L'approccio rogersiano e la psicoanalisi 1



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Transcript:

L'approccio rogersiano e la psicoanalisi 1 Paolo Migone Le problematiche poste dall'approccio rogersiano hanno sempre rappresentato una sfida per tutti gli altri approcci, compreso quello psicoanalitico. La possibilità che i fattori terapeutici siano proprio quelli tradizionalmente definiti "aspecifici" (come indicano da alcune pionieristiche ricerche rogersiane) rappresenta naturalmente una minaccia per quelle scuole la cui identità poggia proprio su un particolare fattore "specifico". La psicoanalisi è un tipico esempio. Ripercorrendo qui criticamente il suo percorso, nella storia della psicoterapia il capitolo della psicoanalisi si aprì quando il suo fondatore, Sigmund Freud, ipotizzò che determinati sintomi isterici potevano essere risolti riportando alla coscienza il ricordo rimosso di eventi traumatici passati; successivamente, dopo l'abbandono della teoria della seduzione, Freud teorizzò che si otteneva una risoluzione più duratura di questi sintomi rielaborando non tramite ipnosi, ma allo stato di veglia tramite le "associazioni libere", il ricordo di desideri e fantasie che erano stati rimossi perché in conflitto con altre istanze psichiche. Secondo questa nuova concezione quindi, al posto del trauma "reale" Freud collocò 1 Atti del 11 Congresso Italiano della Associazione Europea della Psicoterapia Centrata sul Cliente e dell'approccio Centrato sulla Persona \ "Carl Rogers" (ACP), Arco di Trento, 3-5 maggio 1991, Da persona a persona: qualità della relazione umana nella società che cambia - Tavola rotonda sul tema "Comuni denominatori in psicoterapia". 1

desideri e fantasie, i quali se non venivano elaborati e reintegrati rimanevano nella psiche come una specie di "corpo estraneo" producendo i sintomi. E' per questo che l'intervento specifico della psicoanalisi divenne l'interpretazione del materiale inconscio. Ciò ha portato a privilegiare, nella storia del movimento psicoanalitico, questo aspetto a scapito del rapporto affettivo, fino ad arrivare a quello che è diventato lo stereotipo della tecnica "classica" o "ortodossa": analista freddo e distaccato, lunghi silenzi per limitare gli interventi solo alla interpretazione, ecc. Si è insomma andati verso la tendenziale abolizione delle "impurità" del rapporto emotivo, come se esso fosse foriero solo di suggestione, allo scopo di isolare l'interpretazione, fattore terapeutico par excellence della psicoanalisi, e metterla alla prova in quasi un secolo di esperienze cliniche; per vari motivi anche sociologici, quali il bisogno di differenziarsi dalle altre psicoterapie che diventavano sempre più competitive (Migone, 1989), ci si allontanò dalla stessa concezione di Freud il quale in varie occasioni affermò - non bisogna dimenticarlo - che l'insight può avvenire solo all'interno di un rapporto facilitante, spingendosi una volta anche a dire che è il transfert positivo, non insight intellettuale, "quello che fa pendere il piatto della bilancia" (Freud, 1913; 1916-1917, p. 445). Sono questi gli sviluppi forse alla radice della crisi attuale della psicoanalisi: ridimensionamento dei risultati terapeutici, diminuzione di pazienti e del numero di sedute settimanali, crisi della sua immagine sociale (ora dal Nordamerica in fase di esportazione nel vecchio continente), crisi teorica e possibile viraggio di paradigma (maggiore enfasi alle cosiddette "relazioni oggettuali" a scapito del mondo interiore), riabilitazione di figure precedentemente "scomunicate" quali Ferenczi (che privilegiava l'importanza del rapporto affettivo), Sullivan (che sottolineava il ruolo dei rapporti interpersonali a scapito della "teoria delle pulsioni"), e così via (Eagle, 1992). Ma uno dei più interessanti sviluppi, che si può considerare anch'esso all'interno della teoria delle relazioni oggettuali, è il movimento della "Psicologia del Sé" di Kohut, che è forse la più potente corrente di dissidenza nella psicoanalisi contemporanea. Il movimento kohutiano non casualmente sorse all'interno della tradizione della "scuola di Chicago", il cui principale esponente fu Alexander, che negli anni '40 col concetto di "esperienza emozionale correttiva" (Alexander e t al., 1946) sfidò la teoria classica della cura (si veda qui però la dura critica di Eissler [1950], tutt'ora attuale); a sua volta, la scuola di Chicago si può dire che si ricolleghi idealmente alla "scuola ungherese", cioè a Ferenczi, le cui coraggiose posizioni sull'importanza del rapporto affettivo furono l'occasione della rottura con Freud. Kohut, soprattutto nei suoi ultimi scritti, scelse di rompere ogni compromesso con l'ortodossia per fondare una nuova psicologia basata su concetti come "empatia", "Sé", ecc. Come sottolinea Valeria Vaccari (1992), si può parlare della "scoperta" da parte di Kohut di questi concetti solo se si ignorano le precedenti posizioni di Rogers, e ancor prima, della antropo-fenomenologia europea. Ad ogni buon conto, e senza entrare approfonditamente nel merito delle posizioni di Kohut, si può dire che a livello sociologico esse furono una reazione di massa ai danni iatrogeni della psicoanalisi classica la cui tradizione era appunto più viva nel Nordamerica (neutralità, anonimità, astinenza, lunghi silenzi, ecc.). Questa 2

specie di "deprivazione del rapporto emotivo", essendo ovviamente illusoria sia in teoria che in pratica, si è spesso tramutata in un rapporto emozionale negativo tout court, cioè in una frustrazione narcisistica cronica; non è un caso che molte delle analisi kohutiane erano seconde analisi dopo analisi ortodosse fallite. Galli (1988a, 1988b) ha mostrato molto bene come la degenerazione della cosiddetta tecnica "classica" sia avvenuta grazie a un preciso modo di trasmettere la teoria, dove determinati concetti o interventi (atteggiamento analitico, silenzio dell'analista, neutralità, lettino, ecc.) venivano insegnati e utilizzati a prescindere dal contesto teorico in cui erano stati formulati (contesto teorico che nel corso del secolo si è decisamente modificato e frammentato in diverse scuole), in modo tale da innalzare mostruosamente la tecnica al rango di teoria, come se la tecnica, ormai vuota e "sacralizzata", potesse giustificarsi autonomamente (vedi Migone, 1991a, 1991b). Per tornare alle problematiche poste dall'approccio rogersiano, si può dire che esse siano per certi aspetti simili a quelle, del resto sempre esistite in psicoterapia, poste in psicoanalisi da Kohut, che pure postula una autonoma "tendenza formativa" del Sé in presenza di un ambiente accettante. Ma a ben vedere, questa concezione della terapia sottende anche ad una precisa teoria dello sviluppo, che ad esempio Eagle (1991, p. 40), sulla scorta di Mitchell (1988), non esita a definire "botanica", nel senso che ricorda la crescita di una pianta alla quale si dia sufficiente luce ed acqua; qui non è in questione il potere esplicativo di questa metafora nel ritrarre alcuni aspetti dello sviluppo infantile e della terapia, ma la sua utilità per comprendere tutta la complessità dell'esperienza umana. Ho la sensazione comunque che neppure il rifiuto di una teoria del deficit in favore di una teoria del conflitto renda ragione di questa complessità, e che abbia ragione Eagle (1984, cap. 11) quando auspica un superamento di false dicotomie quali confitto/deficit o desideri/bisogni, nel senso che si tratta di facce di una stessa medaglia. Ma vorrei stimolare il dibattito ponendo alcune domande sull'approccio rogersiano. Innanzitutto, a livello teorico, dovrebbero essere definiti con precisione quali concetti differenziano qualitativamente l'approccio rogersiano dalla antropo-fenomenologia. Chiarito questo, che ha rilevanza per l'identità di questo approccio, ci si può chiedere, a livello tecnico, perché non dovremmo considerare le condizioni dell'approccio Centrato sulla Persona (congruenza, considerazione positiva incondizionata, empatia) come ingredienti essenziali di qualunque rapporto terapeutico, e non solo di quello rogersiano. Il fatto che altre tecniche terapeutiche (come la psicoanalisi, il comportamentismo, ecc.) non abbiano sottolineato questi aspetti, potrebbe dipendere da certe distorsioni, come si è visto per la psicoanalisi, o da fenomeni tipici dello sviluppo iniziale di una scuola. Se fornissimo al paziente, sempre all'interno di un clima facilitante (empatia, ecc.), ulteriori strumenti "specifici" (interpretazione, decondizionamento, ecc.), non potrebbe venirne arricchito? In altre parole, siamo sicuri che, oltre agli ingredienti di base dell'approccio rogersiano, al paziente "non possiamo dare di più"? 3

Dietro a queste domande vi può essere un modo sbagliato di impostare il problema, quello di concepire gli ingredienti dell'approccio rogersiano come "alternativi" o in opposizione a un approccio che usa, oltre a questi, anche altre tecniche. Questo potrebbe essere un errore uguale e contrario a quello dei freudiani: considerare un intervento specifico come disturbo del clima facilitante. Perché mai offrire empatia dovrebbe impedire di fornire al paziente nuovi strumenti cognitivi? Al contrario, un clima facilitante dovrebbe aumentare l'effetto di altri fattori terapeutici. In che modo ad esempio può essere negativo lavorare sul transfert, cioè avanzare con il giusto tatto al paziente l'ipotesi che egli in seduta ripeta comportamenti da lui mostrati verso altre persone significative? E' possibile qui che la critica rogersiana si basi su una concezione antiquata della psicoanalisi. Inoltre se vanno elogiate le pionieristiche ricerche rogersiane sui fattori terapeutici, sarebbe giustificato ora procedere ad individuare fattori più "specifici" (questo in fondo mi sembra fece Rogers quando, studiando il "clima facilitante", è arrivato a definire meglio le tre condizioni di "congruenza, considerazione positiva incondizionata, empatia"). In altre parole, se il movimento rogersiano è stato così anticipatore nel campo della ricerca, non rischia ora di rimanere indietro rispetto ai progressi fatti ad esempio dalla ricerca psicoanalitica, tesa a dimostrare non solo il ruolo facilitante della alleanza terapeutica (Helping Alliance), ma anche l'efficacia della interpretazione di transfert? (Luborsky, 1984; et al, 1990; 1992). Dietro a tutte queste domande, vi è un problema più generale: l'approccio rogersiano spesso viene collocato all'interno della psicoterapia "umanista", come se gli altri approcci fossero "disumanizzanti". Non è questo un vecchio cliché, dietro al quale si nasconde anche la vecchia dicotomia tra scienze umane e scienze naturali, usata qui in modo strumentale? (vedi Fornaro, 1991, p. 120). Ritengo che, se si vuole veramente iniziare a confrontarci e ad abbattere una delle tante pretestuose barriere tra scuole, sarebbe meglio concepire un atteggiamento "centrato sulla persona" come base comune di tutte le psicoterapie, dalla quale, in un contìnuum, si diversificano altri fattori più specifici. 4

Bibliografia Alexander F., French T.M. e altri (1946). Psychoanalytic Therapy: Principles and Applications. New York Ronald Press (trad. it. dei capitoli 2, 4 e 17, col titolo "La esperienza emozionale correttiva", in stampa su Psicoterapia e scienze umane, 1993, XXVI, 2). Eagle M.N. (1984). La psicoanalisi contemporanea. Bari: Laterza, 1988. Eagle M.N. (1991). Cambiamenti clinici e teorici in psicoanalisi: dai conflitti ai deficit e dai desideri ai bisogni. Psicoterapia e scienze umane, XXV, 1:33-46. Eagle M.N. (1992). La natura del cambiamento teorico in psicoanalisi. Psicoterapia e scienze umane, XXVI, 3: 5-33. Eissler K.R. (1950). Il Chicago Institute of Psychoanalysis e il sesto periodo dello sviluppo della tecnica psicoanalitica. Psicoterapia e scienze umane, 1984, XVIII, 3: 5-33 (I parte), e 4: 5-35 (II parte). Fornaro M. (1991). A proposito della "nuova terapia cognitiva". Psicoterapia e scienze umane, XXV, 2:119-121. Freud S. (1913). Nuovi consigli sulla tecnica della psicoanalisi: 1. Inizio del trattamento. Opere di Sigmund Freud, 7:333-352. Torino: Boringhieri, 1975. Freud S. (1916-17). Introduzione alla psicoanalisi. Parte DI: Teoria generale delle neurosi. Opere di Sigmund Freud, 8:407-419. Torino: Boringhieri, 1976. Galli P.F. (1988a). Le ragioni della clinica. Psicoterapia e scienze umane, XXII, 3:3-8. Galli P.F. (1988b). Teoria clinica e pratica psicoterapeutica tra dogmi e stereotopie/clinical theory and psychotherapeutic practice between dogmas and stereotypes. Per la salute mentale/far Mental Health, 1, 2/3:113-119. Luborsky L. (1984) Princìpi di psicoterapia psicoanalitica. Manuale per il trattamento supportivo-espressivo. Torino: Boringhieri, 1989. Luborsky L, Barber J.P., Crits-Christoph P. (1990). La comprensione del processo della psicoterapia ad orientamento dinamico: la ricerca a base teorica. Rivista di Psicologia Clinica, 2:126-141. Luborsky L. (1992). Tecnica e teoria della psicoterapia dinamica: i fattori terapeutici e la formazione per incrementarli. Psicoterapia e scienze umane, XXVI, 3: 43-56. Migone P. (1989). La teoria psicoanalitica dei fattori curativi. Il Ruolo Terapeutico, 52: 40-45. Migone P. (1991a). La differenza tra psicoanalisi e psicoterapia: panorama storico del dibattito e recente posizione di Merton M. Gill. Psicoterapia e scienze umane, XXV, 4: 35-65. Migone P. (1991b). Trauma «reale» e futuro della psicoanalisi. Giornale Italiano di Psicologia, XVIII, 5: 707-713. Mitchell S. (1988). Relational Concepts in Psychoanalysis:An Integration. 5

Cambridge, MA: Harvard University Press (trad. it. in preparazione preso Bollati Boringhieri). Vaccari V. (1992). Ancora a proposito di «equivalenze concettuali». Psicoterapia e scienze umane, XXVI, 1:133-136. 6