False e fallaci indicazioni di origine o di provenienza delle merci: quali conseguenze per le imprese?
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- Alessandra Silvestri
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1 False e fallaci indicazioni di origine o di provenienza delle merci: quali conseguenze per le imprese? L'indicazione origine o provenienza dell'opera dell'ingegno e del prodotto industriale si può riferire al luogo geografico della produzione o al soggetto cui deve farsi risalire la responsabilità giuridica e produttiva del bene e che pertanto garantisce la qualità del prodotto. Il quadro giuridico non è chiaro. In attesa di indirizzi normativi comunitari o nazionali, che suggerimenti dare agli imprenditori? Premessa Prima dell'approvazione della legge 350 (art. 4 co. 49 finanziaria 2004), si faceva riferimento all'art. 517 c.p. che puniva con la reclusione o con la multa chi poneva in vendita o metteva in circolazione opere dell'ingegno o prodotti industriali con nomi, marchi o segni distintivi nazionali o esteri atti ad indurre il compratore in inganno sull'origine, provenienza o qualità dell'opera o del prodotto. La giurisprudenza interpretava l'espressione origine o provenienza come l'origine imprenditoriale e non geografica del prodotto stesso. La Corte di Cassazione infatti aveva sostenuto: non può negarsi che l'imprenditore nel campo dell'attività industriale possa affidare a terzi subfornitori l'incarico di produrre materialmente, secondo caratteristiche qualitative pattuite con l'esecutore, un determinato bene, e che possa imprimervi il proprio marchio con i suoi segni distintivi e quindi lanciarlo in commercio. Ciò è ammesso in quanto la garanzia che la legge ha inteso assicurare al consumatore riguarda l'origine e la provenienza del prodotto non già da un determinato luogo (ad eccezione delle ipotesi previste per legge) bensi da un determinato produttore. Anche il Ministero delle Finanze, con circolare del 23 ottobre 1995 n 275, ha stabilito esplicitamente che l'utilizzo legale del marchio non comporta l'obbligo dell'indicazione del made in sul relativo prodotto. Naturalmente deve trattarsi del solo marchio cosi come registrato, senza l'aggiunta di qualsiasi ulteriore indicazione, circostanza quest'ultima che potrebbe invece far ricadere l'eventuale fattispecie nel campo di applicazione dell'accordo di Madrid (1891) sulla repressione delle indicazioni false delle merci. Attuale quadro normativo (art. 4 co. 49 finanziaria 2004) Secondo l'attuale previsione normativa costituisce:
2 * falsa indicazione la stampigliatura made in italy su prodotti e merci non originari dell'italia ai sensi della normativa europea sull'origine * fallace indicazione, anche qualora sia indicata l'origine e la provenienza estera dei prodotti o delle merci, l'uso di segni, figure o quant'altro possa indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana. Le fattispecie sono commesse sin dalla presentazione dei prodotti o delle merci in dogana per l'immissione in consumo o in libera pratica e sino alla vendita al dettaglio. E come se ciò non bastasse: l'importazione e l'esportazione ai fini di commercializzazione di prodotti recanti false o fallaci indicazioni di provenienza o di origine costituisce reato sulla base dell'art. 517 c.p, che si riferisce ai casi di vendita di prodotti industriali con segni mendaci, punibili con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino a ,00 euro. Conseguentemente anche il produttore che ha delocalizzato la sua produzione in un Paese terzo ed applica ai suoi prodotti unicamente il proprio marchio registrato, non deve utilizzare in modo scorretto altre indicazioni di provenienza (o segni equivalenti come una bandiera, o simboli evocativi dell'italia su prodotti di origine straniera idonei a far ritenere che i prodotti siano fabbricati in Italia). La fallace indicazione può essere sanata sul piano amministrativo con l'asportazione, a cura ed a spese del contravventore, dei segni o delle figure o quant'altro induca a ritenere che si tratti di un prodotto di origine italiana. La falsa indicazione sull'origine o sulla provenienza di prodotti o merci può essere sanata sul piano amministrativo attraverso l'esatta indicazione dell'origine o l'asportazione della stampigliatura made in italy. Contrasto giurisprudenziale La nuova disciplina ha determinato effetti quasi dirompenti sul sistema e ha dato origine a diverse e talvolta contrastanti pronunce giurisdizionali. bene, pertanto, fare un po' d'ordine ed evidenziare una linea di condotta in linea con i precetti normativi e soprattutto con le posizioni più evolute e consolidate del pensiero giurisprudenziale. Il legislatore nel tutelare l'ordine economico ha a mente: * il produttore, che non deve subire la concorrenza sleale * la capacità concorrenziale delle imprese nazionali che devono poter ricorrere alla delocalizzazione della produzione * il consumatore, la cui buona fede va in ogni caso preservata.
3 Diverse pronunce giurisprudenziali hanno evidenziato che non sempre il fenomeno della delocalizzazione della produzione può considerarsi neutro rispetto alla qualità del prodotto e quindi alla tutela della buona fede del consumatore. Ciò, solitamente, non avviene quando il livello professionale della manodopera assume una importanza qualificante rispetto al manufatto. La Suprema Corte, tuttavia, ha ribadito anche successivamente la propria adesione al concetto di origine o provenienza soggettiva, non mancando però di precisare la possibilità di considerare autonomamente e diversamente alcuni specifici settori merceologici. Il caso maggiormente assurto agli onori della cronaca (pronuncia 2648/2006 della Corte di Cassazione), riguarda il settore dell'abbigliamento, nel quale l'italia gode di una riconosciuta primazia in campo mondiale, dovuta alla particolare specializzazione delle maestranze. Nel caso di specie - riconosce la Cassazione - anche la sola lavorazione all'estero acquisisce una spiccata valenza, che consentirebbe al produttore di fornire maliziosamente al consumatore insufficienti se non addirittura fallaci indicazioni con l'intento sottaciuto, ma evidente, di conferire al prodotto una maggiore visibilità promuovendone in definitiva l'acquisto. stato quindi condannato un operatore italiano che su alcuni prodotti di abbigliamento, da esso importati da un Paese terzo (dove erano stati fabbricati sotto il controllo della sua impresa che in tale Paese aveva delocalizzato alcune attività produttive), non si era limitato ad apporre il suo marchio legalmente registrato, ma anche ulteriori indicazioni idonee a far ritenere che i prodotti erano stati fabbricati in Italia. Vi è di più. Il recente decreto sulla competitività ha introdotto ulteriori elementi di novità sul concetto di luogo di origine e provenienza, in ogni caso tali da colludere, almeno in parte, con l'elaborato giurisprudenziale. Le imprese che non prevedono il mantenimento in Italia di una parte sostanziale delle attività produttive vengono escluse da alcuni benefici. Si tratta di un indizio favorevole alla rilevanza del luogo di produzione del bene, anche se sottace, evidentemente, ragioni diverse da quelle previste dall'art. 4 comma 49 della L. nr. 305/2003.
4 Conclusioni Anche in questo caso la Suprema Corte ha ritenuto che il nuovo disposto non fosse in grado di disattendere il proprio orientamento sull'origine imprenditoriale del prodotto. Ha ribadito, comunque, che in alcuni casi il luogo di produzione debba essere indicato. Certamente nel caso in cui la qualità della manodopera assume rilevanza preponderante nel processo produttivo, soprattutto se l'autore della materiale produzione è soggetto economico formalmente diverso dall'azienda cui si vuol riferire il prodotto. In tali casi la buona fede del consumatore richiede l'indicazione del luogo di produzione. Risulta evidente come lo stesso orientamento giurisprudenziale allorché afferma che in alcuni casi vada riconosciuta rilevanza al luogo di produzione, riconosce non solo la complessità della materia, ma anche implicitamente l'impossibilità di trovare ancora un punto di equilibrio ermeneutico necessario per dar certezza al mondo delle imprese. Per completare il quadro, va tenuto presente che con Decreto Legislativo del 6 settembre 2005 n 206, è stato adottato il Codice del Consumo. Nell'art. 6 di tale codice alla lettera c/ è stato introdotto l'obbligo di indicare sui prodotti venduti sul mercato italiano il nome del paese di origine se situato fuori dall'unione Europea. L'applicazione effettiva di tale disposizione è stata rinviata al 1 gennaio 2007, in attesa delle decisioni che stanno per essere adottate in sede comunitaria. In questo scenario tempestoso ed in attesa di chiarimenti od indirizzi normativi comunitari o nazionali, che suggerimenti dare ad un operatore prudente? * NON APPORRE SCRITTA O ETICHETTA recante la dicitura prodotto in Italia o made in Italy su un prodotto fabbricato all'estero, non importa se per conto di un produttore italiano, perché la fattispecie trae in inganno il consumatore ed è penalmente perseguibile. * L'indicazione della denominazione dell'azienda italiana su un prodotto importato o l'uso di segni, figure, o quant'altro possa indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana, deve essere controbilanciata dall'apposizione del MADE IN (paese terzo di produzione della merce) o - salvo i pochi casi in cui il made in è obbligatorio per legge - almeno dalla chiara indicazione IMPORTATO DA (nome e sede dell'impresa). appena il caso di aggiungere che quest'ultima soluzione non potrà essere più adottata quando entrerà in vigore una norma comunitaria o nazionale che obbligherà ad indicare sul prodotto il paese di origine delle merci (MADE IN).
5 Crescenzo Cappuccilli Consigliere AICE - Associazione Italiana Commercio Estero Newsletter n. 17 (22/06/2006) - 22 giugno 2006
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