Le malattie che rubano la mente. Piccolo manuale dedicato a caregivers e familiari per conoscere e affrontare le demenze

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1 Le malattie che rubano la mente Piccolo manuale dedicato a caregivers e familiari per conoscere e affrontare le demenze.

2 Redazione: Laura Rossi Hanno collaborato: Barbara Dessi e Guido Rodriguez (Università degli Studi di Genova) che hanno scritto le parti sul caregiving e le malattie che generano demenze. Dario Arnaldi e Agnese Picco (Università degli Studi di Genova) che hanno elaborato i dati originati dall inchiesta condotta a Cogoleto attraverso la diffusione del Test della Memoria. Ivana Oliveri (coordinatrice Inca Regione Liguria) che ha curato la parte relativa ai diritti. Anita Venturi (attuale sindaco di Cogoleto) e i tanti volontari dello Spi e delle associazioni di familiari che hanno reso possibile l inchiesta di Cogoleto. Genova, giugno 2011

3 Indice Introduzione p. 3 Il caregiver (chi si prende cura) e le demenze Parte I Parte II Esperienze di approfondimento della conoscenza sulla diffusione delle demenze tra gli anziani e sui problemi correlati p. 7 p. 27 p. 49 Benefici, indennità e agevolazioni di legge. Cosa fare, come fare, dove andare p. 51 Numeri utili Link utili p. 62 p. 65 Appendice 1 p. 66 Appendice 2 p. 68 Appendice 3 p. 72 1

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6 Introduzione Il Sindacato Pensionati Cgil di Genova e Liguria ha deciso di dedicare la propria attenzione anche alla condizione delle persone anziane affette dalla malattia di Alzheimer e da altre demenze, ed in particolar di chi si prende cura di loro. I temi dell invecchiamento sono un terreno su cui abbiamo provato a cimentarci per esercitare con efficacia la nostra funzione di tutela e rappresentanza in materia previdenziale, della difesa del reddito, dell intervento sulla organizzazione dei servizi, e più in generale del benessere e dei diritti di cittadinanza. Con l aumento dell età media della popolazione, soprattutto in una regione come la nostra, che ha il più alto indice di dipendenza tra le regioni italiane, oltre che il più alto indice di invecchiamento, crescono anche le situazioni di non autosufficienza e le malattie degenerative. Tra queste, la diffusione delle demenze si presenta come un fenomeno sociale drammatico, di cui non c è ancora sufficiente consapevolezza nella politica, nelle istituzioni e nelle organizzazioni sociali. È un fenomeno che incide pesantemente sulla vita collettiva, oltre che su quella dei singoli, che influenza talmente le condizioni di reddito da portare a livelli di povertà tante famiglie, che fa rinunciare al lavoro molte donne, che porta con sé la diffusione del lavoro domestico di un numero molto significativo di persone immigrate, e non solo. La situazione è tale da richiedere ormai una diversa organizzazione dei servizi pubblici e strumenti per orientare e tutelare anche la spesa privata delle famiglie che investono una parte rilevante del loro reddito per l invalidità. Non c è solo il carico di assistenza; si aggiunge lo smarrimento che provoca vedere i propri cari perdere la memoria, non sapere più dove sono, non conoscere più le persone che stanno loro intorno. Ci sono momenti di emergenza che è così difficile affrontare e nei confronti dei quali ci si sente impotenti. I numeri (circa in Liguria, con previsioni di crescita esponenziale ), la complessità dei fattori che vengono investiti, la speciale sofferenza che malati e famiglie vivono, dovrebbero richiamare tutti a non considerare questo fenomeno come uno dei tanti e a impostare una vera strategia per organizzare interventi e reperire risorse adeguate. Lo SPI e la Cgil nel suo insieme lavorano per proporre e rivendicare scelte necessarie da parte delle Istituzioni; nel contempo esercitano la propria funzione di tutela individuale, attraverso il Patronato Inca e i Servizi fiscali. 3

7 Con questo libretto ci proponiamo l obiettivo di diffondere la conoscenza, e quindi la consapevolezza collettiva, sulla qualità e la dimensione del fenomeno; vogliamo anche, però, offrire alle persone interessate uno strumento, tra i tanti che sono disponibili, per orientarsi, per sapere un po di più sui loro diritti; uno strumento anche per riconoscersi in una condizione che non è solo la loro, da vivere in solitudine e magari con vergogna. È invece la condizione di molti, per la quale sono previsti anche servizi, prestazioni economiche e interventi che loro hanno diritto di ricevere: la diagnosi presso strutture pubbliche, la prescrizione dei farmaci, l affiancamento all interno di precorsi di assistenza dedicati, l indennità di accompagnamento; e risorse sufficienti, che invece sono state tagliate in questi anni dal governo nazionale. Su questo insieme di questioni una organizzazione di rappresentanza collettiva come la Cgil vuole fare la propria parte, sia sul piano della tutela individuale, sia su quello dell iniziativa rivendicativa verso le Istituzioni, affinché il governo nazionale finanzi in modo certo e adeguato i livelli essenziali delle prestazioni sociali e le amministrazioni regionali e locali organizzino il proprio sistema di servizi in modo efficace, integrato e aperto alle esigenze delle persone. Anna Giacobbe Segretaria generale Spi CGIL Liguria 4

8 La mia giornata non comincia la mattina perché non finisce la sera. Una donna

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10 Il caregiver (di chi si prende cura) e le Demenze PARTE I Quanto scritto in queste pagine non ha nessuna pretesa di essere un documento scientifico esaustivo sul grande problema delle demenze; il tentativo è invece quello di fornire un piccolo aiuto pratico a chi, per qualsiasi ragione, si trova a contatto con persone che vivono il problema delle malattie che generano demenza, in particolare quello della malattia di Alzheimer. La maggior parte dei concetti e delle informazioni non sono originali e si possono trovare, espressi ovviamente in forme diverse, in numerose pubblicazioni divulgative edite dalle Associazioni di volontariato o dalle istituzioni (la Regione Liguria ha finanziato il manuale Caregiver ) o in moltissimi altri libri e testi anche di carattere scientifico. Ho cercato di esprimere concetti, anche quelli più complessi, in una forma il più possibile chiara per tutti. Il manuale è diviso in due parti nettamente distinte che posso essere lette separatamente: la seconda è sicuramente la parte più complessa che per diventare fruibile necessita di un notevole desiderio di conoscenza più specifica, non indispensabile a chi affronta la prima parte. Nel caso si desiderasse approfondire alcuni temi o mandare suggerimenti o riflessioni per le future edizioni, scrivete a gurod44@gmail.com. G.R. In genere, quando si affronta il problema delle demenze si è soliti iniziare a parlare nello specifico della malattia e in seconda battuta dei molti problemi a essa correlati, tra i quali quello delle persone che assistono i malati e che, anche da noi, vengono ormai definiti caregivers (prestatori di cure) prendendo la definizione dal lessico anglosassone. Crediamo invece che in una trattazione come questa, rivolta essenzialmente ad operatori che si confrontano con un pubblico che necessita di informazione, piuttosto che a operatori che si riferiscono a persone malate, sia giustificato iniziare a parlare, prima di tutto proprio dei prestatori di cura. Sono questi infatti il più delle volte i soggetti più esposti di una situazione in cui da un lato è presente il malato con le sue enormi problematiche, poche delle quali possono essere affrontate e risolte dalla medicina almeno a tutt oggi dall altro le persone che, per scelta, per dovere o per mille altre ragioni, ogni giorno impiegano parte o tutta la giornata ad assistere il malato. Caregivers, i prestatori di cura 7

11 Nel nostro paese dai primi anni Novanta, sulla spinta della realtà epidemiologica emergente (si pensi che in Italia nel 2010 ci sono circa 1 milione di malati ) e, soprattutto, sulla non più illimitata disponibilità di risorse economiche del Sistema Sanitario Nazionale (SSN), le problematiche legate alle demenze e all impatto che queste malattie hanno sulle famiglie sono diventate oggetto di attenzione sempre crescente. Le demenze sono a tutt oggi un insieme di patologie tra le più onerose dal punto di vista sociale, con un costo medio per paziente, comprensivo sia dei costi dei familiari sia di quelli a carico della collettività, stimato in differenti studi tra 50 e euro all anno (Gambina G., Trabucchi, 1996). 1 La cifra comprende costi diretti, quali quelli per l'assistenza domiciliare professionale, la spesa farmacologica, gli ausili non farmacologici, le visite mediche specialistiche, gli esami di laboratorio e strumentali, le ospedalizzazioni e così via. Ci sono poi i costi indiretti, che sono l assistenza domiciliare prestata dai familiari con conseguente mancato guadagno per riduzione di ore di lavoro, o rinuncia all impiego e tutte le spese accessorie tra cui, quando possibile, un aiuto la così detta badante i molti farmaci che non vengono distribuiti gratuitamente dal SSN e i tanti ausili per i malati. Essendo proprio i costi indiretti a pesare sui familiari, questi devono sopportare una spesa che è addirittura il 60-70% della spesa annua media; impegno economico per mantenere il malato tra le mura domestiche, che spesso porta le famiglie alla povertà (Cavallo, 1997). 2 Ma anche quando i familiari devono ricorrere a una residenza protetta, una parte delle spese alberghiere è ancora a carico della famiglia; solo chi è totalmente indigente non spende per il ricovero. Così la figura che viene ad assumere un ruolo fondamentale nella gestione del malato è quella del caregiver, colui che in ambito domestico si prende cura I costi delle demenze 1 La citazione è tratta da un saggio pubblicato sul web e al momento non reperibile: Gambina G., Broggio E., Martini M.C., Merzari L., Gaburro G., Ferrari G., Analisi del costo sociale delle persone affette da malattia di Alzheimer assistite a domicilio. Trabucchi M., Ghisla M.K., Bianchetti A., CODEM, A longitudinal study on Alzheimer diseaese costs, in Alzheimer Disease: Therapeutic Strategies, Giacobini E. - Becker R. Editors, Birkhauser Boston, pp , Cavallo M.C., Fattore G., The Economic and Social Burden of Alzheimer s Disease on Families in the Lombardy Region of Italy, in Alzheimer Disease and Associated Disorders, 11, pp ,

12 del malato. Una inchiesta del Servizio di Neurofisiologia Clinica dell Università di Genova, pubblicata nel 2003, riporta dati interessanti sul caregiver. Il 75,8% dei caregivers sono donne e tale percentuale cresce col peggiorare delle condizioni cliniche del paziente (poco più dell 80%) (Rodriguez, 2003). 3 Dall inchiesta, inoltre, è risultato un rapporto molto complesso con il medico di medicina generale (MMG) che appare molto distante dai reali problemi del malato e dei familiari e che troppo spesso, a detta degli intervistati, non attribuisce il valore diagnostico come fa invece lo specialista ai sintomi che il malato presenta; si desume che il 53% dei caregivers si rivolge in prima istanza al medico di medicina generale, ma solo il 10% considera soddisfacente tale rapporto. Risultato questo oggetto di discussione tra molti colleghi e le spiegazioni, ovviamente, sono molto differenziate: tra tutte, forse quella che maggiormente emerge è il non aver ancora completamente scisso il problema dell invecchiamento fisiologico da quello patologico e quindi anche la necessità di maggiori e costanti informazioni. In quest ottica si possono leggere le molte iniziative rivolte ai MMG inerenti le demenze, tra le quali nel 2010 una presso la Neurofisiologia Clinica di Genova, che ha coinvolto una trentina di colleghi. In questa occasione i medici hanno anche dato la loro disponibilità alla raccolta di dati sui disturbi cognitivi nelle persone con più di 60 anni che frequentano l ambulatorio medico, attraverso l autosomministrazione di un questionario tradotto dall inglese dal nostro gruppo. L autore, J. Brown, ha autorizzato l utilizzo del test nel nostro paese dopo l accordo sulla traduzione (Brown J., 2009). 4 Infine nell inchiesta si è anche cercato di valutare se il caregiver avesse mai pensato la morte del malato come una possibile uscita dalla tragica realtà della malattia; sono stati molto pochi i familiari che hanno ammesso di aver avuto un tale pensiero. Questo, allora, ci convinse più che mai del fatto che il familiare caregiver diventa a tutti gli effetti così protettivo nei confronti del malato, da essere disposto ad accettare limitazioni di vita impensabili in altri contesti. Altra Il rapporto tra il caregiver e il medico di medicina generale 3 Rodriguez G., De Leo C., Girtler N., Vitali P., Grossi E., Nobili F., Psychological and social aspects in management of Alzheimer s patients: an inquiry among caregivers, in Neurol Sci, pp , Brown J., Pengas G., Dawson K., Brown L.A., Clatworthy P., Self administered cognitive screening test (TYM) for detection of Alzheimer s disease: crossectional study, BMJ,

13 possibile spiegazione è nella marcata diversità della gravità della malattia nel gruppo dei caregivers intervistati. È abbastanza ovvio che per un certo periodo di tempo la malattia non modifica sostanzialmente la vita del malato e del caregiver; solo alla comparsa dei sintomi comportamentali oltre a quelli cognitivi irrequietezza motoria, vagabondaggio e aggressività violenta il caregiver realizza fino in fondo quanto sia difficilmente accettabile la sua completa e totale dedizione al malato. Al di là degli spunti dell inchiesta, credo che in genere un individuo diventa caregiver nel momento in cui intuisce che qualcosa si sta modificando nel comportamento della persona di cui poi ci si prenderà cura e in quel momento decide che si deve fare qualcosa; si rivolge al medico di famiglia, ne parla con un amico fidato o in famiglia e a volte arriva in un centro specializzato nella diagnosi delle malattie degenerative cerebrali. Spesso in questi casi ci si trova a parlare con la colei che per prima ha ritenuto di non dover sottovalutare le cose un po bizzarre e insolite che la persona di cui ci si prenderà cura metteva in mostra, con qualcuno che ha deciso che bisognava insistere e che ha cercato una risposta. È proprio a lei che il medico deve comunicare la diagnosi di demenza, è con questa persona che deve confrontarsi in quei pochi momenti in cui tutta la vita del futuro caregiver si trasforma. Il medico deve concedere a se stesso e al futuro caregiver il tempo sufficiente e necessario per accompagnare chi riceve la notizia della diagnosi ad accettare una realtà tanto temuta quanto purtroppo attesa. Ma è proprio vero? - È come una mazzata sulla testa - Un pugno in pancia - Ho voglia di gridare e di piangere - Non doveva succedere a me. Quando si diventa caregiver Il caso Tante le reazioni a quelle parole, a quella diagnosi che segnerà un cammino tutto da scoprire e per il quale il medico deve trovare il tempo necessario perché soprattutto il familiare possa comprendere e interiorizzare il senso della diagnosi. Ho incontrato molto spesso uno sguardo che andava al di là delle parole quando la persona che si ha di fronte ti chiede di confermare una diagnosi, cercando una condivisione, una relazione interpersonale che permetta 10

14 di elaborare fino in fondo quello che solo la parte razionale della sua mente ha già accettato. È così che rivedo Mario mentre trattiene a stento le lacrime. Capisco che sa già quello che gli dirò ma si appende ancora a una speranza, che io dica la parola depressione e non demenza. Sua moglie è troppo giovane, per anni il vero punto di riferimento sul suo posto di lavoro, la moglie che ora, quando parla, nessuno riesce più a capire. Mario e la sua angoscia di come parlarne ai figli, di come organizzare la sua vita personale: Allora devo andare dai sindacati e poi una lunga pausa: Forse devo prendermi un periodo di ferie per decidere cosa fare. Non siamo di fronte all attesa di una diversa diagnosi, né alla speranza in un diagnosi sbagliata. Di fronte a me Mario deve percorrere una strada che potremmo dire apprendere per insight, ridefinire il problema nel suo insieme. Non ha esperienze passate a cui far riferimento, non ci sono modelli teorici a cui rifarsi, Mario deve affrontare la nuova situazione e, una volta introiettata, raggiungere lo scopo finale di una ridefinizione del problema centrale: la sua vita futura. Il medico deve dargli il tempo necessario e sufficiente, anche se sappiamo che ci sarà poi un altro percorso ancora più complesso: ci saranno i figli e i parenti con i quali condividere l informazione e programmare il da farsi. Poi Mario cerca di scendere nei dettagli e mi chiede la prognosi : quanto tempo ha ancora sua moglie a disposizione prima che si aggravi e nulla sia più possibile. Mario è già andato avanti, dice di voler subito programmare qualcosa, un viaggio o qualunque altra cosa possa essere in grado di dare felicità alla moglie. Passa ancora un po di tempo con pause dolorose per entrambi, dove a fatica gli sguardi si incontrano per non ledere il diritto a vivere la propria disperazione. Quando, dopo i primi colloqui, rivedo Mario, lui mi pone una questione che molto spesso i sanitari devo affrontare: questa malattia è ereditaria? Il timore che un gene dal quale si potrebbe originare la malattia possa essere trasmesso ai figli lo si incontra spesso nei gruppi di counseling con i familiari. Indipendentemente dalla familiarità, tutti a un certo punto della vita possiamo ammalarci. Bisogna essere molto precisi nella spiegazione. Oggi sappiamo che un gene rende più probabile il verificarsi della malattia. Il gene si trova sul cromosoma 19, Ereditarietà e l alipoproteina 11

15 ed è responsabile della produzione di una proteina chiamata apolipoproteinae (ApoE), di cui esistono tre tipi principali, uno dei quali (l'apoe4) sebbene poco comune è quella che aumenta le probabilità di sviluppare in un certo momento della vita la malattia di Alzheimer. La persona portatrice di questa proteina non è destinata ad ammalarsi, ha solo aumentate la probabilità di sviluppare la malattia. Per esempio, una persona di cinquant'anni portatrice di questo gene avrebbe 2 probabilità su 1000 di ammalarsi invece del consueto 1 per 1000, ma può nella realtà non ammalarsi mai. Soltanto nel 50% dei malati di Alzheimer si trova la proteina ApoE4, e non tutti coloro che hanno tale proteina presentano la malattia. La badante e il territorio Da diversi di anni, abbiamo a che fare con una nuova figura, la cosìddetta badante, solitamente un immigrato/a che collabora col caregiver nell assistenza al malato; secondo alcuni studi circa il 35% dei malati dementi è assistito a domicilio da una badante. Perché quando la malattia si aggrava il caregiver cerca un aiuto. La presenza di questa figura spesso ha un effetto positivo sul nucleo familiare perché è in grado di ridurre il carico lavorativo e lo stress del caregiver. Come ovviamente anche il caregiver, la badante il più delle volte non è adeguatamente preparata. È sorta così la necessità di creare centri di riferimento per la preparazione degli operatori. Il compito più rilevante di coloro che entrano in contatto con le famiglie dei malati di Alzheimer è quello di informare dove sul territorio sia possibile ottenere, anche attraverso le istituzioni, un aiuto in termini di miglioramento delle conoscenze sulla malattia e sui compiti di caregiving. Nella regione Liguria c è una grave dispersione di questi luoghi di informazione, mentre mancano del tutto sportelli o punti di riferimento al quale le famiglie possono rivolgersi rispetto ai molti problemi della malattia. Nel nostro paese, a differenza di molti altri, quasi il 90% dei malati vive in famiglia fino quasi agli ultimi giorni, infatti, nonostante le trasformazioni demografiche e sociali, la famiglia rimane la protagonista dello scenario assistenziale. In effetti il mantenimento del paziente a casa ha anche un risvolto terapeutico, poiché la 12 La badante La casa e la famiglia

16 persona con demenza riesce a muoversi e a interagire con un ambiente, almeno in parte, riconoscibile, mentre il ricovero in strutture non note è in genere seguito da un aggravamento delle condizioni generali e neuropsichiatriche (Lee H., 2004). 5 È necessario sviluppare una serie di interventi educativi, formativi, di sostegno e di supporto senza i quali la famiglia non è in grado di sostenere un impegno così gravoso, che può durare moltissimi anni (la durata media di una demenza è dal momento della diagnosi di circa 8-10 anni). Un costo di difficile quantificazione e spesso sottostimato è quello costituito dalle conseguenze del caregiving sulla famiglia: stress psicologico, impatto sulla salute, con conseguente riduzione della qualità della vita. I bisogni dei caregivers non sono tutti uguali: i caregivers primariamente coinvolti per parentela e rapporti affettivi hanno un stress superiore e forniscono un maggior contributo assistenziale diretto, mentre i caregivers secondari, ad esempio le badanti, soffrono di depressione e per questi bisogna agire soprattutto sul tono dell'umore. Ove la condizione di caregiver si associa a una condizione di stress vi è una riduzione delle risposte immunitarie e un aumento delle malattie cardiovascolari, con alti livelli di sintomatologia ansiosa. Molto importante è il tempo che il caregiver dedica all assistenza, che dipende essenzialmente dalla gravità del paziente e da altre variabili: età, tipo di demenza, aspetti clinici, patologie concomitanti, intervento terapeutico farmacologico e non farmacologico, condizioni familiari, ambientali, socioeconomiche, qualità dell assistenza medica ed efficienza della rete dei servizi del SSN. Il costo del caregiving Il ruolo del malato e del caregiver Quali sono, nel dettaglio, le problematiche che maggiormente possono coinvolgere le famiglie e chi al loro interno diventa il caregiver principale? 5 Lee H., Cameron MH., Respite care for people with dementia and their carers. Cochrane Database of Systematic Reviews 2004, Issue 2. Art. No.: CD DOI: / CD pub2. 13 Il ruolo del malato nella famiglia e il percorso del caregiver e dei familiari

17 Il ruolo che il malato occupa o meglio che ha occupato prima della malattia all interno del nucleo familiare, ugualmente alle dinamiche affettive, consce e inconsce, che fanno parte dei rapporti fra i componenti della famiglia stessa, comporta un diverso coinvolgimento emotivo dei familiari. Il caregiver, e in genere i familiari tutti, è costretto da una parte a una lenta elaborazione delle varie fasi del lutto (in questo caso lutto va inteso come perdita del congiunto così come era conosciuto prima della malattia) e del dolore e dall altra adeguarsi costantemente ad una situazione che, tutt altro che immobile, si trasforma ogni giorno. È infatti terribile spesso insopportabile vedere una persona che, ad esempio, era stata il perno su cui gravava la famiglia, oppure quella che era stata la o il compagno di una vita e con la quale si erano condivisi decine di anni, perdere lentamente le capacità cognitive, smarrire la mente e con questa annullare la propria identità e i rapporti con gli altri. Difficile rendersi conto di cosa possa significare per un figlio che aveva nel genitore il proprio punto di riferimento, trovarsi con un malato che necessita di tutto e rispetto al quale devono essere superati diversi tabù. Lavare la mamma o il papà, accudirli e stare loro vicino possono diventare per il caregiver un gesto d amore che ha dietro una incredibile quantità di angosce, di ansie e un processo di perdita raramente comunicati anche alle persone più intimamente vicine. Il familiare deve quindi fare un percorso che presenta alcune tappe. La prima è quella del non è possibile che si traduce nella convinzione che il medico non abbia compreso la situazione e che la malattia non sia veramente una demenza. Negare la malattia è abbastanza comune e naturale: il caregiver chiede diversi consulti impegnandosi anche a inutili esborsi economici alla ricerca del luminare più conosciuto o di medicine ad oggi inesistenti. Ma anche nei confronti del malato la negazione della malattia ha effetti non positivi: il caregiver cerca infatti di non vedere quanto accade e con ogni mezzo sollecita il malato ad agire in maniera corretta, a comportarsi bene, a non commettere stupidi errori; queste richieste sono ovviamente incomprensibili al malato, aumentano la sua angoscia, provocano confusione e profonda depressione. Se la negazione è una modalità di risposta normale all inizio del percorso, è necessario che con il tempo la malattia venga accettata e questo può avvenire L elaborazione del lutto La negazione della malattia Il senso di colpa 14

18 anche attraverso l aiuto di persone estranee al nucleo familiare, persone ad esempio che abbiano già vissuto l esperienza della malattia di un proprio familiare. Ma quando il tempo e l abitudine alle cure da prestare portano ad accettare la malattia altri atteggiamenti non positivi possono comparire; anche questi devono essere presto superati. Uno dei più importanti è il senso di colpa del caregiver. I familiari dei malati di Alzheimer dedicano mediamente sette ore al giorno all assistenza diretta del paziente e quasi undici ore alla sua sorveglianza; inoltre, l impatto dell attività assistenziale diventa più gravoso quanto più essa si somma all impegno legato allo svolgimento di altri ruoli professionali e familiari, come accade per la maggior parte dei caregivers; quando la malattia è grave l assistenza è di 24 ore. Il caregiver si trova così a dover affrontare una condizione non conosciuta prima alla quale deve dare delle risposte efficaci, deve risolvere problemi che si pongono giornalmente con strategie mentali e comportamentali del tutto nuove. È così che viene stimolata la sua reattività all ambiente e le capacità ad affrontare adeguatamente le situazioni che incontra. Ad esempio, chiunque abbia frequentato un malato demente conosce i tantissimi atteggiamenti che possono generare nel caregiver una reazione aggressiva. Una donna faceva notare che il marito ripete una stessa frase tutto il giorno, non smette mai, che non riesce mai a rispondere in modo adeguato alle richieste della moglie; questa condizione genera esasperazione e l esasperazione genera un senso di colpa non facilmente sopibile. Ugualmente questo capita quando si sente che bisogna fare alcune cose, anche quando la vita richiede altri impegni. Il caregiver si trova a correre da una parte all altra e sente di non essere in grado di reggere allo stress, vorrebbe fermarsi, ma questo solo pensiero genera il senso di colpa perché non si è risposto appieno ai compiti prefissati. Altre condizioni possono portare al senso di colpa: per esempio, quando si assiste, senza poter fare nulla, alla totale perdita della personalità, alla eliminazione di ogni possibile e credibile inibizione ricordo la telefonata di una signora che tra le lacrime confessa che il padre lancia le feci dalla finestra e allora scatta la domanda sul senso reale di questa malattia e su quello che il malato vive e si pensa alla morte, come unico rimedio a una tragedia impensabile 15

19 (anche se dall inchiesta già citata, è emerso che solo raramente il caregiver pensa alla soluzione morte ). La rabbia e il senso di colpa vengono anche quando si cerca di fare tutto, ma proprio tutto al posto del malato. Si ha paura che lui non sia in grado di gestire la realtà e lo si sostituisce, così almeno le cose vengono fatte e non bisogna ripetere e stare attenti. Ma anche così facendo la situazione non migliora, anzi, sembra che giorno dopo giorno la volontà di fare del malato si indebolisca, che si richiuda in una realtà del tutto distante, che i rapporti con gli altri si affievoliscano. Così le domande usuali dove e in che cosa ho sbagliato? così la rabbia e il senso di colpa, perché nonostante tutto, ma proprio tutto, nulla migliora. Bisogna entrare ancor più nella malattia. Il caregiver deve ancora fare un tratto di cammino, accettare che non sia l ansia a motivare il troppo fare inconcludente e che non ci siano troppa frustrazione e troppa rabbia. Perché va tutto storto, mentre la fatica aumenta e il peso delle nostre contraddizioni ci porta a non vedere con chiarezza i fatti. Una signora era affranta dal comportamento che teneva nei confronti del marito demente che la voleva seguire sempre, che non poteva stare da solo mentre lei avrebbe gradito alcune ore di tranquillità, lontana da casa, a fare ciò che le piaceva, insieme alle sue amiche. Lei comprendeva in quei momenti, quando chiedeva di essere lasciata in pace per poche ore, di essere molto ambigua. Da un lato l affetto grande per quell adulto, che sembrava un bambino alla ricerca della mano della mamma e che non voleva stare da solo, ma dall altro una gran rabbia, una collera incredibile perché lui settantenne, da quarant anni circa con lei, non riusciva proprio a capire che lei aveva bisogno di quelle poche ore di libertà. Ma quel marito dallo sguardo perso era, per caso, anche un motivo di vergogna? Anche questo sentimento è presente e condiziona il comportamento del caregiver e la vita del malato. Come non comprendere che i rapporti sociali e in genere la vita che una famiglia conduce ha delle regole che difficilmente possono essere modificate; regole che possono esigere comportamenti adeguati a quelli che sono i canoni dell ambiente in cui si vive. Vergogna per come il malato si comporta, vergogna che non si riesce a superare, perché non si può parlare con La vergogna 16

20 gli altri i normali di questa malattia. Ricordo una giovane donna raccontarmi di comportamenti impensabili del suocero: quando qualcuno entrava in casa lui si presentava sulla porta e, scattando sull attenti in una rigida parodia di situazione militare, salutava tutti con un buonasera signor generale. Non molto tempo dopo, ho saputo che quel saluto era ripetuto all infinito in una casa di riposo. È possibile che un individuo, preso dallo sconforto, decida di fuggire dalla condizione imposta o scelta, sperando di sottrarsi al fardello delle responsabilità psicologiche che il tempo della malattia inevitabilmente provoca. La fuga anche se appare modalità semplice ed egoistica di deresponsabilizzazione prendendo le distanze dal malato, comporta una presa di distanza emotiva, la rinuncia a vivere una parte della propria vita affettiva, negando un esperienza che per quanto dolorosa comporta nuovi contenuti emozionali e la scoperta di tante nuove risorse. La fuga è accompagnata da un grande senso di colpa e da un acuto rimorso che difficilmente vengono compensati dal senso di liberazione dall affanno della malattia. Il sollievo della fuga è solo apparente: coloro che rimangono coinvolti nella cura si sentiranno traditi e abbandonati senza qualcuno con il quale condividere questo inaspettato viaggio. Questi sono sicuramente amareggiati, si sentono traditi e abbandonati, senza un compagno con il quale condividere questo incredibile viaggio. Fare proposte al fuggitivo per continuare a essere utile alla famiglia e al malato sposta l attenzione dal malato al caregiver cercando il recupero di chi si è allontanato, senza che il senso di colpevolizzazione per aver abbandonato il malato diventi l elemento dominante del nuovo rapporto. Così facendo forse sarà possibile non rimuginare in solitudine sul disaccordo. Ma in qualunque caso la soluzione di questi avvenimenti è molto dolorosa e spesso comporta un allontanamento definitivo dei familiari. Come si comprende facilmente, la malattia e gli aspetti psicologici delle persone vicine al malato possono facilmente generare tensioni e conflitti. Le condizioni di malessere sono rivolte spesso alle strutture assistenziali. Alcune delle prestazioni ricevute o atteggiamenti non compresi del personale possono generare conflitti con il caregiver, situazioni non chiarite che spesso comportano La scelta della fuga I conflitti dei caregivers 17

21 l allontanamento dalla struttura. Sovente i malati vengono sballottati da una struttura a un altra senza un reale motivo. La soluzione è alla portata di tutti e consiste in una maggiore disponibilità del personale assistenziale a chiarire fino in fondo con il caregiver le problematiche legate alla malattia, fornendo le indicazioni generali sulla patologia in atto, suggerendo luoghi e persone con cui entrare in contatto o, se possibile, fornire corsi di aggiornamento e momenti di confronto con i familiari. Ci rendiamo conto che tali proposte nell organizzazione sanitaria del nostro paese sono poco realizzabili. Un medico che presta la sua attività in un ambulatorio si sentirà molto più gratificato a fare diagnosi e terapia piuttosto che a fare il consulente dei familiari; molti sanitari penseranno che questo è un compito di un altro tipo di personale assistenziale o delle associazioni dei malati. Tutto questo è sicuramente vero, ma è anche vero che è proprio al sanitario che fa la diagnosi che le persone chiedono un rapporto umano, un vero aiuto, una capacità di consulenza, un rapporto non chiuso alla cruda realtà della diagnosi di malattia. Ma forse questo è un modo di pensare alla medicina che poco si addice a quanto oggi avviene nel nostro paese, dove è permesso che la medicina privata si mescoli in modo provocatorio a quella pubblica, dove è consentito al medico di esercitare a pagamento nelle strutture pubbliche, allargando così a dismisura il concetto di una cultura mercantile che ha trasformato, purtroppo per molti, il tempo in denaro e il tempo può solo servire a visitare i malati. Esistono situazioni conflittuali anche con gli altri membri della famiglia che non aiutano, che non comprendono o non valutano nella dovuta maniera gli sforzi fatti dal caregiver. Conflitti si aprono con le persone che più condividono l esperienza del caregiver, ad esempio con il coniuge che può non comprendere come e perché la persona che gli è vicino appaia sempre stanca, depressa, che non ha mai tempo per nulla e che pensa solo al malato. Il caregiver così entra in conflitto con se stesso, perché si trova sempre davanti a un bivio. Il caregiver deve scegliere tra la necessità di assistere e accudire nel modo migliore possibile il malato e la necessità di non trascurare gli altri membri della famiglia; tra tempo da dedicare al lavoro che pure è fonte di soddisfazione e piacere e tempo da dedicare al malato; oppure tra il continuare a prestare le cure al malato e trovare - con le strutture sanitarie - con i familiari 18

22 il desiderio di recuperare spazi per sé stessi, per la propria vita, per il proprio piacere. Non riuscire a trovare modalità soddisfacenti per ricavare gli spazi della propria vita è una situazione svantaggiosa sia per il caregiver che per il malato: il primo si carica di rancore, di dubbi sul proprio ruolo, di sensi di colpa, invece di comprendere l importanza e l assoluta necessità di riappropriarsi, per quanto possibile, di una parte del tempo della vita. È indispensabile. Non è egoismo ma necessità, perché ridando spazio alle proprie esigenze di vita si possono ricaricare le energie da dedicare al malato e il tempo che trascorrerà vicino a lui sarà un tempo del tutto nuovo, un tempo scelto, desiderato, frutto di una razionalizzazione delle necessità di tutti. Come non vedere la tristezza di un assistenza carica di tensioni, dove la mente del caregiver è impegnata dai pensieri del quotidiano che non dà tregua e incalza costantemente; dove si è infastiditi per essere vicini al malato spinti dal senso del dovere, dove il peso dell assistenza è assolutamente soffocante, ma se per caso facciamo un piccolo ritardo ci sentiamo colpevoli per non aver rispettato l impegno preso. È così che anche il malato diventa motivo di conflitto quando vecchi rancori, incomprensioni e altri sentimenti non positivi, che spesso la vita porta nelle famiglie, ritornano prepotentemente a galla. Perché la demenza, oltre alla perdita dell autosufficienza, conduce a una trasformazione tale del normale sentire, che le cose più impensabili diventano quasi naturali per il malato. Il caregiver può non sopportare più, può giungere all abbandono del malato o, all opposto, tentare tutto il pensabile per soffocare la rabbia che ha dentro. Come superare queste condizioni di conflitto? Dobbiamo cercare essenzialmente di entrare nella fase di gestione del razionale. Se un nostro parente non si comporta nei confronti del malato come si vorrebbe e se tutto questo genera conflitti e rabbia, ci si dovrebbe chiedere se è proprio vero che gli altri possono fare tutto come facciamo noi, o addirittura sostituirsi a noi. E dovremmo capire che questo è veramente impossibile. La modalità con cui gli altri si pongono nei confronti del malato è l oggettivazione di quanto gli esseri umani siano diversi nel fare e nel sentire. Non è giustificato insistere nell errore; si dovrebbe trovare la giusta modalità per un confronto chiarificatore, far comprendere agli altri ed elaborare noi stessi che quello che avremmo voluto - con il malato La depressione del caregiver 19

23 che gli altri facessero non lo si è mai chiaramente esplicitato e che non è una colpa sentire e vivere la malattia di un parente con modalità molto diverse. Se questo è sostenibile, allora ne consegue che alcuni atteggiamenti del caregiver necessitano di essere ripensati. Un errore molto grave del caregiver per se stesso, per il malato e per l intero mondo intorno è rinchiudere l esistenza alla sola attività di cura. Credo che solo in casi del tutto eccezionali questa condizione non comporti una sofferenza così elevata e destinata prima o poi a trasformarsi in una vera e propria patologia. Non solo per questa ragione, ovviamente, ma è noto che il 30-40% dei caregiver soffre di depressione, disturbi del sonno, modificazioni nell alimentazione tali da condurlo a dover ricorrere all aiuto di un medico e ad assumere psicofarmaci (Beeson, ). Uno studio americano abbastanza recente, che conferma molte delle cose suddette, ha valutato le caratteristiche del paziente e del caregiver per ipotizzare l eventuale depressione dei caregivers. Le caratteristiche del malato sono l età piuttosto giovane e la gravità della malattia (ad esempio i disturbi comportamentali, tra questi l aggressività, incidono di più dei disturbi cognitivi); nel caregiver potenzialmente depresso troviamo un basso reddito economico, la relazione stretta con il paziente (moglie o figlia), l elevato numero di ore dedicate alla cura e la condizione fisica non buona del caregiver stesso. È evidente quindi che la depressione del caregiver è motivata non solo da caratteristiche legate alla malattia, ma anche a condizioni proprie della persona che assiste, per cui è necessario trovare modalità di riposte che sappiano tener conto di questa realtà multifattoriale e non credere che la sola risposta medicalizzata sia in grado di risolvere il problema (Covinsky KE., 2003) Beeson R.A, Loneliness and Depression in spousal Caregivers of Those With Alzheimer s Disease Versus Non Caregiving Spouses Electronic Version, in Archives of Psychiatric Nursing, n. 17, pp , Covinsky KE., Newcomer R., Fox P., Wood J., Sands L., Dane K. & Yaffe K., Patient and Caregiver Characterisctics Associated with Depression in Caregivers of Patients with Dementia Electronic Version, in Journal of General Internal Medicine, n. 18, pp ,

24 Aiutare il caregiver Innanzitutto facendo cultura, perché solo l informazione corretta potrà portare i familiari ad un consapevole ruolo di cura. In secondo luogo alcune semplici raccomandazioni: di fronte ai disturbi della memoria sarebbe meglio fornire le informazioni, evitando richiami a fatti o cose dimenticate. Rispetto ai problemi di linguaggio bisognerebbe cercare di comprendere il senso del discorso, anche se le parole sono inesatte, rispondere alle domande, anche a quelle ripetitive e cercare di continuare a parlare con il malato. Per quanto concerne i problemi di comprensione degli stimoli e in genere dell ambiente, sarebbe meglio sostituirsi a lui nel fare le cose solo quando è davvero inevitabile. Se si aiuta il malto a fare alcune azioni, bisogna ricordarsi che c è bisogno di molta sensibilità, i gesti devono essere semplici. Se possibile, sarebbe bene adattare la casa alle possibilità residue del malato. Quando compaiono le difficoltà con l utilizzo di oggetti di uso comune, come il pettine, conviene rimuoverli perché non essendo più riconosciuti porterebbero al malato solo ansia. Quando non vengono riconosciute cose o persone è del tutto inutile cercare di far ragionare il malato; la logica non è nel suo mondo e sono i normali che si devono adattare. L attenzione del malato è molto limitata e serve a fare poco e una cosa sola alla volta quindi mai chiedere più cose contemporaneamente, mai proporre compiti complessi o così difficili che porteranno il malato a comprendere la sua incapacità e quindi sofferenza per la frustrazione conseguente. Bisogna sempre ricordare che un sintomo centrale della malattia è la confusione. Anche se i normali vanno in confusione quando il carico a cui sottoponiamo la mente è eccessivo, il malato molto spesso è confuso perché non riesce a percepire correttamente l ambiente che lo circonda. La reazione normale a questo stato di cose è la più varia: i malati possono urlare, diventare aggressivi, fuggire, mettersi a vagabondare senza una vera meta. È importante verificare l ambiente di vita, per esempio se è troppo carico di stimoli, troppi rumori, troppe luci o troppa gente. A volte la confusione del malato può essere segno di qualcosa che non funziona come un improvviso dolore fisico. Bisogna riconoscere la gestualità che si accompagna alla confusione Non sollecitare la memoria Fare gesti semplici 21

25 (sguardi in più direzioni, camminare in tondo senza fermarsi, afferrare e lasciare oggetti diversi); bisogna allora fermarsi, provare a distrarre il malato, comprendere se è veramente pronto e disponibile a fare quello che gli si chiede, aiutarlo perché si senta a proprio agio, rispettarne i tempi e i modi, farsi vedere bene quando ci si avvicina e fare tutto con grande. Più drammatici appaiono i disturbi comportamentali quali il vagabondaggio e l affaccendamento inoperoso (gesti ripetitivi senza alcuna finalità). A fronte di questo occorre ricordarsi che i gesti possono essere legati ad azioni del passato e non a condizioni del presente, Permettiamo al malato di camminare e muoversi liberamente in un ambiente il più possibile sicuro, proponiamogli attività di tipo manuale che richiedano uno sforzo minimo e che possano dare anche una minima gratificazione. La condizione del delirio è spesso molto complessa da essere compresa e gestita dal caregiver, perché il malato può credere di essere derubato dallo stesso, di essere abbandonato dalle persone care, di voler tornare alla propria casa natale, di essere tradito sessualmente. Si dovrebbe cercare di non smentire il malato, di parlare con lui in maniera chiara e rassicurante per evitare che si isoli, cercare di sviare la sua attenzione verso stimoli diversi e capaci di fermare le idee deliranti. Se il malato non riuscisse a stare fermo, continuasse a chiedere di qualcuno che deve arrivare, bisognerebbe cercare di comprendere quali possano essere le cause, parlare con calma, rassicurarlo. Mi rendo perfettamente conto di quanto questi suggerimenti non siano sempre praticabili. Penso, per esempio, all aggressività che si esprime con insulti, parolacce, bestemmie, pugni, graffi, morsi e che noi interpretiamo come una reazione difensiva verso qualcosa che è sentito dal malato come una minaccia, come quando si pretende che si lavi (anche se aiutato) o si vesta. Il caregiver dovrebbe essere in grado di ridurre al minimo le situazioni a rischio, sviare l'attenzione per prevenire l aggressività ma se questa insorge proporre le cose con calma, cambiare l'interlocutore o aspettare un momento più propizio e non sgridare il malato. Tutto ciò non sempre riesce ed è questa una condizione di grande imbarazzo e di scelte molto radicali, come l istituzionalizzazione. Distrarre il malato in confusione Ambiente sicuro e attività manuali semplici e gratificanti Il delirio 22

26 Come si arriva all istituzionalizzazione Tra le tante possibilità di intervento nei confronti del caregiver e della sua depressione dobbiamo citare quella che cerca di rompere il meccanismo che porta il caregiver a ritenersi perno centrale della cura del malato, a credere il proprio ruolo indispensabile e insostituibile. Il tempo della malattia è troppo lungo e tutti devono poter avere, almeno a un certo punto del cammino terapeutico, delle pause. Il malato deve avere più gestori e se questi non sono presenti nella famiglia allora è necessario trovarli fuori. Tra questi assumono un ruolo fondamentale i Servizi di Assistenza Domiciliare, i Centri Diurni, e forse in alcuni casi i Ricoveri di Sollievo. Una recensione da parte del gruppo Cochrane Dementia and Cognitive Improvement Group dei lavori presenti in letteratura ha portato alla conclusione non definitiva perché gli studi sono pochi ed eterogenei che le evidenze a disposizione non dimostrano alcun effetto benefico ma neanche un effetto avverso del ricorso ai Ricoveri di Sollievo sia per il malato che per il caregiver. Tuttavia gli autori sottolineano la necessità di affrontare il tema con una ricerca strutturata e scientificamente adeguata. Nell attesa di queste evidenze scientifiche il caregiver vicino all esaurimento di energie deve ricorrere all aiuto esterno. Rivolgersi a una entità istituzionale (assistenti sociali) o ad una associazione di familiari non equivale a tentare di scaricare il malato, ma al contrario significa tentare nuove strategie, per consentire se ancora possibile la permanenza del malato nella sua casa. Il problema centrale delle demenze è il loro carattere progressivo : la malattia più o meno lentamente progredisce, le modalità di reazione - e in genere tutto il comportamento del malato si modificano. Anche nei momenti di discussione dei gruppi di aiuto è difficile riuscire a trasmettere ciò che accade al malato. La perdita progressiva della memoria cancella le facce e gli ambienti. Il malato non riconosce più i familiari e il mondo che lo circonda, così il caregiver non riconosce nel malato la persona conosciuta; se non accetta che la causa di tutto questo è la malattia, si troverà a soffrire, perché privato del rapporto con il malato e di tutta la sua storia di affetti. In queste condizioni il tempo segna solo successive perdite : facce, ambienti, parole. Il malato necessita di cure sempre maggiori, le preoccupazioni per il caregiver aumentano, per la salute, per il 23 Il ricovero

27 tempo, per le spese, per gli aiuti ormai indispensabili. I deliri e le allucinazioni insieme a un vagabondare senza senso, l aggressività se non la vera e propria violenza, a volte assolutamente ingiustificato rendono la vita così difficile che, dopo aver chiesto aiuto disperatamente al medico - non ce la faccio più, lei mi deve aiutare, ci deve essere qualcosa da dargli perché si calmi - dopo che le medicine non fanno più nulla, anche il migliore dei caregiver può convincersi che è giunto il momento dell istituzionalizzazione, del ricovero in una struttura dove saranno altri a prendersi l onere di assistere il malato in questa ultima parte del viaggio. È una decisione difficile e sofferta, vissuta dalla famiglia e dal caregiver come l evento più significativo nel percorso di cura iniziato molti anni prima. È un evento traumatico nella storia relazionale con il malato. Il caregiver, improvvisamente privato del suo ruolo assistenziale, decisionale e di tutore, rischia di riaffacciarsi alla vita senza essere preparato: ennesima violenza con cui fare i conti, mentre perde il suo ruolo di primo attore nella gestione dei bisogni e nelle scelte per il malato. Da quel momento può solo accettare e condividere le decisioni prese da altri. Può allora credere che le persone che si prendono cura del malato non siano adeguate, che le cure che riceveva prima fossero migliori e questo rende conflittuale il rapporto tra lui e la nuova condizione del malato. Ovviamente possono essere sempre gli aiuti esterni che aiutano a modificare tali atteggiamenti, prima che il caregiver si immetta in un cammino di stress, di sensi di colpa sempre maggiori e di profonda depressione. Di nuovo il medico che ha seguito il malato potrebbe rappresentare l ancora ; potrebbe essere colui che chiarisce il problema, che delimita le responsabilità di questa operazione e che permette la metabolizzazione del lutto. Il medico potrebbe essere anche colui che aiuta il caregiver a non sviluppare una relazione conflittuale con il personale infermieristico e con il resto dell'équipe. L istituzionalizzazione può invece costituire in altri casi una sorta di liberazione. Ricordo la frase O lui il malato o me come segno di un traguardo, di un limite che si è raggiunto, la necessità di recuperare lo spazio esterno alla casa che era diventato come una tomba. Io sono ancora troppo giovane : non contano l età, ma la qualità e la quantità di tempo trascorso accanto a quella persona che ora è ancora più lontana con i suoi urli, le 24

28 bestemmie, o la identica parola e frase ripetuta all infinito. Un dolore per l impossibilità di modificare la situazione che rende la vita un inferno che se non l hai vissuto non lo puoi capire. Allora viene il momento in cui chi può, chi ne ha autorità morale e culturale deve aiutare a far sì che il caregiver accetti la necessità della delega, accetti l idea che la vita deve continuare e che la famiglia non è più il luogo in cui si possa gestire un malato tanto complesso e stressante. A questo punto, spero sia chiaro che, lungo il percorso della malattia e del caregiving, sono necessari uno o più operatori socio sanitari. È altrettanto indispensabile un luogo di ascolto per le famiglie, dove l incontro possa sostituirsi alla solitudine, dove la persona che ascolta possa davvero comprendere i bisogni reali che non sempre trovano spazio nelle parole, ma in tutte quelle forme di comunicazione che gli esseri umani praticano anche inconsciamente. È un posto ancora da costruire, ma di cui, sono certo, molti sentono il bisogno. Il malato e il caregiver non hanno bisogno di giudizi in cui si espliciti la ragione o il torto di uno o dell altro o chi fa bene e chi fa male, hanno bisogno di operatori qualificati in grado di valutare la situazione del malato e del caregiver, di comprendere i punti di forza e le criticità. Anche quando non si conoscono a fondo la storia e i vissuti dei partecipanti, si deve collaborare con loro per trovare possibili strategie che diano forza. Questo parlare e ascoltare, tentare di condividere, può essere fondamentale nelle fasi iniziali della malattia. Le persone sono molto più disorientate di quello che appaiono, hanno bisogno di un grande aiuto, non hanno esperienze o ricordi a cui attingere e devono quindi imparare. Spesso sono proprio le strategie di intervento inadeguate o sbagliate che rendono ancora più difficile la strada dell assistenza: aiutare a modificare le strategie e a definire quelle più adeguate è quanto si potrebbe chiedere a un operatore che deve rimanere in prima linea dando suggerimenti in moltissimi ambiti, ad esempio come riorganizzare l ambiente per renderlo idoneo alla condizioni del paziente, come gestire alcuni strumenti (telefono, televisione), come usufruire della rete dei servizi. Tutto questo è alla base di una corretta informazione che poi è quello che ormai, quasi sempre dopo i primi colloqui, ci chiedono le persone che entrano in contatto con noi. Adesso definiamo alcuni concetti sulle demenze. I caregiver Luoghi di ascolto per le famiglie 25

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