IL CICLO VITALE. LA MORTE.

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1 Fondazione Cecchini Pace Istituto transculturale per la salute Milano SECONDA RELAZIONE INTERMEDIA IL CICLO VITALE. LA MORTE. Marco Tomietto Luglio

2 INDICE Parte seconda. Introduzione La morte fra natura e cultura La morte e il morente nella tradizione Dalla morte alla malattia La morte e il morente oggi. 16 Conclusioni. 21 Bibliografia. 2

3 PARTE SECONDA. INTRODUZIONE. Gli ambiti che si delineano attorno al concetto di Morte sono vasti e numerosi a tal punto che definire un margine che fornisca concretezza e chiarezza a questo evento spesso ci disperde lungo strade dai contorni tortuosi e indefiniti che a volte rischiano di farci perdere di vista anche la realtà quotidiana più concreta, invece di renderla più leggibile. A differenza delle tematiche precedentemente affrontate, la morte nel contesto sanitario può sembrare quasi un ente astratto: siamo incapaci di vederla, di definirla in modo diverso dalla malattia che la provoca, non esistono esami strumentali che ci informino della sua presenza e anche quando arriva non ci lascia intravedere un seguito capace di fare da feedback degli interventi attuati. Approcciandoci alla Vita invece siamo capaci di vedere nel concreto gli sviluppi attraverso le sue fasi e, pur nei dilemmi e nelle controversie che provoca, siamo sempre di fronte alle conseguenze che in un senso o nell altro, a breve o lungo termine, le nostre scelte provocano. La morte è lontana da tutto ciò, quello che l operatore sanitario può fare si colloca nel periodo della gestazione della morte o al massimo nell evento margine, ma ciò che sta oltre il margine appartiene all infinito (o all indefinito) della filosofia o della religione. Inoltre anche nel suo divenire la morte elude ogni sistema quantificatore e tassonomico e in questo senso si pone in antitesi con la cultura sanitaria (nel senso di scientifica ed istituzionale) e al suo bisogno di controllo e definizione dei processi vitali: le forme di controllo medico sulla morte riescono al più prolungare il trapasso o a indurlo, con accese discussioni di ordine bioetico. Con un analogia provocatoria potremmo rilevare che con molti meno scrupoli ci sentiamo autorizzati a decidere il momento in cui un bambino deve nascere eppure anche in questi casi parliamo di rimandare o indurre un passaggio vitale; come si osservava precedentemente ci sentiamo autorizzati a farlo perché conosciamo bene le conseguenze di una nascita prematura o tardiva. Ma come esprimersi sulla morte? 3

4 Quando sia giunto il momento di lasciar spazio alla morte fortunatamente non siamo ancora giunti a dirlo, ma senza dubbio ci sentiamo di affermare che c è bisogno di lasciare spazio al morente. L evoluzione tecnica permette di prolungare quasi senza limite una vita (in termini biologici), al punto da rendere il suo declino così lento ed impercettibile da non capire più ne cosa sia la vita ne tantomeno la morte; così l uomo moderno si trova a dover elaborare riti che rendano legittimo il suo farsi «procuratore di morte» 1 naturale mentre in orizzonti di tipo tradizionale i riti elaborati erano finalizzati alla morte culturale della salma. In entrambi i contesti tuttavia si mantiene il tentativo antropologico di definire un margine-definizione attorno alla figura del morto, di modo che si sia certi che l individuo che uccidiamo (per via naturale o culturale) presenti i requisiti per essere aggregato al mondo dei morti 2. A questo punto, nell equivalenza funzionale del rito, bisogna guardare a come potrebbero essere cambiati i vissuti e le contestualizzazioni e chiedersi quali margini la scienza medica ha abbattuto e se sia riuscita a proporne e consolidarne altri e soprattutto se questi nuovi confini siano condivisi dai suoi fruitori. Questo scritto vuole cercare di rappresentare, mediante la revisione bibliografica, l evoluzione degli approcci alla morte da ambito tradizionale a sanitario, descriverne il passaggio rituale e contestuale e tratteggiare le dinamiche di ruolo che si creano attorno al morente. Lo scopo è quello di rendere più leggibili in termini antropologici realtà quasi quotidiane per l operatore sanitario che spesso deve muoversi lungo i limiti estremi del suo essere professionista e persona. 1 E. De Martino in Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Bollati Boringhieri, Torino, In questi accenni ci riferiamo alle riflessioni di E. De Martino in Ibidem e A. Van Gennep in I riti di passaggio, Bollati Boringhieri, Torino,

5 1. LA MORTE FRA NATURA E CULTURA. La morte pone l uomo in stretto rapporto col suo divenire e rappresenta il promemoria critico della sua mortalità e storicità, questo evento diviene così un momento saliente per l individuo e la collettività che, per suo tramite, prendono coscienza di una natura cui l uomo, per quanto si adoperi a controllarla, deve sottostare 3. Tuttavia, come osservavamo nella prima parte, è proprio laddove si manifesta un divenire storico inesorabile che l uomo è soccorso da forme rituali in grado di inscrivere in una dimensione protetta eventi altrimenti sconvolgenti. La morte si fa dunque paradigma di ciò che passa «senza e contro» l uomo 4, ma sempre e comunque attraverso di esso e le sue elaborazioni culturali atte a ripristinare forme di controllo. Vediamo allora come si sono evoluti gli orizzonti metastorici che attraverso i tempi e le culture hanno cercato di dare un identità alla morte e al morente, precisiamo che nella trattazione focalizzeremo sui momenti che dal morire portano alla morte, che sono quelli con cui l operatore sanitario viene maggiormente a contatto nell ambito istituzionale, la parte riguardante i riti funerari sarà motivo di accenno laddove porti ulteriore chiarezza al corpo dello scritto. 3 Si realizza così quell ossimoro di «coinvolgimento e distacco» dell uomo di fronte alla morte: coinvolgimento come presa di coscienza (individuale) della propria finitezza, distacco come negazione sociale della fine individuale (almeno nel periodo contemporaneo). Si veda: N. Elias, La solitudine del morente, Il Mulino, Bologna, E. De Martino in Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Bollati Boringhieri, Torino, 2000, p

6 2. LA MORTE E IL MORENTE NELLA TRADIZIONE. Nell accostarci a questa parte della trattazione ci rendiamo conto di non poter prescindere da un implicito confronto con come si muore oggi e con come si nasceva un tempo, nello sviluppare l argomento cercheremo di rendere via via più espliciti questi nessi, cercando di accennare ai rapporti fra Vita e Morte che intercorrono nei due contesti. Tradizionalmente la morte era gestita in ambito domestico e familiare: il morente passava le ultime ore in un ambiente a lui noto e fra persone conosciute 5, indipendentemente dalla concezione che in un determinato periodo storico poteva esserci dell al di là e del morto. Questi aspetti, infatti, hanno influenzato le scelte sul trattamento della salma come decisioni sul luogo e sulle modalità di inumazione, sulla necessità o meno di legare al sito di sepoltura l identità del morto, sui tributi rituali che i sopravvissuti dovevano al defunto. Si sono così attraversate fasi storiche in cui le iscrizioni funerarie contraddistinguevano il luogo di sepoltura (si veda la Roma antica, o le epoche più recenti a partire dal XVIII secolo), altre in cui il defunto giaceva nell anonimato di fosse comuni (si veda l alto Medioevo), altre ancora in cui le tombe o le iscrizioni svolgevano una funzione commemorativa più che di contrassegno del luogo di inumazione (approssimativamente dal XII al XVIII secolo) 6. Allo stesso modo, attraverso le epoche, si sono definiti culturalmente i contesti spaziali più appropriati per i cimiteri: nell antichità greco-romana le tombe erano disposte lungo le strade che portavano fuori dalla città, nel periodo medievale l inumazione ad sanctos portava le salme nelle città e nei luoghi della vita pubblica, nel XVIII secolo invece le prime teorie scientifiche le allontanava dalle città fondando i principi di una medicina sociale che attribuiva ai miasmi pestilenziali dei cadaveri e alla chimica pericolosa della decomposizione l etiologia di numerose malattie, già nel XIX secolo, tuttavia, una rinnovata attenzione romantica alla memoria riporta i cimiteri vicino ai vivi 7. 5 Questa prima caratteristica si può estendere a tutte le epoche storiche precedenti a quella contemporanea come si può evincere dalla trattazione di P. Ariès, Storia della morte in occidente, Rizzoli, Milano, Ibidem, pp e p Ibidem, p. 139, p. 165 e p

7 Tutti questi aspetti sottendono concezioni diverse del rapporto fra vivi e morti, istituiscono ciclicamente relazioni di lontananza e vicinanza senza comunque creare una cesura fra i due mondi e creano rappresentazioni diverse della memoria e dell al di là. Quello che tuttavia ci sentiamo di affermare è che attraverso i secoli, di fronte alla variabilità del trattamento della salma, il trattamento del morente mantiene una relativa stabilità, che è stata intaccata solo in epoca contemporanea. Di seguito cercheremo di focalizzare sulle modalità tradizionali di approccio al morente, successivamente le porremo a confronto con quelle contemporanee cercando di evincerne la transizione simbolica e le sue motivazioni. La prima costante che si è tramandata sino ai nostri giorni riguarda, come si osservava in apertura, il setting spaziale del morire: si moriva a casa, in un contesto noto e familiare. Questo primo elemento ci informa eloquentemente sulla confidenza che le società passate avevano nel gestire eventi critici dell esistenza, non c era alcun bisogno di allontanare la morte dalla vita di ogni giorno, essa vi faceva parte e si integrava in modo naturale col divenire necessario della collettività, la morte dunque era ordinaria, inevitabile e inevitata 8. Nel Medioevo inoltre non solo il morente era integrato nella vita quotidiana ma anche il morto, basti pensare alle attività pubbliche che si svolgevano abitualmente nei cimiteri 9. Tale 0. approccio 0 lascia spazio ad una visione attiva del morente: esso appartiene ancora al mondo dei vivi, la sua identità si riconosce ancora nella società, rivestendosi tuttavia dei ruoli che sono più consoni alla sua condizione di margine. In questo orizzonte c è spazio per un idea del morente come persona che ancora vive e che ha ancora dei compiti da assolvere, non c è bisogno di ghettizzarlo perché non è colui che porta con sé la morte ma colui che ha coscienza del suo approssimarsi. Anche nel XVIII secolo, quando il morto era ritenuto un pericolo per la salute pubblica a causa delle esalazioni del corpo in disfacimento e si destinavano le salme a cimiteri lontani dalle città, si continuava a morire in casa. 8 Forse è proprio per il venir meno della quotidiana ordinarietà della morte che oggi essa è dimenticata e relegata ai margini della coscienza sociale. N. Elias, La solitudine del morente, Il Mulino, Bologna, 1985, pp P. Ariès, Storia della morte in occidente, Rizzoli, Milano, 1998, p

8 Così il morente attraverso le epoche ha avuto sempre un suo posto, un suo ruolo e un contesto appropriato a sottolinearlo, era il soggetto attivo della sua morte, di cui presiedeva il rituale, secondo i tempi concessi dalla natura. Il presupposto implicito e imprescindibile è dunque nel «riconoscimento spontaneo» 10 della propria morte, una morte che la persona sa percepire e gestire 11. All approssimarsi della morte ci si preoccupava dunque di circoscrivere l ambiente: si chiudevano porte e finestre e si provvedeva a riscaldarlo 12, l analogia è chiara ed eloquente e rimanda alla predisposizione della stanza per il parto 13, rileviamo tuttavia che mentre per la nascita la delimitazione spaziale creava un ambiente rituale per un passaggio vitale «della e nella femminilità», per la morte l ambiente non presentava limiti di genere o di età: era aperto alla collettività senza distinzioni, quasi a sottolineare che, a differenza del parto, la morte riguarda il destino collettivo dell essere umano, un destino inevitabile e condiviso 14. Inoltre mentre per la nascita la delimitazione spaziale rivestiva il significato simbolico di protezione da spiriti malvagi o esalazioni pericolose che potevano attaccare la partoriente a seguito dell apertura dei suoi margini, per il morente non ritroviamo un corrispondente analogo, ci sentiamo di ipotizzare tuttavia che la pratica fosse necessaria per trattenere il più possibile gli ultimi soffi vitali, giacché le fonti testimoniano che si riteneva, almeno in alcune epoche, che le forze soprannaturali benefiche e malvagie si affollassero ai piedi del letto del morente, quasi a creare nel microcosmo domestico la scena del giudizio universale per l individuo 15. I limiti fisici quindi non potevano avere lo scopo di impedire l ingresso di forze occulte. Per contro troviamo descritte anche pratiche atte a favorire il trapasso agevolando simbolicamente la fuoriuscita dell anima, come nel caso della tradizione lucana in cui si usava scucire alcuni punti del materasso sul quale giaceva il morente, rituale che 10 Ibidem, p Ricordiamo come, sempre nel contesto tradizionale, la gestante avesse percezione dell approssimarsi del travaglio e si adoperasse in precise operazioni rituali atte ad agevolare il lavoro del parto. Si veda la prima parte a p P. Ariès, Storia della morte in occidente, Rizzoli, Milano, 1998, p Si veda la prima parte a p P. Ariès, Storia della morte in occidente, Rizzoli, Milano, 1998, p Ibidem, p

9 con le medesime operazioni era effettuato anche durante il parto per coadiuvare il lavoro della partoriente e la fuoriuscita del feto 16. Notiamo allora come la necessità di controllo o mediazione sugli eventi vitali si riproponga come una costante e costituisca un bisogno irrinunciabile dell uomo per confermare un suo ruolo e una sua presenza nell incessante divenire naturale, cui comunque deve sottostare 17. Sottolineiamo inoltre che il carattere simbolico-rituale dell intervento umano sulla natura, nel contesto tradizionale, rimanda a precise rappresentazioni metaculturali riconnesse alla continuità del ciclo vitale e ai sistemi simbolici del fare e disfare 18, 0 chiaramente entro quei contesti le suddette pratiche prendevano concretezza nel quotidiano e si riteneva avessero influenza diretta anche sullo svolgersi biologico degli eventi; in epoca contemporanea invece pare che il rapporto fra il rito e il suo materializzarsi nella natura si sia rovesciato: con l evolversi della scienza e della tecnica si sono sviluppate forme di controllo dei fenomeni naturali sempre più esplicite sul piano biologico, non dimentichiamo tuttavia che anche i progressi tecnici contemporanei sono un prodotto culturale 19 e, pur avendo conseguenze più concrete e dimostrate (ma sempre alla luce della cultura scientifica che le ha concepite), hanno influenzato (forse inconsapevolmente) visioni diverse della vita e della morte, tutt oggi poco chiare o, al contrario, talmente chiare da sollevare secondo i casi profonde riflessioni o accese polemiche sul piano bioetico. Ci sentiamo di affermare dunque che la medicina ai giorni nostri abbia enfatizzato la sua crescita tecnica senza riuscire parimenti a dare un senso e una consapevolezza metastorica ai progressi effettuati, come se fosse cresciuta ponendosi solo il vincolo della coerenza scientifica, tralasciando quella coerenza metastorica che in senso più ampio riguarda gli eventi sui quali ha agito. Tecnica e rito si sono allora invertiti: mentre nella tradizione la cornice rituale giustificava un determinato modo di agire, oggi, a fronte di smisurate possibilità 16 E. de Martino, Sud e magia, Feltrinelli, Milano, 2001, pp Ritroviamo dunque nell approccio tradizionale una chiara coscienza del limite. 18 Paradigmatico in questo senso è il caso della fascinazione. Ibidem. 19 «Conosciamo del mondo solo quello che, nel corso di millenni, ci siamo rappresentati e la stessa natura, così come si presenta, è in definitiva la testimonianza storica del conosciuto e dell artefatto umani». Le varie epoche e culture così elaborano sistemi coerenti al proprio conusciuto del mondo che si inseriscono nella concretezza del quotidiano. Dalla prefazione di F. Voltaggio a R. Barcaro, L. de Caprio, G. Castello, La fine della Vita. Per una cultura e una medicina rispettose del limite, Apèiron, Bologna, 2001, p. VI. 9

10 tecniche, ci troviamo a dover elaborare dei riti che ne giustifichino e disciplinino l uso, si pensi ad esempio ai criteri medico-legali che si sono dovuti elaborare per diagnosticare la morte di un individuo e autorizzare così la sua aggregazione al mondo dei morti sospendendo le cure intensive L altro aspetto saliente del morire nelle culture tradizionali, come accennavamo, è il porsi in continuità con le altre esperienze del ciclo vitale, in primis con la nascita. Rilevavamo infatti il riproporsi di moduli sovrapponibili e questo pone ancora l accento su una concezione della morte profondamente integrata con il vissuto di ognuno: come si nasceva allo stesso modo si moriva, ed evidenziamo che nel mondo tradizionale la vita e la morte sono eventi ben definiti all interno della narrazione personale e non assoluti privi di vissuto come può capitare di trattare l argomento al giorno d oggi. Il rischio di questo secondo approccio riteniamo sia nella perdita del limite e del contesto proprio della persona, in sostanza di privarla della propria morte, sia che si tratti di negargliela con l accanimento terapeutico per difendere la Vita a tutti i costi, scambiando l ostinazione tecnica per il deontologico rifarsi a un giuramento di Ippocrate che nega al medico di provocare la morte del paziente 21, sia di concedergliela, magari ispirati dal pietismo che si deve alla dignità umana. Come per la nascita, la dignità dell individuo non si gioca sul campo delle prescrizioni o delle concessioni ma sul riconoscimento dei vissuti propri della persona 22 ; sullo stesso campo si trova per la medicina la possibilità di individuare i suoi limiti dimenticati (o trascurati) che possano darle una forma che trascenda l indefinito evolvere delle possibilità tecniche e che diano significato al suo operare, un significato che parallelamente dia spazio e prospettiva alla narrazione personale 23. Riconosciamo tuttavia che, a differenza del caso della partoriente, dare spazio al ruolo attivo del morente in ambito sanitario spesso incontra come primo ostacolo le 20 La tecnica dunque è vettore di significati che produce realtà che non possiamo fare a meno di abitare: creata dall uomo, crea realtà e trasforma l uomo stesso che le abita. Si veda l opera di U. Galimberti, Psiche e techne, Feltrinelli, Milano, Ibidem, p. XVI. 22 Si veda la prima parte a pp

11 condizioni in cui l individuo arriva (o viene fatto arrivare) alla morte, condizioni che rendono lecito da parte dell istituzione la negazione della variabilità individuale 24 e un trattamento del morente come soggetto/oggetto privo di razionalità 25. In via provocatoria viene da chiedersi se queste condizioni siano volute, non è forse un caso inoltre che quando un morente chiede di sua cosciente iniziativa la sospensione delle cure, la cosa sollevi talvolta lo scalpore della cronaca internazionale e richieda la mediazione giuridica. L altro modo di negare alla persona i suoi vissuti si ritrova anche nelle menzogne dalle quali è attorniata circa la sua situazione, fino a quando l evidenza non farà crollare le ipocrisie: non è forse un modo per negare la nostra impotenza piuttosto che per tutelare l integrità psicologica del morente? Non è forse un modo di sottovalutare ancora una volta la sua capacità di far fronte agli eventi? 26 Ci troviamo così davanti ad morente spogliato del suo status, della sua identità e in definitiva di un suo ruolo attivo, che ha esercitato per secoli prima di essere medicalizzato. Tradizionalmente infatti era la persona stessa a presiedere i rituali riguardanti la propria morte, osservavamo già che questo implica il riconoscimento spontaneo del suo approssimarsi e in definitiva la sua appartenenza al diretto interessato. Così il morente in quel periodo di margine della sua esistenza era investito di una speciale autorità, derivatagli dalla sua doppia appartenenza a due mondi, che gli consentiva di impartire ordini e raccomandazioni alle persone care, indipendentemente dalla sua giovane o veneranda età 27. Troviamo documentato come il primo atto del rituale fosse il rimpianto discreto e triste della vita da parte del morente, a seguire il perdono degli astanti per eventuali mancanze compiute, successivamente la preghiera anch essa articolata secondo criteri rituali e l assoluzione del morente da parte di una figura ecclesiastica, poi si attendeva la morte in silenzio Il morente 0 quindi non solo era cosciente degli eventi che si 23 «E la scoperta del limite a conferire al nostro conoscere e al nostro operare tutto il suo significato», dalla prefazione di F. Voltaggio a R. Barcaro, L. de Caprio, G. Castello, La fine della Vita. Per una cultura e una medicina rispettose del limite, Apèiron, Bologna, 2001, p. VII. 24 Elemento che abbiamo già visto è ricercato dall istituzione stessa come presupposto del suo operare. M. Tomietto, La salute straniera. Temi di nursing transculturale, Tesi di Diploma, a.a , p P. Ariès, Storia della morte in occidente, Rizzoli, Milano, 1998, p Le medesime caratteristiche sono emerse anche riguardo il trattamento della gestante/partoriente/puerpera. 26 M. de Hennezel, La morte amica, Rizzoli, Milano, 1998, p P. Ariès, Storia della morte in occidente, Rizzoli, Milano, 1998, p Ibidem, pp

12 svolgevano intorno a lui ma anche li dirigeva attivamente, inoltre gli era riconosciuta un identità speciale e valorizzata che gli conferiva potere anche sui viventi, la sua morte era pubblica e non c era bisogno di occultarla, anzi era essa stessa cercata e voluta come evento pubblico, quasi con una funzione pedagogica per i sopravvissuti, al punto che chi per strada si imbatteva in un curato che si recava per l estrema unzione, lo seguiva anche se non conosceva il morente 29. Rileviamo inoltre che le fasi del morire seguono una scansione rituale che la persona affronta serenamente, o almeno le fonti non ci fanno pensare diversamente, di modo che siamo portati a figurarci una psicologia del morente salda e univoca; alla luce di questi elementi l attuale individuazione del travaglio psicologico del morente attraverso le fasi di rifiuto e isolamento, collera, patteggiamento, depressione, accettazione e speranza 30 appare anch essa un prodotto culturale derivato dalla privazione medica della morte del soggetto, incapace al giorno d oggi di riconoscerla da sé e che ne apprende la notizia dall esterno in modo spesso traumatico, sia la comunicazione implicita od esplicita. Un altro elemento importante rilevato per contro all aura di sacralità che avvolgeva il morente nel contesto tradizionale è il carattere di impurità che invece si attribuiva alla morte. Precedentemente abbiamo visto come nel XVIII secolo le salme erano allontanate dalle città per motivi di igiene pubblica, il caso è tuttavia eloquente della separazione voluta fra vivi e morti a causa del potere contaminante (in senso sanitario) di questi ultimi, anche in tradizioni più recenti ritroviamo le medesime rappresentazioni, come nel contesto lucano della metà del secolo scorso in cui, a morte avvenuta, si provvedeva ad aprire porte e finestre e a gettare per strada l acqua «morta», ossia contenuta nei recipienti della casa al momento del decesso 31. Chiaramente queste pratiche sottendono allo stesso modo l idea dell impurità e del potere contaminante del morto (o della morte), sono inoltre interessanti perché diametralmente opposte a quelle descritte per la preparazione della stanza del parto o del morente e, nel caso dell acqua, a quelle relative il bagno 29 Ibidem, p Si veda: E. Kubler-Ross, La morte e il morire, Cittadella editrice, Assisi,

13 del neonato 32, in generale possiamo anche affermare che rimandano ad una relazione stretta fra vita e morte e alla cultura del fare e disfare, che è poi quella tipica lucana e meridionale descritta dal de Martino. Uscendo dal contesto occidentale, presso i Maori chi aveva toccato la salma o preso parte alla cerimonia di inumazione diventava impuro per un periodo di tempo entro il quale gli era interdetto il contatto fisico con altri e con gli ambienti ordinari del vivere civile, addirittura non poteva toccare il cibo al punto che doveva farsi nutrire da altri, al termine di questo periodo venivano distrutti i suoi abiti e gli oggetti di cui si era servito 33 e poteva essere riaggregato nella vita ordinaria, è evidente anche qui la contagiosità simbolica del morto e, nel caso specifico, l individuazione di un lasso di tempo in cui l individuo che aveva partecipato ai riti funebri era considerato impuro ma allo stesso tempo trattato con le distanze e le precauzioni che spesso si devono anche al sacro 34. Analogamente presso i Kol dell India dopo la cerimonia funebre i partecipanti, in segno di purificazione e riaggregazione, dovevano lavarsi 35. Così anche per gli ebrei il corpo di un defunto era considerato immondo, da non toccarsi Queste distinzioni di trattamento dal morire alla morte accentuano il riconoscimento del morente come persona viva e quindi a pieno diritto integrata nel mondo dei vivi, pur riconoscendole uno status particolare. Al contrario la ghettizzazione ospedaliera del morire alimenta l idea di un evento eccezionale, slegato dalla vita ordinaria, e convalida una visione del morente come colui che porta in sé il germe della morte (quindi come già potenzialmente contaminante ), attribuendogli una condizione di necessaria esclusione dal vivere civile. Il fenomeno sicuramente è più ampio e abbraccia visioni diverse della morte come tabù, per ora possiamo osservare che il tabù tradizionale del morto ai giorni nostri si è traslato come tabù del morente; è parallelamente evidente quali 31 E. de Martino in Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Bollati Boringhieri, Torino, 2000, p Si veda la prima parte a p. 23. Il neonato non doveva essere lavato frequentemente perché gettare l acqua in cui era stato immerso significava esporlo all influenza di forze esterne. 33 S. Freud, Opere Totem e tabù, Newton, Roma, 1995, p Cogliamo in questa delimitazione rituale, un periodo sovrapponibile alla quarantana del puerperio. Analogamente in altri contesti vengono descritti periodi di lutto che si mantengono per quaranta giorni come nella cultura araba di cui ritroviamo l esempio in: E. De Martino in Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Bollati Boringhieri, Torino, 2000, p A. Van Gennep, I riti di passaggio, Bollati Boringhieri, Torino, 2000, p E. Kubler-Ross, La morte e il morire, Cittadella editrice, Assisi, 1998, p

14 conseguenze possano esserci per la relazione con la persona entro questa seconda concezione. Il passaggio attraverso queste due epoche del morire è stato sicuramente graduale e prima di emergere così esplicitamente ai giorni nostri ha dato le sue avvisaglie in tempi passati, la sua evoluzione inoltre è strettamente connessa a quella della medicina e a quella di ampi fattori socioculturali. Di seguito cercheremo di approcciare questo percorso fino a giungere al periodo contemporaneo. 3. DALLA MORTE ALLA MALATTIA. I primi segni del passaggio ad una visione diversa della morte riguardano a nostro avviso la sua separazione dal vissuto quotidiano e familiare: pensiamo alle rappresentazioni tramandateci dalla sensibilità romantica già dalla fine del settecento in cui l immaginario si è popolato di commistioni fra eros e thanatos, tanto memorabili sul piano letterario quanto slegate da quello che è ed era vivere la morte nella quotidianità 37, 0 tali 0 concezioni alla fine del XVIII secolo rendevano già la morte una «rottura attraente e terribile della familiarità quotidiana» 38. Osserviamo tuttavia che a fronte di queste immagini che prendono piede nella rappresentazione collettiva della morte, all epoca si continuava a morire in casa con i medesimi rituali e approcci descritti precedentemente, pur con alcuni segni di insofferenza da parte dell autorità medica, che sempre in quel periodo cominciava a comparire al capezzale del morente: troviamo descritto come i medici illuministi, che sviluppavano le prime norme di igiene, si lamentassero degli ambienti chiusi e sovraffollati che si creavano attorno al malato 39. Notiamo subito la figura del medico che si oppone all ordine rituale metastorico proponendo la propria coerenza scientifica: con il crescere della sua autorità fino ai giorni nostri, evidentemente questo elemento si configura in embrione come l inizio del sorpasso rituale tradizionale. Inoltre davanti al medico il morente scompare per lasciare posto al malato: tale 37 P. Ariès, Storia della morte in occidente, Rizzoli, Milano, 1998, p Ibidem, p Ibidem, p. 24 e p

15 mutamento di ruolo è fondamentale per comprendere il passaggio da una morte che può riconoscere e gestire solo il soggetto interessato, a una malattia che è in grado di diagnosticare e trattare solo l autorità sanitaria. Tuttavia anche questo passaggio, per quanto inesorabile, è stato estremamente graduale: i primi medici disponevano di poche risorse per la diagnosi e la terapia, così la loro funzione era quella di alleviare le sofferenze con oppio e morfina e nell approccio al morente svolgevano più una funzione morale condivisa col sacerdote 40. In quest ottica la morte è un fatto che appartiene ancora interamente alla persona e anzi la preoccupazione per la malattia non esiste per nulla, non è di competenza del morente, né questo vi rivolge l attenzione: il fatto importante è che sta morendo e ha ancora dei doveri da compiere e un ruolo da svolgere, la malattia è estranea al suo universo mentale. Tale visione è destinata a mutare rapidamente con l evoluzione della figura del medico che si configurerà, solo un secolo più tardi, come «l iniziatore al mondo specializzato della malattia» 41, ci troviamo così di fronte l Ivan Il ič di Tolstoj incapace di riconoscere la propria morte, spogliato dei propri vissuti e tutto proiettato nella sua malattia, o meglio nella malattia del medico, con l unica preoccupazione di seguire le prescrizioni e sorvegliare i suoi sintomi; diventa così un morente inconsapevole, privato del suo ruolo e delle sue responsabilità dal meccanismo di delega alla malattia, è una persona socializzata e aggregata nel ciclo medico, in cui la valutazione degli eventi spetta ad una figura competente. Si apre così la strada alla negazione del vissuto e della razionalità della persona e, parimenti, alla negazione della morte come fatto appartenente alla collettività e alla vita quotidiana e familiare, inizia così quel deficit comunicativo che aggrava queste negazioni instaurando attorno al morente quella commedia dell ottimismo che lo terrà nell ignoranza fino a quando l aggravarsi delle condizioni supererà ogni menzogna, rivelando la morte che gli appartiene celata sotto la malattia 42. Tale è l evolversi della storia di Ivan Il ič e per la prima volta, quando il protagonista scopre l approssimarsi della sua fine, vediamo comparire una 40 Ibidem, p Ibidem, p Ibidem, p

16 reazione di isolamento 43, dato significativo se pensiamo che questa è la prima fase psicologica individuata nel contesto contemporaneo Siamo così giunti alle porte della situazione odierna, manca tuttavia un ultimo passaggio: finora abbiamo sempre descritto il morente nell ambito domestico e anche quando il medico fa il suo ingresso sulla scena, è una presenza discreta che esercita una funzione morale prima e una socializzante (nella malattia) poi, è dunque lontano dal valersi di un vero e proprio controllo sulla persona, l ambiente non lo consentiva, tale controllo è stato invece legittimato dal passaggio all istituzione; l epoca contemporanea si contraddistingue per questa ulteriore evoluzione: dalla delega della morte alla malattia, al passaggio del morente dal contesto domestico a quello istituzionale. 4. LA MORTE E IL MORENTE OGGI. L odierna contestualizzazione istituzionale del morire è un eloquente indice di una mutata visione a livello socio-culturale: la morte è allontanata dalla vita ordinaria per essere affidata all eccezionalità della gestione sanitaria. Non c è spazio per la morte nella coscienza collettiva, per lo meno non per quella che si matura nella sofferenza, riusciamo a tollerare quotidianamente scene di morte violenta sia essa cinematografica o di cronaca, ma rifiutiamo di concepirla in termini progressivi e processuali, quasi che il rendersi conto di morire o che qualcuno stia morendo sia insopportabile, anzi se tradizionalmente era considerata una disgrazia morire improvvisamente o nell incoscienza a causa dell impossibilità di amministrare la propria morte 45, oggi lo è il contrario 46. La morte nella società contemporanea pone l uomo di fronte alla sua finitezza, alla sua impossibilità di dominare una natura che come non mai oggi cerca di controllare, contiene così il promemoria critico dell inevitabile fallimento dei suoi sforzi, cose difficili da accettare fra le illusioni del tecnicismo, dell edonismo dell eterna giovinezza, dell efficientismo e della realtà virtuale entro cui si muove 43 Ibidem, p E. Kubler-Ross, La morte e il morire, Cittadella editrice, Assisi, P. Ariès, Storia della morte in occidente, Rizzoli, Milano, 1998, p. 190 e p

17 l uomo d oggi, difficili da accettare come la vecchiaia che anticipa il nostro limite ultimo con la concretezza delle limitazioni fisiche di ogni giorno, anch essa al giorno d oggi ci ricorda solo l inefficienza e il declino. Non è forse un caso che nelle case non ci sia più spazio per gli anziani e i malati terminali (come oggi preferiamo chiamare il morente) 47. Il fenomeno di delega è avvenuto e non riteniamo sia da attribuire unicamente al passaggio da famiglia patriarcale a nucleare, giacché l ospedalizzazione del morente è documentata già nella prima metà del novecento 48, sicuramente in quel periodo il meccanismo di delega sottendeva una visione del morente in quanto malato e dunque bisognoso di cure, piuttosto che una vera e propria tabuizzazione della morte, come per i giorni nostri. Il tabù della morte oggi conferisce già al morente quel potere contaminante che tradizionalmente era attribuito solo al morto: la contaminazione tramite la memoria del limite, che vogliamo nascondere. La società contemporanea richiede agli operatori sanitari la competenza di gestire i suoi morenti e la risposta che spesso l istituzione è in grado di dare si pone sul piano tecnico, rivelando agli operatori stessi il limite del proprio ruolo: che sia dentro o fuori l istituzione la morte ci pone sempre e comunque davanti a dei limiti ineludibili, se la società ha trovato il modo di rimandarli, l operatore sanitario deve affrontarli e spesso affrontare un limite significa accettarlo. Chiaramente questo tipo di approccio alla morte, come finitezza da occultare, la rende slegata e disarticolata dagli eventi della nascita che su un piano opposto racchiudono l idea di prospettiva dinamica ed evoluzione. Lungo questa linea si crea allora un altra frattura con la visione tradizionale in cui nascita e morte si univano nell uguaglianza funzionale di un passaggio fra due dimensioni della narrazione umana, abbiamo visto inoltre come tale unione fosse sottolineata dal riproporsi di moduli rituali simili e/o speculari. Tale trasformazione di significato ha inoltre comportato un evoluzione di ruolo nelle figure deputate a gestire, o meglio coadiuvare, gli eventi 46 M. de Hennezel, La morte amica, Rizzoli, Milano, 1998, p N. Elias, La solitudine del morente, Il Mulino, Bologna, 1985, p P. Ariès, Storia della morte in occidente, Rizzoli, Milano, 1998, p. 69. Tuttavia all epoca la delega all istituzione riguardo la gestione degli eventi vitali riteniamo fosse più un opzione scelta che un fatto acriticamente accettato, ricordiamo a titolo esemplificativo l opera narrativa di J. Roth, La cripta dei cappuccini in cui al momento di scegliere fra il parto in clinica o a domicilio si decide di proposito per il secondo (capitolo XXXI) e in cui la madre morente si dimostra ancora padrona della propria morte, riconoscendola e amministrandone i rituali (capitolo XXXIII), nell opera tuttavia la madre è la figura che rappresenta le sopravvivenze del vecchio mondo spazzato via dalla prima guerra mondiale. J. Roth, La cripta dei cappuccini, Adelphi, Milano,

18 relativi a questi momenti dell esistenza. Tradizionalmente infatti abbiamo visto come la levatrice fosse intermediaria fra la vita e la morte, ponendosi come unica professionista del margine 49, attualmente c è invece una netta distinzione professionale nella gestione dei due estremi del margine: da una parte l ostetrica, dall altra l infermiere. Anzi in tempi recentissimi la separazione dei percorsi formativi delle due figure sembra rimarcare simbolicamente la scissione di quell unità tradizionale 50. Nell istituzione ci troviamo quindi di fronte ad una duplice parcellizzazione della morte: da una parte come evento isolato dal continuum narrativo della persona, dall altra come identificazione con la malattia che la provoca. Quest ultimo aspetto in particolare fa emergere un altro limite dell approccio ospedaliero che è in grado di gestire eventi che riguardano alterazioni delle funzioni d organo in reparti specialistici piuttosto che eventi naturali del divenire umano, è dunque una necessaria coerenza istituzionale ridurre l esperienza globale della morte a quella parziale della malattia. Attualmente questa insufficienza sembra essere riconosciuta dal moltiplicarsi di strutture come gli hospice, deputate appunto all accoglimento del morente indipendentemente dalla clinica sottesa, concepite dunque per creare una risposta diversa da quella medica-istituzionale ai bisogni del morente. L hospice tuttavia si pone al crocevia del dilemma di ogni struttura, contesa fra il rischio della ghettizzazione e l opportunità di fornire modelli d approccio alternativi e differenziati da quelli classicamente forniti. Parallelamente a queste opzioni si sta inoltre sviluppando una rete di servizi territoriali di supporto a persone e famiglie che gestiscono questi eventi a domicilio. La realtà però attualmente preminente rimane quella ospedaliera e a questa continueremo a fare riferimento nella trattazione. Abbiamo già accennato a come oggi dobbiamo relazionarci ad una morte negata: dalla società e alla persona. L operatore sanitario spesso si pone come una propaggine del pensiero tecnico o sociale, da una parte con l accanimento terapeutico dall altra con menzogne relazionali, al punto da rendere questi due approcci in contraddizione fra loro quando le condizioni diventano inequivocabili anche 49 Si veda la prima parte, p

19 agli occhi della persona. Eppure queste situazioni rendono palese il bisogno degli operatori di negare il morire fino in fondo, come se esso fosse l espressione di un fallimento di ruolo, una delusione delle aspettative normalmente riposte nella sua figura, quasi anche che per parte sua il morente non abbia collaborato al programma terapeutico od assistenziale. Non è forse che l operatore invece non sappia collaborare con l evolversi narrativo della persona, quando diviene evidente che si sono esaurite le sue risorse di recupero? Si risponde in modo adeguato ai bisogni della persona negando l innegabile con un uso disperato della tecnica? Forse oltre certe soglie il ricorso al tecnicismo ha solo il valore simbolico (e psicologico) di negazione e di perpetrazione della menzogna. A volte si continua a mentire finché la persona diventa incosciente, preparandola così a quella che oggi si considera una bella morte. Così anche per l infermiere spesso non è ben chiaro cosa si intenda per preparare l assistito a una «morte serena» 51, competenza 0 che 0 è prevista dai suoi quadri concettuali di riferimento e che va oltre l occuparsi generico della morte che gli richiede la società. A volte il modo di concepire la morte da parte della persona stessa richiede l incoscienza, altre volte il gioco delle schermaglie resta implicito ma noto a tutti, come un necessario elemento rituale, altre volte è il morente stesso a rompere l ipocrisia relazionale. Spesso c è bisogno di chiarezza su quello che sta avvenendo e la sua mancanza depaupera le persone della possibilità di dare pieno compimento al suo filo narrativo e priva gli operatori sanitari di possibilità di crescita. Oramai siamo fuori dalla protezione rituale che rende prevedibili e codificate le funzioni di ruolo, l unico riferimento che resta è quella sensibilità intuitiva che, arricchendo la professionalità, ci sappia informare dei vissuti della persona e sugli approcci che essa desidera. Tutto questo implica la spogliazione dalle nostre stesse aspettative per lasciare spazio ai vissuti e il non scambiare le nostre inquietudini e schermaglie per quelle dei nostri assistiti, spesse volte loro intuiscono ma la negazione istituzionale dell espressione totale di sé blocca il fluire della propria forza o della 50 Prima del passaggio alla formazione universitaria infatti il ruolo di ostetrica si acquisiva come specializzazione di quello infermieristico. 51 A. Marriner-Tomey, I teorici del nursing e le loro teorie, Mc Graw-Hill, Milano, 1996, p

20 propria debolezza, esperienze ugualmente importanti, sia per l operatore che per i suoi assistiti, per ristabilire il contatto con ciò che si è e, parallelamente, per superare quei limiti che davvero vale la pena di superare: quelli delle proprie paure e ipocrisie. È un invito a «giocare sull orlo di un precipizio» 52 che ci faccia uscire dalla nostra stessa comoda incoscienza, per riscoprire il senso antropologico dell assistenza, per scoprire che il vero superamento del limite non risiede in un evoluzione tecnica che rimandi indefinitamente i problemi ma nell entrare in contatto con quello che i nostri assistiti hanno da insegnarci. Lungo l orlo del precipizio si possono scorgere profondità inimmaginabili dalla comoda, sicura ma piatta pianura; certamente è necessario un grande equilibrio per muoversi lungo il limite, sarà facile scivolare, ma forse vale la pena di correre il rischio per restituire ad ognuno i suoi vissuti. 52 F. Battiato, Ferro battuto, Bist du bei mir,

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