi dapprima un essere, cioè un ente (ente, dal latino ens, significa che c'è, che esiste). E poiché il contrario dell essere, ossia il non essere, è il nulla, il niente, allora tutte le cose che sono, che esistono, non possono prima o poi diventare anche non essere, cioè diventare niente: o ci sono oppure non ci sono; non possono esserci e, prima o dopo, anche non esserci. Questa di Parmenide è la prima grandiosa formulazione del principio di non contraddizione, il quale afferma l'impossibilità che i contrari sussistano nel medesimo tempo: o c'è l'essere o c'è il non essere. L'essere non può pervenire dal non essere o diventare non essere. Eppure la realtà sensibile ci mostra continuamente il divenire delle cose, cioè il continuo trasformarsi e mutare di tutte le cose, che prima sono una certa cosa, cioè un certo modo di essere, e poi diventano un'altra cosa, diventano cioè un "non essere" più la cose di prima. Ma per Parmenide la vera realtà non è quella del divenire delle cose perché in contrasto col principio di non contraddizione. La realtà sensibile, conclude Parmenide, non è né autentica né vera ma è realtà illusoria, solo apparenza, solo opinione. La verità non è la realtà sensibile, che si coglie con i sensi, bensì quella che si coglie soltanto con la ragione, col ragionamento, e che non riguarda le cose sensibili ma i principi, i concetti. In sostanza, ciò che vale per Parmenide non è l'esperienza 3

sensibile, perché i sensi rimangono alla superficie delle cose e/o possono ingannare, ma è la logica, basata su principi, su concetti e regole, che rimangono sempre fissi e immutabili, per cui l'essere, il loro essere, rimane tale costantemente e non può divenire anche non essere. Gli attributi dell'essere. Avendolo concepito in termini assoluti (come essere assoluto), cioè in maniera logica e non sensibile, fisica, Parmenide definisce di conseguenza gli attributi, ossia le proprietà, le caratteristiche, dell'essere. Innanzitutto l'essere è unico e non possono esistere esseri molteplici, perché se l'essere è uno e l'altro o gli altri non sono il primo, allora essi sono "non essere" rispetto al primo, cioè sono niente, nulla. Pertanto non vi è una pluralità di esseri e neppure l'essere diviene, cioè cambia, si trasforma, perché se si trasforma diventa un "non essere" più quello di prima, mentre il non essere non esiste, è niente. In secondo luogo, l'essere è eterno immutabile, immobile. L'essere è eterno, ossia ingenerato ed incorruttibile, perché se fosse stato generato, se avesse cioè avuto un inizio, sarebbe dovuto derivare da un non essere, il che è assurdo poiché il non essere non è, è niente; oppure sarebbe dovuto derivare da un altro essere, il che è impossibile essendo l'essere unico. Neppure è corruttibile, ossia destinato a perire, perché non può andare nel non essere. In terzo luogo, l'essere è compiuto perché non manca di nulla e quindi è perfetto. Infine, se l'essere è perfetto e compiuto allora è limitato e finito, simile a una sfera perfetta. Nell'antichità infatti, come già premesso, l'idea di perfetto coincideva ed era collegata ad entità complete e finite, mentre l'idea di infinito coincideva ed era collegata all'idea di indefinito, cioè di indeterminato e di incompiuto, e perciò imperfetto. Le teorie di Parmenide, per il loro carattere innovativo e poiché assolutamente contrarie al senso comune, provocarono enorme stupore e suscitarono vivaci polemiche, specialmente perché negavano la molteplicità degli esseri, degli enti, nonché il loro divenire, cose ritenute invece del tutto evidenti in base all'esperienza. I discepoli di Parmenide, in particolare Zenone e Melisso, si proposero allora, per rafforzare la teoria del loro maestro, di dimostrare con esempi concreti, ricorrendo a paradossi (dimostrazioni lontane dal senso comune e dalla generale esperienza), che la molteplicità e il divenire degli enti non sono reali ma solo apparenti, mentre reale è solo l'essere unico e immutabile, come sostenuto, appunto, da Parmenide. Zenone. Nato ad Elea nel 490 a.c., fu discepolo di Parmenide. Morì nel 430 avanti Cristo. Zenone è stato tenace difensore delle tesi del suo maestro. Egli tenta di dimostrare, utilizzando la 4

forma della dimostrazione per assurdo, che assai più contraddittorie sarebbero le conseguenze derivanti dalle tesi contrarie a quelle di Parmenide. Zenone è stato definito l'inventore della dialettica intesa come arte della confutazione. I suoi argomenti più noti sono quelli contro il divenire delle cose, volti a ribadire l'immutabilità e immobilità dell'essere, e quelli contro la molteplicità e pluralità delle cose stesse, volti a ribadire l'unità ed indivisibilità dell'essere. I più famosi paradossi contro il movimento e il divenire delle cose sono l'argomento di Achille e la tartaruga e l'argomento della freccia. Secondo il paradosso di Achille e la tartaruga, il veloce Achille non potrà mai raggiungere in una corsa la tartaruga se ad essa sia stato concesso un vantaggio iniziale anche di un solo passo. Infatti, quando Achille raggiunge il punto dal quale è partita la tartaruga, essa ha già percorso un certo tratto; quando poi Achille percorrere questo secondo tratto, la tartaruga, di nuovo, percorre un altro piccolo tratto, e così via all'infinito. Quindi in uno spazio continuo, cioè infinitamente divisibile, è assurdo pensare che i corpi si muovano. L'argomento della freccia vuole dimostrare che una freccia scagliata contro un bersaglio è in realtà immobile. Infatti, in ogni istante in cui è divisibile il tempo del volo della freccia, essa è ferma nello spazio che occupa in quell'istante medesimo. Essendo immobile in ogni istante, lo è anche nella totalità di essi e quindi la freccia che si muove è in realtà sempre ferma. Contro la tesi di Parmenide, l'opinione comune è convinta che un corpo, muovendo da un punto di partenza, possa giungere ad un punto di arrivo prestabilito. Utilizzando l'argomento della dicotomia (=divisibilità per due), Zenone vuole invece dimostrare che ciò non è possibile. Infatti tale corpo, prima di raggiungere il termine del percorso, dovrebbe percorrere la metà di esso e, prima ancora, la metà della metà e così via all'infinito. Quindi, in conclusione, i corpi non si muovono. È evidente che gli argomenti di Zenone funzionano solo se si presuppone che lo spazio sia divisibile all'infinito (come in matematica). Nella realtà fisica però, come dirà Aristotele, esiste solo il finito e solo distanze finite. Melisso È nato e vissuto a Samo, fra il sesto e il quinto secolo avanti Cristo. Melisso sviluppa e in parte modifica la dottrina di Parmenide. In particolare dice che l'essere deve essere infinito, e non finito come diceva Parmenide, perché non può avere limiti né di tempo né di spazio; infatti, se fosse finito dovrebbe confinare con un vuoto e quindi con un "non essere" più se stesso, il che è impossibile posto che il non essere non esiste. In quanto infinito, l'essere è 5

necessariamente anche unico: infatti, se fossero due o più, questi non potrebbero essere infiniti, perché si limiterebbero reciprocamente. L'essere come unico ed infinito è anche incorporeo, non nel senso di immateriale ma nel senso di essere privo di qualsiasi figura e spessore, perché se avesse corpo e spessore sarebbe composto di parti e perciò non sarebbe più unico. L'essere quindi non può nemmeno avere la perfetta forma della sfera, come voleva Parmenide. L'essere è quell uno infinito che non lascia nulla fuori di sé: dunque è il tutto. Di conseguenza, l'essere è anche inalterabile perché se mutasse diverrebbe altro da sé, il che è impossibile perché l'essere già contiene in sé la totalità. Anche Melisso ribadisce, contro l'opinione comune, l'impossibilità del divenire e della pluralità delle cose. Le cose molteplici che i sensi parrebbero attestare, dice Melisso, esisterebbero alla sola condizione che ciascuna di tali cose permanesse sempre identica ed immutabile quale è l'essereunico. Invece l'esperienza ci mostra che le cose mutano continuamente, il che contraddice la logica della ragione. Perciò le cose molteplici e mutevoli sono solo apparenza: occorre negare la validità dei sensi. Ritenere fondato il mutamento e la molteplicità delle cose significherebbe, contro la logica, ammettere che anche il "non essere" esiste. Con Melisso l eleatismo (la filosofia della scuola eleatica) si conclude con la più radicale negazione della molteplicità e mutamento delle cose, benché attestati dall'esperienza e dall'evidenza quotidiana, giungendo, come dirà Aristotele, ad una esaltazione folle della ragione fino a disprezzare completamente la conoscenza sensibile. La filosofia successiva cercherà invece di riconoscere anche la funzione dell'esperienza, nel tentativo di salvare il principio di Parmenide ma di salvare pure l'esperienza sensoriale. 6