Diritti del proprietario e limiti. Veduta verso l alto

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1 Va osservato che il proprietario ha diritto di godere e di disporre della cosa nel modo che preferisce, entro i limiti e con l osservanza degli obblighi stabiliti dall ordinamento giuridico. Tra i limiti alle facoltà del proprietario vanno ricordati quelli che impongono al proprietario di osservare nelle costruzioni sia le norme di edilizia e di ornato pubblico stabilite dalla legge speciale e dai regolamenti edilizi comunali, sia le norme in materia di distanze nelle costruzioni. Va sottolineato che la conseguenza prevista dall ordinamento per la violazione delle norme suindicate è diversa nel primo e nel secondo caso, poiché l art. 872 c.c. stabilisce che solo colui il quale abbia subito danno a seguito della violazione di norme relative alle distanze nelle costruzioni può chiedere la riduzione in pristino, mentre la semplice violazione di norme di edilizia può dar luogo solo al risarcimento del danno, in quanto concretamente esistente. Deve escludersi che il diritto di veduta sia esercitabile non solo di fronte, obliquamente e lateralmente, ma anche verso l alto (Cass. civ. sez. un. n del 1996). La norma contenuta nell art. 907 c.c. il quale stabilisce che quando si è acquistato il diritto di avere vedute dirette verso il fondo del vicino il proprietario di questo non può fabbricare a distanza minore di tre metri, va interpretata alla luce del precedente art. 905 c.c., secondo cui non si possono aprire vedute dirette verso il fondo chiuso o non chiuso e neppure sopra il tetto del vicino se tra il fondo di questo e la faccia esteriore del muro in cui si aprono le vedute dirette non vi è la distanza di un metro e mezzo. In base a quest ultima norma il proprietario del fondo vicino ha, pertanto, il diritto di ottenere, in ogni momento, purché non sia decorso il termine ventennale necessario per l'usucapione delle servitù apparenti, l eliminazione delle vedute abusive le quali consentano di affacciarsi e guardare sul suo fondo da una distanza inferiore a un metro e mezzo (Cass. civ. sez. II n. 2159). Proprio per tale motivo la giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente chiarito che la regola di cui all art. 907 c.c. è inapplicabile allorché le vedute esistenti sull immobile vicino siano state aperte a distanza minore di un metro e mezzo dal confine, abusivamente o a titolo di servitù, in quanto anche in quest ultimo caso colui che esegue le nuove opere è obbligato esclusivamente a non ledere tale diritto, mentre può legittimamente eseguire sulla sua proprietà tutte le innovazioni che con esso non contrastino (Cass. civ n. 6897; Cass. civ n. 5269). Diritti del proprietario e limiti Veduta verso l alto Vedute iure proprietatis e iure servitutis Vedute aperte a distanza inferiore a 1,50 mt dal confine 1

2 La tutela della servitù di veduta deve essere riconosciuta in presenza di una situazione che consenta di esercitare la inspectio e la prospectio sul fondo di detto vicino, mentre resta in proposito irrilevante che tale esercizio non sia ameno (nella specie: trattandosi di affaccio su un tetto), ovvero fornisca al fondo dominante una ridotta utilitas (Cass. civ., 23/08/1985, n.4512) e la giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente affermato che con riguardo al possesso di una veduta, il pregiudizio derivante dalla costruzione da altri realizzata, anche mediante la semplice modifica del tetto, ben può integrare una turbativa o molestia, tutelabile con azione di manutenzione (Cass. civ n. 1675). La distinzione tra vedute iure proprietatis e iure servitutis, presuppone comunque che l apertura abbia le caratteristiche di una veduta e può rilevare al fine di verificare se il diritto di aprire o mantenere la veduta partecipi del carattere imprescrittibile del diritto di proprietà ovvero possa estinguersi per non uso (la giurisprudenza di legittimità nega, peraltro, l applicabilità dell art c.c. alla fattispecie di una servitù di veduta in cui l inspectio e la prospectio si effettuano attraverso una finestra allorché a quest ultima venga apposta una grata metallica Cass. civ n. 2216). Con riferimento alla questione della prescrizione della servitù di veduta per non uso ventennale, occorre, quindi, sottolineare che la servitù di veduta è tipicamente una servitù continua ai sensi e per gli effetti di cui all art comma 2 c.c. (Cass. Civ n. 2417; Cass. Civ n. 3312), in quanto si tratta di una servitù per la quale non è necessario il fatto permanente ed attuale dell uomo, anche se viene esercitata ad intervalli ed anche se è necessaria un attività dell uomo limitata al momento iniziale della sua costituzione. Riguardo alle servitù affermative continue il legislatore ha stabilito che il termine prescrizionale decorre dal giorno in cui si è verificato un fatto che ne ha impedito l esercizio, mentre non è sufficiente il mero non uso proprio perché basta l esistenza dell opera affinché la servitù possa essere esercitata in qualsiasi momento. Il non esercizio per le servitù affermative continue consiste, pertanto, in un fatto naturale o umano che impedisca l esercizio della servitù, anche se tale impedimento possa essere in ogni momento rimosso dal proprietario del fondo dominante (vertendosi altrimenti nella diversa ipotesi dell impossibilità di uso della servitù, prevista dall art c.c., che produce, comunque, l estinzione del diritto con il decorso del termine di venti anni). Veduta ed amenità dell affaccio (veduta su un tetto) Vedute aperte iure proprietatis o iure servitutis e prescrizione (apposizione di grata) 2

3 Il muro divisorio tra due immobili non può dar luogo all esercizio di una servitù di veduta, sia perché ha solo la funzione di demarcazione del confine e di tutela del fondo, sia perché, anche quando consente di inspicere e prospicere sul fondo altrui, è inidoneo a costituire una situazione di soggezione di un fondo all altro, a causa della reciproca possibilità di affaccio da entrambi i fondi confinanti (Cass. civ n. 6927) Nel caso di dislivello di origine artificiale, il muro che assolve in modo permanente e definitivo anche alla funzione di contenimento di un terrapieno creato dall'opera dell'uomo deve essere considerato costruzione in senso tecnico - giuridico (Cass. civ n. 8144). Il muro di sostegno di un terrapieno artificiale, in quanto costituente vera e propria costruzione, è da considerare alla stregua di un muro di fabbrica ai fini delle distanze legali e non certamente come muro di cinta ai sensi dell art. 878 c.c. (Cass. civ n. 8787; Cass. civ. sez. II n. 6483; Cass. civ. sez. II n. 8144). Il muro di sostegno di un terrapieno costituisce una vera e propria costruzione, tranne quando il muro sia stato realizzato per evitare smottamenti e frane nel caso di fondi a dislivello naturale (Cass. civ n. 1134; Cass. civ n. 4541). In caso di fondi a dislivello naturale non può considerarsi costruzione, ai fini e per gli effetti dell'art. 873 c.c., il muro di contenimento realizzato per evitare smottamenti o frane (Cass. civ n ). La concessione edilizia rimuove il limite allo ius aedificandi ma non ha effetto verso i terzi. La rilevanza giuridica della licenza edilizia va circoscritta al rapporto tra Pubblica Amministrazione e costruttore ed ai possibili riflessi sulle correlate posizioni di interesse legittimo dei terzi, mentre sul piano dei diritti dei privati interessati in senso opposto alla costruzione, l esistenza e la legittimità della licenza sono prive di rilievo dovendo il giudice ordinario risolvere il conflitto tra gli stessi confrontando direttamente le caratteristiche della costruzione con le norme giuridiche che le disciplinano (Cass. civ n. 1832; Cass. civ n. 1020). Pertanto, come è irrilevante la mancanza di licenza o concessione quando la costruzione risponda effettivamente a tutte le prescrizioni del codice civile e delle norme speciali senza ledere alcun diritto del vicino, non potendosi in tal caso chiedere né la riduzione in pristino né il risarcimento dei danni (Cass. civ. sez. un n. 3873; Cass. civ Vedute e muro divisorio Costruzione e muro di sostegno di terrapieno Distanze e concessione edilizia 3

4 n. 4889), così l avere eseguito la costruzione in conformità della ottenuta licenza o concessione non esclude di per sé la violazione di dette prescrizioni e la lesione del diritto del vicino (Cass. civ n. 4208). In tema di distanze tra costruzioni su fondi finitimi, l'articolo 9 del D.M. 2 aprile 1968 stabilisce la distanza minima di mt. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti. Tale norma non è diretta a salvaguardare l interesse privato del frontista alla riservatezza, ma è volta a stabilire, nell interesse pubblico, un idonea intercapedine tra edifici, con l intento di evitare che aperture di qualsiasi tipo, aventi, per loro natura, la funzione di aerazione ed illuminazione dei relativi locali, possano aprirsi su spazi inadeguati per il rispetto di tali esigenze (Cass. civ. sez. II n. 1984/99; sez. un. n. 1486/97). Sulla base di tali premesse la giurisprudenza di legittimità ha costantemente affermato il principio che va rispettata in tutti i casi la distanza minima assoluta di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, e ciò indipendentemente dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell'edificio preesistente, o che si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all'altra, purché sussista almeno un segmento di esse tale che l'avanzamento di una o di entrambe le facciate medesime porti al loro incontro, sia pure per quel limitato segmento (Cass. civ., sez. II, , n. 5741). la giurisprudenza penalistica ha talvolta affermato che detta normativa si riferirebbe esclusivamente alle distanze tra edifici e non alle distanze tra fabbricati e costruzioni (Cass. pen., sez. feriale, , n ), sicché non potrebbe operare con riferimento al caso in esame in quanto il muro di sostegno di un terrapieno, pur essendo qualificabile come costruzione, non è certamente un edificio. La giurisprudenza civilistica non ha, però, mai accolto tale interpretazione, sulla base del rilievo che la nozione di costruzione, che è stabilita dalla legge statale al fine del computo delle distanze, deve essere unica e non può neppure essere derogata dalla normativa secondaria che dia, come nel caso in esame, una diversa definizione di edificio o costruzione (Cass. civ. sez. II n ). A tal fine il concetto di costruzione non si esaurisce, allora, in quello di edificio ma si estende a qualsiasi opera non completamente interrata avente i caratteri della solidità, della stabilità (Cass. 4639/97) ed immobilizzazione rispetto al suolo anche mediante appoggio o incorporazione o collegamento fisso ad un preesistente corpo di fabbrica (Cass. 45/00) idonea a creare Distanze tra costruzioni e D.M. 1444/1968 4

5 intercapedini dannose (Cass. 3199/02; Cass. 5116/98), anche quando non determini un volume abitativo (Cass. civ. sez. II, , n ; Cass. civ. sez. II, , n ). E stato, inoltre, evidenziato che ove si controverta (sia in giudizio petitorio che possessorio) sulla configurabilità di una violazione delle distanze legali, occorre stabilire soltanto se esista o no una intercapedine e, una volta accertatane l'esistenza, applicare le norme in materia. L'intercapedine, secondo la comune accezione, è uno spazio vuoto racchiuso tra due pareti, scoperto verso l'alto e sui due lati che, in relazione a siffatta conformazione può ricevere aria o luce soltanto dall'alto e dai predetti lati; orbene, poiché la diminuzione di aereazione e luminosità dipende dalla compattezza, che impedisce il passaggio di aria e luce, delle due strutture racchiudenti lo spazio, non è necessario che queste consistano in muri di cemento armato o di laterizi, ma è sufficiente che siano costituite da un qualsiasi materiale (anche metallico) che per la sua compattezza impedisca (o lo consenta in maniera non apprezzabile), il passaggio di aria e luce, e che sia stabilmente collegato, anche mediante appoggio, al suolo o ad altro edificio (Cass. civ. sez. II n. 3199). La distanza di dieci metri prevista dall'articolo 9, n. 2, del D.M. 2 aprile 1968 n. 1444, trae la sua efficacia precettiva inderogabile dall'articolo 41 quinquies della legge 17 agosto 1942 n. 1150, come modificato dall'articolo 17 della legge 6 agosto 1967 n.765. Si è formato un altro contrasto nella giurisprudenza della Corte di Cassazione perché questa, mentre con alcune sentenze ha deciso che l'art. 9 ha come destinatari soltanto i Comuni, ai quali impone di formare gli strumenti urbanistici osservando le sue prescrizioni (sent. nn del 1997, 1645 del 1994, 9041 del 1992 e 1518 del 1989), con altre pronunce ha statuito che la norma obbliga anche i privati, i quali devono, perciò, adeguarsi ad essa nell'eseguire costruzioni sui propri fondi, senza però fornire una motivazione specifica sul punto (sent. nn del 1994, 1973 del 1988). Ritengono le Sezioni Unite (Cass. civ. sez. un n. 5889) che la tesi da condividere sia quella secondo cui la norma vincola solo i Comuni e non anche i privati per le considerazioni seguenti. Nondimeno, L'accertata efficacia legislativa del decreto ministeriale obbliga i Comuni a redigere e revisionare gli strumenti urbanistici senza discostarsi dalle regole inderogabili da esso fissate, perché l'autonomia normativa loro conferita dall'art. 33 della menzionata legge nella materia edilizia e, in particolare, in quella delle distanze D.M. 1444/1968 e rapporti tra privati 5

6 tra fabbricati, incontra un limite insuperabile nell'art. 4 delle preleggi, per il quale una norma regolamentare locale non può apportare modifiche a norme di rango superiore. Pertanto, il giudice, data la prevalenza della legge dello Stato sulla normativa comunale, non può decidere le cause in base a un precetto di quest'ultima che risulti illegittimo perché in contrasto con la prima, e deve, quindi, procedere alla determinazione della disposizione da applicare in sua sostituzione. E, per quanto riguarda le distanze, la disposizione s'identifica con quella del menzionato art. 9 la quale è applicabile, però, come norma non del decreto ministeriale del 1968, ma dello strumento urbanistico, di cui diviene parte integrante, previa espunzione da esso della regola originaria. E, proprio perché il rapporto tra i privati non è disciplinato direttamente dalla norma del decreto ministeriale, ma resta pur sempre soggetto a una regola dello strumento urbanistico, sia pure nella sua nuova formulazione, deve escludersi che il procedimento sostitutivo adottato vulneri il principio secondo cui i Comuni sono gli unici destinatari dei limiti inderogabili fissati dal provvedimento governativo (Cass. civ. sez. II n. 4413). In tema di distanze tra costruzioni, anche le norme regolamentari locali hanno carattere integrativo di quelle contenute nel codice civile, sì che la loro violazione è sanzionata non soltanto con il risarcimento dei danni, ma anche con la riduzione in pristino (vedi Cassazione civile sez. II, 29 aprile 1999, n. 4343). Nell ambito della disciplina delle distanze acquista un particolare rilievo la normativa contenuta nel codice civile in tema di prevenzione, che si applica anche alle situazioni nelle quali opera la diversa disciplina contenuta in leggi speciali o in strumenti urbanistici, quando non risulti incompatibile con essa o espressamente esclusa. In base al principio di prevenzione, il proprietario che costruisce per primo ha la facoltà di scegliere le distanze da tenere, condizionando le scelte del proprietario confinante. In particolare, il proprietario può costruire il muro perimetrale della propria costruzione in modo che esso sia sulla linea di confine del suo terreno, costringendo il secondo edificante a costruire in aderenza o in appoggio ovvero a rispettare la distanza legale, lasciando lo spazio necessario tra il proprio immobile e quello già edificato; un altra possibilità è che il proprietario primo edificante collochi il muro perimetrale della propria costruzione ad una distanza compresa tra il confine del suo terreno e la metà della distanza legale, Distanze e norme regolamentari Distanze e prevenzione; vedute aperte iure proprietatis 6

7 costringendo il secondo edificante a costruire in aderenza edificando sul terreno altrui ovvero a rispettare la distanza legale. Le fattispecie sopra indicate rendono, però, evidente che la disciplina della prevenzione presuppone che il vicino prevenuto possa esercitare a sua volta il diritto di costruire in appoggio o in aderenza al muro del preveniente, poiché in caso contrario è il preveniente che deve rispettare il distacco legale dal confine, non essendo operante il principio della prevenzione (Cass. civ n. 3506; Cass. civ n. 3769; Cass. civ n. 7129). In base al principio della prevenzione si deve, pertanto, concludere che, ai sensi dell art. 9 comma 1 n. 2 D.M n. 1444, se negli strumenti urbanistici locali non sia previsto espressamente o implicitamente il rispetto di una distanza minima dal confine, con conseguente inapplicabilità del principio della prevenzione, negli edifici ricadenti in zone territoriali diverse dalla zona A va rispettata la distanza di mt. 10 tra una parete finestrata e l'edificio antistante, con obbligo del prevenuto di arretrare la propria costruzione fino ad una distanza di mt. 5 dal confine, solo se il preveniente, nel realizzare tale parete finestrata, abbia rispettato una distanza di almeno mt. 5 dal confine, mentre ove il preveniente abbia realizzato una parete finestrata ad una distanza dal confine inferiore a mt. 5, il vicino non sarà tenuto ad arretrare la propria costruzione fino a rispettare la distanza di mt. 10 da tale parete, ma potrà imporre al preveniente di chiudere le aperture e costruire (con parete non finestrata) rispettando la metà della distanza legale dal confine ed eventualmente procedere all'interpello di cui all'art. 875, comma 2 c.c., ove ne ricorrano le condizioni, vale a dire se non sia stata rispettata dal preveniente la distanza minima di m 1,5 dal confine (Cass. civ. sez. II n. 3340). Il criterio della prevenzione resta, invero, eliso ove lo strumento urbanistico prescriva inderogabilmente l osservanza di una distanza dai confini, ma tale situazione non ricorre se il regolamento edilizio consenta, altresì, la facoltà di costruire sul confine (in aderenza o in appoggio), come alternativa all'obbligo di rispettare una determinata distanza da esso, poiché in tal caso si versa in ipotesi del tutto analoga, sul piano normativo, a quella prevista e disciplinata dagli art. 873 ss. c.c., con la conseguente operatività del principio della prevenzione (Cass. civ., sez. II, , n ). Secondo un orientamento (Cass. civ. sez. II n. 7

8 4199; Cass. civ., Sez. II, 19/07/2006, n ) il principio della prevenzione non opera neppure allorché uno strumento urbanistico locale stabilisca per le costruzioni una determinata distanza dal confine maggiore di quella prescritta dal codice civile senza un riferimento esplicito al confine, perché la distanza dal confine è assoluta e va rispettata anche se il fondo del vicino sia inedificato (vedi anche Cass. 13/12/1999, n ; Cass. 9/4/2002 n. 4895) Tale orientamento è basato sul rilievo che la prevista assolutezza della distanza, rapportata ad un'equa ripartizione del relativo onere, è da ritenersi comprensiva di un implicito riferimento al confine, dal quale chi costruisce per primo deve osservare una distanza non inferiore alla metà di quella prescritta, con conseguente esclusione della possibilità di costruire sul confine e, quindi, della operatività del principio della prevenzione (Cass. 29/6/1981 n. 4246; Cass. 28/4/1992 n. 5062; Cass. 16/2/1999 n. 1282). Secondo altro orientamento, però (Cass. civ. sez. II n ) nel caso in cui il regolamento edilizio determini solo la distanza fra le costruzioni, in assenza di qualunque indicazione circa il distacco delle stesse dal confine, il principio della prevenzione deve ritenersi operativo, non ostandovi alcun divieto di costruire in aderenza o sul confine. La scelta del preveniente legittima però la sua posizione solo se essa è conforme alle norme di legge e di regolamento sulle distanze ed in ogni caso è pacifico che l'esercizio della facoltà del prevenuto di chiedere, ai sensi dell'art. 875 c.c., la comunione forzosa del muro del preveniente, non situato sul confine, allo scopo di fabbricare contro il muro stesso, non è impedito dal fatto che sul muro che si vuole rendere comune risultino aperte vedute iure proprietatis (Cass. civ., sez. unite, , n ). Le sezioni Unite con sentenza del n , componendo il suddetto contrasto, hanno affermato il principio che il principio di prevenzione si applica anche nelle ipotesi in cui i regolamenti locali prevedano solo una distanza tra costruzioni maggiore di quella stabilita dal codice civile, senza prevedere espressamente anche una distanza delle costruzioni dal confine. Il principio secondo il quale la costruzione in sopraelevazione, ove sia allineata in verticale a quella preesistente e sottostante, può proseguire in altezza, sulla stessa linea di questa, senza che vi sia obbligo di arretrarla rispetto a detta linea, non esclude che debba, comunque, essere rispettata la normativa sulle Distanze e sopraelevazione 8

9 distanze tra costruzioni ed anzi la giurisprudenza di legittimità ha specificato, proprio con riferimento alle sopraelevazioni, che l adozione da parte dei comuni di strumenti urbanistici contrastanti con le disposizioni contenute in tema di distanze dall art. 9 D.M. 1444/1968 comporta l obbligo di applicare in sostituzione delle norme illegittime quelle dello strumento urbanistico nella formulazione derivante dalla inserzione in esso della regola sulla distanza fissata dal citato D.M. 1444/1968 (Cass. civ., sez. II n. 4413), Se mancano esplicite disposizioni in merito alle ricostruzioni nei regolamenti edilizi o nelle norme di attuazione del piano regolatore generale, che impongano alle ricostruzioni l obbligo di adeguarsi alla disciplina delle distanze tra costruzioni o dal confine, si ritiene che esse siano consentite negli esatti limiti planovolumetrici della preesistente fabbrica, tutelando il diritto di chi è titolare della pozione acquisita, sicché non vi è una sostanziale differenza di disciplina rispetto alla semplice ristrutturazione, mentre quando si sia al cospetto di un aumento della volumetria o delle superfici occupate in relazione alla originaria sagoma di ingombro, si verte in ipotesi di nuova costruzione, ai fini del computo delle distanze rispetto agli edifici contigui (Cass. civ. sez. II n ). Proprio in ragione di questa sostanziale assimilazione di disciplina tra le ristrutturazioni e le ricostruzioni, lo stesso legislatore con il D.P:R n. 380 ha definito intervento di ristrutturazione edilizia anche quello consistente nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l adeguamento alla normativa antisismica. in materia di distanze legali tra edifici, quando la modificazione del tetto di un fabbricato produce un aumento della superficie esterna e della volumetria dei piani sottostanti (indipendentemente dalla utilizzabilità a fini abitativi), così incidendo sulla struttura e sul modo di essere della copertura, essa integra sopraelevazione e, come tale, una nuova costruzione (Cass. civ., Sez. II, , n ). In simili casi l art. 879 c.c. stabilisce che alle costruzioni che si fanno in confine con le piazze e le vie pubbliche non si applicano le norme relative alle distanze, ma devono osservarsi le leggi e i regolamenti che le riguardano e ciò significa che in simili casi resta esclusa la possibilità di ottenere la riduzione in pristino o una sospensione dei lavori in ragione della paventata lesione di una situazione possessoria. Infatti, il rinvio operato Distanze e ricostruzioni Distanze e modificazione del tetto Distanze e via pubblica 9

10 dalla disposizione in esame alle suddette norme speciali, che tutelano un interesse pubblico, fa sì che esse non possano essere considerate stricto sensu, integrative della disciplina dettata dal codice civile in materia di distanze mentre, come è noto, la domanda di riduzione in pristino può essere accolta, ex art. 872 c.c., solo in caso di violazione delle norme previste dal codice civile in materia di distanze o di quelle dei regolamenti integrativi delle prime. Da ciò la giurisprudenza ha tratto la conseguenza che il proprietario di un edificio che ne fronteggi un altro situato al lato opposto della pubblica via, in caso di violazione delle norme edilizie, potrà chiedere soltanto il risarcimento dei danni eventualmente derivatigli da detta violazione (Cass. 2436/88), oltre che avvalersi della tutela giurisdizionale amministrativa in caso di convergenza del proprio interesse particolare con quello generale (Cass. 2948/93), ma non può valersi della tutela ripristinatoria o di quella preventiva assicurata dall azione nunciatoria. Non vi è dubbio, d altronde, che ricorre l ipotesi della costruzione che si fa in confine con le piazze e le vie pubbliche anche quando vi siano sporti o aggetti che, come nel caso in esame, sovrastino la via pubblica, tanto che è pacifico che la disciplina da applicare con riferimento ai balconi non è quella comune sulle distanze ma quella speciale contenuta nelle norme edilizie. Tale norma non è diretta a salvaguardare l interesse privato del frontista alla riservatezza, ma è volta a stabilire, nell interesse pubblico, un idonea intercapedine tra edifici, con l intento di evitare che aperture di qualsiasi tipo, aventi, per loro natura, la funzione di aerazione ed illuminazione dei relativi locali, possano aprirsi su spazi inadeguati per il rispetto di tali esigenze (Cass. civ. sez. II n. 1984/99; sez. un. n. 1486/97). Sulla base di tali premesse la giurisprudenza di legittimità ha costantemente affermato il principio che va rispettata in tutti i casi la distanza minima assoluta di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, e ciò indipendentemente dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell'edificio preesistente, o che si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all'altra, purché sussista almeno un segmento di esse tale che l'avanzamento di una o di entrambe le facciate medesime porti al loro incontro, sia pure per quel limitato segmento (Cass. civ., sez. II, , n. 5741). A tal fine, poi, il concetto di costruzione si estende a qualsiasi opera non completamente interrata avente i caratteri della Massime giurisprudenziali sull'articolo 9 del D.M. 2 aprile

11 solidità, della stabilità (Cass. 4639/97) ed immobilizzazione rispetto al suolo anche mediante appoggio o incorporazione o collegamento fisso ad un preesistente corpo di fabbrica (Cass. 45/00) idonea a creare intercapedini dannose (Cass. 3199/02; Cass. 5116/98), anche quando non determini un volume abitativo (Cass. civ. sez. II, , n ; Cass. civ. sez. II, , n ). L'art. 9 del D.M. 2 aprile 1968, n.1444, il quale impone la distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, per il carattere di assolutezza ed inderogabilità della norma, in relazione alla natura degli interessi generali perseguiti, si riferisce a tutte le pareti finestrate e non soltanto a quella principale, prescindendo altresì dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela (Cass. civ n. 4715). La norma in questione si applica alle nuove costruzioni e non alle ricostruzioni. E ravvisabile una mera ricostruzione solamente allorché dell'edificio preesistente siano venute meno, per evento naturale o per volontaria demolizione, le componenti essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura, e l'intervento si traduca nell'esatto ripristino delle stesse operato senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell'edificio, e, in particolare, senza aumenti della volumetria, né delle superfici occupate in relazione alla originaria sagoma di ingombro (Cass. civ. sez. un n ). L adozione da parte dei comuni di strumenti urbanistici contrastanti con le disposizioni contenute in tema di distanze dall art. 9 D.M. 1444/1968 comporta l obbligo di applicare in sostituzione delle norme illegittime quelle dello strumento urbanistico nella formulazione derivante dalla inserzione in esso della regola sulla distanza fissata dal citato D.M. 1444/1968 (Cass. civ., sez. II n. 4413) 11

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