ALLA RICERCA DI UN CODICE INTERPRETATIVO

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1 MOSTRI, BELVE, ANIMALI NELL IMMAGINARIO MEDIEVALE \ 1 ALLA RICERCA DI UN CODICE INTERPRETATIVO Franco Cardini - Ordinario Storia Medievale (Università di Firenze) Articolo pubblicato per la prima volta sulla rivista Abstracta n 4 (aprile 1986), pp , riprodotto per gentile concessione dell'autore che ne detiene i diritti. Riproduzione vietata con qualsiasi mezzo. Comincia con questo intervento la serialità firmata da Franco Cardini dedicata ai mostri, belve ed animali nell'immaginario medievale. Da dove proviene la speciale amicizia e lo speciale legame tra l uomo e certe specie animali, da dove la paura, la diffidenza, lo schifo che egli nutre nei confronti di altre? Le varie leggende antiche medievali che hanno animai come protagonisti, sono soltanto esito di credenze superstiziose o prescientifiche, oppure celano un diverso e più profondo messaggio? Quel che noi proponiamo in questa rivista, è un indagine che, almeno nelle nostre intenzioni, dovrebbe svilupparsi nell arco di parecchie puntate sui caratteri originali e la genesi dell Immaginario contemporaneo. Negli ultimi decenni, antropologia culturale, psicanalisi, etologia, ci hanno obbligato a riflettere a lungo sul mondo animale e sui suoi rapporti con l uomo: totem, spirito-guida, simbolo etico-teologico, presenza onirica o più semplicemente compagno di vita o fonte di energia, di materia prima, di sostanze alimentari, l animale intrattiene con l'uomo rapporti complessi che possono giungere all'apprezzamento di una

2 connaturalità oppure alla scelta interpretativa, da parte dell'uomo, di un'eteronaturalità che però può risolversi in senso superiore (gli dei dall'aspetto ferino) o inferiore (le "bestie", i "bruti"). Fratellanza, affetto, estraneità, paura, inimicizia sono atteggiamenti che scandiscono il rapporto dell'uomo con l'animale - o con i vari animali, secondo gerarchie di valori che hanno rapporto con le visioni mitiche o scientifiche delle varie culture - e che, sovente, rappresentano anche altrettanti alibi per la crudeltà o l'avidità umane. D'altronde, lo stretto rapporto fra uomini e animali torna nel processo linguistico di transfert e di estraniamento in forza del quale noi usiamo attribuire ad animali certi vizi umani ("rabbia canina", "slealtà serpentina" eccetera); e, al contrario, nella nostra tendenza antropocentrica a spiegare mediante pulsioni e sentimenti prossimi ai nostri i gesti di animali che colpiscono la nostra attenzione. Dal Panchatantra attraverso Esopo e Fedro fino agli animali parlanti dei fumetti, questo ambiguo processo di estraniamento e al tempo stesso di osmosi è tipico della nostra cultura. Il vivere degli ultimi decenni ci ha obiettivamente allontanato dal mondo animale: il che, fra l'altro, ci ha dato l'illusione che, almeno in Occidente, l'uomo sia diventato più clemente e più civile nei suoi rapporti con loro. Molte cose, per le quali fino a qualche anno fa era necessario un animale, si fanno adesso con delle macchine; a parecchi prodotti animali, si supplisce con materiali di differente origine. La nostra strisciante ipocrisia quotidiana fa il resto: se molti di noi si scandalizzano ancora dinanzi a fenomeni (pur di natura tanto diversa) quali la caccia, la vivisezione o la corrida, lo spettacolo degli animali domestici impietosamente abbandonati dalle famiglie in partenza per le vacanze o schiacciati dalle auto ai cigli delle strade non ci scuote ormai quasi per nulla. E, se molti di noi sarebbero ancora pronti a indignarsi innanzi allo spettacolo di un cocchiere che frusti con destrezza il suo cavallo (in quanto cavalli e cocchieri non fanno più parte del nostro orizzonte quotidiano e abituale), in cambio, per tacita convenzione quasi unanimemente rispettata, evitiamo di pensare alle sofferenze degli animali in cattività (dagli zoo alle nostre domestiche gabbiette per uccellini), di quelli allevati per ricavarne pellicce pregiate - e sovente uccisi in modo di gran lunga più crudele che non il toro alla corrida - di quelli avviati ogni giorno a morte neppur sempre indolore nei macelli e le spoglie dei quali" divenute "cose", riempiono i negozi

3 alimentari. L'uomo è, per sua natura, un crudele predone: la civiltà moderna non gli ha insegnato a esser migliore, ma in cambio gli ha suggerito molte maniere di trasformarsi in predone ipocrita in modo da tacitare la propria coscienza, Con tutto ciò, gli animali continuano a signoreggiare il nostro Immaginario: e spesso, dalla psicanalisi all'etologia, li vediamo ancora rivestiti del loro aspetto archetipico, simboli divini o demonici, istigatori arcani di vizi e di virtù. Quel che noi vogliamo fare su queste pagine, è ricostruire le fila di un tessuto mentale. Com'è che l'uomo ha vissuto, nei secoli, il suo rapporto con quegli esseri che gli stavano continuamente vicini, che avevano con lui un rapporto di somiglianza e di familiarità che poteva essere più o meno articolato ma che pur rimaneva innegabile, che gli servivano in guerra, a caccia, nel lavoro, per l'alimentazione, per i trasporti, per l'abbigliamento, che potevano insidiarlo o giocare con lui, che si prestavano a diventare personaggi dei suoi miti e modelli per la sua arte? Dato il carattere di questa rivista, qualcuno si aspetterà a questo punto una scorribanda nel territorio del mito, della leggenda, dell'immagine archetipica. Senza dubbio, questo

4 territorio sarà visitato: lo sarà però con spirito critico, con volontà concretamente storica e filologica, senza concessioni al gioco della fantasia. Quel che intendiamo fare, non è rievocare vecchie e magari affascinanti immagini, bensì il domandarci puntualmente ragione di esse. Da dove proviene la speciale amicizia e lo speciale legame tra l'uomo e certe specie animali (non tutte e non necessariamente domestiche), da dove la paura, la diffidenza e lo schifo che egli nutre nei confronti di altre? Le varie leggende antiche e medievali che hanno animali a protagonisti, sono soltanto esito di credenze "superstiziose" o "prescientifiche", oppure celano un diverso e più profondo messaggio? Beninteso, non intendiamo partire dalla notte dei tempi. Sarebbe un primo e irreparabile errore metodologico: non solo perché ci obbligherebbe a chiamare in gioco una quantità di fattori - da quelli storico-religiosi a quelli paleontologici, archeologici, zoologici e via discorrendo - ma soprattutto in quanto ci esporrebbe al pericolo di tracciare una parabola omogenea e deterministica del rapporto fra uomo e animale, e di non scorgere invece le scelte, gli scarti cronologici e culturali, le lacerazioni e le rivoluzioni materiali e mentali che pur ci sono state. Si è detto, e oggi lo si ripete di frequente, che l'uomo ha affrontato nella sua storia plurimillenaria soltanto tre autentiche rivoluzioni: la prima, quando da cacciatore e raccoglitore è divenuto agricoltore e allevatore; la seconda, all'atto del lungo processo - avviatosi nel corso del XVIII secolo e non ancora concluso in tutto il mondo - della cosiddetta "rivoluzione industriale"; la terza, con la rivoluzione informatica e telematica in atto ai nostri tempi. Può darsi: e, senza dubbio, almeno i primi due di questi complessi eventi (sul terzo è forse ancora presto per pronunziarsi) hanno profondamente inciso sui rapporti fra uomo e animale. Il che, riconduce a un difficile problema storico, epistemologico ed ermeneutico: quello epocale. Hanno credibilità, hanno ragione di essere, le periodizzazioni? Ha un senso pensare in termini dì "ere"; di "età", o magari - come proponevano Spengler o Frobenius - di " cicli culturali "? Dividere e Razionalizzare in qualche modo il flusso del tempo ci aiuta davvero a dominarlo, o ce ne dà soltanto l'illusione? E che rapporto reale e concreto esiste fra lo spazio, il tempo e quelle creazioni umane che noi chiamiamo "civiltà"? Dall'India vedica all'antichità romana al medioevo cristiano si è cercato di razionalizzare la storia dell'umanità suddividendola in epoche; oggi superati i troppo facili e ottimistici schemi hegeliani, Fernard Braudel ci ha insegnato a

5 scomporre il tempo in "brevi" e in "lunghe" durate. Ma come si concilia, tutto ciò, con la memoria personale o comunitaria dell'uomo? E come si traduce in termini di. autocoscienza, di consapevolezza di tale memoria, quindi in termini storici? Tali grosse e tuttora irrisolte questioni debbono esser qui se non altro ricordate per ribadire che anche le immagini mitiche e le figure archetipiche hanno una storia, e che un circolo di stretta interdipendenza corre tra condizioni materiali dell'esistenza e atteggiamenti mentali. Il nostro immaginario è il risultato di un puzzle millenario nel quale entrano condizionamenti fisiologici, ambientali e culturali di varia natura: ma sul quale non tutti questi condizionamenti hanno inciso nella stessa misura, con uguale intensità, nel medesimo senso. E noi crediamo che le radici effettive del nostro Immaginario contemporaneo affondino essenzialmente nel medioevo. Una proposizione del genere, d'altronde, una volta formulata dev'essere spiegata: e spiegarla equivale ad almeno in parte contestarla. Nell'abituale linguaggio desunto dalla media cultura scolastica dei nostri paesi occidentali, il medioevo corrisponde a un lungo periodo della storia europea, grosso modo fra V e XV secolo: e gli storici sono abituati a discutere sulla liceità di questa periodizzazione. Ma nel nostro corrente Immaginario, che è ancora fortemente influenzato dall'elaborazione di temi d'immagini avvenuta in quel lungo e significativo momento della nostra cultura che di solito si definisce "Romanticismo", il medioevo assume colori e contorni speciali, magari molto ben definiti, magari dotati di una forte carica evocativa, ma sovente sprovvisti o quasi d'una loro plausibilità storica oppure risultato di processi estetici e ideologici che hanno gravemente distorto e compromesso la lettura del passato.

6 Incisione tratta dall'hypnerotomachia Poliphili (1499) Triumphus Primus Anzi, in ultima analisi si può ben dire che il medioevo non è mai esistito: esso è stato un'invenzione polemica di comodo di alcuni eruditi cinqueseicenteschi intenti a litigare sul problema del loro rapporto con l'antichità greca e romana e sull'eredità che essa aveva lasciato loro, e quindi a ricercare le cause dell'imbarbarimento che la civiltà euromediterranea aveva subìto (o almeno così essi ritenevano) da una certa fase della storia in poi: fase che aveva coinciso con la crisi delle strutture imperiali romane e con l'affermarsi di una nuova religione d'origine orientale e di carattere monoteista, il cristianesimo, nel territorio dell'impero. La civiltà nata da questa crisi, e caratterizzata da uno stretto rapporto tra fede religiosa e istituzioni civili, sistemi culturali eccetera, sarebbe andata lentamente cancellandosi più tardi, con il sorgere di tutto un complesso di dottrine - politiche, scientifiche, economiche eccetera - che avrebbero poco a poco sancito l'autonomia della politica, della filosofia, della scienza rispetto al mondo della metafisica e della religione. Se le cose stanno però così, il medioevo va pensato come prolungatosi al di là del XV secolo, fino alla "rivoluzione scientifica" razionalistica e/o empiristica del XVII-XVIII secolo, dalla quale la stessa "rivoluzione industriale" e poi le rivoluzioni politiche dipendono. In altre parole, sarà forse necessario pensare a un "lungo medioevo", coincidente per molti versi con quella che taluni storici chiamano l'età preindustriale, o - come amano invece dire gli studiosi francesi - l'età d'ancien regime. Per molti aspetti tuttavia la mentalità e la memoria collettive perpetuarono, magari folklorizzandoli, una serie di contenuti e di atteggiamenti mentali un tempo organicamente collegati a un sistema scientifico che li legittimava, poi sopravvissuti al

7 superamento e all'obliterazione di tale sistema. Noialtri figli di Cartesio e di Newton, c'imbattiamo sovente - nei nostri atteggiamenti irriflessi, nei nostri comportamenti ispirati alla cultura tradizionale, magari nei nostri sogni - con le immagini che costituivano il mondo dell'uomo premoderno; tali immagini sono sovente la misura e la testimonianza della nostra perdita di organicità culturale, della nostra intima lacerazione. E sono, spesso, immagini animali. Gli antichi, specie gli egizi e i babilonesi, avevano popolato di mostri, di belve, di animali il loro pantheon e i loro cieli. Il "mostro", non necessariamente né completamente assimilabile alla belva, poteva essere il risultato di un'anomalia della natura, il segno di un fatto straordinario, la testimonianza d'un'irruzione del divino nella sfera dell'uomo; non a caso, per questo, esso non era neppur sempre necessariamente alla portata dell'esperienza immediata. Sovente, il mostro era isolato in un mondo "altro", diverso per natura e per qualità rispetto a quello abitato dagli uomini: poteva risiedere nei cieli, negli abissi marini, nel ventre della terra, in paesi lontani. La sua almeno ordinaria estraneità all'esperienza quotidiana non era affatto argomento che potesse servire a porre in dubbio la sua esistenza, in quanto egli era anzitutto un segno, il testimone di una realtà diversa da quella dell'uomo. inoltre, un filo tenace legava il mostro, la belva e il dio. L'umano, il divino, il demonico, il ferino si incontravano e si fondevano continuamente; e se ciò non accadeva nel sistema mitologico-religioso grecoromano in quanto esso era profondamente antropomorfìco, il tema della metamorfosi introduceva anche in esso una correzione che ricollegava l'uomo, il dio, il demone e la belva. Incisione tratta dall'hypnerotomachia Poliphili (1499) - Triumphus tertius

8 Un collegamento, anzi una sorta di circolarità degli stati dell'essere, garantita dal carattere politeistico e dalla natura immanentistica dei sistemi mitico-religiosi dell antichità. Rispetto ad essi, il cristianesimo e già l ebraismo avevano introdotto un elemento nuovo: il Dio unico, trascendente, creatore; e l uomo sua creatura diletta, suo primogenito spirituale, che compartecipa della sua natura e che quindi (come si vede nel Cristo, Dio e Uomo) è mediatore tra Dio e il creato, quindi padrone del creato in quanto possiede un anima materiale, un nephesh che ha per dimora il sangue, un principio vitale egli si distingue dagli animali in quanto ha anche il principio comunicatogli dal soffio divino, lo spirito, la Ruah. Ne consegue che l'ebraismo, il cristianesimo, l'islam sanciscono nei confronti del mondo animale un'estraneità più profonda dei precedenti sistemi immanentistici. D'altronde, il bagaglio delle culture precedenti - la greco-romana non meno di quelle orientali e di quelle "delle steppe", che irrompono nel mondo cristiano fra IV e VI secolo - già presente nello stesso apparato simbolico della Bibbia, è troppo forte perché il cristiano possa (e, del resto, voglia) liberarsene. Mostri, belve, animali alimentano l'immaginario demoniaco, ma al tempo stesso passano sotto il velo dell'allegoria a far parte dello stesso tessuto religioso cristiano (si pensi all'agnello, alla Colomba, al Tetramorfo) o prolungano la loro vigorosa presenza culturale antica per popolare delle loro immagini il pensiero allegorico e morale del mondo cristiano. Li ritroviamo nella scultura romanica e gotica, nei simboli araldici, nei trattati enciclopedici. Elaborazioni culturali o presenze reali che siano, essi sono sempre e comunque "segni": non ha, quindi, molto senso distinguere il mostro dall'animale reale, non serve a nulla osservare che i centauri e le sirene non sono esistite mentre il lupo e l'orso sì. L'uomo medievale non ragionava secondo categorie di questo tipo. In un certo senso, il centauro e la sirena gli erario altrettanto famigliari non solo del lupo e dell'orso, ma anche del cane e del cavallo: nel senso, vogliamo dire, dell'uso allegorico che egli ne faceva. Ed è questo diverso modo d'intendere la realtà che noi dobbiamo comprendere: questo, e questo solo, è il "disincanto" che bisogna realizzare rispetto alle radici del nostro Immaginario. Mostri, Belve, Animali nell immaginario medievale/2

9 ENCICLOPEDIE, TRATTATI, BESTIARI Franco Cardini - Ordinario Storia Medievale (Università di Firenze) Articolo pubblicato per la prima volta sulla rivista Abstracta n 5 (maggio 1986), pp , riprodotto per gentile concessione dell'autore che ne detiene i diritti. Riproduzione vietata con qualsiasi mezzo. Un cavaliere angioino (miniatura del XIV secolo). Il cavallo ebbe una funzione di rilievo nell'ambito della vita medievale. Oltre che come mezzo di trasporto, civile e bellico, esso fu largamente impiegato nel lavoro dei campi. A formare il complesso mondo animale della cultura tardo antica confluirono due diverse tendenze. Quella scientifica e razionalizzante avviata da Aristotele e quella magico-astrologica influenzata dalle dottrine gnostiche, e secondo la quale il cosmo era intessuto di occulti rapporti che collegavano gli astri, gli animali dell aria, della terra e dell acqua, le piante e le pietre. Su questi modello si sviluppò la zoologia immaginaria del Medioevo, dalla vasta produzione enciclopedica nata tra VII e XII secolo all atteggiamento prescientifico del duecento. Pur nella pluralità degli stili e nella diversità delle fonti, questo genere letterario non costituisce affatto una congerie disordinata di fantasie, ma conserva un intima coerenza per cogliere la quale è necessario soltanto decodificare il linguaggio (*)

10 Le fonti attraverso le quali avviarsi allo studio degli animali nel medioevo sia nella loro realtà obiettiva, sia nella loro, rappresentazione e nel ruolo che essi assolvevano all'interno della cultura del tempo - sono molte. I documenti relativi alla conduzione agraria possono informarci a proposito degli animali domestici, dell'allevamento, dei costi; i documenti militari ci dicono parecchie cose circa i cavalli; gli statuti dei comuni cittadini e rurali c'informano sui rapporti fra gli animali e le comunità; le cronache, la novellistica, le vite dei santi ci forniscono una quantità di particolari sulla vita quotidiana; le enciclopedie, i trattati, infine quegli specifici scritti che vanno sotto il nome di "bestiari" ci danno il quadro delle conoscenze scientifiche del tempo e del significato etico-etimologico che si attribuiva loro. Inoltre c'è tutta la vasta letteratura d'origine esopica, tradotta anche in racconti o in azioni sceniche di tipo giullaresco (basti pensare al Roman de Renard), Oltre alle fonti scritte, molte sono poi quelle iconografiche; e notizie relative alle caratteristiche fisiche degli animali si possono poi avere dall'archeologia: dall'abitudine barbarica di seppellire certi animali con l'uomo, fino ai depositi di rifiuti che ci forniscono materiali come avanzi di cibo, utili per un'indagine condotta con l'ausilio dell'osteologia (1), la scienza storica d'oggi è in grado di "far parlare" una quantità di oggetti, di materiali, di resti. In questa sede, però, noi ci occuperemo relativamente poco di quale fosse la realtà della presenza animale nel medioevo; e tale aspetto della questione {che non potrà in ogni modo essere ignorato) ci servirà semmai soltanto come termine di confronto per quello che sarà il nostro problema effettivo: quale fosse cioè il ruolo, il significato, la posizione degli animali reali o immaginari nella cultura medievale. Per inquadrare bene questo tema, occorre precisare che la cultura tardoantica e altomedievale non era, al riguardo, univoca. Essa si presentava, anzi, come il risultato di parecchie componenti: quella propriamente scientifica, esito del modo di affrontare la realtà tipico della scienza greca; quella mitico-magica, ereditata dalle culture orientali ma passata a inserirsi profondamente nel tessuto ellenico e poi romano grazie alla sintesi operata, dal III secolo a.c. in poi, negli ambienti cosiddetti "ellenistici"; quella cristiana, erede del mondo ebraico ma anche di quello greco-orientale; quella sciamanica portata dalle culture delle steppe che si erano impiantate nel mondo

11 euromediterraneo in seguito alle "migrazioni dei popoli" dei secoli III- X d.c., e nelle quali gli animali avevano un valore e un significato primari. Il Sole della Giustizia di A. Durer (1499). Il leone, generalmente simbolo della forza, diviene qui simbolo di giustizia: come il Sole è al massimo delo splendore mentre è nel Leone, così il Cristo apparirà in forma leonina, al massimo del suo fulgore, nel giorno del Giudizio. Tutto ciò dette origine a un mondo animale complesso e non sempre coerente, all'interno del quale tuttavia si potevano discernere due tendenze ben precise, e molto diverse tra loro. Da una parte, quella scientifica e razionalizzatrice avviata da Aristotele, che consisteva nell'ordinare gli animali per categorie, studiarli osservandone le abitudini e sezionandone i corpi, spogliandone la considerazione da qualunque aspetto magico o mitico. Dall'altra, quella che si concretizzò sotto l'influenza delle dottrine gnostiche in una quantità di scritti a carattere magico- astrologico, e secondo la quale il cosmo era intessuto di occulti rapporti che collegavano gli astri, gli animali dell'aria, della terra e dell'acqua, le piante, le pietre. Da principi di questo genere sarebbe partita tutta la scienza dei bestiari, degli erbari, dei lapidari, opere tuttavia nelle quali osservazioni scientifico-razionali, visioni filosofiche e argomentazioni magiche si sarebbero variamente unite con elementi etico-allegorici desunti dalle scritture cristiane e con dati empirici tratti dalle varie tradizioni folkloristiche. Da qui l'impressione di confusione e di contraddittorietà che talora il lettore moderno riporta avvicinando per

12 la prima volta certi testi, e alla quale si deve reagire non già tentando forzose "razionalizzazioni" di essi dall'esterno, bensì cogliendone la sintassi e la coerenza intime. Nel IV secolo a.c., il grande Aristotele aveva tentato una prima sistemazione delle cognizioni zoologiche del suo tempo in alcune grandi opere: Storia degli animali, Parti degli animali, Generazione degli animali, Movimento degli animali Tuttavia, il medioevo aveva perduto il contatto con la scienza aristotelica, e lo avrebbe recuperato indirettamente solo tra XII e XIII secolo, per il tramite bizantino e arabo. Certo, l'occidente medievale conobbe parecchie opere latine variamente ispirate ad Aristotele o nelle quali ci si confrontava con lui: ma, non essendo in grado di confrontarle con l'originale, non poté mai apprezzarne appieno il significato. Tramite essenziale tra Aristotele e medioevo latino, fu la Naturalis historia del poligrafo e naturalista del I secolo d.c., Plinio il Vecchio, il quale ispirandosi essenzialmente all'aristotelica Storia degli animali dedicò al mondo della zoologia i libri VIII-XI del suo trattato. Plinio. tuttavia. si comportò ben diversamente da Aristotele che aveva accuratamente scartato, o ricordato soltanto per confutarle, tutte le leggende riguardanti gli animali che già al suo tempo circolavano ma che egli non aveva potuto controllare di persona, o che stimava puro frutto di fantasia. Allo stesso modo, Aristotele non si era curato dei mostri e delle creature mitologiche; Plinio, al contrario, dette spazio a tutto ciò, attingendo a una serie di fonti anche orientali e immettendo questo mondo nella cultura tardoantica e poi medievale. L'affidabilità di Plinio varia, insomma, con il variare delle sue fonti: per gli animali esotici, che egli non conosce o conosce poco, si affida ora ad Aristotele, ora a viaggiatori e mitografi specie greci che invece abbondano di descrizioni di mostri e di meraviglie; per quelli domestici, usa Columella e gli scrittori latini di questioni agrarie, anch'essi fonte nota e stimata nel medioevo.

13 Insieme con Plinio, va ricordato almeno Gaio Giulio Solino, vissuto fra il m e il IV secolo d.g., i cui Collectanea rerum memorabilium fornirono al medioevo ampie cognizioni sui mostri e le terre lontane. Tavola di un Bestiario che riunisce animali mitici ed altri realmente esistenti Fra V e XII secolo, la cultura medievale si basò essenzialmente sull'esegesi della Scrittura e sul commento delle auctoritates, cioè degli scrittori dell'antichità tradotti o, sovente, riassunti in latino. Tale studio era quindi essenzialmente eticoallegorico: i dati scientifici, ad esempio, non avevano tanto un valore autonomo in sé, quanto servivano a intendere e a ben comprendere in quali modi la potenza di Dio si fosse dispiegata nel creato E, poiché nelle scuole monastiche e poi vescovili si faceva grande uso delle favole esopiche ridotte in lingua latina da Fedro, dove agli animali si prestavano voce e comporta mento umani e dove dalle storie degli animali si traeva un insegnamento morale, ecco che cultura esegetica e morale esopica si fusero in un atteggiamento che al mondo animale non guardava tanto per trarne notizie sul mondo della zoologia, quanto per assumerne informazioni sul piano eticoallegorico. Ad esempio, di fronte alla notizia che il leone cancella le proprie impronte sul terreno, non ci si domandava se essa corrispondesse più o meno a una realtà effettiva: ma - applicando il sistema esegetico dei «quattro sensi della scrittura» - si constatava che il dato naturalistico fornito a livello letterale corrispondeva a una realtà superiore nell'ambito della quale il leone diveniva il simbolo del Cristo che cancella i peccati del mondo. Questo fu l'atteggiamento mantenuto nei confronti del mondo animale - e nello stesso modo riguardo alle piante negli erbari, alle pietre nei lapidari - da tutta la vasta produzione enciclopedica che

14 giunge al XII secolo e che ha le sue tappe fondamentali Delle Etymologiae di Isidoro di Siviglia (sec. VII), nel De rerum natura di Beda (sec. VIII), nel De universo di Rabano Mauro (sec. IX). Presupposto a questa cultura enciclopedica e alla nostra comprensione di essa, è che la natura è, con là scrittura, specchio della Rivelazione divina, e che quindi banale e pericolosa curiositas sarebbe il conoscerla in se e per se: il saggio non deve mirare alla comprensione dei nessi obiettivi tra le cose, che restano ancora qual- cosa di superficiale rispetto alla realtà, bensì ai rapporti tra le cose e Dio. E in quest'ordine di idee, è chiaro che non è importante conoscere la struttura intima e le effettive abitudini del leone, quanto capire in che senso esso può essere figura del Cristo (o, in un differente contesto, figura del demonio). Il XIII secolo e la rinascita in Occidente della scienza aristotelica, base di partenza per il progresso scientifico moderno, segnerà rispetto a questo atteggiamento una effettiva rivoluzione, anche se gli esiti e le conseguenze di essa non saranno immediatamente visibili. Le enciclopedie e i trattati duecenteschi di Vincenzo di Beauvais, di Ruggero Bacone, di Alberto Magno, di Tommaso di Cantimpré segneranno nei confronti degli animali e non solo di essi un ben diverso modo d'intendere informazione e osservazione. Di tale mutato atteggiamento è specchio, ad esempio, il De arte venandi cum avibus dell'imperatore Federico II, il quale alla sua corte incoraggiava la speculazione naturalistica e la stesura di trattati di cinegetica (2), di ippiatria (3), insomma di opere nelle quali - con l' occasione della caccia o della cura delle malattie dei cavalli - s'investigasse attentamente sulla natura. Nel suo De arte venandi, Federico dimostra di aver appieno inteso la lezione metodologica di Aristotele in quanto non esita a confutare lo stesso grande filosofo greco, allorché i dati da questi proposti non sembrino coincidere con l'esperienza desunta dalla diretta osservazione.

15 Gli animali dell'eden assistono alla creazione di Eva (miniatura del XIV secolo). Il Duecento, secolo della razionalità scolastica, eliminò quindi la cultura etico-allegorica? No, dal momento che essa non era tanto un modo d'intendere la realtà, un atteggiamento "prescientifico", quanto piuttosto un linguaggio espressivo dipendente da una specifica visione del mondo. Gli animali continuarono anche dopo Alberto Magno e Tommaso d'aquino a essere "significanti": cioè a costituire segni che rinviavano a realtà di diverso ordine. Lo vediamo ad esempio nei trattati di araldica oppure in quelli di alchimia, nei quali si continua ad utilizzare una simbologia animale per esprimere realtà morali o filosofiche. L'attualità dei bestiari andò quindi ben al di là del XIII secolo. Modello dei bestiari è un trattato redatto forse nel il secolo d.c. in greco, e denominato Physiologos, dove si prendevano in considerazione circa cinquanta animali e si associavano a citazioni scritturali: si fondava in tal modo una tipologia cristiana dell'animale, scopo della quale era l'associazione di un'immagine zoologica e di un'idea cristologica. Traduzioni del Physiologos si ebbero in siriano, armeno, etiopico e naturalmente - fino dal IV secolo - in latino. Chi si stupisce per l'esotismo della fauna simbolica medievale deve tener conto di due cose: anzitutto che gli uomini e le idee (e le immagini con

16 entrambi) viaggiavano a quel tempo molto più che non si ritenga oggi, e che per esempio l'arte delle steppe con il suo contenuto prevalentemente animale ha lasciato ad esempio all'iconografia romanica un'eredità profonda; in secondo luogo, che fonte principale per tale fauna simbolica è appunto il Physiologos, che traeva i suoi animali essenzialmente da due libri della Bibbia, Deuteronomio e Levitico. La tradizione avviata dal Physiologos latino penetrò profondamente nella cultura medievale, ma la lettura allegorica degli animali andò complicandosi mediante l'uso di altre chiavi interpretative, fornite ad esempio da certe somiglianze esteriori dei vari animali, da rapporti numerici o cromatici, da elementi di tipo etimologico o pseudoetimologico. Isidoro di Siviglia ad esempio, trattando degli animali nel libro XII delle Etymologiae, si serviva di Plinio e del Physiologus, ma anche di Varrone, di Virgilio, di Ovidio, e fondava o accoglieva leggende (o altre ne scartava) sulla base di accostamenti che la scienza del tempo definiva etimologici, e che noi definiremmo piuttosto omofonici (4) o pseudomofonici: ad esempio, il "castoro" si chiamerebbe così perché si "castra", eccetera. Nel XII secolo, un grande e famoso bestiario fu quello - a lungo attribuito a Ugo di San Vittore - dal titolo De bestiis et aliis rebus, mentre verso il 1150 Ugo di Fouilloy scriveva un Aviarium. Grande diffusione ebbe anche un Liber monstrorum, forse d'autore anglosassone dell'viii secolo. Nel corso del Duecento, si diffuse una grande quantità di bestiari redatti nei vari idiomi volgari. La Bibbia, Fedro, le leggende e le immagini orientali penetrate in Europa dalle culture delle steppe o attraverso i testi narranti le vicende della spedizione di Alessandro in India (e, più tardi, attraverso i racconti dei viaggiatori), le figure allegoriche desunte dai passi scritturali d'argomento profetico o escatologico, i segni che comparivano o che comunque venivano segnalati nei cieli, le visioni individuali e collettive, i simboli astrologici; la "zoologia immaginaria" del medioevo non è affatto una congerie disordinata di fantasie, anche se molte ed eterogenee sono le fonti alle quali essa ebbe ad attingere. Siamo dinanzi a un linguaggio, che ha la sua grammatica, la sua sintassi, il suo svolgimento etimologico, la sua avventura semantica. Decodificarlo è possibile: e sarà un modo non già per dissacrarlo e "disincantarlo", che anzi a conservargli intatti sacralità e incanto bisogna tendere; ma soltanto un modo per comprenderlo.

17 (*) La serie del Prof. Cardini sul bestiario medievale venne pubblicata per la prima dalla splendida rivista Abstracta a partire dal n 4 (Aprile 1986). Riproponiamo integralmente gli articoli così come furono allora pubblicati, nello stesso ordine di successione. (1) Osteologia: branca dell anatomia che si occupa dello studio delle ossa (2) Cinegetica: L antica arte di cacciare i cani (3) Ippiatria: scienza che studia la patologia degli equini (4) Omofonici: si dice di due termini che hanno pronuncia (suono) simile ma significati diversi Mostri, belve, animali nell immaginario medievale/ 3 L UNICORNO Franco Cardini - Storia Medievale, Università di Firenze Articolo pubblicato per la prima volta sulla rivista Abstracta n 6 (giugno\luglio 1986), pp , riprodotto per gentile concessione dell'autore che ne detiene i diritti. Riproduzione vietata con qualsiasi mezzo.

18 La vergine e l unicorno sono gli elementi centrali di alcuni arazzi conservati al museo di Cluny, che propongono, fra l altro, le allegorie dei cinque sensi. Qui sopra: La Vista Il primo degli animali passati in rassegna nella serie di Franco Cardini dedicata al bestiario medievale: l'unicorno. Nato tra l India e la Cina, il mito dell unicorno si radica nell Occidente medievale conservando gli elementi simbolici fondamentali: la scontrosità, il carattere mirabile del corno, il rapporto con la salute, con le acque, con la vergine, con l albero. Ma d altra parte, il simbolo è per sua natura ambivalente: e così, al pari di altri animali, anche all unicorno spetta di rappresentare talora il Cristo, talaltra il suo avversario.(1) Now I will believe that there are Unicorns, That inn Arabia there is one tree, the phoenix trone. : così, nel III atto de La Tempesta, William Shakespeare associa gli unicorni e la fenice nel novero delle cose incredibili per l'uomo. Pure, al tempi di Shakespeare all unicorno credevano tutti o quasi: non c'era praticamente sovrano che non possedesse uno dei lunghi corni d'avorio dell'animale nella sua Wunderkammer, e non se ne servisse per saggiare le bevande, come controveleno; la polvere d'alicorno si vendeva nelle farmacie, dove il profilo rampante della mitica e indomita belva serviva sovente anche da insegna; esso era, del resto, uno splendido simbolo araldico, che come tale serviva da supporto alle armi regali di Scozia e sul quale s'intratteneva John Guillim nel suo A display of heraldry pubblicato a Londra nel I corni dell urocorno, o liocorno, o

19 alicorno, venivano pagati a peso d'oro... È vero: esso aveva anche dei nemici, come il medico Andrea Marini che nel 1556 pubblicava il libro Contra la falsa opinione dell'alicorno ma anche dei sostenitori agguerriti come Andrea Bacci, medico di Francesco II duca di Toscana, autore di un dottissimo discorso intitolato L alicorno. Chi consideri oggi la questione, da Plinio ai giorni nostri, non può certo negare che l'unicorno esista: il pliniano monoceros è, sia pure con qualche inesattezza e qualche incertezza, il rinoceronte; e la stessa moderna nomenclatura zoologica conosce il monodon monoceros, vale a dire il cetaceo chiamato narvalo, al quale appartengono in effetti i corni "di Unicorno" delle molte collezioni sparse in tutto il mondo. Gli unicorni, insomma, esistono: ma non hanno corpo di cavallo né testa e zampe di capra; il loro corno non è dotato di speciali virtù terapeutiche; non sembrano aver particolari rapporti con le vergini. E allora? L 'unicorno sembra esser nato fra Cina e India: in queste aree, quanto meno, si radicano le prime testimonianze di esso o di qualcosa che gli somiglia; mentre in Occidente esso è soltanto un emigrante, qualcosa d importato. Per il Li-Ki, i quattro animali benevoli sono il drago, la feroce, la tartaruga e il "K'i-lin", nome che sembra riassumere il principio maschile e quello femminile e che è raffigurato come un grande cervo con coda di bue e zoccoli di cavallo, armato di un solo corno, dai peli dorsali di cinque colori e da quelli del ventre gialli o bruni; non calpesta erba viva né uccide animali viventi; compare quando appaiono sovrani perfetti, e la sua comparsa è di cattivo auspicio se viene ferito. Secondo la tradizione cinese il corno di rinoceronte possedeva caratteristiche terapeutiche e in particolare era considerato un efficace antidoto ai veleni; tuttavia, nessuna confusione nella cultura cinese era possibile tra il rinoceronte, animale ben conosciuto, e il K'i-lin, animale mitico la cui comparsa era associata a eventi straordinari. Il rapporto fra animale cornuto -interpretabile come unicorno - e guarigione da certe malattie si trova in un inno dell ' Atharvaveda (2), dove sembra si alluda a una specie di antilope-unicorno; nel Satapatha Brahmana, il pesce-unicorno che salva Manu dal diluvio universale è un avatar (3) di Visnu (ancora una volta, l'associazione tra corno, acqua e salute) ; infine, è al Mahābarāta (4) che bisogna risalire per incontrarsi con l'episodio del rapporto fra la vergine e l'unicorno: l eremita Rishyashringa

20 ("Corno di Gazzella"), figlio di Ekasringa ("Unicorno"), viene indotto a uscire dal suo romitorio dalla figlia del re, che lo sposa (ma, secondo una diversa versione, viene sedotto da un'etera: l'episodio è comunque di ardua datazione, poiché tutto l'immenso poema è stato composto per stratificazioni tra IV secolo a.c. e III d.c.). Nella tradizione mazdaica persiana, tramandataci nel Bundahishn (5), si parla invece di un immenso onagrobianco unicorno, a tre zampe, che purifica l'oceano orinandovi e che ha una qualche affinità con l'albero Gokard, anch'esso sorgente nell'oceano, e che è considerato il rimedio contro tutti i mali. Abbiamo cosi individuato, sia pure in ordine sparso, tutti gli elementi del mito medievale dell'unicorno: la sua scontrosità, il carattere mirabile del corno, il rapporto con la salute, con le acque, con la vergine, con l'albero. Ma quali veicoli ne hanno consentito la migrazione in Occidente, e la composizione in un quadro coerente anche se ricco di varianti? A livello puramente iconologico i confronti sia con l'arte delle steppe, sia con quella babilonese-persiana potrebbe già dare qualche risultato. Ma saremmo, ancora, sul piano pericoloso delle somiglianze formali. Ci viene allora in aiuto Ctesia di Cnido, medico, storico e viaggiatore vissuto fra Ve IV secolo a.c., che fu uomo di fiducia del Gran Re di Persia Artaserse II: tra le sue opere, egli ne compose una, Indikà, sull'india; essa non ci è purtroppo giunta se non attraverso frammenti tramandatici, nel IX secolo, dal celebre patriarca Fozio di Gerusalemme, in un tempo nel quale l'india - conosciuta soprattutto attraverso i racconti fantastici delle gesta di Alessandro Magno - era già divenuta una specie di paradigma dell'esotico. Ebbene, ecco nella versione di Fozio il venticinquesimo frammento degli Indikà: «In India ci sono degli asini selvatici grandi come cavalli e anche di più. Hanno il corpo bianco, la testa rossa e gli occhi blu. Sulla fronte hanno un corno lungo circa un piede e mezzo. La polvere di questo corno macinato si prepara in pozione ed è un antidoto contro i veleni mortali. La base del corno, circa due palmi sopra la fronte, è candida; l'altra estremità è appuntita e di colore cremisi; la parte di mezzo è nera. Coloro che bevono utilizzando questi corni come coppe, non vanno soggetti, si dice, alle convulsioni o agli attacchi di epilessia. Inoltre sono anche immuni da veleni se, prima o dopo averli ingeriti, bevono vino, acqua o qualsiasi altra cosa da queste coppe. Gli altri asini, sia quelli domestici sia quelli selvatici, nonché tutti gli animali con lo zoccolo indiviso, non hanno ne astragalo ne fiele, ma questi

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