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1 il settimanale selezione dei più importanti avvenimenti internazionali Seguici su Il mondo che nessuno racconta È un prodotto

2 italia Guerra allo Stato Islamico, il ruolo dell Italia Mercoledì il presidente americano Barack Obama dovrebbe annunciare il piano dell attacco contro i jihadisti sunniti che terrorizzano Iraq e Siria. L Italia avrà un ruolo attivo. Ma siamo pronti a entrare in guerra? L Italia farà parte della core coalition per l Iraq per contrastare l avanzata dello Stato Islamico in Medio Oriente, come richiesto dal segretario di Stato americano, John Kerry. Sono le esatte parole pronunciate dal presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi, al termine del vertice NATO svoltosi il 5 e 6 settembre a Newport, in Galles. Quello che doveva essere l appuntamento più importante per Washington, durante il quale la Casa Bianca avrebbe voluto riscattare la propria immagine all estero oggi indebolita da troppi tentennamenti, soprattutto sul dossier mediorientale si è risolto in un poco di fatto. Questo anche grazie all ennesimo colpo messo a segno dalla diplomazia russa a poche ore dall inizio del vertice britannico, che ha reso possibile la firma del cessate-il-fuoco tra il governo di Kiev e le autoproclamate repubbliche di Donetsk e Luhansk, scippando per l ennesima volta alla Casa Bianca il ruolo da protagonista e togliendo al vertice la materia principale su cui discutere. Fatto che ha reso vane le minacce americane a Mosca, ha disinnescato la retorica interventista della NATO e, almeno per il momento, ha tolto dall imbarazzo l Europa Unita nel dover definire più aspre sanzioni contro Mosca. La coalizione internazionale In attesa di chiarire la posizione italiana sul delicato tema ucraino, quel poco di fatto a Newport consiste dunque nella decisione dell Alleanza Atlantica di raccogliere una coalizione internazionale sotto l egida delle Nazioni Unite. A farne parte saranno: Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Australia, Canada, Germania, Turchia, Italia, Polonia e Danimarca. Insieme, questi Paesi hanno concordato una strategia per aiutare gli alleati che già fronteggiano sul campo i jihadisti sunniti in Iraq e Siria, e per concertare una campagna aerea coordinata al fine di annientare e distruggere lo Stato Islamico. Parola di Barack Obama. Tornando al vertice, il segretario di Stato americano, John Kerry, ha sottolineato infatti come ormai non esista più alcuna politica di contenimento per frenare il gruppo di Al Baghdadi. Dunque, la sola via possibile è cancellare lo Stato Islamico dalla faccia della terra, perché altrimenti alla fine questo cancro si ritorcerebbe contro di noi. Per evitare quei boots on the ground che i cittadini americani mal digeriscono soprattutto in luoghi infausti come la Mesopotamia il piano studiato dal Pentagono e presentato al vertice NATO è, al momento, lasciare che i combattimenti sul terreno restino affidati alle forze di sicurezza irachene, alle milizie curde Peshmerga e ai ribelli siriani moderati. Mentre vi è grande incertezza circa un intervento diretto o indiretto di Iran, Arabia Saudita e Giordania. 2

3 Il ruolo da giocare per l Italia Proprio in questo campo, l Italia ha un ruolo da giocare, come disse mesi or sono Federica Mogherini, Alto Rappresentante in pectore per gli Affari Esteri dell Unione Europea. Il conflitto queste le sue parole ha radici all interno del Paese, ma ha fortissime connessioni con quello che succede intorno, in Siria, Iran, Libano e nei Paesi del Golfo. L Italia può giocare un ruolo nel coinvolgere i diversi attori regionali. Dunque, sembra di capire, oltre alle note basi italiane da cui possono decollare i jet dell Alleanza Atlantica per bombardare (vedi Sigonella), l Italia interpreterebbe il ruolo chiave dell intermediario. Anche perché il nostro Paese non ha sufficienti risorse economiche da impiegare più attivamente in una guerra. Né è trapelata ancora un informazione utile a capire la nostra posizione sulla fornitura diretta di armi all asse contro Stato Islamico. I militari dovrebbero svolgere giusto la raccolta d informazioni e gestire le attività di spionaggio con Paesi come la Giordania e la Turchia, promuovendo la ricerca di alleanze strategiche. Ad esempio quella con il Regno saudita, mentre il coinvolgimento della Repubblica Islamica dell Iran resta un incognita. Possibile? Le incertezze della guerra al terrorismo Tutto questo per il momento resta sulla carta ed è un esercizio puramente teorico. Piuttosto, viene spontanea una domanda: dato che la minaccia dello Stato Islamico è credibile, dato che il gruppo jihadista sunnita ha già messo in guardia l Occidente dall attaccare l Iraq e stante il fatto che il premier Renzi ha già assicurato la partecipazione dell Italia all interno della coalizione, il governo ha predisposto un piano strategico per la sicurezza nazionale, che ci metta al riparo da eventuali ritorsioni sul nostro territorio? Esiste un protocollo per rinforzare la difesa e la sorveglianza di aree sensibili come metropolitane, stazioni ferroviarie, aeroporti, eccetera? Siamo preparati a una guerra come questa, dove il nemico è difficilmente riconoscibile e agisce attraverso piste diverse da quelli sinora battute e secondo logiche non convenzionali? Pur se le minacce restano sotto il livello di allerta massima, anche qualora fossero solo ipotesi di scuola, tutto ciò non ci autorizza a sottovalutare il pericolo d imbarcarsi in una missione molto rischiosa e la cui minaccia non è confinata solamente in territorio iracheno o siriano. Mercoledì il presidente americano Barack Obama definirà il piano d attacco. Il Regno Unito ha già preso contromisure in sede parlamentare e varato leggi speciali che, tra le altre cose, danno alle Forze dell Ordine la possibilità di confiscare i passaporti ai sospetti terroristi, secondo la logica di un approccio severo, intelligente, paziente e complessivo per sconfiggere la minaccia terroristica alla radice, come ha sottolineato lo stesso premier britannico David Cameron. E l Italia, cosa farà? Siamo davvero pronti a entrare in guerra? Dal momento che c imbarcheremo in quest avventura, il nostro governo certamente avrà ponderato opportunità e rischi. Ma una risposta pubblica a tali quesiti, sarebbe comunque opportuna. 3

4 somalia Resta viva la minaccia di Al Shabab Dopo la morte di Ahmed Abdi Godane, ucciso nei giorni scorsi da un raid aereo americano a sud di Mogadiscio, il nuovo capo dell organizzazione qaedista Ahmed Umar promette vendetta. A nord di Mogadiscio attentato contro un convoglio AMISOM Il 5 settembre gli Stati Uniti hanno annunciato l uccisione di Ahmed Abdi Godane, leader del gruppo estremista somalo Al Shabab. Il terrorista, tra i più ricercati capifila qaedisti, è stato colpito da una pioggia di missili Hellfire statunitensi mentre presenziava una riunione tra gli alti ranghi dell organizzazione a sud di Mogadiscio, capitale della Somalia. Dopo che lo scorso anno lo stesso Godane aveva sfruttato a suo favore una faida interna per eliminare il suo potenziale successore Ibrahim al-afghani, diversi analisti avevano prospettato che con la sua morte il gruppo avrebbe subito il definitivo colpo di grazia. La leadership di Al Shabab non ha però perso tempo comunicando subito dopo l uccisione di Godane la nomina di un nuovo capo. Si tratta, come ormai noto, di Ahmed Umar, conosciuto anche come Abu Ubaidah. Nel darne l annuncio l organizzazione ha affermato che vendicherà la morte di Godane, ragione per cui le autorità somale temono adesso pesanti ritorsioni da parte del gruppo qaedista. Al Shabab, attivo ufficialmente dal 2006, ha rivendicato in passato diversi sanguinosi attentati, tra cui svariati attacchi contro il contingente delle forze dell Unione Africana (AMISOM), l attacco-suicida a Kampala (Uganda, 2010) e il massacro effettuato al centro commerciale di Nairobi (Kenya, 2013). Una serie di attacchi attraverso cui il gruppo estremista è riuscito a colpire non solo il governo somalo ma anche i Paesi limitrofi che in questi anni hanno fornito mezzi e truppe per fermarne l avanzata nel Corno d Africa. La missione dell Unione Africana, avviata nel 2007, è riuscita nel 2011 ad allontanare la minaccia di Al Shabab da Mogadiscio e successivamente a privare il gruppo delle sue roccaforti nel centro e sud del Paese. Ma Al Shabab rimane fortemente radicato nelle campagne e nelle aree più remote, ragion per cui la settimana scorsa le forze somale, in collaborazione con il contingente AMISOM, hanno sferrato una nuova offensiva contro il gruppo per tentare di riconquistare gli ultimi avamposti strategici che ancora controlla. Barawe, ad esempio, è uno dei porti ancora nelle loro mani. Per Al Shabaab rappresenta una delle principali risorse di autofinanziamento, perché è da qui che l organizzazione qaedista riesce a esportare illegalmente carbone verso i Paesi del Golfo. Con il cambio di leadership è probabile adesso che le operazioni militari di AMISOM possano avere maggiori possibilità di riuscita, anche solo per la necessità di Al Shabab di riorganizzare le fila dei suoi combattenti che hanno giurato fedeltà al nuovo capo Ahmed Umar. Il presidente somalo, Hassan Cheikh Mohamoud, è tornato a chiedere ai combattenti di deporre le armi in cambio dell amnistia. Il suo appello però sembra destinato sfumare nel nulla. La minaccia di Al Shabab resta viva, anche dopo l uccisione di Ahmed Abdi Godane, come dimostra una notizia di poche ore fa secondo cui oggi in una località situata circa 30 chilometri a nord-overst di Mogasdiscio un attentato con autobomba contro un convoglio AMISOM ha provocato l uccisione di almeno 12 persone e il ferimento di circa altre 30 che viaggiavano a bordo di un minibus. 4

5 palestina Creare uno Stato Palestinese nel Sinai. La proposta egiziana Fuga di notizie sulla mediazione del presidente egiziano Al Sisi con i vertici dell Autorità Nazionale Palestinese rivelano un piano originale per una soluzione al conflitto israelo-palestinese. Tel Aviv non sarebbe contraria Ormai hai ottant anni, se non accetti questa proposta sarà il tuo successore a farlo al posto tuo. Pare che al summit della Lega Araba ospitato pochi giorni fa al Cairo il presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi si sia rivolto con questo tono molto confidenziale, al leader dell Autorità Nazionale Palestinese, Mahmoud Abbas, mentre gli proponeva di ospitare lo Stato Palestinese nella penisola del Sinai. Nonostante il retroscena sia stato negato a più riprese nelle ultime 24 ore, la notizia ormai è trapelata e si sta diffondendo velocemente. A diffonderla sono stati principalmente i media israeliani, secondo i quali un offerta da parte di Al Sisi sarebbe realmente stata messa sul tavolo. Toccherebbe adesso ad Abbas cogliere al volo la possibilità di dare concretezza al sogno di uno Stato per la Palestina, accettando così il trasferimento nel Sinai di parte della popolazione e dell Autorità. Il pacchetto egiziano prevederebbe la messa a disposizione da parte del Cairo di un territorio della grandezza di chilometri, cinque volte le dimensioni della Striscia di Gaza. Secondo quanto comunicato dall emittente radio dell IDF (Israel Defense Forces), per accettare l offerta Abbas in cambio dovrebbe però rinunciare a chiedere allo Stato di Israele di ripiegare entro i confini del 1967, vale a dire quelli stabiliti dalla risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza dell ONU, votata il 22 novembre 1967 dopo la guerra dei Sei Giorni, elemento sinora considerato imprescindibile dai palestinesi per arrivare a un accordo di pace. Nelle intenzioni del presidente Al Sisi, lo Stato Palestinese diverrebbe un territorio totalmente demilitarizzato, dove troverebbero accoglienza (e verosimilmente anche abitazioni e lavoro) tutti i rifugiati scappati dalle loro città dopo la creazione dello Stato di Israele. Nella proposta, sarebbe specificata anche la situazione delle città palestinesi nella West Bank (Cisgiordania): ad esse verrebbe garantita autonomia e continuerebbero a rimanere sotto il controllo dell Autorità Nazionale Palestinese. Le reazioni alla proposta egiziana Il governo di Ramallah per ora ha smentito la notizia, anche se in realtà fonti vicine ai vertici dell ANP dicono che Abbas avrebbe rifiutato l offerta, declinando inoltre l invito a incontrare nuovamente Al Sisi di persona. Nabil Abu Rudaineh, portavoce della presidenza dell ANP, ha ribadito il concetto sottolineando che l idea di ampliare la Striscia di Gaza verso il Sinai è del tutto inaccettabile tanto per i palestinesi quanto per gli egiziani e il mondo arabo. 5

6 Altri esponenti palestinesi hanno usato toni più duri, accusando i media israeliani di pubblicare notizie false per distogliere l attenzione rispetto alle reali posizioni di Palestina ed Egitto nei confronti di Tel Aviv, mentre un portavoce del ministero degli Esteri egiziano ha provato a gettare acqua sul fuoco parlando di una ricostruzione dei fatti del tutto priva di fondamento e falsa. Reazioni diametralmente opposte rispetto a quella degli Stati Uniti, che avrebbero espresso subito parere favorevole a questo tipo di soluzione. Anche dal governo israeliano i pareri sarebbero stati positivi. Yaakov Peri, ministro israeliano della Scienza con un passato alla guida dello Shin Bet (l agenzia d intelligence per gli affari interni dello Stato di Israele), ha affermato che vale la pena discutere seriamente la proposta di Al Sisi, perché potrebbe risolvere i problemi cui sinora non è stata data risposta nei colloqui svolti tra Israele ei palestinesi. Il che permetterebbe anche all Egitto di affrontare in maniera più organica le varie minacce terroristiche che si annidano nel Sinai. Altri politici della coalizione del governo israeliano hanno accolto positivamente l iniziativa affermando che andrebbe nella giusta direzione, vale a dire quella di far sì che la questione palestinese venga affrontata una volta per tutte a livello regionale e non solo da Israele. E c è chi ha chiesto al primo ministro Benjamin Netanyahu di convocare Al Sisi per un incontro, in modo da approfondire direttamente con lui la questione. Israele-Palestina, la trattativa impossibile Non è la prima volta che si presenta questo tipo di proposta al tavolo delle trattative per la pace in Medio Oriente. Anni fa fu introdotta da un gruppo di accademici israeliani e sostenuta dall ex consigliere per la sicurezza nazionale israeliana, Giora Eiland, ma venne subito respinta dall Egitto. Erano tempi diversi quelli, e il potere era saldamente nelle mani di Hosni Mubarak. Oggi le cose sono cambiate. Alla guida del Paese c è Al Sisi e, da quando nel luglio del 2013 ha spodestato il governo dei Fratelli Musulmani, l ex generale si è impegnato a ricostruire l immagine di un Egitto forte e decisionista nelle questioni estere, ottenendo prima la benedizione della Russia e, in seguito, il perdono degli Stati Uniti. Poche settimane fa la sua mediazione è stata decisiva per porre fine ai 50 giorni di conflitto che a Gaza hanno provocato più di palestinesi uccisi e oltre settanta morti per Israele. E adesso il presidente egiziano potrebbe prendersi definitivamente la scena passando alla storia come l uomo che ha finalmente portato la pace in Medio Oriente. La strada da lui indicata potrebbe d altronde essere l unica realmente percorribile per Abbas. La possibilità di far convivere nello stesso governo Fatah e Hamas è praticamente irrealizzabile dopo che, pochi giorni fa, è stato lui stesso a minacciare di rompere l accordo di unità nazionale se il movimento islamista non cambierà il suo comportamento consentendo all esecutivo di operare adeguatamente nella Striscia di Gaza. Abbas ha puntato il dito contro il governo-ombra imposto da Hamas nella Striscia e sui suoi 27 viceministri che presidiano il territorio nonostante l accordo di riconciliazione preveda che a operare sia esclusivamente l ANP. 6

7 Alla luce di queste difficoltà, e con un territorio da ricostruire dopo le distruzioni causate dalla guerra, per Abbas la soluzione avanzata da Al Sisi non sarebbe da scartare in partenza. E forse potrebbe stare bene anche a Israele. Sul fatto che poi il Sinai possa realmente essere la terra promessa dei palestinesi, i dubbi restano. Inoltre, le operazioni militari avviate dal governo egiziano per stanare i gruppi terroristici operativi nella penisola, sinora non hanno prodotto risultati concreti. Infine, negli ultimi giorni ha trovato conferma anche la presenza di cellule di miliziani dello Stato Islamico, che qui avrebbero stretto alleanza con i filo-qaedisti di Ansar beit al Maqdis. Insomma, un mix potenzialmente esplosivo che poco avrebbe a che fare con il proposito di demilitarizzare il futuro Stato Palestinese avanzato da Al Sisi per convincere Abbas. 7

8 nigeria Come salvare il petrolio dalla furia di Boko Haram Nelle ultime settimane il gruppo islamista ha guadagnato terreno al confine con Camerun e Ciad. A rischio la tenuta del settore petrolifero e il primato dell economia nigeriana in Africa Quelli che sembravano attacchi indiscriminati perpetrati dai militanti di Boko Haram ai danni della popolazione nigeriana e delle comunità religiose cristiane in Nigeria, nelle ultime settimane hanno assunto sempre di più l aspetto di una vera e propria strategia di conquista territoriale. A fine agosto il gruppo terrorista nigeriano ha conquistato la città di Gwoza (nello Stato del Borno, 135 chilometri a sud-est di Maiduguri, in un area già brutalmente presa di mira a giugno) proclamando l instaurazione del Califfato islamico. Un annuncio diffuso su web dal leader del gruppo, Abubaker Shekau, e che sembra collegare la nuova strategia adottata da Boko Haram all avanzata dello Stato Islamico in Siria e Iraq. L ipotesi al momento non è però avallata da dirette relazioni o contatti operativi tra i due gruppi, né da messaggi o video attraverso cui Shekau ha dichiarato l alleanza a IS, fatta eccezione per una isolata dichiarazione risalente a luglio quando il leader di Boko Haram disse di sostenere il califfo Al Baghdadi. Benché le autorità nigeriane abbiano smentito la notizia della proclamazione del Califfato nell area nord-orientale dello Stato del Borno, affermando di aver respinto i miliziani islamiste dalle città di Gwoza e Damboa, è innegabile che il gruppo di Boko Haram si sia assicurato un sensibile vantaggio territoriale negli ultimi giorni. Dall inizio di settembre si sono infatti moltiplicati gli attacchi in serie in diverse località verso i confini con Ciad e Camerun, negli Stati di Yobe, Adawama e del Borno, dove sono state sottratte al controllo delle forze di sicurezza nigeriane le città di Gamboru Ngala, Gulak, Michika e Madagali. L ultima battaglia si è svolta pochi giorni fa per la città di Bama, a 60 chilometri da Maiduguri. E adesso si teme che proprio Maiduguri, la capitale dello Stato del Borno, possa essere la prossima della lista. La risposta dell esercito nigeriano si è fatta più pressante. L 8 settembre almeno 50 combattenti sospettati di esseri membri del gruppo terroristico sono stati uccisi in un blitz dei militari nel villaggio di Kawuri, a meno di 40 chilometri da Maiduguri. Nella stessa giornata un altra operazione è stata condotta dall esercito camerunense che ha respinto un attacco alla cittadina di Fotokol uccidendo circa un centinaio di guerriglieri di Boko Haram. La situazione economica della Nigeria Oltre che alla minaccia islamista, il governo di Abuja deve far fronte alla precarietà del proprio sistema economico. Nei giorni scorsi a Port Harcourt, nel sud del Paese, si è conclusa la Conferenza Internazionale su petrolio e gas. Dal summit è emersa la necessità impellente per la Nigeria di puntare sulla creazione di nuovi posti di lavoro in quei settori, considerato che il Paese è il quinto esportatore di greggio al mondo, decimo per riserve di petrolio e nono per riserve di gas naturale di cui è il maggiore possessore in Africa. 8

9 Secondo un recente rapporto del network internazionale PriceWaterhouseCoopers sugli investimenti in Africa il settore degli idrocarburi è l unico in grado di garantire una potenziale svolta economica alla Nigeria, necessaria per permettere al Paese di confermare il primo posto tra le economie del continente africano. La Nigeria, come anche il Mozambico e la Tanzania, è classificata nella top ten dei Paesi in cui sono state effettuate le maggiori scoperte dalle compagnie petrolifere internazionali, ragion per cui lo sforzo del governo è proteso a creare un clima più favorevole per investimenti esteri, anche in vista del prossimo summit sul petrolio e sul gas in programma dal 2 al 5 febbraio 2015 ad Abuja. Ovviamente Boko Haram permettendo. 9

10 libia La Francia vuol tornare in Libia, l Italia resta a guardare Stanti le difficoltà politiche del presidente Hollande e quelle economiche dello sforamento del deficit, Parigi intende organizzare una nuova spedizione militare nella Libia del caos. Non molti sono pronti a seguirla La Libia è la mia preoccupazione fondamentale ha affermato il ministro della Difesa francese, Jean-Yves Le Drian, in un intervista al quotidiano francese Le Figaro l 8 settembre, allo scopo di creare i presupposti per una coalizione internazionale che intervenga militarmente in Libia. Ormai questo è un Paese completamente destrutturato e soprattutto rappresenta la porta dell Europa, la porta dell Africa per il terrorismo internazionale. Volendo citare il neo-belligerante Barack Obama, si potrebbe dire che anche la Libia è ormai un safe heaven per i cosiddetti terroristi islamici. In questo Paese, infatti, i jihadisti mantengono intatte le loro reti relazionali, comprano armi dal mercato nero e continuano a gestire anche gli altri traffici cui sono abituati, come la tratta di esseri umani, i rapimenti e anche lo smercio di droga, seppur in misura minore. Non accade a caso, infatti, che il titolare del Quai d Orsay nell intervista citi anche due noti signori della guerra, che da anni imperversano nel Sahel e più in generale in tutta l Africa del Nord: Capi come l emiro Drougdal o Mokhtar Belmokhtar transitano di lì regolarmente afferma Le Drian. Abdelmalek Droukdel è il capo di AQIM, Al Qaeda nel Maghreb Islamico, gruppo terroristico che la Francia ha già combattuto in Mali nel 2013 ( Operazione Serval ), mentre Mokhtar Belmokhtar è la primula rossa di origine algerina che oggi gestisce il mercato nero in tutta la regione e che ha manifeste connessioni con il mondo della jihad islamica, pur impersonando più la figura del predone che quella del combattente islamico. Entrambi sono da tempo nel mirino del DGSE, il servizio segreto di Parigi, e rappresentano uno dei principali obiettivi-simbolo per la Francia. Anche perché, con la caduta del regime di Gheddafi, sono state liberate tutte quelle forze del male che prima erano tenute sotto il tacco dal colonnello-dittatore, mentre ora imperversano liberamente nella regione. Una seconda guerra per la Libia Il ministro Le Drian ci tiene così tanto a ribadire questo concetto, che dimentica un passaggio fondamentale: l ammissione di colpa sull infelice scelta di defenestrare Mu ammar Gheddafi da parte del governo francese e di quello britannico. Causa scatenante del caos odierno è, infatti, palesemente la prematura fine del colonnello. I risultati del regime change sono sotto gli occhi di tutti: la Libia non ha più una leadership, il rischio di un interruzione delle forniture petrolifere verso l Europa è concreto, e tutto il territorio nazionale è attraversato da faide tribali ed egoismi settari, tali per cui una parte del Paese è finita sotto il controllo delle milizie islamiche sunnite di Ansar Al Sharia 10

11 e un altra porzione è sotto il controllo di Khalifa Haftar, il golpista libico che Daniele Raineri sul Foglio ha soprannominato il generale free lance, il cui esercito non riesce però a imporsi sugli islamisti ed è anzi già stato sconfitto a Bengasi e a Tripoli. Pertanto, se la Libia è fuori controllo, secondo l Eliseo serve un nuovo intervento militare, che rimedi al danno e contempli l aiuto delle potenze alleate. Ma non è un déjà vu, questo dell Occidente? Non ricorda un po il modus operandi americano che, alla data dell 11 settembre 2014, ha annunciato il ritorno per la terza volta sul luogo del delitto, l Iraq, dopo aver defenestrato un dittatore che fino all intervento militare USA aveva garantito il mantenimento dello status quo e una convivenza pacifica tra sunniti e sciiti? Non importa molto questo ragionamento alle cancellerie occidentali. Il punto è risolvere hic et nunc la questione. Perciò Parigi, che sponsorizza la seconda guerra in Libia in meno di quattro anni, è in cerca di alleati per finire il lavoro. Ma non molti sembrano intenzionati a seguire la Francia. Nessuno vuol partecipare alla coalizione internazionale Il Regno Unito, sodale di Parigi in tante battaglie, in questi giorni ha ben altro cui pensare: vedi il referendum per l indipendenza della Scozia del 18 settembre, una bomba a orologeria pronta a esplodere in faccia al governo di Cameron, tale che potrebbe essere fatale tanto al suo governo quanto al Regno intero, in caso di vittoria degli Yes. Tralasciando le questioni economiche, se Edimburgo si dovesse staccare da Londra, chi dei due siederà al seggio ONU e con quale dicitura? Che fine faranno i patti con la NATO? Gli scozzesi entreranno nell Alleanza Atlantica? Che ne sarà delle tre basi operative della Royal Navy in Scozia e, soprattutto, dei sottomarini nucleari? Interrogativi la cui risposta non è semplice e che stanno infiammando il dibattito politico interno, rallentando qualsiasi decisione di Downing street circa nuove iniziative militari del Regno per il momento Unito. Gli Stati Uniti, invece, sono già impegnati sui fronti siriano e iracheno contro lo Stato Islamico. Washington potrebbe dare una mano, in virtù di quella scaltra scelta di parole usate dall ex avvocato e oggi inquilino della Casa Bianca, durante lo speech sul nuovo intervento USA in Iraq: Barack Obama, infatti, ha autorizzato raid aerei contro lo Stato islamico dovunque si trovi e quest affermazione potrebbe giustificare anche un azione in Libia agli occhi del Congresso, data la teorica affiliazione degli islamisti di Bengasi al Califfato Islamico. Ma, al momento, questa resta solo un ipotesi che il Pentagono tende a non considerare. L Algeria, storicamente legata a doppio filo con Parigi, è la cartina di tornasole delle alleanze possibili, nonché Paese strategico per ovvie ragioni di confine. Secondo fonti turche, Algeri starebbe valutando l apertura dello spazio aereo per consentire eventuali bombardamenti franco-americani e il trasporto logistico delle truppe. Ma ancora non c è niente di certo né filtrano indiscrezioni. 11

12 L Italia snobba la Libia Così, resta Roma. Il nostro Paese, che dovrebbe essere in prima linea nel monitoraggio degli accadimenti in Tripolitania e Cirenaica, per il momento nicchia: alle insistenti richieste dei rappresentanti francesi, risponde in via ufficiosa che non sono in previsione azioni militari. Tutt al più, il ministero della Difesa potrebbe fornire aiuti e stanziare un budget. Non si può essere più generici, insomma. Ma, alla resa dei conti, la strategia dell Italia in Libia ammesso che vi sia ancora non si conosce e, stante le dichiarazioni del premier Matteo Renzi (che pare sinceramente orientato a volersi occupare di Libia), nulla si muove. Insomma, un magro bottino per Francois Hollande, che in questo momento è considerato il presidente meno gradito dalla Francia, assediato dagli scandali amorosi (complici le sue ex), in debito di ossigeno per una politica economica inefficace e che ora è finito nel mirino anche dei difensori dell austerity a Bruxelles, per l annuncio che la Francia sforerà l obiettivo di rientrare nel limite del 3% del deficit per il 2015 e anche per il Che ne è dunque della grandeur francese? Possibile che all altezzosa Parigi sia rimasta solamente la Françafrique? E, anche in quel caso, avrà Parigi la forza politica di agire da sola in un area di crisi di capitale importanza per il Mediterraneo? 12

13 iraq Guerra a Isis, gli Usa danno i numeri La coalizione internazionale non è compatta e soffre degli egoismi nazionali: i numeri forniti dalla CIA C è ancora molta confusione, troppa, sul terzo intervento degli Stati Uniti in Iraq contro lo Stato Islamico (IS). Abbiamo letto degli Stati che parteciperanno alla coalizione internazionale, un alleanza trasversale a cui hanno lavorato nelle ultime settimane il Segretario di Stato USA, John Kerry, in tandem con il presidente Barack Obama. Adesso sappiamo che l Occidente schiererà le forze armate di Regno Unito, Francia, Danimarca, Polonia, Australia, Germania, Canada e anche l Italia. Vedremo più avanti in che modo e secondo quale impegno. Mentre a Oriente, ancora John Kerry, uscito trionfalisticamente dal vertice di Gedda (Arabia Saudita), ha portato a casa la garanzia di un impegno anche da parte dei Paesi arabi: Arabia Saudita, Bahrein, Emirati, Kuwait, Qatar, Oman, Egitto, Iraq, Giordania e Libano. La singolarità della Turchia Nell elenco dei Paesi della coalizione non abbiamo menzionato la Turchia, che si trova a metà strada, in posizione assai scomoda sia geograficamente sia politicamente, in qualità di ponte culturale proprio tra le millenarie civiltà occidentale e orientale, cristiana e islamica, progressista e conservatrice. Ankara teme un carico eccessivo di responsabilità e non ha ancora chiaro l impegno diretto degli altri alleati né conosce la visione generale dietro la strategia americana. Inoltre, l indecisione è dettata anche da alcuni fattori di non poco conto: il rischio di aprire un fronte di guerra troppo esteso lungo il confine turco con la Siria (si tratta di pattugliare ben 900 chilometri, senza contare l Iraq); il pericolo di recrudescenze e attentati in territorio turco; il sostegno di Ankara ai ribelli siriani della prima ora; l emergenza profughi (1,3 milioni secondo fonti turche); i 49 ostaggi turchi in mano all IS, tra cui alcuni diplomatici (sappiamo fin troppo bene come gli uomini del Califfato trattino simili questioni). Resta ben inteso che la Turchia è parte integrante della NATO e dunque il suo posto è comunque nel perimetro dell Alleanza Atlantica. Una coalizione piena d incognite Per i turchi vale anche la questione del Kurdistan, che al momento è il fronte più caldo nella lotta contro l IS. Il Kurdistan non è uno Stato riconosciuto ma un area contesa tra quattro Stati - Turchia, Iraq, Siria e Iran - ricca di petrolio e in cui vivono quasi 40 milioni di persone, che da questa guerra vorrebbero ottenere finalmente l indipendenza. Dunque, i protagonisti diretti del conflitto hanno un interesse personale che mal si concilia con la coalizione internazionale. Sapendo inoltre che almeno quattro Paesi - Turchia, Arabia Saudita, Qatar e Kurdistan - mantengono una politica ambigua nel conflitto, considerato il fatto che questa è una guerra regionale e non globale (come pretendono invece gli Stati Uniti), consapevoli della posizione negativa della Russia e dell Iran (a sua volta implicato nella difesa degli sciiti) e del rischio di dover poi avere un piano per deporre lo stesso Bashar Assad dalla Siria, non possiamo che concludere che ci troviamo di fronte a una guerra che si profila ancora 13

14 lunga e dall esito incerto. E pensare che poteva essere l occasione buona per Washington di riallacciare i rapporti con Mosca. Le armi italiane ai curdi Ciò nonostante, all insegna del motto nordamericano united we stand e dell ancor più rilevante motto nazionale e pluribus unum, il Segretario americano ha parlato di impegno condiviso a stare tutti uniti contro la minaccia posta dal terrorismo. Ma è davvero così? E quale ruolo avranno precisamente i protagonisti della coalizione? Neanche a Washington lo sanno ancora bene e, per adesso, si ha contezza solo dell impegno economico di numerosi Paesi per la fornitura di armi. Vedi l Italia, che ha inviato armi per i curdi. Se consideriamo l impegno del nostro Paese come la cartina di tornasole dell andamento generale del conflitto, dobbiamo già preoccuparci. Quelle armi, infatti, non sono ancora giunte a destinazione: Le armi per il Kurdistan sono partite, in questo momento ci sono questioni burocratiche a Baghdad, è un tema che deve essere risolto, le armi sono a Baghdad ha riferito solo ieri il nostro ministro della difesa, Roberta Pinotti. Non certo un inizio rassicurante. Le cifre dei combattenti, qualcosa non quadra Spiace notare, inoltre, come solo ventiquattrore dopo l annuncio di Obama, sia trapelata la notizia - la fonte è nientemeno che la CIA - che il numero degli jihadisti non corrisponde più a 15mila uomini, ma a una cifra aggiornata che oscilla tra le e le unità. Di questi, almeno 2mila provenienti da Paesi occidentali e, in totale, da ben 80 Paesi (più di un terzo degli Stati del mondo). Di là dall aspetto approssimativo del dato - che cifra è a fronte di un generico e di un precedente stimato solo poche settimane fa? - occorre notare alcune cose. Anzitutto, va detto che una gran parte dei combattenti dell IS sono ex membri del partito Baath di Saddam Hussein e altri militari sunniti delusi dalla politica sciita, che li ha progressivamente esclusi dai giochi nel post-saddam. Dunque, non stiamo parlando di combattenti improvvisati ma di militari addestrati, che conoscono alla perfezione il territorio in cui operano e sono perfettamente a conoscenza di dove si trovano i depositi di armi e quali sono i centri strategici e le caserme che vale la pena assaltare. Niente a che fare con volontari della jihad islamica reclutati su internet. Inoltre, in Siria una parte dei ribelli cosiddetti moderati nel tempo sono confluiti tanto nello Stato Islamico quanto in Jabhat Al Nusra, la formazione di matrice qaedista che al momento è schierata a fianco di IS. Distinguere le formazioni moderate dagli estremisti non è mai semplice e occorrono uomini fidati sul campo per esser certi di addestrare i soggetti giusti. Una politica, quella di voler addestrare la popolazione indigena, che non ha mai ripagato gli sforzi fatti. Almeno, non in Iraq e Siria, dove il risultato è sotto gli occhi di tutti. Senza considerare che le reclute addestrate di oggi potrebbero divenire un esercito ostile domani. Anzi, possiamo già affermare che le reclute addestrate di ieri sono divenute un esercito ostile già oggi. Insomma, quest avventura - priva di obiettivi finali condivisi - non comincia bene per la coalizione internazionale. Gli Stati Uniti rischiano di trascinarci per l ennesima volta in un caos del quale non si vede la fine. E una guerra per procura difficilmente funzionerà. A meno che Washington alla fine non schieri direttamente le proprie truppe. Ma Obama ha promesso che non lo farà. Ha segnato una nuova red line 14

15 russia (Fed.) L UE ci riprova con le sanzioni. Ma Mosca non indietreggia Entrano in vigore le nuove misure restrittive imposte da Bruxelles al governo russo. Colpiti i settori dell'energia, della finanza e della difesa. Il Cremlino è pronto a reagire, e dopo i generi alimentari potrebbe bloccare anche le importazioni di auto Ci sono anche i colossi dell energia Gazprom e Rosneft e il produttore degli intramontabili fucili Kalashnikov nella lista delle società che a partire da oggi saranno soggette al nuovo piano di sanzioni varato dall Unione Europea contro la Russia. Obiettivo dichiarato dell UE è colpire i punti nevralgici dell economia russa, vale a dire la finanza, l energia e la difesa. Nel mirino di Bruxelles sono così finite cinque grandi banche statali Sberbank, VTB, Gazprombank, Vnesheconombank e Rosselkhozbank -, a cui non verrà consentito lo scambio di obbligazioni, azioni e altri strumenti con società europee la cui durata superi i 30 giorni. Nella black list dell UE finiscono anche i tre leader degli idrocarburi Rosneft, Transneft e Gazprom Neft, il cui accesso ai mercati finanziari verrà sensibilmente limitato. La situazione potrebbe peggiorare in particolare per Rosneft, che il mese scorso ha già chiesto al governo russo un prestito di 42 miliardi di dollari. Con questa mossa, secondo Mosca, l UE intenderebbe anche ostacolare i piani del Cremlino per l estrazione di petrolio e gas nell Artico. Nove società dell industria militare russa non potranno più esportare tecnologie militari. Infine con l aggiunta di altri 24 nomi di persone vicine al Cremlino (parlamentari della Duma e uomini d affari) e ai vertici degli autoproclamati governi indipendenti delle regioni ucraine della Crimea del Donbass, sale a 119 il numero di coloro a cui sono stati congelati beni e a cui è impedito di effettuare viaggi nei Paesi dell UE. Mentre questa mattina la Borsa di Mosca e il rublo (sceso a quota 37,72 per un dollaro) hanno reagito negativamente all entrata in vigore delle nuove sanzioni europee, il Cremlino ha già pronta una risposta. Mosca ha definito le sanzioni controproducenti, poiché arrivano proprio nel momento in cui la Russia ha contribuito a negoziare il cessate il fuoco nell est dell Ucraina firmato il 5 settembre, dimostrando così il proprio impegno per concretizzare i negoziati di pace tra il governo di Kiev e i separatisti. La Russia dunque si difende. Denuncia la presenza di almeno militari delle truppe NATO al confine con l Ucraina e annuncia che sosterrà economicamente le società colpite dalle sanzioni. Già ieri sera l UE ha provato a mantenere un minimo equilibrio nei rapporti con Mosca sottolineando di essere pronta a rivedere le sanzioni se si registreranno dei miglioramenti nell est dell Ucraina. Il colpo però ormai è stato scagliato e il Cremlino non tarderà a reagire. Al primo round di sanzioni ha ribattuto imponendo il blocco alle importazioni di prodotti agricoli da Stati Uniti, Unione Europea, Norvegia, Australia e Canada, il cui valore economico è quantificabile in circa milioni di dollari. Adesso oltre alle compagnie aeree, a cui potrebbe essere vietato di sorvolare i cieli russi, a farne le spese potrebbero essere anche i produttori di auto e di merci leggere come ha specificato Andrei Belousov, un consigliere del presidente Putin, all agenzia russa Ria Novosti. 15

16 Il caso della Polonia Intanto, mentre nell est dell Ucraina l intensità dei combattimenti è nettamente calata dalla firma del cessate il fuoco lo scorso 5 settembre, un allarme arriva dalla Polonia. Il 10 settembre la fornitura di metano che Gazprom assicura da anni a Varsavia è infatti improvvisamente crollata. La segnalazione spiega Ital Intermedia è stato data dall azienda polacca di distribuzione PGNIG che ha denunciato un calo del 24% delle forniture di gas da parte della Russia. Stiamo determinando le ragioni per sapere se siano di natura tecnica o commerciale, dicono a Varsavia, sottolineando il timore che si tratti di una ritorsione ancora parziale alla posizione fortemente anti-russa del governo polacco nella crisi ucraina. Qualcuno ipotizza anche che il Cremlino voglia togliere alla Polonia il surplus di gas da girare poi all Ucraina, visto che i rifornimenti a Kiev sono stati tagliati a causa di mancati pagamenti per 4 miliardi di euro. Gazprom ha smentito questa versione definendo non corrette le affermazioni dell operatore polacco PGNIG. Ma con l introduzione delle nuove sanzioni europee e con l annunciata risposta da parte di Mosca è certo che il caso energetico polacco non finirà qui. 16

17 We protect your business G-Risk, società italiana di security e intelligence, nasce a Roma nel 2007 da una fertile partnership tra analisti ed esperti di istituzioni nazionali ed estere dedicate alla prevenzione e alla gestione del rischio. Sostenuta da capitali privati - che ne assicurano la piena autonomia gestionale - G-Risk dispone di numerose sedi operative in Italia e nel resto del mondo: Roma, Genova, LondRa, madrid, BeiRut, tunisi, Riyadh, La Paz, BoGotá, CaRaCas, montreal. La nostra mission è garantire la sicurezza prima che qualsiasi minaccia possa compromettere realmente le attività aziendali e gli asset strategici, umani e tecnologici. La strategia di G-Risk si basa sulla stretta integrazione tra team di analisi strategica e gruppi operativi in grado di intervenire in qualsiasi momento in aree domestiche e internazionali. Le nostre unità sono presenti nelle maggiori aree critiche del pianeta per investigare sulle realtà locali con cui la società cliente desidera intraprendere attività e relazioni commerciali, ottenendo tutte le informazioni necessarie nel minor tempo possibile.

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