Aristotele, Etica Nicomachea, seconda parte. Etica Nicomachea III, 1-7: le caratteristiche dell azione

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1 Aristotele, Etica Nicomachea, seconda parte Etica Nicomachea III, 1-7: le caratteristiche dell azione Nel libro III dell Etica nicomachea Aristotele analizza le condizioni dell azione in generale: volere, scelta, deliberazione. La conoscenza di questi aspetti è però necessaria per caratterizzare l azione virtuosa (o viziosa). Infatti, solo ciò che è voluto, scelto, deliberato costituisce oggetto di lode e di biasimo. Nel libro III di EN noi troviamo due sezioni non legate tra loro. nei capitoli 1-7 troviamo appunto un analisi delle caratteristiche essenziali dell azione in generale, sia buona che cattiva: (i) volontario (ekousion)/involontario (akousion) (capitoli 1-3 e 7); (ii) scelta (cap. 4) (iii) deliberazione (capitolo 5) (iv) rapporto tra vero bene e bene apparente (cap. 6). Poi abbiamo il capitolo 8, che è un capitolo di transizione che conduce Aristotele a parlare nuovamente delle virtù etiche, in particolare di coraggio (cap. 9-12) e temperanza (13-15). L analisi delle virtù etiche continuerà poi nel libro IV e anche nel libro V (che si occupa della giustizia, anch essa considerata una virtù etica). Il volontario (III, 1-3; 7) I due aggettivi, volontario e involontario (ekousion e akousion) compaiono per la prima volta per caratterizzare il soggetto che agisce. E difficile evitare in italiano di usare termini come volontario o volere; ma questo non implica che si possa attribuire ad Aristotele la teoria secondo cui esiste la volontà come facoltà indipendente, separata e distinta dalla ragione e dall orexis, cioè dalla parte desiderativa dell anima, come sarà in 1

2 epoca moderna. Per A. esistono solo ragione e desiderio (a differenza di Platone, per il quale esistono tre parti o principi dell anima, razionale, irascibile e concupiscibile. Prima di definire ciò che è volontario, A. definisce l involontario, in maniera tale che si arriverà a definire il primo per opposizione al secondo. Perché definire volontario e involontario? EN III, 1109b30-35 (p. 77 Natali): Dato che la virtù punizioni. La virtù riguarda passioni e azioni, e mentre le azioni volontarie sono oggetto di lode e biasimo, quelle involontarie sono invece oggetto di indulgenza e pietà. Ora, la virtù ha a che fare con lode e biasimo, e quindi con il volontario, più precisamente, con l azione volontaria. Ma per definire il volontario, secondo A. bisogna prima definire l involontario. Definizione di involontario (1110a1, p. 77 Natali) Sembra che siano involontarie le azioni compiute per forza o per ignoranza. A. individua due casi, (a) involontarietà per forza e (b) involontarietà per ignoranza. (a) Involontarietà per forza (EN III, 1) Si tratta dell atto il cui principio è completamente esterno, cioè che avviene senza il minimo contributo da parte dell agente. Es.: sono trasportato dal vento e quindi mi sposto. Compio un azione (mi sposto) ma indipendentemente da me. In questo caso il principio è esterno a me (il vento). Qui il principio è ovviamente quello efficiente, che fa qualcosa. Ci sono poi una serie di casi controversi (1110a4-13, p. 77 Natali), quelli in cui agisco per costrizione (i) o perché ho paura che, se non compio un atto, un male peggiore arriverà (esempio: commetterò un azione malvagia perché, in caso 2

3 contrario, uccideranno i miei figli) (ii) o per un bel motivo (1110b9 ss, p Natali): agisco sulla base del piacevole e del bello, e in tal caso pretendo che le cose belle e piacevoli esercitino su di me una violenza, una costrizione. Il caso (i) è per A. un caso di azione che assomiglia alle azioni volontarie, perché, nel momento in cui esse sono compiute, sono risultato di scelta (io scelgo di compiere un atto malvagio piuttosto che la morte dei miei figli. Il fine dell azione è questione di opportunità (cioè l opportunità del fine dell azione, che è quello di salvare i miei figli). Perché A. parla solo di somiglianza? Perché i principi dell azione, in questo caso malvagia, sono due: (1) colui che mi obbliga all azione malvagia (principio esterno dell azione); (2) io (principio interno dell azione): sono io che muovo il mio corpo per eseguire l azione malvagia. Ora, gli atti in cui il principio si trova nell agente sono atti che l agente può anche non compiere. Azioni di questo tipo sono a volte oggetto di lode (1110a20, p. 79 Natali: quando per esempio si sopporta qualcosa di turpe in cambio di vantaggi (pensiamo ad esempio a Socrate, che sceglie di andare in prigione e bere la cicuta per salvare gli ateniesi)) a volte oggetto di indulgenza (abbiamo già visto il caso di un azione malvagia per salvare i propri figli); ma a volte sono inaccettabili e non possono essere imposte (1110a27-29, p. 79 Natali. Qui A. cita il caso dell Alcmeone (tragedia perduta di Euripide), che ha ucciso sua madre per ordine del padre. In casi di questo tipo bisogna sottrarsi alla costrizione. A volte però, osserva A., è difficile discernere tra questi differenti casi. Ma la domanda che in ogni caso viene posta è la seguente: quando si deve sostenere che un atto è compiuto per violenza (nel senso di costrizione)? Risposta (1110b1-9, p. 79 Natali): ogni volta che la causa (aitīa, termine che può essere anche tradotto con responsabilità ) è esterna, e l agente non contribuisce in nulla. Invece per i casi visti di azioni che 3

4 potremmo chiamare miste (quelle in cui c è sia un agente esterno che un agente interno) andranno valutati caso per caso (leggendo questo passo e in generale tutta la parte su azione, scelta, deliberazione, si ha l impressione che Aristotele abbia in mente spesso il diritto e il giudizio nei tribunali). Il caso (ii), invece (in cui si pretenderebbe che il bello e il piacevole esercitino una costrizione esterna) non è per A. un caso di azione compiuta per violenza e costrizione, anzi, si è perfettamente responsabili perché si sceglie il piacevole e si rifiuta il doloroso/spiacevole. Si conferma così il fatto che gli atti compiuti per violenza o costrizione hanno un principio esterno, e sono atti in cui non vi è alcun contributo da parte del soggetto che agisce ) ma che di fatto subisce. (b) Involontarietà per ignoranza (EN III, 2) Nell azione per ignoranza ci sono due tipi di non-volontarietà (1110b18-24, p. 81 trad. Natali): 1) il non-volontario (1110b18 ouch ekousion), che è semplicemente l atto di cui l agente ignorava qualche circostanza (torneremo tra breve sulla questione delle circostanze); 2) atto davvero involontario (akousion), in cui l agente ignorava qualche circostanza, ma di cui poi si pente e si addolora una volta compiuto. L idea è la seguente: quando agisco in modo del tutto involontario (akousion) per ignoranza, dopo sarò disgustato di quello che ho fatto e proverò dispiacere (siamo sempre nell ambito, ovviamente, dell azione malvagia); in compenso, se agisco in modo non-volontario (ouch ekousion), e poi non sono disgustato e pentito per quello che ho fatto, ci si troverà di fronte a una situazione un po confusa: - da una parte non ho agito volontariamente perché non sapevo quel che facevo; - dall altra non avrò nemmeno agito in modo del tutto involontario, 4

5 perché non provo dispiacere. Per esempio, dico ad un amica (A) qualcosa che riguarda un altra amica (B); l amica (A) utilizza questa informazione per nuocere all amica (B). Se provo pentimento, allora avrò compiuto un azione involontaria (non potevo prevedere il pessimo risultato); se invece il risultato non previsto non mi dispiace, avrò compiuto un azione soltanto non-volontaria: non so che avrei fatto se avessi previsto il risultato A. opera anche una distinzione tra (1) agire per ignoranza e (2) agire ignorando (1110b25 ss. p. 81 Natali): nel primo caso agisco in modo involontario, cioè appunto per difetto di informazione di cui non sono responsabile; nel secondo agisco però in ragione di un motivo di cui sono responsabile, anche se esso implica ignoranza. Per esempio, chi compie una cattiva azione perché ubriaco o accecato dalla rabbia non agisce per ignoranza, ma agisce a causa dell ubriachezza o della rabbia di cui è responsabile, e che produce ignoranza (cioè, che gli fa compiere un atto, per esempio uccidere qualcuno, senza sapere ciò che fa, per esempio colpendo troppo forte o guidando in stato di ebbrezza). Insomma: l ignoranza che ha a che fare con l involontario è quella 1) che provoca dolore e pentimento e 2) che implica difetto di informazione, cioè ignoranza delle circostanze dell azione, e non quella che riguarda risultati non voluti di alcune decisioni (che invece, loro, sono volontarie). A questo punto, A. enuncia queste circostanze (1111a2-17): (i) chi: l agente, dell azione; se sono io l agente, secondo A., non posso ignorarmi, a meno che non sia pazzo. Invece, posso ignorare: (ii) che cosa: ciò che faccio; per esempio, mentre volevo dare una dimostrazione, è partito un colpo di pistola; (iii) riguardo a cosa o in cosa: ciò che è in gioco o che fornisce materia 5

6 all azione, come ad es. Merope (personaggio ancora una volta di una tragedia perduta di Euripide) che sta per uccidere il figlio credendolo un nemico; (iv) per mezzo di cosa; la pericolosità del mezzo, per esempio la lancia, che credo spuntata, è invece appuntita; (v) pervenendo a che cosa, cioè l intenzione; per esempio, voglio dar da bere a un assetato, e invece lo uccido, dandogli del veleno che credevo acqua; (vi) come, cioè la maniera in cui si agisce. Ad esempio sono un lottatore, credo di sfiorare qualcuno con la mano, invece lo abbatto. Queste dunque sono le circostanze dell azione, ignorando una (o più) delle quali, agisco involontariamente. A. aggiunge che le più importanti tra queste circostanze sono (ii) ed (v). Ricordiamo però che per parlare di involontario bisogna aggiungere il dispiacere e il pentimento. Sulla base dell analisi di (a) involontarietà per forza e (b) involontarietà per ignoranza, Aristotele arriva a definire il volontario (EN III, 3, 22-24): l atto volontario è quello in cui il principio risiede nell agente, il quale conosce ciascuna delle circostanze particolari in cui l azione si verifica. Scelta, deliberazione e volere (EN III, 4-6) Continuiamo l analisi delle condizioni dell azione - scelta (proairesis), cap. 4; - deliberazione (bouleusis), cap. 5; - volere (boulesis), cap. 6. Questo non deve essere confuso con il volontario/involontario considerati sopra: si tratta piuttosto di una sorta di inclinazione positiva verso qualcosa. 6

7 In seguito, nel capitolo 7, Aristotele dimostrerà che virtù e vizi riguardo alle azioni (cioè, i mezzi per realizzare fini) hanno a che fare con scelta, deliberazione e volere, e che quindi dipendono da noi. Sappiamo poi che il seguito del III libro sarà dedicato all analisi delle virtù etiche particolari (qui coraggio e temperanza), analisi che continuerà per tutto il IV libro, e anche per il V (dedicato alla giustizia, considerata da A. una virtù etica). La scelta EN III, 4, 111b4-10, p. 85 Natali: Dopo aver di una scelta. A. descrive una scelta volontaria, ragionevole e nello stesso tempo virtuosa. L importanza che A. accorda a questa nozione rende ben conto della relazione, su cui abbiamo molto insistito, tra intelletto o ragione, e carattere. Il termine proairesis è generalmente tradotto con scelta deliberata, o decisione, o scelta preferenziale. La proairesis richiede razionalità e deliberazione. Sapere se la razionalità di cui si parla qui riguardi solamente i mezzi o se essa interessa direttamente la determinazione del fine, è cosa, come vedremo più avanti (quando parleremo della phronesis), controversa. La scelta è qualcosa di volontario, ma essa non si identifica con esso, perché se è vero che ogni scelta è volontaria, non è vero che ogni atto volontario è una scelta. Il volontario è più esteso della scelta: i bambini e gli animali, osserva Aristotele, ad esempio, hanno a che fare con il volontario, ma non si può dire che essi operino una scelta. Per esempio: un bambino afferra improvvisamente una fetta di torta e se la mangia: magari conosce tutte le circostanze dell azione (vedi sopra: il bambino è consapevole di essere l agente, sa cosa fa (afferra la torta) che cosa è in gioco (mangiare la torta), usa lo strumento adatto (le mani) e nella maniera corretta (con la leggerezza giusta per afferrare bene la torta e mangiarsela)), però non opera una scelta razionale (in effetti, non pensa che la torta gli farà venire mal di 7

8 pancia). In ogni caso, la scelta è volontaria poiché trova il proprio principio nell uomo che deve agire. Si possono, come abbiamo detto, trovare esempio di azioni volontarie nei bambini e negli animali, ma è l azione umana che presenta le caratteristiche più realizzate dell azione volontaria, qualora essa proceda da una scelta ragionata (proairesis), a sua volta preceduta dalla deliberazione (bouleusis). La sequenza corretta sarà dunque: - deliberazione - scelta - azione volontaria. Ma, come definire o caratterizzare la scelta? Ancora una volta per via negativa (vedi sopra, caratterizzazione della virtù). A. arriva a definire la scelta come qualche cosa di volontario che abbiamo deliberato (nel senso che è accompagnata da ragione e pensiero) (1112a13-15), rifiutando le seguenti identificazioni (1111b10-12, p. 85 Natali): a) scelta come desiderio (epithumia) b) scelta come impulso (thumos) c) scelta come volere (boulesis) d) scelta come opinione (doxa). a) (1111b12-17, p.85 Natali): la scelta non si identifica con il desiderio perché negli esseri irrazionali troviamo il desiderio ma non la scelta. In compenso, la scelta può avvenire senza desiderio, e anche in modo contrario ad esso (per es., mangio un dolce senza sceglierlo, ma perché lo desidero; in compenso, posso scegliere di mangiare una mela senza desiderarla, ma perché fa bene alla salute; addirittura scelgo di non mangiare il dolce anche se lo desidero, perché fa male mangiarlo). b) (1111b17-19, p. 85 Natali): la scelta non si identifica nemmeno con l impulso, perché le azioni sotto impulso non sembrano assolutamente il 8

9 risultato di una scelta (es. uccido sotto effetto di una collera che non domino assolutamente) c) (1111b19-30, pp Natali): la scelta non si identifica neppure con il volere, e questo per vari motivi: - possiamo volere cose impossibili, ma non possiamo scegliere cose impossibili; - possiamo volere la vittoria di un atleta, ma non possiamo scegliere la vittoria di un atleta (di fatto possiamo scegliere unicamente cose che dipendono da noi); - il volere concerne i fini, la scelta concerne i mezzi per realizzare i fini (es. voglio essere sano, scelgo i mezzi per ottenere la salute, o conservarla). Quindi: la scelta è qualcosa di volontario che concerne le cose che dipendono da noi e i mezzi per realizzare un fine. d) (1111b a12, p. 87 Natali): la scelta non si identifica nemmeno con l opinione. Non è infatti sufficiente avere un opinione per agire, ma occorrono scelta e deliberazione. Inoltre: 1- l opinione ha per oggetto tutto (cose eterne, cose impossibili), e cioè può considerare sia le cose che dipendono da noi che quelle che non dipendono da noi; 2- l opinione concerne il vero e il falso, la scelta concerne il buono e il cattivo. Per agire non è infatti sufficiente avere una certa opinione sul bene e sul male, bisogna anche scegliere e deliberare di fare il bene e rifuggire il male. Insomma: il fatto di avere un opinione sul bene non necessita l azione buona. Aristotele poi presenta altri endoxa sull identificazione opinione-scelta (vedi righe 1112a4-12, p. 87 Natali). La conclusione (1112a12-17) è appunto che la scelta sarà volontaria e deliberata. Viene qui confermato quello che la scelta è e quello che la scelta 9

10 non è: 1) la scelta è qualcosa di volontario che però non coincide con il volontario, essendo questo più ampio; 2) viene introdotta la deliberazione, che verrà caratterizzata nel capitolo successivo; la scelta è qualcosa di volontario, preliminarmente deliberato, e questo perché la scelta si accompagna di ragione e pensiero (1112a14-15). La deliberazione (cap. 5) La deliberazione consiste essenzialmente nel calcolo dei mezzi necessari per raggiungere il fine. Così (1112a18-30, p. 89 Natali: Si delibera su tutte le cose ad opera nostra ), non si delibera sulle cose eterne (es. l universo) né su quelle necessarie (che non possono essere diverse da ciò che sono, per esempio 4 per 4= 16), e neppure sulle cose dovute al caso (per esempio, la scoperta di un tesoro), e neppure sulle cose che non dipendono dall azione. Aristotele presenta qui una distinzione tra le cause efficienti, che diventerà celebre nella filosofia successiva - da una parte si ha la natura, la necessità e il caso, che sono cause di tutto ciò che accade attorno a noi; - d altra parte (1112a30-34, p. 89 Natali: Deliberiamo a opera loro ), Aristotele caratterizza come causa l intelligenza e tutto ciò che suppone l intervento dell uomo: produzioni di opere e regno dell etica (azioni) e della politica. Noi deliberiamo, dunque, sulle cose che dipendono da noi. Inoltre: 1112b2-10 (p Natali): Ma deliberiamo di indeterminato. La deliberazione ha luogo nell indeterminazione e nel contingente. Essa ha rapporto con ragionamenti che implicano un struttura di questo genere: 1112b12-20 (p. 91 Natali): Deliberiamo figura geometrica. 10

11 La struttura sembra essere di tipo sillogistico, anche se in senso lasco, tant è vero che si è parlato di sillogismo pratico. La struttura sarebbe di tipo: P 1 P 2 C (= fine raggiunto). 1) (premessa maggiore): un precetto che ha a che fare con il desiderabile (es.: la carne di pollo è buona per la salute); 2) (premessa minore): un fatto constatato dalla percezione sensibile (es.: questa carne nel mio piatto è pollo) 3) conclusione: una massima pratica che conduce all azione di mangiare questa carne di pollo. La deliberazione ha sempre a che fare con un fine (già fissato) che esprime un certo volere (una tendenza verso qualcosa), volere che tende a un bene, oppure a un bene apparente. Ma soprattutto è presentata nella maggior parte dei testi come un calcolo di mezzi: 1112b31-33 (p. 91 Natali): Sembrerebbe quindi ma ciò che porta al fine. Qui A. stabilisce un legame tra deliberazione e scelta: infatti afferma che i) l uomo è principio di azione, ii) la deliberazione è condizione dell azione e iii) l azione è il mezzo in vista di un fine. 1113a2-9 (p Natali): Sono la stessa cosa che avevano deciso. C è quindi una sorta di identità tra il mezzo deliberato e il mezzo scelto: c è solo un rapporto cronologico, e cioè un anteriorità della deliberazione (delibero che la carne di pollo è sana) sulla decisione scelta (decido di 11

12 mangiare questa carne), che a sua volta precede immediatamente l azione (mangio questa carne). Troviamo qui, a conclusione del capitolo, un altra definizione di scelta: 1113a9-12 (p. 93 Natali): Poiché oggetto anche la scelta (proairesis) viene a essere un desiderio (orexis) deliberato (bouleutiké, aggettivo di bouleusis) di ciò che dipende da noi (eph emin). La sequenza completa sarà così: 1) il desiderio (orexis, boulé): es. il desiderio di essere in buona salute; 2) deliberazione (bouleusis): che considera i mezzi per raggiungere lo scopo (es. delibero che, tra la carne di pollo e un dolce al cioccolato, è preferibile scegliere la carne perché essa fa bene alla salute); 3) scelta (proairesis): decidere di mangiare la carne di pollo. Il volere (cap. 6) Possiamo chiamare il volere (boulesis) un desiderio razionale. Esso è responsabile di stabilire i fini (mentre la deliberazione abbiamo visto che riguarda i mezzi). Essa si radica nell orexis, che è la parte desiderativairrazionale dell anima, quella che è diretta (solo nei virtuosi, però) dalla ragione, e che concerne appunto i desideri e le inclinazioni. E per questo che si può aspirare a fini desiderabili ma impossibili (es. essere immortale); o dei fini indipendenti dalla mia sfera d azione (es. la pace in Medio Oriente). Ma soprattutto, siccome l orexis può essere totalmente irrazionale (cioè, abbandonata a se stessa dalla ragione), ci si potranno augurare dei fini cattivi (di conseguenza il male può essere desiderato). Quindi, il fine buono È affidato a una disposizione naturale buona, ma anche e soprattutto alla virtù. Bisognerà cioè conformarsi ai fini della natura (ricordandoci che la natura propria all uomo è la ratio) e della società (politica e buon governo) in modo virtuoso: agire in modo virtuoso per condizionare i desideri e i 12

13 bisogni in modo virtuoso. Ribadiamo che per A. la deliberazione e la scelta non concernono i fini ma solo i mezzi. Questo perché A., contro Platone, opera una distinzione tra etica e razionalità. Non è la ragione, il logos, ma la virtù etica che in definitiva determinerà i fini buoni dell azione. Quindi: orexis dominata dalla virtù (desiderio virtuoso) produzione di buoni fini deliberazione scelta azione. 13

14 La saggezza pratica (phronesis) (EN VI) L analisi della saggezza pratica costituisce uno dei contributi più importanti di Aristotele all etica. Con questa analisi e, potremmo dire, con l invenzione della saggezza pratica, Aristotele supera l intellettualismo socratico che aveva influenzato Platone, e impone una distinzione netta tra la sapienza teorica (sophia) e la saggezza pratica (phronesis). Il sapere teorico funziona in modo del tutto indipendente dalle emozioni, con la sua logica basata su induzione e dimostrazione, e non ha alcuna influenza sull azione. In compenso, il sapere pratico, la phronesis, è un miscuglio di intelligenza (ragione) e desiderio, ed è lui che determina l azione. Grazie alla phronesis l universo delle emozioni e passioni umane ottiene una razionalizzazione e può essere così oggetto di ricerca per il filosofo morale. Aristotele introduce la sua analisi della saggezza pratica dopo aver trattato dell orexis, la parte desiderativa dell anima, e le virtù etiche. In effetti, abbiamo già visto che la virtù è un giusto mezzo determinato in modo razionale; e all inizio del libro VI, libro in cui Aristotele comincia l analisi delle virtù dianoetiche, cioè di quelle della parte intellettuale dell anima, Aristotele si collega direttamente alla questione del giusto mezzo: 1138b16-35 (p. 223 Natali) Siccome ne è il criterio. Ecco ciò che dice il passaggio: 1) abbiamo definito la virtù etica come scelta del giusto mezzo determinato dalla retta ragione (orthos logos). Bisogna quindi determinare che cos è la retta ragione; 2) gli stati dell anima, e qui Aristotele limita il discorso agli stati virtuosi, mirano: - ad un certo scopo che l uomo dotato di ragione persegue; 14

15 - alla determinazione di alcuni mezzi che si trovano tra l eccesso e il difetto, proprio a causa del fatto che essi sono determinati dalla retta ragione. Ora, poiché la retta ragione ha la funzione di condurre l uomo ragionevole a dei buoni scopi, e quella di determinare i mezzi tra l eccesso e il difetto (proprio le virtù che, come abbiamo visto, sono dei mezzi per l azione), allora si rivela necessario (i) mostrare la verità di ciò che si è appena detto, (ii) definire la retta ragione e mostrare in che modo essa si manifesti (cioè, per mezzo di che e in funzione di che cosa essa si realizzi). (i) La retta ragione, o ragionamento corretto (orthos logos) che sceglie il giusto mezzo è il ragionamento dato dalla saggezza pratica (phronesis) che è una delle virtù dianoetiche o intellettuali. Essa è precisamente l eccellenza (secondo il senso di virtù visto) della parte calcolatrice (loghistikon) dell anima, la parte che ha a che fare con le cose che dipendono da noi. E questa parte che dirige le scelte, che produce il desiderio corretto, e di conseguenza i fini buoni, così come i mezzi per agire in vista di questi fini buoni. La phronesis è la capacità di deliberare bene in rapporto a ciò che è buono per colui che delibera (VI, 5, 1140a28). E da notare che Aristotele, all inizio del VI libro (capitolo 2), ripropone nuovamente la distinzione tra virtù etiche e virtù dianoetiche vista in precedenza. Essa, però, si basa su una nuova distinzione delle parti dell anima. Da una parte abbiamo 1) l anima irrazionale, dominata dalla ragione, da cui dipendono le virtù etiche; dall altra abbiamo 2) l anima razionale, a sua volta divisibile tra 2a) parte che contempla le verità eterne e necessarie (la parte scientifica, che concerne le cose che non dipendono da noi) e 2b) parte che considera le cose che possono essere diverse da quello che sono: si tratta della parte calcolatrice che delibera, cioè della saggezza pratica che riguarda le cose che dipendono da noi (e che in questo 15

16 senso potrebbero anche essere diverse da quello che sono, perché io posso decidere di fare una cosa, ma anche di non farla). Parte scientifica e parte calcolatrice, cioè sapienza e saggezza costituiscono alcune delle virtù dianoetiche. Ciò che è stato considerato quasi scandaloso da parte di alcuni filosofi etici contemporanei è l affermazione, ripetuta a più riprese da Aristotele, secondo cui la saggezza pratica non si occupa dei fini dell azione umana, ma solo di come realizzare tali fini, cioè dei mezzi: VI 13, 1144a6-9 (p. 249 Natali): Inoltre che porta ad esso ; 1145a4-6 (p. 255 Natali): E chiaro che porta al fine. In quest ultima frase il greco è ambiguo e la tesi che stiamo sostenendo funziona solo se si identifica l una con la virtù, e l altra con la saggezza. Sarebbe quindi la virtù che pone il fine (parte desiderativa razionalizzata) e la saggezza (deliberazione) che fornisce i mezzi che realizzano (grazie all azione) il fine. Però qui andrei cauta perché il greco non è chiaro per niente. Perché non si accetta la posizione di Aristotele? Perché nel dibattito contemporaneo si è manifestata una crisi della ragione teorica e della ragione tecnica, crisi che ha condotto a porre l esigenza di ritrovare una razionalità dei fini; qualcuno ha voluto trovare nella concezione aristotelica della phronesis un modello di ragionamento atto ad analizzare i fini dell azione in modo razionale. Ciò ha suscitato le critiche di altri filosofi, che hanno giustamente obiettato che la phronesis aristotelica non si occupa dei fini. Ma qualcuno ha cercato comunque di trovare passi che dimostrano che in fondo la phronesis ha anche il compito di determinare i fini. Tuttavia, ci sono passi in cui Aristotele afferma chiaramente che la phronesis si occupa solo dei mezzi per realizzare i fini. 16

17 Le virtù intellettuali: distinzione e separazione delle forme di razionalità e di sapere Aristotele (capitolo 3) opera una distinzione tra cinque tipi di virtù intellettuali, che vanno intese come egli stesso dice come stati abituali dell anima: 1) techne (arte) 2) episteme (scienza) 3) phronesis (saggezza pratica) 4) sophia (sapienza teoretica: scienza più intelletto) 5) nous (intelletto). Il ragionamento è il seguente: a) due sono le parti razionali dell anima (1139a5-9): i) quella che contempla le cose necessarie e ii) quella che considera le cose che possono stare in maniera diversa da come sono; b) le due parti razionali dell anima hanno entrambe la verità come funzione (1139a16-30, p. 225 Natali), quella teorica perché ha per oggetto verità ed errore, quella pratica perché ha in vista il bene, che è la verità che si trova in accordo con il desiderio corretto. Di conseguenza, gli stati che favoriscono un maggior grado di verità per ogni parte razionale dell anima costituiscono le virtù proprie all una e all altra, cioè la loro eccellenza: tali sono le cinque virtù dianoetiche. Aristotele stabilisce e definisce la phronesis sulla base delle somiglianze e delle differenze tra essa e le altre virtù intellettuali. La prima cosa importante da osservare è che arte, scienza, saggezza pratica, sapienza teorica e intelletto sono, come abbiamo visto, delle exeis, degli stati abituali dell anima. Per esempio la scienza, non è semplicemente un corpus organizzato di conoscenze ottenute per induzione e deduzione (come è più naturale pensare), ma anche uno stato dell anima, che conosce 17

18 scientificamente. Scienza (VI, 3) 1141a18-20 (p. 235 Natali): è necessario che il sapiente delle cose più eccellenti. i) La scienza ha come oggetto le cose necessarie (che non possono essere diverse da quello che sono) ed eterne (che sono sempre quello che sono, e quindi né si generano né si corrompono). Es: i triangoli, che hanno sempre tre angoli. ii) Principi o assiomi della scienza. Negli Analitici secondi Aristotele spiega che le nostre conoscenze scientifiche derivano da conoscenze precedenti, ottenute o tramite induzione (es: tutti i triangoli hanno tre angoli: si tratta di una generalizzazione che avviene sulla base dell esperienza, dopo aver cioè constatato che il triangolo x ha tre angoli, e poi il triangolo y ha tre angoli, ecc.), o tramite deduzione (intese come conclusioni di dimostrazioni precedenti. Es.: la somma interna dei tre angoli del triangolo è uguale a 180, deduzione che avviene a partire dalla definizione del triangolo). Si tratta in ogni caso di proposizioni universali, di principi e assiomi, punto di partenza per qualunque deduzione. iii) Deduzioni. In un ottica aristotelica possiamo parlare di sillogismo (dimostrativo), che parte da principi primi (o risultato di dimostrazioni precedenti) per dimostrare l appartenenza di proprietà essenziali all oggetto della scienza: es. AaB, BaC, quindi AaC La conclusione stabilisce l appartenenza della proprietà C ad A (soggettooggetto della scienza) sulla base di due premesse. Ovviamente le cose non sono così semplici, perché non ogni dimostrazione può avvenire in forma sillogistica: ma questa sarebbe la 18

19 condizione ideale della scienza, almeno secondo Aristotele. In conclusione (1139b31, p. 229 Natali), la scienza è uno stato abituale dell anima razionale che produce dimostrazione (exis apodeiktiké). Arte(o tecnica) e saggezza pratica (VI, 4) i) Tutte e due si occupano di cose che possono essere differenti da come sono (non necessarie né eterne). Ora: - l arte si occupa della produzione (es. un letto che posso produrre in differenti modi) - la saggezza pratica si occupa dell azione, anch essa passibile di essere diversa da quella che è (realizzata). Ma produzione e azione sono due cose totalmente differenti, cosicché l arte (stato abituale produttivo accompagnato dalla ragione) sarà differente dalla phronesis (stato abituale pratico accompagnato da ragione). ii) principio Il principio dell arte risiede nella persona che produce, quello della phronesis nella persona che agisce. Resta il fatto che la produzione è differente dall azione perché nella prima il processo di produzione è distinto dal risultato (un letto si distingue dalla sua produzione), nella seconda no (azione e risultato dell azione si identificano). Produzione e azione si differenziano e devono restare separate, soprattutto se si vuol comprendere ciò che la phronesis, che governa l azione, è. Ora, ci dice A. all inizio del 5 capitolo del VI libro (p. 231 Natali), possiamo comprendere che cos è la saggezza osservando le persone che consideriamo sagge (sorta di empirismo sempre presente in Aristotele).1140a25-28 (p. 231 Natali): Indizio ne è il fatto sarà saggio. Sembra quindi che la caratteristica del saggio sia la capacità di deliberare 19

20 bene su ciò che è buono e utile per lui. Qui troviamo una definizione (appunto di saggio ) che abbiamo già commentato: si noterà che il contesto per inquadrare la definizione è sempre l opinione o il dato esperienziale su cui si è (più o meno) d accordo. Tuttavia (righe 31-32, p. 231 Natali) non possiamo deliberare sulle cose che non dipendono da noi (per esempio, non possiamo deliberare sull eternità dell universo), né sulle azioni che non dipendono da noi. Quindi, la phronesis non sarà né una scienza né un arte (1140b1-6, p. 231 Natali): (a) non sarà scienza perché il contenuto dell azione può essere differente da ciò che esso è (voglio ottenere la salute, mangio del pollo, ma potrei aver anche mangiato dei broccoli ); (b) non sarà arte perché azione e produzione appartengono a generi differenti (l arte produce cose, l azione appunto azioni). La phronesis verrà allora definita per via negativa (1140b4-6, p. 231 Natali): Allora rimane solo che la saggezza sia uno stato abituale e veritiero, unito a ragionamento, pratico, che riguarda ciò che è bene e ciò che è male per l uomo. Stato abituale veritiero = che coglie il vero bene e i veri mezzi per realizzarlo (basato su opinioni vere?); unito a ragionamento = funzione calcolatrice; pratico = che riguarda l azione che riguarda ciò che è bene e ciò che è male per l uomo = non rivolto al vero e al falso, come invece lo è la ragione teoretica. Insomma: ciò che caratterizza la saggezza riguardo alle altre exeis è la deliberazione (che riguarda ciò che è bene e ciò che è male per l uomo). Ricordiamo che la deliberazione ha a che fare con il volere (tendenza che pone il fine), la scelta (che calcola i mezzi per il raggiungimento del fine) e 20

21 l azione (che realizza il fine). Le altre due exeis menzionate da A. (a parte arte e scienza, che abbiamo già considerato) sono intelletto (nous) e sapienza (sophia). L intelletto coglie i principi, la sapienza è una combinazione di intelletto e scienza, e quindi coglie i principi e dimostra a partire dai principi. Essa si identifica con la filosofia, cui A. dedica una serie di trattati, quasi tutti riuniti nella sua opera Metafisica. Nel capitolo di EN che stiamo analizzando, A. ci dice chiaramente che la filosofia è una scienza dimostrativa. Sia la scienza che la filosofia che la saggezza sono sia stati abituali de soggetto che li possiede (io posso essere scienziato, filosofo o saggio), sia discipline con loro contenuti (es. la scienza della geometria, la filosofia che riguarda l essere, la saggezza che riguarda l etica). A. stabilisce altrove (nei Secondi analitici) che ogni disciplina ha i suoi principi, oggetti e dimostrazioni (per es. la geometria ha come oggetto le figure geometriche, come principi gli assiomi, per es. il triangolo ha tre lati, e le dimostrazioni che derivano dagli assiomi). Per quel che riguarda la saggezza pratica, abbiamo già visto quali sono i suoi oggetti (azioni (o contenuto delle azioni), che possono essere diverse da come sono) e i suoi principi (principi pratici, che sono offerti sia dagli endoxa (vedi sopra, prima parte della dispensa, metodo dell etica) e dalle virtù etiche. Ma che dire dei suoi ragionamenti? Ne abbiamo accennato già in precedenza, quando, a proposito della deliberazione, abbiamo parlato di sillogismo pratico (vedi sopra). Per concludere, affronteremo in maniera più dettagliata questo sillogismo. 21

22 Il sillogismo pratico Per Aristotele c è sicuramente un ragionamento pratico, nel senso in cui il sapere pratico non è intuitivo ma richiede un percorso con una sequenza di tappe.: io. deliberazione dei mezzi per ottenere lo scopo (volere, scelta, azione)... scopo La domanda che si pone è la seguente: si può parlare di sillogismo anche in questo caso? Se sì, di che genere di sillogismo si tratta? Insomma, il ragionamento pratico possiede una struttura logica o no? Ecco cosa A. dice nell Eica a Eudemo II, 11, 1227b28-32: Così come le scienze teoriche possiedono delle ipotesi e dei principi, allo stesso modo per le scienze pratiche il fine è il principio e l ipotesi: dato che una persona dev essere in buona salute, è necessario avere questo perché si verifichi quello, come nelle scienze teoriche, se il triangolo ha gli angoli uguali a due retti, questa cosa ne risulta di necessità. Avremo quindi un parallelo tra deduzione scientifica e ragionamento pratico: scienza: ipotesi: es. il triangolo ha tre angoli uguali a due retti qualcosa ne risulta di necessità; saggezza pratica: ipotesi (= scopo): es. essere in buona salute qualcosa ne risulta di necessità. Detto questo, la questione del sillogismo pratico è molto controversa. Le perplessità degli studiosi riguardano soprattutto la sua esistenza. Da una parte, il problema è che A. non parla mai di sillogismo pratico, 22

23 nemmeno in quei passi in cui cataloga i sillogismi (negli Analitici primi (68b10-11), A. menziona il sillogismo dimostrativo, dialettico, retorico, e addirittura quello eristico, che non è un vero sillogismo, in quanto non è concludente). D altra parte, nei Topici (105b19-25), opera sulla dialettica, l arte argomentativa di origine socratico-platonica, A. afferma che nei sillogismi ci sono tre tipi di premesse: etiche, fisiche e dialettiche (nel senso di logiche). Egli sembra quindi implicare che la forma sillogistica si applica a fisica, logica e etica, di modo che non ci sarà alcuna distinzione di sillogismi se non grazie alla natura delle premesse. L etica si servirà di premesse etiche, ma il modello di ragionamento sarà lo stesso di quello di logica e fisica. Aggiungiamo che negli Analitici primi (46a3-4) A. afferma che il metodo quivi descritto (appunto, il sillogismo) è lo stesso per qualunque ragionamento e disciplina. La questione dei principi Per ogni scienza ci sono principi (assiomi) propri e che sono necessari per una scienza e non per un altra. Questi principi stabiliscono una distinzione assoluta tra le scienze, e una indipendenza totale tra loro. I principi derivano, come abbiamo già visto, dall induzione e dall intelletto (ed è la dialettica che li trova, vedi sopra, prima parte della dispensa, il metodo degli endoxa). Possiamo pensare che i principi si costituiscano nel modo seguente (ci serviremo di un esempio per illustrare il procedimento): 1) noto una cosa che ha una forma triangolare (percezione); 2) noto più cose (una dopo l altra o insieme) che hanno forma rettangolare (esperienza 1 ); 3) noto che ci sono più tipi di forma triangolare (isoscele, scaleno, equilatero) (esperienza 2 ); 23

24 4) finalmente, grazie all induzione (ragionamento generalizzante), mi costruisco un concetto unitario di triangolo, che ha le proprietà di tutti i triangoli individuali (universalizzazione del concetto); 5) a questo punto fornisco una definizione di triangolo: il triangolo ha tre lati e tre angoli (principio). Una volta costruito questo principio, lo evocherò tutte le volte di cui ne ho bisogno, tramite l intelletto, in modo rapido (quasi intuitivo) e autoevidente. Potremmo pensare che nel caso della saggezza pratica ci sia un processo analogo. Ma A. complica un po le cose, affermando (EN VI, 1143b1-3, p. 247 Natali): un tipo di intelletto, a proposito delle dimostrazioni, riguarda i termini primi e immutabili, l altro tipo, nell ambito della prassi, riguarda l estremo, cioè quello che può essere diversamente, e l altra premessa. Vedi anche sopra, citaz. Etica a Eudemo, 1227b28-32 (in cui si evince che la prima premessa, universale, non è colta dall intelletto, ma dalla virtù etica, cioè dall esercizio). A. distingue tra due tipi di intelletto: da una parte abbiamo quello teoretico, che coglie i principi primi (assiomi, definizioni), che sono il punto di partenza delle dimostrazioni; d altro lato abbiamo un altro intelletto, che riguarda l estremo, che può cambiare, e la seconda premessa (qui l estremo dev essere il particolare, cioè l azione da eseguire in vista del fine, che costituisce la seconda premessa del sillogismo pratico: ad esempio chi passeggia avrà una buona salute ). L intelletto qui è ambiguo: da una parte è lo stato teoretico che ci permette di cogliere i principi primi; dall altra è uno stato pratico che ci fa cogliere il particolare, l azione da compiere per raggiungere il fine. Nei due casi, la sua caratteristica è di cogliere immediatamente (senza 24

25 ragionamento) il suo oggetto (definizioni o principi scientifici; casi pratici particolari). Il nous (intelletto) pratico, dunque, è una sorta di sensibilità pratica che concerne il caso singolo. La differenza tra la saggezza pratica e l intelletto pratico è che la prima riguarda tutto il procedimento della scelta e realizzazione dei mezzi (finno alla spinta all azione), la seconda il coglimento immediato dell azione da eseguire per realizzare un determinato fine. Esempio di sillogismo pratico (1) principio o prima premessa (proposizione universale che enuncia il fine da perseguire): chi ha una buona digestione è sano; (Per gli esempi di questo tipo vedi Analitici secondi 94b8-23; Etica a Eudemo, 1226a7-17. Ovviamente non è necessario che questa premessa sia esplicitamente formulata. In effetti, come è stato osservato, il ragionamento pratico è una ricostruzione virtuale di ciò che avviene fulmineamente.) (2) seconda premessa (un termine particolare, un azione da eseguire in vista del fine): chi passeggia avrà una buona digestione (L intelletto, come abbiamo visto, coglie questa seconda premessa come azione da eseguire per realizzare il fine posto dalla prima premessa.) (3) conclusione: azione del passeggiare. (La conclusione è un giudizio che fa agire, oppure la stessa azione del passeggiare? Gli studiosi sono divisi, anche perché ci sono testi aristotelici in contrasto: EN 1147a25-28 sembra dire che la conclusione è un azione, mentre EE 1127b33 ss. e Analitici secondi II 11 sembrano invece dire che la conclusione è un giudizio, a sua volta principio di azione. Ma non affronteremo qui il problema, complicato e di difficile soluzione.) La saggezza pratica (phronesis) comprende la prima premessa; stabilisce la seconda premessa (colta anche dall intelletto, che però è inerte, non spinge all azione), scegliendo tra le altre possibili azioni atte a realizzare il 25

26 fine; spinge all atto. Opera quindi una sorta di mediazione tra la prima premessa e la situazione concreta, per sottomettere i dati al fine che si trova nella prima premessa. Essa deve deliberare e scegliere per provocare l azione che realizzi il fine. La phronesis ha la funzione di trasmettere il desiderio del fine ai mezzi che si possono realizzare praticamente. Ma chi stabilisce i principi pratici, cioè le prime premesse dei sillogismi pratici, gli scopi da ottenere? La virtù etica, che a sua volta deriva da un processo di esercizio. In questo processo il soggetto, prima sotto la direzione altrui (padre, maestro, ecc.), in seguito da solo, prende l abitudine di compiere delle azioni virtuose fino a raggiungere il piacere di compierle, in modo del tutto consapevole (vedi EN 1103a32-b1, p. 47 Natali: acquisiamo le virtù con atti coraggiosi ). E vero quindi che, nell acquisizione dei principi etici, si assiste a un procedimento analogo a quello dell acquisizione dei principi teorici (vedi sopra, es. del triangolo): EN II 1, 1103b14-25, p. 49 Natali: è compiendo le transazioni anzi, è tutto. Quando ad esempio si agisce nel caso del pericolo, ci si abitua a provare paura o coraggio, in modo tale che alcuni tra noi diventano coraggiosi, altri vigliacchi. I coraggiosi si abituano a essere sempre coraggiosi, anche negli altri casi a venire. Stessa cosa per ogni virtù etica. Dunque, all induzione teorica fa pendant l abitudine (ethimos) pratica (vedi EN I 7, 1098b4-5), un processo grazie a cui si arriva a compiere azioni belle in modo virtuoso. Questa stessa abitudine ci farà porre dei fini buoni da perseguire. L azione per A. sarà il risultato della ragione e del desiderio. Per avere un azione virtuosa bisognerà avere (EN VI 2, 1139a23-31, p. 225 Natali): i) un ragionamento vero; 26

27 ii) un desiderio corretto. Il primo deve affermare (es. passeggiare fa bene alla salute), il secondo perseguire lo stesso oggetto (il passeggiare, che fa bene alla salute). In conclusione: a) il possesso della virtù permette di porre la prima premessa, pratica e universale (vedi EN X 8, 1178a16-19, p. 433 Natali: i principi della phronesis sono secondo le virtù etiche): questo è possibile perché la virtù è unione tra anima irrazionale (orexis, desiderio) e la ragione; b) ciò che è essenziale è acquisire i principi pratici, ciò che è possibile fare attraverso l abitudine (processo, come abbiamo visto, analogo all induzione). Si potrà avere anche una discussione dialettica dei principi: ma essa per A. non è indispensabile per essere eticamente virtuoso. Quello che è certo è che la phronesis, che presiede al ragionamento pratico, richiede un buono stato di equilibrio psichico e una buona capacità di resistere al piacere e al dolore. In effetti, la trasmissione del desiderio (corretto) può essere deviata dall influenza delle passioni (vedi EN VI 5,1140b13-20, p. 233 Natali). Nel caso in cui qualcuno comprenda la seconda premessa con l intelletto, ma non arrivi a trasmettere il desiderio in modo corretto, si avrà una debolezza del volere. Contro l intellettualismo socratico, A. sostiene la tesi secondo cui si può sapere ciò che è bene senza agire di conseguenza. Questo avviene se la seconda premessa viene conosciuta in modo incorretto, cioè non è oggetto di desiderio e ragione. In questo caso si avrà un conflitto di desideri: un desiderio universale buono (voglio essere in buona salute), che sarà in conflitto con un desiderio particolare cattivo (es. voglio fumare una sigaretta). Cf. EN VII 5, 1147a33-35 (p. 269 Natali): il desiderio (gustare qualcosa 27

28 di dolce) vincerà sulla premessa universale (evitare di mangiare dolci.) 28

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