Studio di materiali nanostrutturati mediante tecniche di microscopia elettronica e diffrazione di raggi X

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1 Università Politecnica delle Marche Scuola di Dottorato di Ricerca in Scienze dell Ingegneria Curriculum Ingegneria dei Materiali, delle Acque e dei Terreni Studio di materiali nanostrutturati mediante tecniche di microscopia elettronica e diffrazione di raggi X Tutor Accademico: Prof. Paolo Mengucci Tesi di Dottorato di: Ing. Eleonora Santecchia Coordinatore Curriculum: Prof. Erio Pasqualini 12 Ciclo - Nuova Serie Università Politecnica delle Marche Dipartimento di Scienze e Ingegneria della Materia, dell Ambiente ed Urbanistica (SIMAU) Via Brecce Bianche Ancona, Italia

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3 Abstract Il lavoro svolto durante il Dottorato di ricerca riguarda l applicazione di tecniche di microscopia elettronica e diffrazione di raggi X a materiali nanostrutturati. La ricerca è stata articolata su tre macroaree tematiche: materiali per l immagazzinamento dell idrogeno allo stato solido (film sottili e compositi), materiali per uso biomedico (biomateriali e detector) e leghe metalliche leggere. Per la prima area, film sottili di Mg puro e Mg drogato con Nb e campioni compositi di particelle di Pd e silicone, sono stati sottoposti a cicli di assorbimento/desorbimento di H 2. La caratterizzazione ha mostrato che il Nb nei film sottili forma dei clusters, creando percorsi percolativi che velocizzano la reazione con H 2. I compositi hanno mostrato, invece, un comportamento peculiare rispetto all idrogeno e una propria identità scientifica, aprendo nuove prospettive applicative. Nel campo dei biomateriali è stata caratterizzata la lega Co-Cr-Mo prodotta tramite Direct Metal Laser Sintering (DMLS), al fine di ottimizzare i parametri produttivi e far luce sui fenomeni che hanno luogo nella microstruttura durante la produzione. I risultati hanno indicato che il laser induce una trasformazione martensitica atermica dalla fase da γ (fcc) alla fase ε (hcp) nella polvere metallica, producendo un intricato network di lamelle ε nella fase γ. E la prima volta in assoluto che viene osservato un fenomeno di questo genere in simili condizioni. Nel campo dei detector per applicazioni mediche è stata caratterizzata una serie di cristalli scintillatori LYSO (detector per la PET). Questo lavoro ha permesso di chiarire la microstruttura e legare la produzione di luce alle caratteristiche strutturali di tali cristalli. Nel campo delle leghe metalliche leggere per impieghi aereonautici, è stata affrontata la caratterizzazione strutturale della lega AZ31B saldata per Friction Stir Welding (FSW) e della lega di allumino 2219, sottoposta ad Equal Channel Angular Pressing (ECAP).

4 This Ph.D. Thesis is about the application of electron microscopy and X-ray diffraction to several classes of materials. Three different macro areas have been addressed to: materials for solid state hydrogen storage (thin films and composites), materials for biomedical use (biomaterials and detectors) and light metal alloys. In the first thematic area, thin films of pure Mg and Mg doped with 5at.% Nb and composite samples of particles of Pd and silicon, have all been subjected to cycles of absorption/desorption of hydrogen. The characterization showed that Nb in thin films forms clusters, creating percolative paths that speed up the reaction with H 2. The composites showed a behavior with hydrogen which makes them materials having their own scientific identity, opening new application perspectives. In the field of biomaterials a Co-Cr-Mo alloy produced via Direct Metal Laser Sintering (DMLS) has been characterized, in order to optimize the production parameters and clarify the phenomena occurring in the microstructure during production. The results showed that the laser induces, in the powder, a martensitic athermal transformation from the γ (fcc) phase to the ε phase (hcp), producing an intricate network of ε lamellae in the γ phase. This is the first time ever that this phenomenon was observed in similar conditions. In the field of detectors for medical applications a series of LYSO crystal scintillators (detectors for PET) has been characterized. This work allowed to clarify the microstructure and to correlate the light yield properties to the microstructure of the crystals. In the field of light metal alloys for aeronautical applications, the research was focused on the structural characterization of the AZ31B alloy welded with Friction Stir Welding (FSW) and on the aluminum alloy 2219 subjected to Equal Channel Angular Pressing (ECAP).

5 Ringraziamenti Desidero ringraziare tutto il personale del Dipartimento di Scienze e Ingegneria della Materia, dell Ambiente ed Urbanistica (SIMAU) e soprattutto i Docenti ed i tecnici con cui ho avuto il piacere e l onore di lavorare a stretto contatto: il Prof. Giuseppe Majni, il Dott. Ing. Adriano Di Cristoforo, il Dott. Gianni Barucca, il Dott. Luigi Gobbi, la Dott.ssa Liana Lucchetti, il Dott. Daniele Rinaldi. Nell ambito del lavoro sull immagazzinamento dell idrogeno allo stato solido, ringrazio calorosamente il Dott. Riccardo Checchetto ed il Prof. Antonio Miotello dell Università degli Studi di Trento, per la collaborazione e per il tempo prezioso che mi hanno dedicato durante lo stage presso il loro laboratorio, oltreché al Dott. Gianfranco Carotenuto (CNR-IMCB, Napoli) per la preparazione dei campioni compositi. Ringrazio il Prof. Franco Rustichelli e la Dott.ssa Emmanuelle Girardin (DISCO, Università Politecnica delle Marche), il Prof. Andrea Gatto e tutto il Suo gruppo di lavoro dell Università di Modena e Reggio Emilia, la Prof. Aleksandra Czyrska-Filemonowicz (AGH University of Technology, Cracovia, PL) e la Dott.ssa Etiennette Auffray (CERN, Ginevra, CH) per le fruttuose collaborazioni nel campo dei materiali per uso biomedico. Un ringraziamento và anche al Prof. Marcello Cabibbo (DIISM, Università Politecnica delle Marche) per la collaborazione nel campo delle leghe metalliche leggere. Desidero, infine, ringraziare tutti i Componenti dei Gruppi che hanno contribuito alle ricerche sviluppate in questa Tesi di Dottorato.

6 Indice Introduzione Generale... 1 Capitolo 1: Tecniche di caratterizzazione Raggi X La natura dei raggi X Produzione di raggi X ed interazione con la materia Scattering dei raggi X... 7 Scattering da elettroni... 9 Scattering da atomi Scattering da cristalli: la Legge di Bragg Assorbimento dei raggi X Il diffrattometro a raggi X Microscopia Elettronica Interazione elettroni materia Il Microscopio Elettronico a Scansione Segnali e rivelatori nel SEM Elettroni secondari.43 Elettroni retrodiffusi Il Microscopio Elettronico a Trasmissione 51 Aberrazioni sferiche..56 Aberrazioni cromatiche Modalità di funzionamento del TEM Dark field e bright field.59 Diffrazione di area selezionata (SAD)..62 Convergent-Beam Electron Diffraction (CBED)..65 High resolution TEM (HRTEM) Spettroscopia a Dispersione di Energia (EDS) La radiazione X continua (Bremsstrahlung) La radiazione X caratteristica Rivelatori per la microanalisi EDS Wavelenght Dispersive Spectrometer (WDS)..73 Energy Dispersive X-ray Spectrometer (EDS)...74 Bibliografia Capitolo

7 Capitolo 2: Materiali per immagazzinamento dell idrogeno allo stato solido Introduzione Film sottili Deposizione Interazione con l idrogeno: cinetiche di reazione Caratterizzazione strutturale Misure XRD.85 Osservazioni SEM 90 Osservazioni TEM Discussione Compositi Descrizione dei campioni e delle misure Interazione con l idrogeno: apparato di misura e risultati Caratterizzazione strutturale Osservazioni SEM Misure XRD Discussione Conclusioni Bibliografia Capitolo Capitolo 3: Materiali per uso biomedico Introduzione Biomateriali metallici La Prototipazione Rapida Caratterizzazione della lega Co-Cr-Mo prodotta via DMLS Preparazione dei campioni Caratterizzazione microstrutturale Discussione Conclusioni Rivelatori per applicazioni mediche Teoria dei rivelatori Rivelatori a scintillazione I cristalli scintillatori LYSO:Ce Risultati della caratterizzazione di cristalli LYSO:Ce Caratterizzazione meccanica e resa di luce Caratterizzazione microstrutturale Discussione

8 3.3.6 Conclusioni Bibliografia Capitolo Capitolo 4: Leghe metalliche leggere Leghe metalliche leggere di Al e Mg Lega di Mg AZ31B saldata per Friction Stir Welding (FSW) Conclusioni Lega di alluminio 2219 sottoposta ad Equal Channel Angular Pressing (ECAP) Caratterizzazione microstrutturale della lega AA2219 sottoposta ad ECAP: risultati Discussione Conclusioni Bibliografia Capitolo Conclusioni Generali Bibliografia Conclusioni Generali

9 Introduzione Generale La presente Tesi di Dottorato in Ingegneria dei Materiali, delle Acque e dei Terreni (12 Ciclo) illustra e documenta il lavoro svolto dall Ing. Eleonora Santecchia presso il Dipartimento di Scienze e Ingegneria della Materia, dell Ambiente ed Urbanistica (SIMAU), Università Politecnica delle Marche. Per questo lavoro sono state utilizzate tecniche di caratterizzazione microstrutturale (microscopia elettronica e diffrazione di raggi X) applicate a materiali nanostrutturati di varia natura. Questo studio ha permesso alla candidata di acquisire una elevata competenza su strumenti quali: Diffrattometro a raggi X (XRD) Bruker D8 Advance. Microscopio elettronico a scansione (SEM) Philips XL20. Microscopio elettronico a scansione a emissione di campo (SEMFEG) Zeiss Supra 40. Microanalisi a dispersione di energia (EDS) Bruker 200-Z10. Microanalisi a dispersione di energia (EDS) Edax Phoenix. Le tecniche di caratterizzazione sono ampiamente spiegate nel Capitolo 1. Nei capitoli successivi vengono illustrate le diverse tematiche affrontate nei tre anni ed i principiali risultati ottenuti con l applicazione delle tecniche di caratterizzazione strutturale. Le tematiche affrontate sono state le seguenti: Materiali per l immagazzinamento dell idrogeno allo stato solido, Capitolo 2. Materiali per uso biomedico (biomateriali e detector), Capitolo 3. Leghe metalliche leggere, Capitolo 4. Infine, nelle Conclusioni Generali viene brevemente riassunto il lavoro svolto, puntualizzando le determinanti collaborazioni esterne ed i risultati ottenuti in termini di Produzione Scientifica. 1

10 Capitolo 1 Tecniche di caratterizzazione 1.1 Raggi X I raggi X sono stati scoperti da Wilhelm Conrad Röntgen nel Da quel momento sono divenuti una prova indiscutibile della struttura della materia. I raggi X hanno energie comprese tra 100 ev a 10 MeV e lunghezze d onda tra 10 e 10-3 nm; sono classificati come onde elettromagnetiche che differiscono da onde radio, luce e raggi gamma soltanto per lunghezza d onda ed energia. Un fascio di raggi X è un'onda elettromagnetica caratterizzata da un campo elettrico vibrante a frequenza costante, perpendicolare alla direzione di propagazione. Questa variazione del campo elettrico conferisce agli elettroni (particelle cariche) una variazione sinusoidale nel tempo alla stessa frequenza. Il risultato di questa accelerazione e decelerazione periodica dell'elettrone è la generazione di una nuova onda elettromagnetica, ovvero di raggi X. In questo senso, i raggi X vengono diffusi (o scatterati) dai singoli elettroni. Questo fenomeno è chiamato scattering Thomson. D'altra parte, il fenomeno fisico denominato "diffrazione in funzione della posizione atomica " si riscontra anche quando un fascio di raggi X incontra un cristallo la cui disposizione atomica mostra periodicità a lungo raggio. L'intensità diffratta dei raggi X dipende non solo dalla disposizione atomica, ma anche dalla tipologia di specie atomica. Quando si considera la diffrazione di raggi X da un cristallo, sono necessarie informazioni riguardo i fattori di scattering atomico" che forniscono una misura della capacità di dispersione di raggi X per ogni atomo. Poiché il nucleo di un atomo è relativamente pesante se confrontato con un fotone X, questo non diffonde raggi X. La capacità di diffusione di un atomo dipende, infatti, solo dal numero e dalla distribuzione degli elettroni [1] La natura dei raggi X I raggi sono onde elettromagnetiche con lunghezze d onda nella regione dell Ångström (10 10 m). Nella maggior parte delle situazioni risulta interessante un fascio di raggi X monocromatico, come raffigurato in Fig

11 Fig. 1.1 Tre rappresentazioni di un onda elettromagnetica piana; è mostrato solo il campo elettrico. In alto: variazione spaziale, descritta dalla lunghezza d onda λ o dal numero d onda k, in un determinato istante nel tempo. Centro: variazione temporale, descritta dal periodo T o dalla frequenza ciclica ω, in un determinato punto dello spazio. In basso: vista dall alto di una onda piana in cui solo le creste d onda sono indicate dalle linee nere, e la direzione di propagazione è data dalle frecce. La sfumatura indica la variazione spaziale dell ampiezza del campo [2]. La direzione del fascio è presa lungo l asse z, perpendicolare al campo elettrico E ed al campo magnetico H; per semplicità iniziamo considerando solo il campo elettrico e trascuriamo l effetto del campo magnetico. La parte alta di Fig. 1.1 mostra, in un determinato istante nel tempo, la dipendenza spaziale del campo elettromagnetico che è caratterizzata da λ, o allo stesso modo, dal numero d onda k=2π/λ. A livello matematico l ampiezza del campo elettrico è espressa come un onda sinusoidale, sia nella sua forma reale E 0 sin(kz), sia in quella complessa E 0 e ikz. Nella parte bassa di Fig. 1.1 si può osservare una illustrazione alternativa di una onda piana monocromatica; vengono mostrate solo le creste dell onda (linee piene perpendicolari all asse z), per enfatizzare che si tratta di un onda piana con un campo elettrico che è costante ovunque nel piano perpendicolare all asse z. Sebbene un fascio non sia mai idealmente collimato, l approssimazione con una onda piana è ritenuta comunque valida. La variazione spaziale e temporale dell onda piana che si propaga lungo l asse z può essere espressa in una singola espressione, E 0 e i(kz ωt). Più in generale, nelle tre dimensioni la 3

12 polarizzazione del campo elettrico può essere scritta come un singolo vettore ε, ed il vettore d onda come k, così da ottenere l espressione seguente (Eq. 1.1): E(r,t) = εe 0 e i(k r-ωt) (1.1) Dato che le onde elettromagnetiche sono trasversali si ottiene che il prodotto vettoriale tra numero d onda e campo elettrico è uguale al prodotto con il campo magnetico, ovvero pari a zero (Fig. 1.2). Fig Un raggio X è un onda elettromagnetica trasversale, in cui il campo elettrico ed il campo magnetico sono perpendicolari l uno rispetto all altro e alla direzione di propagazione k. La direzione del campo elettrico è data dal vettore unitario di polarizzazione ε [2]. Quella appena esposta è la classica descrizione di un onda elettromagnetica piana linearmente polarizzata. Da un punto di vista quantistico, un fascio monocromatico è visto come quantizzato in fotoni, ciascuno avente una sua energia (ħω) ed un suo momento (ħk). L intensità del fascio è data quindi dal numero di fotoni che passano attraverso una determinata area per unità di tempo. Dato che l intensità è proporzionale al quadrato del campo elettrico, ne consegue che anche l ampiezza del campo risulta quantizzata [2] Produzione di raggi X ed interazione con la materia Lo spettro dei raggi X generato da un tubo di raggi X consiste, in generale, di diversi picchi intensi, le cosiddette linee spettrali caratteristiche, sovrapposte ad una curva di fondo, 4

13 conosciuta come radiazione bianca. La parte continua dello spettro è generata da elettroni che decelerano rapidamente ed imprevedibilmente, alcuni istantaneamente, altri gradualmente, e la distribuzione delle lunghezze d onda dipende dalla tensione di accelerazione. La radiazione bianca, conosciuta anche come bremmstrahlung (termine tedesco per radiazione di frenamento ), è altamente indesiderata nella analisi di diffrazione di raggi X. Mentre è difficile stabilire l esatta distribuzione delle lunghezze d onda nello spettro bianco analiticamente, è possibile stabilire la più piccola lunghezza d onda che appare nello spettro continuo, in funzione della tensione di accelerazione. I fotoni con energia più elevata (ovvero i raggi con lunghezza d onda più corta), sono emessi da elettroni che vengono fermati istantaneamente dal target. In questo caso, l elettrone può trasferire tutta la sua energia cinetica: ad un fotone con energia: 2 mv ev 2 (1.2) c (1.3) Dove m è la massa a riposo, v è la velocità, e è la carica dell elettrone ( C), V è la tensione di accelerazione, c è la velocità della luce nel vuoto ( m/s), ħ è la costante di Planck ( J s), υ è la frequenza e λ è la lunghezza d onda dell onda associata all energia del fotone. Combinando le due equazioni e risolvendo rispetto a λ, è facile ottenere l equazione che lega la più corta lunghezza d onda possibile (λ SW in Å) e la tensione di accelerazione (in V) SW Å (1.4) V Osservando la Fig. 1.3 si vedono tre linee caratteristiche abbastanza intense, che risultano dalle transizioni di elettroni in livelli più alti del core dell atomo, a vacanze in livelli a più bassa energia, da cui un elettrone è stato espulso dall impatto con un elettrone accelerato nel tubo dei raggi X. 5

14 Fig. 1.3 Tipico spettro di emissione di raggi X, in cui è indicato il background continuo e le tre lunghezze d onda caratteristiche: Kα 1, Kα 2, Kβ che hanno alta intensità. La freccia verticale indica la lunghezza d onda più corta possibile (λ SW ), come determinato dalla Eq. 1.4 [3]. Le differenze di energia tra diversi livelli in un atomo sono specifiche di ogni elemento, quindi ciascun elemento chimico emette raggi X con una costante, o meglio, caratteristica, distribuzione di lunghezze d onda che appaiono grazie all eccitazione degli elettroni del core dell atomo, bombardati dagli elettroni ad alta energia del target [3]. Ovviamente, prima che gli elettroni del core possano essere eccitati dai loro livelli a minore energia, gli elettroni bombardanti devono avere una energia che sia uguale o superiore alla differenza di energia tra i due livelli di energia più vicini del materiale target. Le transizioni dalle shell L ed M alla shell K, cioè L M e M K, sono indicate come radiazione Kα e Kβ, rispettivamente. La K corrisponde alla shell con numero quantistico principale n = 1, L a n = 2 e M a n = 3. La componente Kα consiste di due caratteristiche lunghezze d onda nominate Kα 1 e Kα 2 che corrispondono alle transizioni 2p 1/2 1s 1/2 e 2p 3/2 1s 1/2, rispettivamente, dove s e p si riferiscono ai corrispondenti orbitali. I pedici 1/2 e 3/2 corrispondo al numero di momento angolare quantico, j. Anche la componente Kβ si compone di diverse linee spettrali discrete, di cui le più intense sono Kβ 1 e Kβ 3, che sono così vicine tra loro da risultare praticamente indistinguibili nello spettro dei raggi X della maggior parte dei materiali usati come anodo [3]. I raggi X vengono prodotti quando elettroni ad alta velocità incidono sulla materia. I fenomeni che risultano dalla decelerazione di questi elettroni sono molto complessi ed i raggi X sono, in generale, il risultato di due tipi di interazioni degli elettroni con gli atomi del materiale target. Un elettrone ad alta velocità può colpire e spostare un elettrone fortemente legato all interno dell atomo vicino al nucleo, producendo quindi la ionizzazione dell atomo. Quando una determinata shell interna di un atomo viene ionizzata in questo modo, un elettrone di una shell esterna può cadere nel posto vacante: il risultato di 6

15 questo è l emissione di un raggio X caratteristico dell atomo coinvolto. Questa produzione di raggi X è un processo quantistico, simile all origine dello spettro ottico Le basi fondamentali di questa teoria sono state sviluppate originariamente da Kossel [4] sulla base della teoria atomica di Bohr [5] e sulla misura dello spettro dei raggi X di Moseley [6]. Un elettrone ad alta velocità può essere rallentato anche da un altro processo. Invece di collidere con un elettrone di una shell interna dell atomo del materiale target, può semplicemente essere decelerato a causa del passaggio attraverso un forte campo elettrico vicino al nucleo dell atomo. Anche questo fenomeno è un processo quantistico, e la diminuzione di energia ΔE di un elettrone si manifesta con un fotone X di frequenza υ, come espresso dall equazione di Einstein: ħυ=δe (1.5) dove ħ è la costante di Planck. La radiazione X prodotta in questa maniera è indipendente dalla natura degli atomi bombardati ed appare come una banda con lunghezza d onda che varia continuamente ed il cui limite inferiore è funzione dell energia massima degli elettroni incidenti [7]. Quando i raggi X interagiscono con una sostanza si osserva la concomitanza di molti effetti, tra cui i principali che prenderemo in considerazione sono: Scattering coerente, che produce fasci con la stessa lunghezza d onda di quello incidente (primario). L energia dei fotoni rimane invariata se paragonata a quella del fascio primario. Scattering incoerente (effetto Compton), in cui la lunghezza d onda del fascio scatterato è maggiore di quella del fascio incidente, grazie alla perdita di energia del fotone nella collisione con il nucleo dell elettrone. Assorbimento dei raggi X, in cui alcuni fotoni sono dissipati in direzioni random a causa dello scattering ed alcuni perdono la loro energia a causa della ionizzazione o dell effetto fotoelettrico Scattering dei raggi X E ben noto che quando un onda interagisce con un punto oggetto, viene diffusa (scatterata); il risultato di questa interazione è una nuova onda che si propaga in tutte le direzioni. Se non c è perdita di energia, l onda risultante avrà stessa frequenza di quella incidente (primaria) e avrà luogo lo scattering elastico. Nelle tre dimensioni, l onda elasticamente diffusa è sferica ed ha punto di origine coincidente con l oggetto (Fig.1.4). 7

16 Fig. 1.4 Illustrazione dell onda sferica prodotta dallo scattering elastico dell onda incidente in un punto [3]. Quando l onda interagisce con due o più punti, questi producono tutti onde sferiche con stessa λ, le quali interferiscono le une con le altre sommando le loro ampiezze. Se due onde sono scatterate con vettori di propagazione paralleli si dicono completamente in fase e l onda risultante avrà ampiezza doppia; se, invece, le due onde sono del tutto non in fase, si estingueranno l una con l altra (Fig. 1.5). Il primo caso di interazione prende il nome di interferenza costruttiva, mentre il secondo di interferenza distruttiva. Quando l interferenza costruttiva ha luogo nel caso di array periodici di punti, accresce l ampiezza dell onda risultante di diversi ordini di grandezza: questo fenomeno è alla base della teoria della diffrazione. Fig. 1.5 I due casi limite dell interazione tra onde con vettori di propagazione paralleli (k): l interferenza costruttiva di due onde in fase ha come risultato una nuova onda con ampiezza d onda doppia (in alto), e l interferenza distruttiva di due onde del tutto non in fase ha come risultato un onda con ampiezza zero, le onde si estinguono l una con l altra (in basso) [3]. 8

17 La diffrazione si osserva solo quando la lunghezza d onda è dello stesso ordine di grandezza della distanza ripetitiva tra gli oggetti scatteranti (diffusivi). Quindi, nei cristalli la lunghezza d onda dovrebbe essere nello stesso range della più piccola distanza interatomica che è compresa tra ~0.5 e ~2.5 Å. Questa condizione è soddisfatta quando si utilizza una radiazione elettromagnetica del tipo dei raggi X. È importante notare che i raggi X vengono scatterai dagli elettroni, quindi i centri attivi di scattering non sono i nuclei ma gli elettroni stessi, o più precisamente la densità elettronica periodicamente distribuita nel reticolo cristallino. Scattering da elettroni L origine di un onda elettromagnetica elasticamente scatterata da un elettrone può essere ben compresa ricordando che l elettrone è una particella carica. Quindi, il campo elettrico oscillante dell onda incidente esercita una forza sulla carica elettrica (elettrone), forzando l elettrone ad oscillare con la stessa frequenza della componente del campo elettrico dell onda elettromagnetica. L elettrone oscillante accelera e decelera a seconda delle variazioni di ampiezza del vettore campo elettrico, ed emette una radiazione elettromagnetica che viene diffusa in tutte le direzioni. In questo senso, il fascio di raggi X elasticamente scatterato è semplicemente irradiato dall elettrone oscillante ed ha stessa frequenza e lunghezza d onda dell onda incidente: come già accennato in precedenza, questo tipo di diffusione è detto scattering coerente. Anche se i raggi X vengono diffusi in tutte le direzioni da un elettrone, l intensità del fascio scatterato dipende dall angolo di scattering. Tale dipendenza fu dimostrata da Thomson nel 1906 [8] come spiegato più avanti. Consideriamo che un fascio di raggi X viaggi lungo l asse x ed interagisca con un elettrone di carica e (C) e massa m (kg) posizionato nell origine O, l intensità I dei raggi X scatterati nella posizione P del piano x-z a distanza r (m) dall origine può essere espressa secondo l equazione di Thomson, (Eq. 1.5): e 2 K 1 cos 2 I I sin 0 I (1.5) 2 4 m r r 2 dove I 0 è l intensità del fascio incidente, µ 0 = 4π 10-7 m kg C -1, K è uguale al quadrato del raggio elettronico r e della teoria elettromagnetica classica, r e = (2, ) 2 m 2, e α è l angolo tra la direzione di scattering e la direzione di accelerazione dell elettrone. In Fig. 1.6 (alto) si può osservare invece che 2θ rappresenta l angolo tra la linea che congiunge i punti O e P e la direzione del fascio incidente (asse x). 9

18 Fig. 1.6 Alto: Relazione tra le componenti del vettore elettrico nel punto O e le componenti di quello della radiazione scatterato al punto di osservazione P [1]. Basso: Cinque punti equamente spaziati producono cinque onde sferiche a causa dello scattering elastico di una singola onda incidente [3]. L equazione di Thomson mostra chiaramente che l intensità dei raggi X scatterati decresce con l inverso del quadrato della distanza dall elettrone nell origine, così come una funzione dell angolo di scattering. Il termine nell ultima parentesi della Eq. 1.5 è chiamato fattore di polarizzazione. Trovare il valore assoluto dell'intensità di scattering da un elettrone usando la Eq. 1.5 è un compito arduo; tuttavia, nella maggior parte delle applicazioni sono richiesti solo i valori relativi delle intensità dei raggi X scatterati e di quelli diffratti. Si può presumere, inoltre, che tutti i termini che appaiono nella (1.5) possano essere considerati costanti ad eccezione del fattore di polarizzazione [1]. Quando più di un punto (elettrone), viene interessato dalla stessa onda incidente, l ampiezza complessiva di scattering sarà il risultato dell interferenza di tutte le onde sferiche. Come esposto in precedenza, l ampiezza varierà a seconda differenza di fase delle onde multiple con vettori di propagazione paralleli, ma con punti di origine differenti (Fig.1.6 basso). 10

19 Un modo alternativo di descrivere l interazione dei raggi X con un elettrone libero si ottiene considerando questi ultimi come un fascio di fotoni. Per semplicità consideriamo che inizialmente l elettrone sia libero e a riposo. In una collisione l energia verrà trasferita dal fotone all elettrone, con il risultato che il fotone scatterato avrà energia inferiore a quella del fotone incidente; questo fenomeno prende il nome di effetto Compton. Storicamente questo effetto non risultava spiegabile con i concetti della teoria classica e diede quindi maggiore supporto alla emergente teoria quantistica. La perdita di energia del fotone può essere facilmente calcolata considerando la conservazione dell energia e del momento durante la collisione. Fig. 1.7 Compton scattering: un fotone con energia Ɛ = ħck e momento ħk, scatterato da un elettrone a riposo con energia mc 2. L elettrone viene sbalzato via con un momento ħq come indicato dal triangolo di scattering [2]. Il risultato del calcolo è che la variazione della lunghezza d onda è proporzionale alla lunghezza dello scattering Compton: mc Å (1.6) 11

20 Scattering da atomi Quando un fascio di raggi X incontra un atomo composto da un nucleo ed un certo numero di elettroni, ciascun elettrone produce scattering coerente con intensità data dall equazione di Thomson. Dato che la massa del nucleo è molto più grande di quella dell elettrone, il fascio di raggi X non può far oscillare il nucleo in maniera apprezzabile. Quindi, quando si considera l effetto di scattering dei raggi X da un atomo, è necessario tenere in considerazione soltanto lo scattering degli elettroni associati all atomo. Questo risulta evidente anche dalla Eq. 1.5 dato che il quadrato della massa della particella che diffonde appare al denominatore. L ampiezza di scattering di un singolo atomo con numero atomico Z contenente Z elettroni, è uguale a Z volte l ampiezza di scattering di un elettrone nella direzione di propagazione. Dato che proprio nella direzione di propagazione, l angolo di scattering è zero (2θ = 0), le fasi di tutti i raggi X scatterati dagli elettroni di un atomo saranno del tutto coincidenti e quindi le ampiezze si andranno a sommare. Quando invece l angolo di scattering ha valori diversi da zero, si ha una variazione nella fase dei raggi X scatterati dagli elettroni di un atomo. In altre parole, i raggi X scatterati da elettroni che si trovano, ad esempio, nei punti A e B dello spazio, avranno fasi differenti perché si ha una differenza di cammino ottico quando l angolo di scattering è diverso da zero. Il risultato è che l ampiezza di scattering di un singolo atomo decresce all aumentare dell angolo θ. Inoltre, l ampiezza di scattering dipende anche dalla lunghezza d onda del fascio incidente; infatti, agli stessi angoli di scattering 2θ, minore è la lunghezza d onda e maggiore diventa la differenza di fase. Questo implica che l ampiezza di scattering diventa relativamente piccola quando viene utilizzata una lunghezza d onda piccola. Per determinare l ampiezza di scattering di atomi contenenti più di due elettroni, è necessario tenere presente che la carica degli elettroni non è posizionata in un punti fissi, ma piuttosto è distribuita nello spazio come una nuvola. Consideriamo la funzione di densità elettronica ρ (r) come funzione della distanza dal nucleo all origine, e consideriamo i vettori d onda s 0 per il fascio incidente ed s per il fascio diffuso. Ad una distanza pari ad r, il fascio scatterato genera una differenza di cammino ottico rispetto al fascio incidente pari a (s-s 0 ) r; se la lunghezza d onda dei raggi X primari è λ, allora l ampiezza di scattering dei raggi X irradiati è data dall espressione seguente (Eq. 1.6): 2 i exp s s 0 r dv (1.6) L ampiezza dello scattering coerente da singolo elettrone può essere ottenuta integrando sul volume occupato dall elettrone; si può quindi definire il fattore di scattering per elettrone (in unità elettroniche) come (Eq. 1.7): 12

21 2 i f e exp 0 s s r dv (1.7) Inoltre, la relazione che lega i due vettori d onda s 0 ed s è la seguente: q s s 0 2sin q q (1.8) Il vettore q è chiamato vettore d onda (anche detto vettore di scattering ) ed è il vettore necessario per ruotare la direzione del fascio incidente rispetto a quello scatterato di un angolo pari a 2θ. Dato che la distribuzione di densità elettronica nelle shell più interne dell atomo ha una simmetria approssimabile a quella sferica, i fattori di scattering per atomi che contengono più di due elettroni possono essere facilmente stimati. Ad esempio, se la distribuzione di densità elettronica intorno al nucleo posto all origine è data da ρ = ρ(r), allora il fattore di scattering può essere ottenuto come: f e 2 sin 2 qr 4 r ( r) dr (1.9) 0 2 qr L ampiezza del fattore di scattering coerente per un atomo che include n elettroni è calcolata dunque come la somma degli f e di tutti gli elettroni usando la seguente equazione: f j f sin 2 qr 4 r ( r) dr 2 e, n j (1.10) 0 j 2 qr Questo valore di f viene solitamente chiamato fattore di scattering atomico, o anche fattore di forma, in quanto dipende da come gli elettroni sono distribuiti intorno al nucleo. La quantità f mostra l efficacia o abilità di scattering coerente per atomo ed è definita come il rapporto tra l ampiezza dell onda scatterata da un atomo e l ampiezza di quella scatterata da un elettrone nelle stesse condizioni. L equazione 1.10 implica che f sia una funzione di (sinθ/λ) per ogni atomo; calcoli teorici ed approssimazioni come quelle di Hatree-Fermi e Fermi-Thomas-Dirac hanno permesso di calcolare il fattore di scattering atomico per ogni elemento in funzione del valore (sinθ/λ), di cui un esempio è riportato in Fig. 1.8 [9]. 13

22 Fig. 1.8 Fattori di scattering atomico di Al, Fe, e Ag [9]. Arrivati a questo punto è importante ricordare che, come accennato in precedenza nel corso di questo capitolo, quando un fascio di raggi X monocromatico incontra un atomo, hanno luogo due processi di scattering, coerente ed incoerente, che sono simultanei ed interessano tutte le direzioni. L intensità di scattering incoerente (Compton) per elementi leggeri (con piccolo numero atomico) risulta aumentare al diminuire del numero atomico Z. Inoltre, quando la quantità (sinθ/λ) aumenta lo fa anche l intensità di scattering incoerente. Quindi, le intensità di diffusione, non modificata (coerente) e modificata (incoerente), cambiano in maniera opposta con Z e (sinθ/λ). Inoltre, la somma delle intensità di scattering coerente ed incoerente è uguale alla classica intensità di scattering per l elettrone singolo [1,3]. 14

23 1.1.4 Scattering da cristalli: la Legge di Bragg Quando un fascio di raggi X incide su un cristallo, le onde diffuse coerentemente dai vari atomi, disposti ai nodi del reticolo cristallino tridimensionale, interferiscono tra loro: si hanno dei massimi di interferenza soltanto nelle direzioni in cui le onde diffuse da tutti gli atomi appartenenti ad uno stesso reticolo sono in concordanza di fase; supporremo, inoltre, che la diffusione dei raggi X da parte dei vari atomi del reticolo sia coerente, cioè non comporti variazione di lunghezza d onda rispetto alla radiazione incidente (Fig. 1.9). Siano A 1 e A 2 due atomi appartenenti ad uno stesso reticolo; il vettore r che li ha come estremi è dato da r ua vb w c (1.11) dove a, b e c sono i vettori che individuano il reticolo primitivo di Bravais del cristallo, ed u, v e w sono numeri interi qualsiasi, zero compreso. La direzione di incidenza del fascio monocromatico di raggi X (lunghezza d onda ) è indicata dal versore s 0, mentre quella di diffrazione dal versore s, come nella figura sottostante. Fig. 1.9 Fascio incidente e fascio diffratto. Nella direzione individuata da s si ha interferenza positiva quando la differenza di cammino (A 1 N-A 2 M) tra il raggio I 1 A 1 D 1 e quello I 2 A 2 D 2 è uguale ad un numero intero di lunghezze d onda. E facile notare che tale differenza di cammino è esprimibile come da cui, ponendo S = s-s 0, si ottiene: A1N - A2M = r s r s0 n (1.12) r S n (1.13) Sostituendo la (1.11) nella (1.13) si ha: 15

24 ua vb wc S n (1.14) da cui: u a S v b S w c S n (1.15) Quindi, affinché nella direzione s i raggi diffusi da tutti gli atomi del reticolo siano in concordanza di fase, l equazione (4.4) deve essere valida per tutte le terne di numeri interi (u,v,w), inclusa la terna (0,0,0). Ciò accade, evidentemente, se, e solo se, i tre termini tra parentesi tonde sono a loro volta interi, cioè se, e solo se, valgono simultaneamente le seguenti tre equazioni a S h b S k c S l (1.16) con h, k, l numeri interi qualsiasi, zero compreso. Le precedenti tre equazioni sono note come equazioni di Laue [10]. Se indichiamo con 1, 2, 3 gli angoli formati da a, b e c con s 0, cioè col versore della direzione di incidenza, e con 1, 2, 3 quelli formati con s, cioè col versore della direzione di diffrazione, le equazioni di Laue si possono scrivere anche nella forma: a cos cos h 1 1 b cos cos k 2 2 c cos cos l 3 3 (1.17) Queste equazioni debbono essere simultaneamente verificate affinché nella direzione individuata dai tre angoli 1, 2, 3 si abbia un massimo di diffrazione, quando la radiazione incide sul cristallo secondo la direzione individuata dai tre angoli 1, 2, 3. E interessante notare che le equazioni di Laue, che danno, come visto, le direzioni in cui si osservano i raggi diffratti dal cristallo, dipendono solo dalle costanti reticolari a, b e c e non dal contenuto della cella elementare. Dunque la geometria della diffrazione dipende solo dalla metrica del reticolo, ovvero della cella elementare, e non dal suo contenuto. Con un 16

25 semplice riarrangiamento, le equazioni di Laue (1.17) possono essere riscritte nella forma seguente: a cos 1 cos 1 h b cos 2 cos 2 k c cos 3 cos 3 l (1.18) I massimi di diffrazione si osservano, come detto in precedenza, in corrispondenza dei valori di cos 1, cos 2 e cos 3 (coseni direttori della direzione del raggio diffratto) che sono soluzioni del precedente sistema, con h, k ed l numeri interi. E innanzitutto evidente che questo sistema ammette sempre la soluzione banale i = i, per la quale i tre numeri interi sono h=k=l=0 e che corrisponde, fisicamente, al passaggio della radiazione incidente attraverso il cristallo senza deviazione (riflessione di ordine zero). E interessante trovare, invece, le condizioni per cui le equazioni di Laue abbiano soluzioni non banali. E chiaro che, scelto un cristallo (e quindi fissati a, b, c), orientato quest ultimo in una certa direzione rispetto al fascio incidente (e quindi fissati i tre coseni direttori cos 1, cos 2, cos 3 ) e fissata una certa lunghezza d onda, in generale non esisteranno soluzioni del sistema (1.18) con h, k ed l tutti e tre nulli. Quindi, un cristallo fisso investito da raggi X monocromatici, in generale non darà luogo a massimi di diffrazione dei raggi X. Per avere soluzioni del precedente sistema si può operare fondamentalmente in due modi: 1) il cristallo è fatto muovere rispetto al fascio incidente monocromatico. In questo modo, i coseni direttori del fascio incidente variano in modo continuo in opportuni intervalli e si troveranno dei valori per i quali il sistema ammette soluzioni per h, k ed l interi; ciò corrisponde, sperimentalmente ai metodi del cristallo ruotante o delle polveri; 2) il cristallo è fisso, ma si impiega una banda continua di lunghezze d onda. All interno di tale banda esisterà un valore di lunghezza d onda per il quale il sistema ammette una soluzione; ciò corrisponde sperimentalmente al metodo di Laue. Le equazioni di Laue, discusse in precedenza, consentono di determinare le direzioni nelle quali si osservano i massimi di diffrazione prodotti da un cristallo, in termini di lunghezza d onda dei raggi X e di metrica del reticolo cristallino (geometria della diffrazione). Tali equazioni possono essere espresse mediante una relazione più semplice, dovuta a Bragg, che ha il vantaggio di ricondurre, formalmente, il fenomeno della diffrazione dei raggi X da un cristallo a quello della riflessione di tali raggi da parte di piani reticolari del cristallo. Riscriviamo le equazioni di Laue nella forma a b c S ; S ; S h k l (1.19) 17

26 Sottraendo la seconda equazione dalla prima e la terza dalla prima, si ottengono le seguenti due equazioni: a b S 0 h k a c S 0 h l (1.20) che costituiscono un sistema equivalente a quello delle (1.19). Dalle (1.20) si deduce che il vettore S è perpendicolare ai due vettori a b e a c h k h l (1.21) Consideriamo ora il piano reticolare di indici di Miller hkl (fig. 10), riportato nella figura sottostante. Per definizione, esso intersecherà l asse a ad a/h, l asse b a b/k e l asse c a c/l. Fig Rappresentazione dei vettori di Eq e del piano reticolare con indici di Miller hkl. E facile vedere che i due vettori (1.21) giacciono entrambi nel piano reticolare hkl e che, quindi, il vettore S è perpendicolare a tale piano. D altra parte, essendo S = s-s 0, ed essendo i moduli di s e s 0 uguali in quanto versori, si ha che il vettore S biseca l angolo formato dai due versori; essendo poi, come visto, S perpendicolare al piano hkl, si ha che tale piano forma lo stesso angolo,, sia con s che con s 0. Poiché s 0 rappresenta la direzione ed il verso dei raggi X incidenti ed s quella dei raggi diffratti (Fig. 1.11), si ha che il piano hkl si comporta, formalmente, come un piano di riflessione dei raggi X. 18

27 Fig.1.11 Composizione dei vettori incidente (s 0 ) e diffratto (s). Indichiamo ora con d hkl la spaziatura (spacing) dei piani reticolari della famiglia hkl, cioè la distanza OD tra l origine ed il piano hkl. E facile vedere che d hkl è la proiezione di a/h su S, cioè: d hkl a h S S (1.22) E facile vedere che il modulo di S è uguale a: S 2sin (1.23) Sostituendo nella (1.22) la (1.23) e la prima delle (1.19) si ha: d hkl sin 2 (1.24) Ovvero: 2dhkl sin (1.25) che è l equazione di Bragg [1-3,7]. Da questa relazione si deduce che, data una famiglia di piani reticolari, di indici di Miller hkl, con spacing d hkl, si ha diffrazione dei raggi X, di lunghezza d onda, solo per un ben determinato valore dell angolo θ formato dalla direzione del fascio incidente coi piani di tale famiglia, un valore cioè tale da soddisfare la (1.25); la radiazione diffratta emerge allora dal cristallo formando lo stesso angolo θ con la famiglia di piani e quindi è come se venisse riflessa dai piani stessi. La riflessione dei raggi X è dunque selettiva, a differenza della riflessione vera e propria (ad esempio quella della luce visibile su uno specchio) che 19

28 avviene qualunque sia l angolo di incidenza. L analogia formale tra diffrazione dei raggi X dai cristalli e riflessione da parte dei piani reticolari messa in luce dalla legge di Bragg ha portato all introduzione in cristallografia di una terminologia particolare. Così, ad esempio, i massimi di diffrazione prodotti da un cristallo vengono comunemente chiamati riflessi o riflessioni. Una dimostrazione più elementare della legge di Bragg si può ricavare (indipendentemente dalle equazioni di Laue) ipotizzando che i piani reticolari riflettano i raggi X. Si abbia un fascio di raggi X paralleli e monocromatici, che incide secondo con un angolo θ sui piani della famiglia hkl, il cui spacing è d hkl, (Fig. 1.12). Affinché nella direzione di riflessione AR 1, formante un angolo θ con i piani (hkl) si abbia interferenza costruttiva, la differenza di cammino tra il raggio I 1 AR 1 e quello I 2 BR 2, che vale (BN+BN ), deve essere uguale ad un numero intero n di lunghezze d onda. Semplici calcoli trigonometrici portano alla relazione: 2 sin n (1.26) d hkl che è appunto l equazione di Bragg. In particolare, da questa espressione, si vede che l ordine di diffrazione n-esimo dalla famiglia di piani (hkl) può essere considerato anche come primo ordine di diffrazione da parte della famiglia di piani (nh nk nl), il cui spacing è, evidentemente, (d hkl /n). Dalla equazione di Bragg si ricava quanto segue: sin 1 2d hkl 1ovvero d hkl 2 (1.27) cioè, per una data lunghezza d onda, non tutti i piani reticolari potranno riflettere i raggi X, ma solo quelli il cui spacing soddisfa la precedente relazione. Cambiando la lunghezza d onda è possibile variare la soglia minima di spacing per le famiglie di piani che possono dare riflessione. Fig Interazione di fasci incidenti con piani reticolari posti a distanza d hkl. 20

29 In sostanza, nel formalismo della legge di Bragg, ogni riflessione (massimo di diffrazione) può essere messa in relazione con la famiglia di piani reticolari (h k l) che l ha prodotta. Gli spacing d hkl delle varie famiglie di piani reticolari possono essere espressi in funzione delle costanti reticolari (a, b, c,,, ) e dei numeri interi relativi h, k ed l attraverso formule già riportate in precedenza. L attribuzione di ogni riflessione alla corrispondente famiglia di piani reticolari che l ha prodotta, ovvero, il che è lo stesso, l attribuzione dei tre numeri h, k ed l ad ogni riflessione prende il nome di indicizzazione del riflesso ed è uno stadio molto importante nell analisi strutturale di un cristallo. In effetti, gli spacing d hkl delle varie riflessioni osservate vengono misurati sperimentalmente, senza nessuna conoscenza della metrica e della simmetria del reticolo cristallino. Se, tuttavia, le varie riflessioni vengono indicizzate, allora è possibile risalire, dalle formule richiamate precedentemente, alle costanti reticolari e quindi alla cella elementare del cristallo. La procedura di indicizzazione dei riflessi è pressoché immediata quando l analisi strutturale è eseguita su cristalli singoli (metodo di Weissenberg o di precessione). In questo caso, infatti, è possibile risalire agli indici di ogni riflesso in modo diretto; è già più complessa quando si lavora su fotogrammi di cristallo singolo oscillante o di fibra, nel qual caso è possibile ricavare direttamente dal fotogramma, per ogni riflessione, solo uno dei tre indici, e diventa molto complessa quando si lavora su spettri di diffrazione da polveri, nei quali non si dispone, a priori, di nessuna informazione sugli indici delle riflessioni [1-3,7]. 21

30 1.1.5 Assorbimento dei raggi X L assorbimento dei raggi X genera una serie di fenomeni ben rappresentati in Fig Fig Schematico diagramma con i livelli energetici dell atomo. Per chiarezza sono state indicate solo le tre shell più interne dell atomo. a) Processo di assorbimento fotoelettrico, b) Emissione di fluorescenza X, c) Emissione di un elettrone Auger [2]. Quando un fotone X viene assorbito da un atomo, l eccesso di energia viene trasferito ad un elettrone che è espulso dall atomo, che viene quindi ionizzato. Questo processo è conosciuto come assorbimento fotoelettrico. Quantitativamente, l assorbimento è dato dal coefficiente di assorbimento lineare µ. Per definizione, la quantità µdz è l attenuazione del fascio di raggi X attraverso un foglio di spessore infinitesimo dz a distanza z dalla superficie (Fig. 1.14). 22

31 Fig Attenuazione del fascio di raggi X dovuta al assorbimento, durante il passaggio attraverso un campione. L attenuazione segue un decadimento esponenziale con una lunghezza di attenuazione caratteristica lineare 1/µ, dove µ è il coefficiente di assorbimento [2]. L intensità I(z) attraverso il campione deve quindi soddisfare la condizione: di I( z) dz (1.28) Che porta alla equazione differenziale: di dz I( z) (1.29) Imponendo che l intensità del fascio incidente in z=0 sia I(z=0)=I 0, si ottiene la seguente soluzione: I z ( z) I 0 e (1.30) Il fattore µ si può quindi determinare sperimentalmente come rapporto tra le intensità dei fasci con e senza il campione. Il numero di eventi di assorbimento, W, nel foglio sottile è proporzionale ad I e al numero di atomi per unità di area, ρ at dz, dove ρ at è la densità atomica. Il fattore di proporzionalità è per definizione la sezione trasversale di assorbimento, σ a, così che: W I( z) dz I( z) dz (1.31) Il coefficiente di assorbimento risulta quindi legato a σ a tramite la relazione seguente: at a 23

32 N M m A at a a (1.32) dove N A, ρ m e M sono, rispettivamente, il numero di Avogadro, la densità di massa e la massa molare. In un materiale composito, ciascun tipo di atomi con numero di densità ρ at,j e sezione di assorbimento σ a,j, la probabilità di assorbimento in uno strato dz è ottenuta sommando ρ at,j σ a dz, la probabilità totale di assorbimento per un atomo di tipo j. Quindi il coefficiente di assorbimento per un materiale composito è: j at, j a, j (1.33) Quando un fotone X espelle un elettrone da una shell atomica interna, si crea una lacuna. Consideriamo l immagine in Fig in cui si illustra il caso di un elettrone eccitato della shell K. La lacuna formatasi viene subito riempita da un elettrone delle shell più esterne, ad esempio L, con la simultanea emissione di un fotone con energia pari alla differenza tra le energie di legame degli elettroni K ed L. La radiazione emessa è conosciuta con il nome di fluorescenza X. In alternativa, l energia rilasciata da un elettrone che salta dalla shell L alla lacuna della shell K può essere usata per espellere un altro elettrone da una delle shell più esterne (Fig 1.13c). Questo elettrone secondario emesso è chiamato elettrone Auger, dal nome del fisico francese che per primo scoprì questo fenomeno. La natura monocromatica della fluorescenza X è una impronta unica del tipo di atomo che ha prodotto la fluorescenza stessa. Moseley scoprì la seguente legge empirica: 2 2 K [ kev ] ( Z 1) (1.34) dove K è l energia della linea K α per un dato elemento e Z è il numero atomico. L analisi della radiazione di fluorescenza può essere utilizzata per le analisi chimiche non distruttive ed ha il vantaggio di essere molto sensibile. La sezione trasversale di assorbimento fotoelettrico varia con il numero atomico Z del materiale assorbente, approssimativamente come Z 4 ; questa variazione, e quindi questo contrasto, rende i raggi X una tecnica di immagine molto utile, soprattutto nel caso della tomografia assiale computerizzata (TAC). 24

33 1.1.6 Il diffrattometro a raggi X Un tipico diffrattometro a raggi X utilizzato nell analisi dei materiali si compone dei seguenti elementi essenziali: una sorgente di raggi X, solitamente un tubo di raggi X; un goniometro, che assicura precisi movimenti meccanici del tubo, del detector ed eventualmente del campione; un detector; un apparato elettronico per conteggiare gli impulsi del rivelatore e sincronizzarli con le posizioni del goniometro. I tubi a raggi X convenzionali sono tubi di diodi in condizioni di vuoto, con un filamento a cui è applicata una differenza di potenziale tipicamente a -40 kv. Gli elettroni vengono emessi termoionicamente dal filamento e vengono accelerati nell anodo, che è mantenuto a potenziale di terra. Il voltaggio utilizzato e la corrente nel tubo di raggi X sono selezionati tipicamente per ottimizzare l emissione di radiazione caratteristica, dato che è una sorgente di radiazione monocromatica. Per una particolare tensione di accelerazione, l intensità di tutte le radiazioni aumenta con la corrente di elettroni nel tubo. I raggi X caratteristici vengono eccitati più efficientemente con una tensione di accelerazione, V, più elevata [11]: I V 1. 5 (1.35) char V C dove V c è l energia della radiazione caratteristica. D altro canto, l intensità di bremsstrahlung aumenta approssimativamente con: I V 2 Z 2 brem (1.36) Per massimizzare l intensità della radiazione X caratteristica rispetto a quella continua si imposta quanto segue: d dv I I char brem d dv ( V V 2 V C ) (1.37) Da cui si ottiene: V 4V C (1.38) Tutto ciò indica quindi che il voltaggio ottimale per eccitare la radiazione X caratteristica è circa volte l energia della radiazione X caratteristica. Il materiale più utilizzato per 25

34 l anodo è il rame, che permette anche di beneficiare della sua elevata conduttività termica. Tra tutte le possibili configurazioni in cui può lavorare un diffrattometro a raggi X, una delle più interessanti, oltreché quella utilizzata in tutte le misure riportate in questa tesi, è la geometria Bragg-Brentano. Questa geometria offre vantaggi di alta risoluzione e analisi con fasci ad alta intensità, con il relativo svantaggio di richiedere un allineamento molto preciso e campioni preparati con cura. Inoltre, questa geometria richiede che la distanza tra sorgente e campione sia costante e pari alla distanza tra campione e rivelatore. Errori di allineamento portano spesso a difficoltà di identificazione e quantificazione impropria delle fasi. Planarità, rugosità, e posizionamento corretto del campione sono vincoli che impediscono la misura del campione in linea. Inoltre, i sistemi XRD tradizionali sono spesso basati su apparecchiature ingombranti con requisiti di elevata potenza nonché di sorgenti ad alta potenza per aumentare il flusso di raggi X sul campione, aumentando i segnali di diffrazione rilevati dal campione. La classica geometria Bragg-Brentano è riportata in Fig Fig Geometria di un diffrattometro Bragg-Brentano. I due angoli relativi al campione sono identici (180-2θ) [11]. In questo goniometro, sia il detector che il tubo si trovano sulla circonferenza del cerchio del goniometro, che ha come centro il campione. La divergenza del fascio è indicata nella figura dal percorso dei due raggi dal tubo al detector. Anche se i due raggi uscenti dal tubo incidono con angoli differenti sulla superficie del campione, passando attraverso l ultima fenditura, formano lo stesso angolo, 180-2θ, con il campione [11]. 26

35 1.2 Microscopia Elettronica La microscopia elettronica consente di ottenere informazioni su morfologia, struttura e composizione locale dei materiali, attraverso l analisi dell interazione elettrone-materia. La possibilità teorica e pratica di ottenere immagini ingrandite di oggetti microscopici utilizzando come fonte di illuminazione particelle materiali cariche (elettroni) al posto di fotoni, è nota sin dal 1932, ed il principio attraverso il quale un corpo dotato di massa si può comportare come un onda ed essere quindi utilizzato per la microscopia, si basa sulle seguenti osservazioni: l identità tra il principio di Maupertuis, che regola il percorso di una particella in un campo di forze, e quello di Fermat, che regola il percorso di un raggio luminoso attraverso mezzi riflettenti e rifrangenti, ovvero il principio di Fermat applicato all onda di fase è identico al principio di Maupertuis applicato all oggetto in movimento p dl 0 n dl 0 A, B l A, B l (1.39) con p quantità di moto della particella ed n indice di rifrazione del mezzo; la possibilità di realizzare campi elettrici e magnetici tali che il loro effetto su particelle cariche equivalga a quello di una lente sui raggi luminosi; il riconoscimento della natura ondulatoria dell elettrone, esplicitata dall equazione di De Broglie (1924): h m v (1.40) con λ lunghezza d onda associata alla particella, h costante di Planck e mv la quantità di moto della particella. Per velocità relativistiche la formula diventa: 2m 0 h E E 1 2E 0 (1.41) 27

36 Dove h è la costante di Planck, m 0 la massa a riposo dell elettrone, E ed E 0 rispettivamente energia cinetica (e x V, con e carica dell elettrone e V potenziale di accelerazione) ed energia dell elettrone (m 0 c 2 ). Da queste teorie è derivata la possibilità di trattare un elettrone come un onda, la cui lunghezza d onda è inversamente proporzionale alla velocità della particella. La risoluzione spaziale di uno strumento ottico è la minima distanza tra due punti, tale che essi siano distinguibili, ed è data dal criterio di Rayleigh: d 0,61 n sin (1.42) dove n è l indice di rifrazione del mezzo, α la semi-apertura angolare del microscopio e λ la lunghezza d onda. Il potere risolutivo (risoluzione) di un microscopio elettronico risulta migliore di quello di un microscopio ottico, in quanto la luce visibile ha una lunghezza d onda dell ordine dei 600 nm (arrivando così ad una risoluzione massima di 150 nm), mentre un elettrone può essere accelerato fino ad ottenere un potere risolutivo di 1 nm (limitato soltanto dalle aberrazioni) Interazione elettroni materia Quando gli elettroni vengono accelerati fino ad alte energie (alcune centinaia di kev) e vengono focalizzati su un materiale, possono essere diffusi o retrodiffusi, elasticamente o anelasticamente, e produrre diverse interazioni, sorgenti di differenti segnali come raggi X, elettroni Auger o luce. 28

37 Fig Immagine riassuntiva di tutte le possibili interazioni tra elettrone e materia. Il volume di interazione tra il fascio ed il campione è molto piccolo; il campione è infatti molto sottile ( nm) per essere trasparente agli elettroni. Come illustrato in Fig. 1.16, quando un fascio di elettroni interagisce con la materia, si possono avere diverse interazioni che producono diversi risultati, quali: Fascio di elettroni trasmesso: gli elettroni coerenti danno l immagine o la diffrazione. Per gli elettroni che hanno perso energia si applica la tecnica Energy Loss, che analizza come gli e - abbiano perso energia interagendo con la materia. Dagli elettroni incoerenti si ottengono informazioni sui legami chimici. Elettroni retrodiffusi (BSE): Si parla di retrodiffusione (backscattering) quando si ha una variazione di direzione maggiore di 90. Inoltre, l elettrone possiede un energia che va da circa 50 ev fino a quella di incidenza e che varia a seconda del numero di urti e dell energia persa in ciascuno di essi (Fig. 1.17). Nel TEM gli e - retrodiffusi sono molto pochi, perché poco è il volume di interazione. Elettroni secondari (SE): vengono generati nell urto anelastico, oppure dagli elettroni retrodiffusi, prima che emergano. Elettroni Auger (AE): l emissione di elettroni Auger è un metodo di stabilizzazione atomica, concorrenziale all emissione di raggi X. Gli e - Auger sono caratteristici dell atomo e del legame chimico, infatti derivano dalle orbite esterne 29

38 e presentano l energia caratteristica del loro livello atomico (corrispondente al salto energetico ΔE). Raggi X caratteristici: vengono impiegati per la microanalisi. Sono generati quando un elettrone viene espulso dall atomo: se tale e - è vicino al nucleo, la sua espulsione rende l atomo instabile. Questo porta l atomo a richiamare e - dalle orbite più esterne. Nel salto elettronico di stabilizzazione (caratteristico dell atomo stesso) viene quindi liberata energia sotto forma di raggi X. Radiazione di Bremmstrahlung: raggi X non caratteristici, che possono avere energia e λ qualsiasi, dovuti al frenamento degli elettroni. La radiazione di frenamento viene emessa quando particelle cariche vengono accelerate e generalmente si osserva quando il bersaglio è metallico. Gli elettroni secondi, retrodiffusi e Auger, insieme ai raggi X, sono quelli captati dai detector posti nel SEM. Gli elettroni trasmessi sono quelli utilizzati dalla microscopia a trasmissione (TEM) e possono essere diffusi elasticamente o anelasticamente. Durante la diffusione elastica, l elettrone urta elasticamente contro i nuclei degli atomi bombardati e rimbalza con una variazione della direzione che non implica una apprezzabile perdita di energia. La profondità di penetrazione del campione, da parte del fascio di elettroni, è inversamente proporzionale al numero atomico Z del campione stesso, infatti per Z elevati l elettrone colliderà più facilmente con i nuclei, con grande probabilità di essere retrodiffuso già nei primi strati superficiali del materiale. Quindi per alti valori di Z gli elettroni hanno a disposizione un libero cammino medio più elevato, tendendo a penetrare maggiormente e ad essere maggiormente soggetti alla diffusione multipla. Fig.1.17 Intensità degli elettroni generati in funzione dell energia. Quando si ha la diffusione anelastica, l elettrone interagisce con il campo colombiano del nucleo o con la nube che lo circonda in maniera anelastica, perdendo una gran quantità di 30

39 energia. Gli effetti di questa interazione possono essere vari, nel senso che se l elettrone, interagendo con un atomo in prossimità della superficie, collide con un altro elettrone appartenente agli orbitali esterni, quest ultimo può ricevere una energia tale (0-50 ev) da svincolarlo dall atomo e riuscire in superficie, prendendo il nome di elettrone secondario; questi elettroni secondari vengono facilmente riassorbiti dalla materia, quindi riescono ad emergere in superficie solo quelli generati a piccole profondità (10 nm). Quando un elettrone degli orbitali più interni viene colpito da un elettrone primario (appartenente al fascio incidente) si eccita saltando ad orbitali maggiori, oppure abbandona completamente l atomo. Quest ultimo può essere reso nuovamente stabile con il ritorno dell elettrone eccitato, o di un altro elettrone più esterno, nell orbita vacante, accompagnato dall emissione di un fotone X, oppure con l emissione di un diverso elettrone, detto elettrone Auger, eccitato a sua volta dalla radiazione X [11]. Quando gli elettroni del fascio penetrano nel campione, interagiscono come particelle cariche negativamente con il campo elettrico degli atomi che costituiscono il campione. La carica positiva dei protoni è concentrata nel nucleo, mentre la carica negativa degli elettroni degli atomi è più dispersa nella struttura a livelli (shell). L interazione fascio elettronicocampione può deflettere il fascio di elettroni lungo una nuova traiettoria, dando il fenomeno di scattering elastico, in cui non si ha perdita di energia. Durante questo fenomeno, gli elettroni vengono letteralmente diffusi all indietro rispetto al punto in cui incide il fascio, ma la loro energia resta sostanzialmente invariata; classico esempio di scattering elastico è quello degli elettroni retrodiffusi. L interazione tra elettroni del fascio ed atomi del campione può anche avvenire in modo anelastico; in questo caso l interazione produce una forte diminuzione dell energia degli elettroni, mentre la loro traiettoria risulta quasi invariata. Gli elettroni secondari, la radiazione di frenamento, la catodoluminescenza ed i raggi X caratteristici sono tutti esempi di scattering anelastico. In Fig.1.18 è rappresentatala classica pera di interazione del fascio di elettroni con il campione, da cui si deduce che gli elettroni Auger vengono generati dalla zona in cui interagisce il fascio vicino alla superficie del campione ed hanno bassissime energie. Poco sotto la superficie del campione, l interazione con il fascio elettronico genera l emissione di elettroni secondari, mentre ancora più in profondità si ha emissione di elettroni retrodiffusi e raggi X caratteristici: questo spiega perché questi due ultimi segnali siano fortemente legati alla composizione stessa del campione. 31

40 Fig Penetrazione del fascio elettronico nel campione e relative zone di generazione dei segnali ( pera di interazione ). La profondità di penetrazione del fascio può essere determinata essenzialmente in due modi: Bethe-Bloch: è utilizzato per lo più per fenomeni anelastici e rappresenta la diminuzione di energia per unità di lunghezza del fascio di elettroni veloci, in funzione della distanza percorsa all interno della materia: de dx m 2 e N0 Z A E 4 m E ln J m (1.43) dove e è a carica dell elettrone, ρ è la densità del materiale, Z il numero atomico, A il peso atomico, N 0 il numero di Avogadro, J è il potenziale di ionizzazione medio del materiale colpito (ev), e E m è l energia media del fascio elettronico alla distanza x, misurata lungo il percorso effettivo dell elettrone. Da questa equazione si ottiene l insieme delle distanze percorse dagli e - fino a raggiungere l equilibrio termico con il campione, ovvero: R 0 E 0 1 de de dx (1.44) 32

41 Kanaya-Okayama: è una legge sperimentale che tiene conto anche dei fenomeni anelastici e permette di calcolare la profondità di penetrazione (R) nel modo seguente: R K O A E z (1.45) dove A, Z e ρ sono rispettivamente peso atomico, numero atomico e densità del fascio, e E 0 è l energia del fascio incidente (kev). Un altro modo per calcolare il volume di interazione è quello di ricorrere alle simulazioni Montecarlo. In questo modo, tenendo conto delle probabilità di interazione per i vari processi, dei liberi cammini medi, del tipo di materiale di cui è costituito il campione, della tensione di accelerazione del fascio e degli altri parametri in gioco, è possibile simulare le traiettorie degli elettroni nel campione. Ciò che risulta evidente da queste simulazioni è che il volume di interazione interno al campione aumenta all aumentare dell energia degli elettroni incidenti. Dunque la sonda che arriva sulla superficie con dimensioni nanometriche, si allarga in profondità ed il volume di interazione assume la tipica forma a pera. Tale volume cresce al crescere del tempo di esposizione del campione al fascio elettronico e soprattutto al crescere della tensione di accelerazione (Fig. 1.19). Fig Simulazioni Montecarlo che mostrano la variazione del volume di interazione al variare della tensione di accelerazione del fascio. Il campione considerato è Fe spesso ed il diametro della sonda sul campione è di 10 nm. 33

42 1.2.2 Il Microscopio Elettronico a Scansione Il microscopio elettronico a scansione (SEM) fa parte della famiglia dei microscopia a scansione di sonda; in questo caso la sonda è un fascio collimato di elettroni con energia dell ordine dei kev (1-40 kev). I principali elementi costitutivi di un microscopio elettronico a scansione sono riportati in Fig e sono i seguenti: Cannone elettronico, è la sorgente di elettroni. Sistema da vuoto, per la generazione ed il corretto comportamento del fascio elettronico. Lenti elettromagnetiche, formate da un nucleo cilindrico di ferro dolce contenente un avvolgimento di spire di ferro. Quando viene fatta passare una corrente si genera un campo elettromagnetico parallelo all asse della lente che agendo sulla carica elettrica dell elettrone, ne devia il moto. Bobine di deflessione, permettono di effettuare la scansione del fascio sul campione: una coppia di bobine deflette il fascio lungo l asse X, la seconda coppia lungo l asse y. Le bobine sono sincronizzate con il sistema di raccolta e formazione dell immagine finale. L operatore può determinare la velocità di scansione. Lente obiettivo, che focalizza il fascio di elettroni sul campione. Rivelatori di segnale (detector), che catturano i diversi segnali uscenti dal campione. Sistema di trasformazione dei segnali in immagini. Camera con porta-campioni. Fig Il microscopio elettronico a scansione. 34

43 Fig Schema del sistema di lenti all interno di un classico SEM. In Fig è riportato il sistema di lenti tipico di un microscopio elettronico a scansione. Le lenti sono elettromagnetiche e sono costituite da un corpo cilindrico (pezzo polare) di ferro dolce, contenente avvolgimenti con spire di rame. Il passaggio di corrente nelle spire genera un campo elettromagnetico che interagisce con gli elettroni e ne controlla la traiettoria. Le prime lenti incontrate dal fascio elettronico sono le lenti condensatrici, che controllano le dimensioni del fascio e regolano il livello di rimpicciolimento dell immagine della sorgente; queste lenti creano inoltre la focalizzazione del fascio nel punto d 1 in Fig (crossover). Le lenti finali della colonna sono le lenti obiettivo, le quali hanno lo scopo di focalizzare il fascio elettronico sulla superficie del campione e contribuiscono alla ulteriore diminuzione delle dimensioni della sonda. Dato che le lenti obiettivo sono molto più forti delle condensatrici, il flusso di corrente che scorre sulle spire è molto più elevato e quindi è necessario equipaggiare questo sistema di lenti elettromagnetiche, con un sistema di raffreddamento ad acqua. A parità di rapporto segnale/rumore e di diametro del fascio, la risoluzione di un SEM dipende da: Aberrazioni cromatiche e sferiche delle lenti elettromagnetiche; Numero di crossover e relativo spread energetico; Effetti dei campi magnetici ambientali. Per quanto riguarda le aberrazioni delle lenti, gli effetti dell aberrazione cromatica aumentano all aumentare dello spread energetico e sono più importanti a basse tensioni di accelerazione. Inoltre, le normali lenti elettromagnetiche, essendo esclusivamente 35

44 convergenti, non consentono di correggere gli effetti dell aberrazione sferica. La formazione dell immagine della sorgente operata dalle lenti condensatrici ed obiettivo, porta la formazione di cross-over all interno della colonna del SEM, risultando in un indesiderato spread energetico. Da tutte queste considerazioni è nata la necessità di costruire una colonna del microscopio elettronico di nuova generazione che fosse in grado di ottimizzarne il funzionamento, soprattutto lavorando a basse tensioni di accelerazione. Questa nuova colonna prende il nome di colonna GEMINI ed è rappresentata nella Fig Fig Schema della colonna GEMINI. Nella colonna GEMINI il percorso del fascio di elettroni è stato disegnato in modo tale da non avere cross-over, quindi i raggi elettronici si focalizzano solo sulla superficie del campione; in questo modo viene mantenuto lo spread energetico iniziale. All interno della colonna è stato posto anche un sistema elettronico che accelera il fascio (beam booster), mantenendolo ad alta energia durante il transito nella colonna, indipendentemente dalla tensione scelta. In questo modo è possibile minimizzare gli effetti dei campi magnetici ambientali; inoltre, gli effetti delle aberrazioni cromatiche a basse tensioni sono ridotti di circa 40 volta. Altra importante caratteristica di questa colonna elettronica innovativa è la lente finale (Fig. 1.23), che è composta da una lente magnetica ed una lente elettrostatica, ed opera quindi come una lente convergente/divergente: in questo modo è stato minimizzato l effetto dell aberrazione sferica. Questa lente, inoltre, aumenta l angolo di 36

45 apertura del fascio, migliorando sia la risoluzione che la corrente; in questo modo si ha un miglior rapporto segnale/rumore e di conseguenza una immagine di qualità migliore. Fig Lente finale della colonna GEMINI. Lo scopo del cannone elettronico è produrre un fascio di elettroni stabile e con energia regolabile. Il cannone elettronico più comune si compone di tre elementi: un filamento di tungsteno che ha la funzione di catodo (elettrodo negativo), la calotta grigliata o Wehnelt (elettrodo di controllo), e l anodo (elettrodo positivo). Questi componenti vengono mantenuti a tensioni elettriche differenti da connessioni appropriate al sistema di alta tensione, variabile nel range K. Ad esempio, se la tensione di accelerazione è impostata a 20 kv, il filamento sarà posto a V rispetto all anodo, che è al potenziale di terra. Il Wehnelt agisce come focalizzatore di elettroni all interno del cannone e controlla la quantità di elettroni emessi; tale elemento è connesso al filamento per mezzo di un resistore variabile. La corrente di emissione lasciando il filamento, viene rimpiazzata da una uguale corrente del filamento attraverso il resistore. Questo effetto genera una tensione negativa tra il Wehnelt ed il filamento. Le principali caratteristiche che permettono di misurare la performance di una sorgente di elettroni sono: l emissione di corrente, la brillanza, la vita utile, le dimensioni della sorgente, lo spread energetico e la stabilità. La caratteristica più importante è la brillanza, perché la qualità delle immagini ad alti ingrandimenti dipende quasi interamente da questo parametro. Il concetto di brillanza elettro-ottica β, incorpora i parametri di corrente elettronica i b, la sezione del fascio d e α, semiangolo del cono di raggi che convergono per formare il crossover. La brillanza è definita come densità di corrente elettronica per unità di angolo solido. La brillanza in ogni punto della colonna assume lo stesso valore misurato nella sorgente elettronica stessa, anche se i valori dei parametri da cui essa dipende (i b, d, α) variano. La brillanza di una sorgente elettronica può essere quindi determinata tramite la seguente equazione: 37

46 d 4 i b 2 2 4ib d (1.46) Sostituendo i valori sperimentali dei parametri del fascio nella Eq. 1.46, si può stimare la brillanza di un cannone elettronico. I difetti delle lenti, chiamati aberrazione, portano a stimare un valore di brillanza inferiore a quello reale. Per tutti i cannoni elettronici, la brillanza cresce linearmente con la tensione di accelerazione in modo che ogni sorgente è 10 volte più luminosa a 10 kev di quanto non lo sia ad 1 kev. Nella tabella seguente (Tab. 1.1) sono riportati i parametri delle principali sorgenti elettroniche che verranno discusse in seguito. Sorgente Brillanza relativa al W Dimensioni sorgente Energia (ev) Vita (h) Vuoto (Pa) Filamento W 1 50 micron 3 50 <10-3 LaB micron Emissione di Dipende nm 3-5 campo (freddo) dal vuoto Emissione di campo (caldo) nm Tab. 1.1 Parametri caratteristici delle principali sorgenti elettroniche. Come già ampliamente esposto, nella microscopia elettronica a scansione la sonda è un fascio di elettroni ben collimato. Tale fascio viene generato utilizzando due possibili metodi [12]: (i) emissione termoionca, (ii) emissione di campo. Nell emissione termoionica un filamento di metallo viene percorso da corrente, si riscalda per effetto Joule e consente l emissione di elettroni eccitati termicamente; aumentando la temperatura di un metallo aumenta l energia cinetica degli elettroni degli atomi che lo compongono. Alcuni elettroni acquisiscono un energia sufficiente a portarsi nel vuoto in prossimità della superficie del materiale, ovvero una energia maggiore di quella superficiale. Applicando una differenza di potenziale è possibile generare un fascio di elettroni ad energia controllata. 38

47 Fig Schema fisico dei livelli energetici metallo-vuoto. La densità di corrente Jc emessa da un materiale per effetto termoionico è espressa dalla formula di Richardson-Fermi: J C AT 2 e EW kt (1.47) dove A è una costante tipica del materiale considerato, E W è l energia di estrazione (anch essa tipica del materiale), T è la temperatura, e k è la costante di Boltzmann. Il materiale ottimale per un filamento deve avere quindi elevata temperatura di fusione e bassa energia di estrazione (funzione lavoro); per queste ragioni il materiale più utilizzato per realizzare i filamenti risulta il tungsteno. Altre sorgenti ad emissione termoionica molto efficaci e di ampio utilizzo sono i cristalli di esaboruro di lantanio (LaB 6 ). Come mostrato dalla Fig i cristalli di questo genere vengono modellati in modo da avere una punta, così come avviene con i filamenti di W, in modo poter sfruttare il cosiddetto effetto punta, effetto per il quale si ha formazione di campo elettrico più intenso nelle zone con raggio di curvatura più elevato. Fig Sorgenti di emissione termoionica: a) filamento di tungsteno, b) cristallo di LaB 6 [12]. 39

48 In Fig è riportato lo schema del sistema di generazione del fascio di elettroni per emissione termoionica. Il filamento è tenuto a potenziale negativo rispetto all anodo, e gli elettroni emessi vengono accelerati verso l anodo. Il cilindro di Wehnelt è tenuto ad un potenziale leggermente più negativo rispetto al filamento (qualche centinaio di V) e permette di controllare la zona del filamento che emette elettroni. Fig Schema di una sorgente ad emissione termoionica. Nel caso dell emissione di campo (field emission gun o FEG) [12], la generazione del fascio di elettroni è dovuta ala capacità di intensi campi elettrici di estrarre elettroni da un materiale emettitore, rappresentato da un cristallo di tungsteno molto appuntito (Fig. 1.27). Fig Sorgente ad emissione di campo (cristallo di tungsteno). Il campo elettrico ad elevata intensità (> 10 9 V/m) fa sì che ci sia l elevata probabilità che un elettrone si muova esternamente al metallo stesso, superando la barriera di potenziale imposta dalla superficie. Questo effetto prende il nome di effetto tunneling. L emissione di elettroni dovuta a questo effetto è maggiore rispetto a quella che si ha per effetto 40

49 termoionico. In questo secondo caso le punte hanno dimensioni molto più piccole rispetto a quelle utilizzate nell altro caso, poche centinaia di nanometri. La corrente emessa per effetto di campo dipende fortemente dal campo elettrico applicato F e può essere calcolata secondo l equazione Fowler-Nordheim [12]: E f j exp ( E f ) F (1.48) dove E f è l energia di Fermi, F il campo elettrico applicato e Φ è la funzione lavoro di estrazione. In accordo con questa equazione, maggiore è il campo elettrico applicato e maggiore è la corrente, ovvero l effetto tunnel. Il cannone elettronico è composto da due anodi e dal filamento: il primo anodo (detto soppressore) ha una funzione simile a quella del cilindro di Wehnelt, mentre il secondo anodo (estrattore), ha una elevata differenza di potenziale (Fig. 1.28). Fig Sorgente ad emissione di campo: a) Schema dei livelli energetici, b) Schema effettivo della sorgente. L emissione di campo a freddo richiede che la superficie del catodo sia perfettamente pulita. Dato che anche ad un vuoto di 10-5 Pa uno strato monoatomico di gas si deposita ogni secondo, l operare per periodi lunghi richiede un livello di vuoto di Pa. Prima dell uso, la punta viene riscaldata per qualche secondo ad una temperatura di circa 2500 K. In seguito, la punta emette in maniera ottimale, ma tende a decadere in un periodo di minuti, quando il gas ricomincia a depositarsi sulla punta. Una volta che un monolayer di molecole di gas si forma sulla punta, l emissione si stabilizza e resta essenzialmente costante per diverse ore, finché non si destabilizza nuovamente e si interviene con un ulteriore riscaldamento della punta. Ogni volta che la punta viene sottoposta a questo 41

50 trattamento diventa lievemente meno luminosa e dopo alcune migliaia di riscaldamenti il sistema potrebbe avere tensione insufficiente per raggiungere l emissione di corrente desiderata; in questo caso la punta andrebbe sostituita. Dato che di solito è necessario un unico riscaldamento della punta al giorno, il processo di decadimento può avvenire in diversi anni e quindi la vita utile di un cold field emission (CFE) è molto lunga. I principali vantaggi di questa tecnica di generazione sono: le dimensioni della sorgente (3-5 nm); il limitato spread energetico, la lunga durata della punta, che permette alla intera colonna elettro-ottica di rimanere intatta, pulita ed allineata. La seconda classe di sorgenti include gli emettitori Schottky (Schottky field emission, SFE) e gli emettitori di campo termici (thermal field emission, TFE). Un emettitore TFE ha le stesse proprietà del CFE ma opera a temperatura elevata. Questo aiuta a mantenere la punta pulita, riducendo rumore ed instabilità anche in condizioni di vuoto non ottimali. Negli emettitori di tipo Schottky, il campo sulla punta, un cristallo di tungsteno orientato, viene utilizzato per lo più per ridurre la barriera effettiva della funzione lavoro. Per abbassare ancora la funzione lavoro, viene depositato ossido di zirconio (ZrO 2 ) sulla punta [12]. Quindi, anche se il SFE è una sorgente termoionica, brillanza e densità di emissione sono paragonabili a quelle dei CFE. I cannoni elettronici con SFE includono generalmente anche una griglia di soppressione, il cui scopo è eliminare involontarie emissioni termoioniche da regioni al di fuori della punta. Un cannone Schottky ha emissione di corrente nel range di µa e funziona in maniera continuativa anche quando non si ha estrazione di corrente, per assicurare che la punta rimanga pulita e stabile. Le dimensioni di una sorgente TFE sono paragonabili a quelle di una sorgente fredda, mentre una SFE ha dimensioni più elevate (20-30 nm), perché il raggio della punta è più ampio. Questa caratteristica delle sorgenti SFE può dare dei vantaggi in microscopi in cui è richiesto un ampio range di dimensioni del fascio. Anche lo spread energetico è più ampio negli SFE rispetto a quello dei CFE, ma il funzionamento continuo per lunghi periodi e l eccellente stabilità degli SFE, li rendono le sorgenti più utilizzate per i microscopi elettronici a scansione [12]. 42

51 1.2.3 Segnali e rivelatori nel SEM I principali segnali utilizzati per la formazione dell immagine nel microscopio elettronico a scansione sono gli elettroni secondari e gli elettroni retrodiffusi. Elettroni secondari Gli elettroni secondari fuoriescono dal materiale con una energia inferiore a 50 ev. Questi elettroni provengono da profondità di qualche unità di lunghezze d onda dell elettrone; infatti, la probabilità di fuga di un elettrone secondario generato ad una profondità z nel campione (come esposto in Fig 1.29) è proporzionale a: e z (1.49) Fig Intensità di elettroni secondari emessi in funzione della profondità di generazione [12]. Nel 1967 Seiler scoprì che la massima profondità di emissione vale d 5 λ, dove d 1 nm per i metalli e d 10 nm per gli isolanti. Se ne deduce che la regione di provenienza si trova ad una profondità minore di 50 nm. Per questo motivo gli elettroni secondari sono responsabili dell ottima risoluzione topografica del microscopio elettronico a scansione (SEM) [12]. Inoltre tali elettroni permettono di ottenere informazioni sulla distribuzione superficiale del potenziale elettrico, sui campi magnetici e sulla struttura cristallina. Oltre agli elettroni secondari prodotti dal fascio incidente, vengono generati anche elettroni secondari dagli elettroni retrodiffusi, che nel tornare verso la superficie continuano ad interagire con il campione. In altre parole, un elettrone che penetra in un campione, nei 43

52 primi nm genera elettroni secondari, poi proseguendo verso l interno può essere retrodiffuso e tornare verso la superficie. Nel tragitto verso l esterno, l elettrone retrodiffuso può così generare elettroni secondari in una posizione un po diversa da quella del fascio primario (elettroni secondari di tipo 3); questo effetto può produrre una immagine non a fuoco. Il fatto che gli elettroni secondari abbiano libero cammino medio intrinsecamente basso e siano facilmente assorbibili dalla materia, sono effetti legati al piccolo volume di interazione: questo li rende ottimi per ottenere informazioni sulla topografia del campione. Per tenere conto di entrambe le sorgenti di elettroni secondari, si definisce il coefficiente di elettroni secondari come [12]: nse B BS (1.50) n B dove n SE è il numero di elettroni secondari generati da un campione bombardato con un fascio di n B di elettroni, δ B e δ BS sono i coefficienti per gli elettroni secondari generati dagli elettroni incidenti e retrodiffusi, e η è il coefficiente di retrodiffusione. Il coefficiente δ BS vale circa 3 volte δ B poiché gli elettroni retrodiffusi hanno angolo di incidenza ed energia minori. Pertanto il numero di elettroni secondari rilevato dipende principalmente dai seguenti parametri: Energia del fascio incidente: diminuendo l energia del fascio incidente, questo penetra per una profondità minore dando origine ad un maggior numero di elettroni secondari. Rotazione del campione: maggiore è l angolo di tilt e maggiore è il contrasto topografico (Fig. 1.30). Fig Elettroni secondari emessi in funzione dell energia del fascio e dell angolo di tilt del campione [12]. 44

53 I rivelatori di elettroni secondari che si trovano installati nei migliori microscopi sono due: Everhart-Thornley Detector (ETD). Through The Lens Detector (TTLD). Il rivelatore Everhart-Thornley è riportato in Fig Fig Il detector Everhart-Thornley. Gli elettroni secondari fuoriescono dal campione ad energie molto basse intorno ai 50 ev. Queste energie sono troppo piccole per la rivelazione degli elettroni (non riescono ad eccitare uno scintillatore), per questo motivo è necessario accelerare gli elettroni secondari fino ad una energia di qualche kev. Il rivelatore è pertanto costituito da un materiale scintillante che viene portato ad un certo potenziale positivo (10 kv ) rispetto al campione che si trova al potenziale terra. Gli elettroni vengono così accelerati verso lo scintillatore, lo irraggiano e ne provocano l emissione di luce. Misurando l emissione di luce indotta dagli elettroni si risale al numero di elettroni secondari. Lo scintillatore è posto a circa 90 gradi rispetto alla normale del campione principalmente per due motivi. Primo è che in questo modo devia gli elettroni che deve rivelare verso di sé, riuscendo a discriminare secondari (SE) e retrodiffusi (BSE) (vedi Fig.1.31). Infatti, gli elettroni retrodiffusi fuoriescono dal campione ad energie tali per cui la loro traiettoria non viene incurvata significativamente dal campo elettrico dovuto allo scintillatore, che dunque non riesce a raccoglierli. Il secondo motivo che spiega la posizione del detector ETD è che una posizione simile permette di vedere la morfologia e le ombre del campione; infatti, poiché gli elettroni devono percorrere una traiettoria incurvata prima di arrivare allo scintillatore, qualora avessero vicino al punto di uscita una rugosità di importanti dimensioni, potrebbero urtarla e quindi non verrebbero rivelati. Ovviamente non tutti gli elettroni retrodiffusi sfuggono all incurvamento della traiettoria, e alcuni di essi sono rivelati come secondari. Quindi il 45

54 rivelatore Everhart-Thornley vede anche elettroni retrodiffusi, ma questi sono in numero molto minore rispetto ai secondari; l efficienza di raccolta è elevata per gli elettroni secondari (50%), mentre è bassa per quelli retrodiffusi (< 10%). Questo detector, come visibile nella Fig. 1.31, ha una griglia polarizzata positivamente per attrarre un maggior numero di elettroni: agendo sulla polarizzazione della griglia e facendo in modo che sia totalmente negativa, si può eliminare l apporto degli elettroni secondari e vedere l informazione portata solo dagli elettroni a più alta energia, cioè i retrodiffusi. Questo modo di utilizzare il detector ETD è molto utile, qualora non si abbia a disposizione un rivelatore per i retrodiffusi ed il campione sia caratterizzato da evidenti differenze composizionali ben definite (altrimenti la risoluzione del ETD non è sufficiente per i retrodiffusi). Il secondo tipo di detector, ovvero il Through the Lens (TTLD), è posto fisicamente tra la lente condensatrice e quella obiettivo e si può trovare installato soltanto in colonne di tipo GEMINI, in cui non c è cross-over, mentre per il detector ETD non c è alcuna restrizione. Si tratta di un detector anulare allo stato solido. Quando il campione si trova molto vicino alla lente elettromagnetica, gli elettroni secondari (SE) che fuoriescono dal campione vengono attratti dal campo magnetico della lente obiettivo, e muovendosi a spirale rientrano in colonna fino ad arrivare ad essere focalizzati sul detector anulare TTLD (Fig. 1.32). Questo tipo di collezione di SE non interferisce con il fascio primario. Non è necessario quindi prevedere addizionali bobine per la correzione dell astigmatismo e della distorsione. Fig Detector Through the Lens (TTL). 46

55 Elettroni retrodiffusi Gli elettroni retrodiffusi (backscattered electrons, BSE) sono elettroni del fascio che fuoriescono dal campione dopo aver subìto soprattutto urti elastici. La loro energia è dunque alta e prossima a quella degli elettroni incidenti (e comunque minore in generale). Gli elettroni retrodiffusi provengono da una profondità dell ordine di grandezza di circa μm, dunque forniscono una bassa risoluzione topografica. La caratteristica di questi elettroni è infatti quella di consentire di ricavare informazioni sui campi magnetici e sulla struttura cristallina degli strati più profondi del campione, nonché sulla sua composizione chimica. Importante caratteristica degli elettroni retrodiffusi è che essi hanno energia che dipende dal numero di eventi di scattering e dalla quantità di energia persa in ciascuno di questi; inoltre, il numero totale di BSE emessi aumenta con il numero atomico degli elementi presenti nel campione. Per tutti questi motivi, gli elettroni retrodiffusi danno informazioni principalmente composizionali. E possibile definire il coefficiente di retrodiffusione con il seguente rapporto [12]: n n BS B (1.51) dove n BS è il numero di elettroni retrodiffusi prodotti da un campione bombardato con un fascio di n B elettroni. Sperimentalmente, aumentando il numero atomico aumenta il numero di elettroni retrodiffusi (η), come visibile in Fig Fig Coefficiente di retrodiffusione in funzione del numero atomico [12]. La relazione fenomenologica ricavabile dal fit dei dati sperimentali [12] riportati in Fig è la seguente: 47

56 Z Z Z (1.52) Da questa relazione si deduce che se il rivelatore di elettroni retrodiffusi segnala pochi conteggi, questo significa che il coefficiente di retrodiffusione è piccolo, e così anche il numero atomico. Ovviamente, ad alti coefficienti di retrodiffusione corrispondo elementi con elevato numero atomico. Quindi, come accennato in precedenza, l analisi degli elettroni retrodiffusi fornisce informazioni sulla composizione chimica dei campioni. Se il campione è composto da diversi elementi in soluzione solida, il coefficiente di retrodiffusione può essere calcolato seguendo una semplice legge basata sulle concentrazioni in peso (C i ) degli elementi costituenti [12]: C i i i (1.53) dove i indica il singolo costituente, η i è il coefficiente di retrodiffusione del singolo elemento e la sommatoria è effettuata su tutti i componenti. Come si può dedurre dal diagramma in Fig. 1.34a, il numero di elettroni retrodiffusi non dipende in modo significativo dall energia del fascio; infatti, pur variando notevolmente il volume di interazione (maggiore profondità di penetrazione ad alta energia), la velocità di perdita di energia diminuisce e quindi gli elettroni hanno più possibilità di uscire dal materiale a seguito dei ripetuti urti. Se si procede invece con il misurare il coefficiente di retrodiffusione in funzione dell angolo di tilt θ, definito come il complementare dell angolo tra il fascio e la superficie del campione, allora si riscontra un incremento monotono del coefficiente in funzione dell angolo di tilt (Fig. 1.34b). a) b) Fig Valori del coefficiente di retrodiffusione in funzione di a) Numero atomico e tensione di accelerazione, b) Angolo di tilt del campione ed elemento considerato [12]. 48

57 La pendenza di η con θ è inizialmente leggera, ma tende ad aumentare aumentando l angolo di tilt. Ad angoli molto elevati corrispondenti ad incidenza radente, il valore di η tende all unità. In Fig. 1.34b sono riportati i coefficienti di retrodiffusione di diversi elementi ed è possibile osservare come i valori tendano a convergere per alti valori di θ. L espressione seguente [12] dà il coefficiente di retrodiffusione in funzione del numero atomico Z e dell angolo di tilt θ: ( ) 1 1 cos con p 9 Z p (1.54) Gli elettroni retrodiffusi possono essere rivelati tramite due tipologie di detector: Detector allo stato solido (Solid State Setector, SSD). Detector a selezione di energia (Energy Selective Detector, EsB). I rivelatori allo stato solido, anche detti a semiconduttori hanno una struttura mostrata in Fig Fig Detector allo stato solido. Gli elettroni retrodiffusi fuoriescono dal campione ad un energia maggiore (intorno ai kev) rispetto ai secondari e quindi non hanno bisogno di essere accelerati per essere rivelati. Il rivelatore a semiconduttore è costituito da sottili wafer a cui si può dare una qualunque forma. Questo rivelatore, solitamente un disco di silicio bucato, viene collocato sotto la lente obiettivo e può essere posto molto vicino alla superficie del campione, così da migliorare l efficienza di raccolta. Il rivelatore a semiconduttore non è sensibile agli elettroni secondari perché ha un filtro di energia a circa ev. Il principio di 49

58 funzionamento è semplice. Gli elettroni retrodiffusi vanno ad interagire con il semiconduttore del detector e producono delle coppie elettrone-lacuna. La produzione di queste cariche, all interno del bulk del dispositivo, genera una carica indotta agli elettrodi e dunque una corrente. Dalla misura di questa corrente è possibile risalire all energia e al numero di particelle che hanno interagito. Quando si utilizza una colonna GEMINI, è possibile che si possa usufruire (ove installato) dell altro tipo di detector degli elettroni retrodiffusi, cioè EsB (Fig. 1.36). Questo rivelatore è sempre a semiconduttore ed ha forma anulare: ciò che lo rende unico è la posizione all interno della colonna, dietro al detector TTL dei secondari. Gli elettroni retrodiffusi ad alta energia che fuoriescono dal campione, rientrano nella colonna, vengono deviati dalla lente obiettivo ed a causa della loro energia vanno ad incidere in una posizione diversa rispetto ai secondari, senza interferire con il detector TTL di questi ultimi. Per evitare qualunque interferenza legata agli elettroni secondari, davanti al detector EsB è posta una griglia polarizzata negativamente che allontana proprio i secondari (aventi energia inferiore ai retrodiffusi, i quali riescono, invece, ad oltrepassarla senza problemi). Fig Rivelatore EsB nella colonna GEMINI. 50

59 1.2.4 Il Microscopio Elettronico a Trasmissione Il microscopio elettronico a trasmissione (TEM) è uno strumento di primaria importanza per la caratterizzazione strutturale dei materiali. I pattern di diffrazione misurati con i raggi X danno informazioni più quantitative rispetto ai pattern di diffrazione degli elettroni, ma questi ultimi hanno l importante vantaggio, rispetto ai raggi X, di poter essere focalizzati facilmente. Facendo in modo che un fascio di elettroni sia focalizzato in un punto, è possibile misurare pattern di diffrazione di regioni microscopiche e, spesso, è possibile selezionare un singolo cristallo per la misura di diffrazione. L apparato ottico dei microscopi elettronici può essere utilizzato per catturare immagini della densità elettronica del campione. Ad esempio, la tecnica di imaging che sfrutta variazioni di intensità nella diffrazione elettronica attraverso un campione sottile, chiamata contrasto di diffrazione, è molto utile per ottenere immagini di difetti come dislocazioni, interfacce e particelle di seconde fasi. Al di là della microscopia a contrasto di diffrazione, che misura l intensità delle onde diffratte, nella microscopia elettronica ad alta risoluzione (high resolution TEM o HRTEM) la fase delle onde elettroniche diffratte si conserva e si può avere interferenza costruttiva o distruttiva. Questa tecnica, chiamata immagine a contrasto di fase (phase contrast imaging), è utilizzata per ottenere immagini di colonne di atomi. Tutto il discorso riguardante le sorgenti di elettroni utilizzate nel microscopio elettronico a scansione, affrontato nel Cap è assolutamente valido anche per il microscopio elettronico a trasmissione e non verrà quindi ulteriormente trattato. In figura 1.37 è riportato lo schema degli elementi del microscopio elettronico a trasmissione. 51

60 Fig Schema degli elementi costitutivi di un TEM [13]. In un microscopio elettronico a trasmissione sono presenti diverse tipologie di lenti: Lenti condensatrici, che focalizzano il fascio di elettroni sul campione. Lente obiettivo, per formare la diffrazione sul piano focale posteriore e l immagine del campione sul piano immagine. Lenti intermedie, per ingrandire l immagine o il pattern di diffrazione sullo schermo. Lente proiettiva, ha il compito di proiettare l immagine o la diffrazione sullo schermo (costituito da un piatto metallico fluorescente). Le lenti elettroniche sono, come già detto, composte da avvolgimenti di rame su cui viene fatta scorrere corrente, generando un campo magnetico che interagisce con il fascio di elettroni. Per descrive la formazione dell immagine da lenti elettroniche si usano gli stessi principi dell ottica tradizionale. Nella formazione dell immagine da parte di lenti ideali, queste ultime vengono considerate come lenti sottili (cioè spesse abbastanza da far sì che la loro azione sul fascio di elettroni possa essere illustrata con rifrazioni di raggi elettronici nel piano principale delle lenti). Tutti gli elettroni che passano attraverso la lente vengono rifratti nel suo piano centrale, in modo da formare un punto immagine nel punto in cui danno luogo a cross-over. Questa è la prima azione fondamentale di una lente ideale. Soltanto due tra tutti i raggi elettronici che si incontrano nel punto immagine sono necessari per trovare la posizione di questo punto. Il primo raggio importante è quello passante per il 52

61 centro della lente, la cui direzione non viene modificata dall azione della lente. Il secondo raggio è quello che ha percorso parallelo all asse opto-elettronico prima di entrare nella lente; questo raggio viene rifratto per azione della lente in modo da incrociare l asse optoelettronico nel punto di fuoco del piano focale posteriore della lente (Fig. 1.38). Fig Formazione dell immagine di un punto sorgente. Il diagramma restringe lo spread degli elettroni entranti nelle lenti, che contribuiscono alla formazione dell immagine. Il cross-over di due raggi particolari è stato usato per trovare l immagine del punto oggetto[13]. In Fig è illustrata la formazione dell immagine di un oggetto finito (indicato da una freccia). Partendo da tre punti diversi del pianto oggetto (punto di inizio, centro e parte bassa della freccia), un set di tre raggi elettronici viene disegnato; il set di raggi in ognuno dei tre punti di partenza è composto da un raggio parallelo all asse elettro-ottico e due raggi con stessa inclinazione rispetto a questo. 53

62 Fig Illustrazione di due caratteristiche fondamentali della formazione dell immagine di un oggetto finito (freccia), con l ausilio di un diagramma a raggi. Le distanze importanti sono nominate con u, v e f. tutti i raggi che emergono da un punto nel piano oggetto sono raccolti dalla lente e fatti convergere nel punto coniugato sul piano immagine. Raggi paralleli originati in punti diversi del piano oggetto sono focalizzati sul piano focale posteriore della lente [13]. Seguendo il percorso dei raggi di Fig. 1.39, per ciascun punto di partenza nel piano oggetto si trova un punto corrispondente nel piano immagine, trovando il punto di crossover per ciascun set di tre raggi nel piano immagine. D altronde, il piano immagine è coniugato al piano oggetto, ovvero i due piani sono equivalenti da un punto di vista elettro-ottico e quindi raggi che partono da uno stesso punto in un piano si incontrano nuovamente in un punto nel piano coniugato e viceversa. Considerando le distanze u e v (Fig. 1.39) è possibile esprimere l ingrandimento M dell oggetto tramite la seguente espressione: v M (1.55) u Introducendo la distanza focale della lente, f, l equazione di Newton per le lenti risulta essere valida (Eq. 1.56): 1 u 1 v 1 f (1.56) 54

63 Un altra importante caratteristica della formazione dell immagine illustrata in Fig è la seguente: raggi paralleli originati in punti diversi del piano oggetto vengono focalizzati nel piano focale posteriore della lente. I raggi che attraversano la lente parallelamente all asse opto-elettronico, si focalizzano in un punto appartenente all asse e al piano focale posteriore, noto come fuoco della lente. La forza di Lorentz con cui ogni elettrone in movimento interagisce con il campo elettrico ed il campo magnetico e le deflessioni risultanti, sono la base fisica del funzionamento delle lenti elettroniche. In presenza di un campo elettrico E ed un flusso magnetico B, la forza di Lorentz F è: F = -e(e + v B) (1.57) dove e e v sono rispettivamente la carica e la velocità dell elettrone. Un campo magnetico omogeneo agisce come una debole lente elettronica per raggi con piccola inclinazione rispetto alla direzione del campo. Nella pratica, lenti magnetiche con piccole lunghezze focali vengono ottenute concentrando il campo magnetico con pezzi polari (pole piece, come nel SEM) [13]. Come si può osservare in Fig. 1.40, una lente magnetica convenzionale, come già accennato nel Cap è composta da fili di rame avvolti simmetricamente intorno all asse elettroottico. Fig Concentrazione del campo magnetico rotazionale simmetrico nel gap tra due pezzi polari della lente, e principio di azione su un fascio elettroni [13]. 55

64 L avvolgimento è posto all interno di una cassa di ferro; solo un piccolo gap viene lasciato tra due pezzi polari, attraverso i quali si manifesta il campo focalizzante. La corrente che viene fatta scorrere negli avvolgimenti determina la forza delle lenti, espressa dalla lunghezza focale. Gli elettroni viaggiano inizialmente in maniera parallela all asse optoelettronico finché non incontrano un campo di forze tangenziale dovuto all interazione della velocità assiale con la componente radiale del campo magnetico; questa interazione porta ad una deviazione del fascio. Il cammino elettronico risultante è elicoidale e, diventando l azione del campo sempre maggiore all aumentare della distanza dall asse elettro-ottico, si ottiene il crossover nel punto di fuoco della lente. La rotazione dell immagine causata dal movimento elicoidale degli elettroni attraverso il campo magnetico focalizzante è una caratteristica tipica delle lenti magnetiche. Importanti criteri per determinare la performance di un microscopio elettronico a trasmissione sono la più piccola caratteristica spaziale che può essere risolta in un campione, o la più piccola dimensione del fascio elettronico focalizzato sul campione. Questi criteri sono largamente influenzati dalla performance delle lenti obiettivo del microscopio. Queste lenti, come tutte le lenti magnetiche, sono affette da aberrazioni che ne alterano il corretto funzionamento e si tratta principalmente di: Aberrazioni sferiche. Aberrazioni cromatiche. Astigmatismo. Aberrazioni sferiche Con aberrazione sferica si intende l incapacità della lente di focalizzare tutti i raggi incidenti da un punto sorgente ad un altro punto. Questo difetto è causato da campi magnetici delle lenti che agiscono in maniera non omogenea sui raggi fuori asse (Fig. 1.41). 56

65 Fig Formazione del disco di confusione dovuto alle aberrazioni sferiche [13]. Il piano immagine Gaussiano è definito come il piano immagine per condizioni di immagine parassiale; in queste condizioni i raggi sono vicini all asse opto-elettronico e formano solo piccoli angoli con esso. In Fig 1.41 si può notare che più un elettrone è lontano dall asse opto-elettronico e tanto minore è la sua distanza focale. Di conseguenza, per un punto oggetto si forma un disco immagine nel piano immagine Guassiano. Il raggio r s di questo disco, detto disco di aberrazione, dipende dall angolo di apertura α 0 secondo l espressione: 3 rs C s 0 (1.58) dove C s è il coefficiente di aberrazione sferica, che è una lunghezza caratteristica che determina la qualità di una lente elettronica [13]. Un tipico valore di questo coefficiente è 3 mm per una lente obiettivo in un TEM, mentre per un HRTEM sia ha un valore più basso e pari a circa 1 mm. Per una lente elettronica posta dietro la lente obiettivo, l apertura del fascio incidente è più piccola dell apertura del fascio incidente sulla lente obiettivo di un fattore dato dall ingrandimento di tale lente. Questo spiega perché solo le aberrazioni 57

66 sferiche della lente obiettivo vengono tenute in considerazione quando si va a valutare il limite di risoluzione di un microscopio. Aberrazioni cromatiche Nell ottica tradizionale la distanza focale di una lente varia con la lunghezza d onda della luce, analogamente nelle lenti elettroniche la distanza focale varia con l energia degli elettroni. Le lenti trattengono fortemente elettroni con bassa energia e quindi, anche in questo caso, da un punto nel piano oggetto si ottiene un disco nel piano immagine Gaussiano. Il raggio r c di questo disco è dato dall espressione: r c E Cc 0 (1.59) E dove C c è il coefficiente di aberrazione cromatica delle lente (lunghezza), ΔE è la variazione di energia dell elettrone dal suo valore medio E, e α 0 è sempre l angolo di apertura della lente. Il coefficiente di aberrazione cromatica C c di una lente magnetica ha solitamente un valore numerico leggermente inferiore a quello della lunghezza focale. Questo tipo di aberrazione degrada l immagine quando gli elettroni nel fascio cessano di essere monoenergetici e questo si può verificare quando: vengono generati elettroni dal cannone elettronico con uno spread di energie; si hanno tensioni di accelerazione o correnti nelle spire che fluttuano nel tempo; il fascio di elettroni perde energia attraverso le collisioni, passando attraverso un campione. Nei microscopi più moderni la stabilità della tensione di accelerazione e della corrente nella lente sono arrivate ad essere così ben controllate da non risultare più influenti per le aberrazioni cromatiche, se paragonate con la perdita di energia associata agli elettroni trasmessi attraverso il campione. Lo scattering inelastico degli elettroni ad alta energia da parte delle eccitazioni plasmoniche è uno effetto classico per cui gli elettroni perdono ev; questo effetto è ancor più importante nel caso di campioni spessi. Quindi, per minimizzare le aberrazioni cromatiche nel TEM è necessario utilizzare campioni che siano il più possibile sottili [13]. 58

67 1.2.5 Modalità di funzionamento del TEM Bright-field e dark-field Per comodità, iniziamo assumendo che il sistema di generazione del fascio produca tutti raggi che si propagano parallelamente all asse ottico, prima di colpire il campione. Come si può osservare nella Fig. 1.42, tutti i raggi trasmessi e diffratti che lasciano il campione vengono combinati in modo da formare una immagine sullo schermo, così come avviene in un microscopio ottico elementare che forma una immagine sulla retina del microscopista; in questo modo il campione mostra un leggero contrasto. Fig 1.42 Percorso dei raggi in modalità immagine [13]. Ogni punto nel piano focale posteriore della lente obiettivo contiene raggi provenienti da tutte la parti del campione, quindi non tutti i raggi nel piano focale posteriore sono necessari per la formazione dell immagine. Una immagine completa può essere formata solo con i raggi che passano attraverso un punto del piano focale posteriore; ciò che distingue i punti di questo piano è che tutti i raggi che passano in un punto sono stati scatterati dal campione con lo stesso angolo. Posizionando la apertura obiettivo in una posizione specifica nel piano focale posteriore, è possibile ottenere l immagine dovuta 59

68 soltanto agli elettroni diffratti con un angolo specifico. Questo definisce due distinte modalità di ottenere una immagine, illustrate in Fig. 1.43: Quando l apertura è posizionata in modo che passino soltanto gli elettroni trasmessi (o non diffratti), si forma l immagine in bright-field (BF). Quando l apertura è posizionata in modo che passino soltanto alcuni diffratti, si forma l immagine in dark-field (DF). Fig Sinistra: modalità bright-field (BF). Destra: modalità dark-field (DF) [13]. Nella maggior parte degli studi con CTEM (conventional TEM) di materiali cristallini, le caratteristiche dell immagine si generano per lo più dal contrasto di diffrazione. Il contrasto di diffrazione è la variazione nell intensità della diffrazione elettronica attraverso il campione. Questo contrasto si osserva inserendo una apertura obiettivo nel fascio; in questo modo le caratteristiche dell immagine diventano più definite. La ragione fisica che spiega perché il contrasto di diffrazione di una immagine DF o BF sia decisamente migliore rispetto a quello di una immagine senza apertura ( apertureless ) è la seguente: quando 60

69 c è una elevata intensità nei fasci diffratti, c è una elevata perdita complementare di intensità nel fascio trasmesso. Le immagini in BF e DF mostrano un forte contrasto di diffrazione. Senza l apertura obiettivo, l intensità diffratta si ricombina con quella trasmessa sullo schermo: questo sopprime il contrasto di diffrazione. L immagine apertureless mostra, tuttavia, un generico contrasto di massa-spessore che aumenta con il numero e con lo spessore del materiale. Questo tipo di contrasto (massa-spessore) si origina principalmente per lo scattering elastico di atomi individuali, in cui gli elettroni incidenti vengono deviati dalle interazioni di Coulomb quando passano attraverso l atomo. Il modo più opportuno per ottenere micrografie ad alta risoluzione in dark-field è quello di tiltare la radiazione incidente sul campione; l angolo di tilt deve essere uguale all angolo di diffrazione, 2θ B, della particolare diffrazione usata per l immagine in DF. Questa tecnica è chiamata dark-field assiale (Fig. 1.44). Fig Dark-field assiale [13]. Sul piano focale posteriore, la posizione del fascio trasmesso è stata tiltata nella posizione della diffrazione sulla sinistra, ed il fascio trasmesso viene bloccato dalla apertura obiettivo. Il fascio diffratto verso destra passa attraverso la apertura obiettivo e forma l immagine dark-field. I raggi diffratti giacciono sull asse ottico, minimizzando i difetti di sfocatura 61

70 delle lenti. Nei microscopi le aperture obiettivo hanno tipicamente diametri tra 0.5 e 20 µm, sono movibili con precisione meccanica e possono essere posizionate intorno a diffrazioni selezionate nel piano focale posteriore della lente obiettivo. Diffrazione di area selezionata (SAD) In Fig è riportato il diagramma di raggi che spiega in modo semplificato come ottenere un pattern di diffrazione al TEM. Fig Selected Area Diffraction (SAD) [13]. In questa configurazione la lente intermedia è focalizzata sul piano focale posteriore della lente obiettivo, come confermato da raggi e frecce tratteggiate. Una seconda apertura, apertura intermedia ; posizionata nel piano immagine della lente obiettivo, ha la funzione di limitare il pattern di diffrazione ad una area selezionata del campione. Il campione viene prima osservato in una delle modalità esposte in precedenza finché non si riscontra la presenza di un particolare interessante. A questo punto l apertura intermedia viene inserita e 62

71 posizionata intorno al particolare cui si è interessati. Il microscopio viene poi riportato in modalità diffrazione e sullo schermo appare il pattern SAD originato dall area selezionata in modalità immagine. Diffrazione di area selezionata può essere fatta su regioni con diametro di 10-4 cm; le aberrazioni sferiche della lente obiettivo limitano questa tecnica a regioni con all incirca questa dimensione. Per effettuare nano diffrazione è necessario usare la tecnica del nanobeam (fascio di dimensioni nanometriche), come la diffrazione elettronica a fascio convergente (convergent-beam electron diffraction o CBED). Esempi di pattern di diffrazione sono riportati in Fig Fig SAD ottenibili a seconda del tipo di cristallo. La distanza tra gli spot di diffrazione sullo schermo può essere utilizzata per determinare le distanze interplanari nei cristalli. Per fare questo è necessario utilizzare l equazione della fotocamera ( camera equation ). Si consideri la geometria esposta in Fig che mostra la lunghezza di camera, L, che è una grandezza caratteristica delle ottiche del microscopio. 63

72 Fig Geometria per la diffrazione elettronica e per la definizione della lunghezza di camera, L [13]. Come già detto, la legge di Bragg è la seguente (Eq. 1.60): 2d sin (1.60) Consideriamo che θ ~ 1 per diffrazioni di basso ordine con elettroni a 100 kev (λ = Å) è una situazione che si verifica per molti materiali. Per angoli così piccoli risulta che [13]: 1 sin tan tan(2 ) (1.61) 2 Considerando la geometria esposta in Fig. 1.47, si può scrivere che: r tan 2 (1.62) L Che sostituita nelle Eq e 1.61 permette di scrivere quanto segue: 1 r d 2 L 2 (1.63) 64

73 rd L (1.64) L ultima equazione ottenuta (Eq. 1.64) è l equazione della fotocamera ( camera equation ) e permette di determinare l distanza interplanare, d, misurando la separazione tra gli spot di diffrazione, r. Per far questo è necessario conoscere il prodotto λl, conosciuto come costante della fotocamera ( camera constant ), espresso in [Å cm]. Convergent-Beam Electron Diffraction (CBED) Il sistema delle lenti condensatrici nei TEM moderni, permette di avere grande versatilità nelle modalità di illuminazione del campione. La forma del fascio incidente (divergenza angolare e sezione) può essere controllata con precisione e modulata nel tempo. La tecnica della diffrazione a fascio convergente (convergent-beam electron diffraction o CBED) mostra queste possibilità ed è una tecnica fondamentale per ottenere diffrazione da regioni di dimensioni nanometriche. Nella CBED il fascio incidente viene focalizzato con le lenti condensatrici e con il pre-campo della lente obiettivo (quindi il fuoco della lente obiettivo cambia facendo variare l illuminazione). In Fig è riportato il paragone tra l illuminazione parallela convenzionale e l illuminazione nel caso di convergent-beam. Fig Sinistra: illuminazione convenzionale. Destra: illuminazione in convergent-beam [13]. Nel caso di illuminazione parallela, i fasci diffratti formano fasci paralleli, mentre nel CBED i raggi incidenti passano attraverso il campione con angoli differenti. Questo range angolare è piccolo e, in pratica, tutti gli elettroni del cono incidente possono essere diffratti almeno di qualche grado. Il fascio diffratto si allontana dal campione diviso in un set di coni divergenti, ciascuno con ampiezza tipica di 1. La sezione di questi coni diventa più larga man mano che scende attraverso la colonna del microscopio, e sullo schermo finale vanno a formarsi dei dischi. L organizzazione di tali dischi sullo schermo è la stessa del 65

74 pattern di diffrazione convenzionale. L intensità dei dischi di CBED non è uniforme ed i dettagli delle linee e delle strutture all interno di questi ultimi è di grande utilità nell analisi cristallografica al TEM. La simmetria dei pattern nei dischi può essere utilizzata per ottenere informazioni riguardanti il gruppo di simmetria puntuale della struttura cristallina [14]. La tecnica CBED è quindi fondamentale, in quanto fornisce informazioni sulla struttura tridimensionale di un cristallo. Fig Esempio di pattern di CBED [15]. High resolution TEM (HRTEM) Le tecniche di immagine bright-field e dark-field non possono essere utilizzare per ottenere immagini TEM di colonne di atomi in alta risoluzione. Le immagini in alta risoluzione possono essere spiegate utilizzando la trasformata di Fourier. La funzione d onda dell elettrone diffratto, ψ(δk), è la trasformata di Fourier della distribuzione del fattore di scattering nel materiale, f(r). La funzione f(r) segue l organizzazione degli atomi nel materiale, mentre Δk è il vettore di diffrazione (differenza tra i vettori d onda uscente ed incidente). La trasformata di Fourier degli atomi organizzati nello spazio reale del campione, F[f(r)], è [13]: ψ(δk) = F[f(r)] f(r) = F -1 [ψ(δk)] (1.65) La forma esplicita delle trasformata è: 1 ( k) f ( r) e 2 1 f ( r) ( k) e 2 d i k r 3 i k r 3 r d k (1.66) (1.67) 66

75 Il range di Δk può essere selezionato usando l apertura obiettivo nel piano focale posteriore della lente obiettivo; tuttavia questa apertura tronca la trasformata di Fourier di Eq Per una lente obiettivo che seleziona un range δk, il più piccolo dettaglio spaziale dell immagine avrà dimensione δx, dove: x 2 k (1.68) Per risolvere le periodicità atomiche è necessario avere una apertura che incorpori il range k 2 d, dove d è la distanza interatomica. Infatti, δk è il vettore del reticolo reciproco, ovvero la tipica separazione nello spazio k del primo spot di diffrazione dal fascio trasmesso. Per ottenere le immagini in bright-field e dark-field viene utilizzata una apertura più piccola, così da catturare elettroni che vengono diffratti in un particolare spot; di conseguenza, il troncamento dello spazio k non permette di ottenere immagini ad alta risoluzione in modalità DF e BF. Per ottenere una immagine in alta risoluzione è necessario utilizzare una apertura obiettivo grande abbastanza da includere sia il fascio trasmesso che almeno uno dei fasci diffratti. Il fascio trasmesso (o per meglio dire scatterato in avanti ) fornisce una referenza riguardo la fase del fronte d onda elettronico; le immagini ad alta risoluzione sono, infatti, pattern di interferenza formati dalle relazioni di fase dei fasci diffratti, cioè tra le funzioni d onda dell elettrone diffratto e di quello trasmesso [13]. Fig Esempio di immagine ad alta risoluzione. Negli inserti sono riportate la SAD (in alto) e l ingrandimento di una zona di interesse (in basso) [16]. 67

76 1.3 Spettroscopia a Dispersione di Energia (EDS) La spettroscopia a dispersione di energia, anche conosciuta come microanalisi EDS (Energy dispersive spectroscopy), è una tecnica analitica che permette di ottenere informazioni sulla composizione chimica di un campione, grazie ai segnali caratteristici emessi dagli elementi costitutivi. Come già esposto nel paragrafo 1.2.1, un fascio di elettroni che incide su un campione produce un gran numero di eventi e segnali. Tra questi, i raggi X che emergono dal campione hanno energie specifiche degli elementi del campione, mentre altri fotoni X non hanno relazioni con gli elementi costitutivi e vanno a far parte del fondo dello spettro (Fig. 1.50) La radiazione X continua (Bremsstrahlung) Quando un fascio di elettroni interagisce con il campo di forze coulombiano degli atomi di un campione, subisce una decelerazione. La perdita di energia degli elettroni ΔE che si verifica a causa della decelerazione, si manifesta con l emissione di un fotone. L energia di questo fotone è ΔE = ħν, dove ħ è la costante di Planck e ν è la frequenza della radiazione elettromagnetica. Questa radiazione emessa è chiamata radiazione di frenamento o Bremsstrahlung [12]. Dato che le interazioni sono random, l elettrone può perdere qualsiasi quantità di energia da un valore pari a zero fino al valore dell energia originale dell elettrone incidente E 0, formando uno spettro elettromagnetico continuo (Fig. 1.51). 68

77 Fig Tipico spettro di emissione del rame, in cui sono indicati i picchi caratteristici e la radiazione continua [12]. Nel descrivere i raggi X, si fa uso sia della loro energia E (kev) che della lunghezza d onda associata λ (nm), legate dalla seguente espressione: E nm (1.69) La massima energia osservabile in uno spettro corrisponde a quella del fascio di elettroni che ha perso tutta la sua energia in un singolo evento. Dato che le lunghezze d onda dei raggi X sono inversamente proporzionali alle energie, i raggi X con maggiore energia avranno minima lunghezza d onda, λ SWL, chiamata anche limite di Duane-Hunt [12] (Fig. 1.52). 69

78 Fig Radiazione continua e limite di Duane-Hunt [17]. L intensità della radiazione X continua, I cm, a qualsiasi energia o lunghezza d onda, è stata quantificata da Kramers [12]: I cm E E ipz E 0 (1.70) dove i p è la corrente della sonda elettronica, Z è il numero atomico medio basato sulle frazioni in massa (pesi) degli elementi del campione, E 0 è l energia del fascio incidente, e E ν è l energia del fotone continuo in un punto dello spettro. A basse energie fotoniche, l intensità della radiazione continua aumenta rapidamente per l elevata probabilità di leggere deviazioni della traiettoria dovute al campo di Coulomb degli atomi. L intensità della radiazione continua aumenta all aumentare della corrente e dell energia del fascio, e del numero atomico del campione.. Nella tecnica di analisi di spettroscopia a dispersione di energia (EDS), la radiazione continua è molto importante perché forma un background (fondo) sotto i picchi caratteristici. Una volta che il fotone è stato generato con una energia specifica è impossibile determinare se appartiene alla radiazione continua o a quella caratteristica. Quindi, l intensità del background, dovuto alla radiazione continua che si manifesta alle stesse energie dei raggi X caratteristici, fissa un limite alla quantità minima identificabile di un elemento. E importante notare dalla Eq. 1.70, che la radiazione continua contiene informazioni sul numero atomico medio del campione e quindi sulla composizione totale. Di conseguenza, regioni del campione con differente numero atomico medio, emetteranno radiazione continua con differente intensità a tutti i livelli di energia. Questa dipendenza del Bremsstrahlung dal numero atomico causa numerosi artefatti nella mappatura dei raggi X di elementi in minor concentrazione, che possono portare a gravi errori di interpretazione se non sono riconosciuti e corretti. 70

79 1.3.2 La radiazione X caratteristica Un fascio di elettroni può interagire con elettroni fortemente legati delle orbite più interne all atomo di un campione, espellendo un elettrone dall orbita. Perdendo un elettrone, l atomo è nello stato energetico eccitato ed è quindi ionizzato. Da parte sua, il fascio elettronico incidente lascia l atomo avendo perso una energia almeno pari ad E K, dove E K è l energia di legame dell elettrone espulso dalla shell (livello energetico atomico) K. L elettrone espulso dall orbitale lascia l atomo con una energia cinetica che dipende dal tipo di interazione e che può assumere valori da qualche ev a diversi kev. L atomo stesso viene lasciato nello stato eccitato avendo perso un elettrone della shell più interna e ritorna allo stato fondamentale in 1 ps approssimativamente, attraverso un set di transizioni consentite di elettroni dalle shell più interne, che vanno a riempire la vacanza nella shell interna. Le energie degli elettroni nelle shell sono precisamente definite da valori caratteristici di ogni specifico elemento; la differenza di energia tra le shell elettroniche è una caratteristica specifica di ciascun elemento. Durante il passaggio dell atomo allo stato fondamentale, l eccesso di energia può essere rilasciato in due modi (Fig. 1.53): Emissione di elettrone Auger, per transizioni tra shell esterne; Emissione di un raggio X (fotone X) caratteristico, per transizioni tra shell interne. Fig Processo di emissione di fotoni X ed elettroni Auger. In Fig sono riportati diagrammi con tutte le principali transizioni possibili. La ionizzazione di un elettrone nella shell K aumenta l energia dell atomo al livello K. se un elettrone della shell L va nella shell K per riempire la vacanza, l energia dell atomo decresce al livello L, ma c è di nuovo un sito vacante nella shell L, che sarà riempito da un elettrone di un livello energetico inferiore, e così via. 71

80 Fig Sinistra: diagramma dei livelli energetici. Destra: ionizzazione dell atomo. Il diagramma dei livelli energetici ha origine da accurate rappresentazioni quantomeccaniche dell atomo, risultanti dalla soluzione dell equazione d onda di Schrödinger. L energia di un atomo è rappresentata dalle energie dei diversi stati vacanti (cioè da cui sono stati espulsi elettroni) che possono essere creati dall azione del fascio elettronico. Le shell sono ordinate in funzione della crescente distanza dal nucleo atomico e prendono il nome di shell K, L, M ecc ; sono legate ai numeri quantici e sono divise in sottolivelli (subshells). Le linee dei raggi X caratteristici di uno spettro sono il risultato di transizioni tra sottolivelli; tuttavia, la teoria atomica spiega che solo le transizioni tra determinati sottolivelli sono consentite e quindi non tutte le transizioni hanno come risultato l emissione di raggi X caratteristici. La nomenclatura adottata per le righe di emissione (notazione Siegbahn) è la seguente: K, L, M, N = serie in cui cade l elettrone diseccitato; α, β, γ, δ = livello della transizione più probabile; 1, 2, 3 = sottolivello della transizione più probabile (pedice). Riguardo la probabilità di una transizione, è possibile affermare che, in generale, maggiore è la differenza di energia nella transizione elettronica e meno probabile e meno intensa sarà la linea X. Quindi, le linee Kβ saranno meno intense delle Kα. Per elementi con numero atomico maggiore di Z = 18, si ha un rapporto tra le intensità delle linee Kα e Kβ pari a circa 10:1. I raggi X emessi durante una transizione elettronica permessa sono chiamati raggi X caratteristici a causa dei valori caratteristici di energia e lunghezza d onda del particolare elemento che è stato eccitato. Le energie dei livelli elettronici variano in funzione del 72

81 numero atomico, così anche i raggi X emessi avranno energie caratteristiche che dipendono dal numero atomico. La differenza di energia tra le shell cambia con step regolari quando il numero atomico varia di una unità. Questa proprietà fu scoperta da Moseley e può essere espressa con la seguente equazione (Legge di Moseley): C 2 E A Z (1.71) dove E è l energia della linea del raggio X, A e C sono costanti che differiscono per ciascuna serie di raggi X (C = 1.13 per la serie K e circa 7 per la serie L). La legge di Moseley è alla base dell analisi qualitativa dei raggi X e, quindi, dell identificazione degli elementi che costituiscono un campione. E importante puntualizzare che quando un fascio di elettroni ha energia sufficiente a ionizzare una particolare shell di un atomo per produrre raggi X caratteristici, tutti gli altri raggi X caratteristici, con energie minori, dello stesso atomo verranno eccitati, ammesso che ci siano elettroni disponibili per tali transizioni. La produzione di raggi X a bassa energia avviene a causa sia della ionizzazione diretta di quelle shell a causa del fascio elettronico, sia a causa della propagazione degli stati vacanti verso l esterno (da K a L a M) quando l atomo torna allo stato fondamentale Rivelatori per la microanalisi EDS Come già ampiamente esposto, conoscere l energia dei raggi X caratteristici significa conoscere le differenze tra i livelli atomici della sostanza che li emette e, quindi, conoscere gli elementi che la compongono. Le principali tecniche utilizzate per l analisi del segnale sono due: WDS : Wavelenght - Dispersive Spectrometer. EDS : Energy - Dispersive x-ray Spectrometer. Wavelenght Dispersive Spectrometer (WDS) La tecnica WDS, ovvero spettroscopia a dispersione di lunghezza d onda, si basa sulla natura ondulatoria dei fotoni X emessi. Il raggio X che proviene dal campione viene mandato su un monocromatore che seleziona le diverse lunghezze d onda (nλ) e le trasferisce ad un rivelatore. In questo caso il detector non ha il compito di misurare l energia perché questa è già stata selezionata dal monocromatore, per cui è sufficiente un contatore proporzionale che abbia elevata efficienza e un basso rumore. Come reticolo di diffrazione si utilizza un cristallo, che sfrutta la legge di Bragg (distanza interatomica paragonabile alla lunghezza d onda dei fotoni incidenti) analogamente a quanto si fa nella 73

82 diffrazione di raggi X. In questo modo fotoni con diversa lunghezza d onda vengono separati e poi rilevati singolarmente per essere discriminati. La geometria di focalizzazione dei raggi X è conosciuta come cerchio di Rowland (Fig. 1.55). Fig Illustrazione del funzionamento del detector WDS e del cerchio di Rowland. Una volta scelto il cristallo, il rivelatore ruota in modo da selezionare diverse energie (se cambia θ cambia anche λ). E necessario utilizzare diversi cristalli (diversi d) a seconda dell intervallo di energie di interesse. La tecnica WDS fornisce una risoluzione spettrale molto elevata, dell ordine dei 10 ev ma ha il difetto di avere tempi di acquisizione più lunghi rispetto alla tecnica EDS. Energy Dispersive X-ray Spectrometer (EDS) Con questa tecnica si utilizza uno spettrometro in grado di discriminare le energie. Per questo scopo si sfrutta l interazione energetica tra i raggi X e un monocristallo raffreddato con azoto liquido (-192 C) di Si ad alta resistività drogato con Li (o un monocristallo di Ge) che sfrutta la proprietà per cui un fotone incidente su un semiconduttore produce coppie elettrone-lacuna in numero proporzionale alla sua energia. 74

83 Fig Illustrazioni del detector EDS [18]. Ogni fotone produce un certo numero di cariche all interno del dispositivo (in particolare all interno della regione di svuotamento), che danno origine ad una carica indotta agli elettrodi la cui variazione provoca un passaggio di corrente. Misurando questa corrente è possibile risalire alla carica totale indotta agli elettrodi e quindi, indirettamente, all energia del fotone X incidente. Il silicio ha un energia caratteristica, detta energia di creazione della coppia elettrone-lacuna, che è pari a 3.6 ev; questa è l energia media che la radiazione ionizzante perde per creare una coppia. Tale valore è circa tre volte più grande dell energia di gap dello stesso elemento. La radiazione X perde parte della sua energia dal punto di vista elettrico e parte dal punto di vista termico, perché oltre alla produzione di coppie si ha produzione di fononi. Il numero di coppie create per fotone incidente è: n E (1.72) coppia dove E è l energia del fotone e ɛ coppia è l energia di creazione della coppia elettrone-lacuna. Come già detto, la creazione di carica (mobile) all interno del dispositivo genera una carica indotta agli elettrodi. L elettronica impiegata nel detector EDS è tale da convertire il segnale in carica generato dal passaggio del fotone, in un segnale di tensione, utilizzando un circuito integratore. Tale circuito restituisce in uscita l integrale del segnale in ingresso e, essendo l integrale della tensione proporzionale alla carica rilasciata, è possibile risalire all energia del fotone. Esiste ora una nuova generazione di detector EDS ovvero i silicon drift detector (SDD). Si tratta di rivelatori di silicio di tipo n ad alta resistività in cui l anodo ha piccola massa ed è confinato in un piccolo spazio, mentre la finestra di entrata è polarizzata ad elevata tensione negativa. Gli elettroni vengono generati all interno del volume a causa dell assorbimento della radiazione ionizzante e vengono forzati ad andare verso il piccolo anodo, da un campo elettrico con una forte componente parallela al wafer di silicio. I detector SDD hanno forma circolare, gli elettrodi sono concentrici e polarizzati con 75

84 tensione sempre più negativa a partire dall anodo: la direzione del gradiente di tensione è tale da far sì che l anodo sia a potenziale più positivo e collezioni tutti gli elettroni rilasciati all interno del volume, a causa dell assorbimento della radiazione ionizzante. In questo modo si ottiene l assenza di regioni libere dal campo elettrico. Per ottimizzare questi detector per la spettroscopia a raggi X, sulla superficie maggiore è stata posta la giunzione p+, mentre sul lato opposto c è l anodo n-. Fig Silicon Drift Detector. La capacità anodica ha un valore estremamente piccolo e risulta sostanzialmente indipendente dall area attiva del dispositivo; questa caratteristica, unita alle piccole dimensioni fisiche dell anodo, consente di ottenere un segnale di tensione all anodo di ampiezza maggiore rispetto al comune EDS e con tempi di elaborazione del segnale più brevi. Inoltre, in questo caso non è necessario il raffreddamento con azoto liquido, ma è sufficiente utilizzare un sistema di raffreddamento Peltier (-25 C). 76

85 Bibliografia Capitolo 1 [1] Waseda Y, Shinoda K, Matsubara E. X-Ray Diffraction Crystallography: Introduction, Examples and Solved Problems, Springer [2] Als-Nielsen J, McMorrow D. Elements of modern X-ray physics, John Wiley & Sons, [3] Pecharsky VK, Zavalij PY. Fundamentals of powder diffraction and structural characterization of materials, Springer, [4] Heilbron JL. The Kossel-Sommerfeld theory and the ring atom, Isis 58.4 (1967) [5] Bohr N. On the constitution of atoms and molecules, The London, Edinburgh, and Dublin Philosophical Magazine and Journal of Science (1913) [6] Moseley HGJ. The high-frequency spectra of the elements, The London, Edinburgh, and Dublin Philosophical Magazine and Journal of Science (1913) [7] Klug HP, Alexander LE. X-ray diffraction procedures: for polycrystalline and amorphous materials, Wiley-VCH Ed [8] Thomson JJ. Conduction of Electricity through Gases, 2nd Ed., London Cambridge Univ Press [9] International Tables for X-ray Crystallography, Kluwer Academic Pub, London, UK, [10] Takagi S. Dynamical theory of diffraction applicable to crystals with any kind of small distortion, Acta Crystallographica (1962) [11] Fultz B, Howe JM. Transmission electron microscopy and diffractometry of materials, Springer, [12] Goldstein J, Joseph, et al. Scanning electron microscopy and X-ray microanalysis, Springer, [13] Michler GH. Electron microscopy of polymers, Springer, [14] Shmueli U, Cochran Wilson AJ. International tables for crystallography, Ed. Theo Hahn. D. Reidel Publishing Company, [15] Vijayalakshmi M, Saroja S, Mythili R. Convergent beam electron diffraction A novel technique for materials characterisation at sub-microscopic levels, Sādhanā 28 (2003) [16] Yang J, Yang Y, Waltermire SW, Wu X, Zhang H, Gutu T, Jiang Y, Chen Y, Zinn AA, Prasher R, Xu TT, Li D. Enhanced and switchable nanoscale thermal conduction due to van der Waals interfaces, Nature Nanotechnology 7 (2012) [17] [18] 77

86 Capitolo 2 Materiali per immagazzinamento dell idrogeno allo stato solido 2.1 Introduzione L idrogeno è un promettente vettore energetico alternativo che può facilitare la transizione dai combustibili fossili alle sorgenti di energia pulita, grazie a diversi vantaggi quali: elevata densità di energia (142 MJ kg -1 ) [1]; grande varietà di potenziali sorgenti (acqua, biomassa, materiale organico); peso molecolare più basso di tutti i gas (2 g mol -1 ); basso impatto ambientale (l acqua è il solo prodotto della combustione). Per queste proprietà, un chilogrammo di idrogeno riempie un volume di 12.2 m 3 in condizioni normali. Una grande mole di ricerche è stata fatta negli ultimi anni (ed ancora oggi prosegue) in tutto il mondo per sviluppare sistemi di stoccaggio di idrogeno che siano sicuri, compatti ed efficienti. I possibili sistemi di stoccaggio di H 2 sono i seguenti [2]: stoccaggio in forma di gas compresso, fino a 70 MPa in contenitori ad alta pressione [3]; stoccaggio criogenico allo stato liquido a 21 K [3]; combustibile solido in combinazione chimica o fisica con materiali quali, idruri metallici, idruri complessi, materiali a base di carbonio [4,5], metal-organic frameworks [6], polimeri nanoporosi [7]; produzione on-board sui veicoli tramite steam reforming del metanolo [8]. Per lo stoccaggio di idrogeno, l obiettivo da raggiungere stabilito dal Dipartimento dell Energia degli Stati Uniti (DOE) è fissato al 5.5wt.% H 2 per il 2015 [9]. L impiego di idruri metallici rappresenta al momento il miglior modo di procedere perché, rispetto agli altri sistemi elencati in precedenza, gli idruri hanno caratteristiche peculiari quali elevata densità di immagazzinamento di H 2 ed elevata sicurezza di impiego. I principali requisiti che i sistemi di idruri metallici devono soddisfare sono i seguenti [4]: 78

87 elevata capacità di idrogeno per unità di massa e di volume; basse temperature e moderate pressioni di dissociazione; basso calore di formazione (per minimizzare l energia necessaria per il rilascio di H 2 ); bassa dissipazione di calore (durante la reazione esotermica di formazione dell idruro); reversibilità; limitata perdita di energia durante i processi di carico e scarico dell idrogeno; cinetiche veloci; elevata stabilità rispetto all ossigeno e suoi composti, per un lungo ciclo di vita; stabilità con cicli a lungo termine; elevata sicurezza. Le leghe a base di magnesio hanno attratto la maggiore attenzione grazie alla elevata capacità di stoccaggio di H 2 ed al basso costo; infatti, il Mg puro può immagazzinare fino al 7.6 wt.% di idrogeno [1, 2]. L entalpia di formazione dell idruro di magnesio (MgH 2 ) è pari a kj/mol H 2 e la relativa energia di attivazione è valutata pari a 86 kj/mol H 2 [10]. Nonostante la elevata capacità di stoccaggio, nell utilizzare film sottili di Mg e sue leghe per questo scopo, ci sono senza dubbio dei rilevanti svantaggi quali: 1. cinetiche lente; 2. elevata temperatura di impiego; 3. elevata reattività con l ossigeno. Nell ambito di questo lavoro di Tesi svolto durante gli anni di Dottorato, è stato inizialmente valutato il comportamento di film sottili di Mg puro, effettuando test di idrogenazione per ottenere dati sulla quantità di H 2 assorbito e sulle cinetiche di reazione. Il problema della elevata tendenza all ossidazione (3) è stato risolto depositando sui film sottili di Mg uno strato di Pd di circa 20 nm di spessore, che di fatto protegge la superficie del film da qualsiasi esposizione all ossigeno; inoltre, il Pd ha anche la duplice funzione di catalizzare la reazione di dissociazione dell idrogeno H 2 H + H sulla superficie del film, velocizzandone l assorbimento. Per rendere più veloci le cinetiche di reazione, lavori già presenti in letteratura [4,11,12] hanno suggerito di eseguire un drogaggio dei film, depositando insieme al Mg, il 5% in atomi di un metallo di transizione, quale il niobio (Nb). I risultati dei test di idrogenazione e della caratterizzazione microstrutturale sono riportati all interno di questo capitolo. Tuttavia, nonostante i miglioramenti ottenuti con il drogaggio, le cinetiche ottenute non sono ancora veloci al punto da poter pensare di implementare realmente il sistema. Inoltre, i film sottili soffrono di una grave mancanza di stabilità, quale il fenomeno della decrepitazione, ovvero l effettiva polverizzazione del film sottile dovuta all infragilimento indotto dai cicli di assorbimento/desorbimento di H 2. Una possibile soluzione a questi problemi può essere rappresentata dai materiali compositi di metallo e polimero, in cui un materiale metallico formante la fase idruro, viene disperso in una matrice polimerica. L uso di un polimero adatto come matrice, può preservare la stabilità a lungo termine delle particelle metalliche e proteggerle dalla reazione con ossigeno o altri gas contaminanti [13]. Inoltre, il passaggio da film sottili a particelle di 79

88 dimensioni micro- e nano-metriche, induce importanti cambiamenti nelle proprietà fisicochimiche caratteristiche dei materiali. Infatti, considerando l immagazzinamento di H 2, studi recenti indicano che il nanoconfinamento (ovvero confinamento di nanoparticelle in matrici) apporta un forte miglioramento delle proprietà cinetiche e permette di destabilizzare termodinamicamente gli idruri metallici [14-16]. Il nanoconfinamento permette di proteggere le particelle dalla coalescenza e dagli ambienti reattivi. L idea principale è quella di creare un sistema bifasico composto da uno scaffold in cui nanoparticelle metalliche vengono inglobate nei pori della struttura ospite. Esistono al momento due modalità di sintesi per preparare campioni di questo genere. Il primo metodo, definito ship-in-the-bottle, consiste nel partire da un material nanoporoso ed infiltrare il precursore del metallo, che verrà poi trasformato in metallo con trattamenti chimici o termici, così da ottenere il materiale ibrido finale. Il secondo metodo, bottle-around-theship, consiste nell intrappolare le specie metalliche nello scaffold durante le preparazione chimica di quest ultimo. Quando si sceglie l appropriato scaffold per applicazioni di stoccaggio di H 2, devono essere considerati diversi criteri: elevata area specifica superficiale con adeguata distribuzione di pori; stabilità termica e chimica (per evitare reazioni quali ossidazione e passivazione; peso leggero; basso costo; facile reperibilità; nessun pericolo per l ambiente. Attualmente, come materiali per scaffold, sono di grande interesse i materiali a base carboniosa [17-20], metal organic framework [21-29] e materiali polimerici [30-34]. Riguardo le nanoparticelle, tra tutti i possibili metalli, due sono le tipologie più importanti per il nanoconfinamento [35]: metalli nobili (altamente resistenti alla reazioni chimiche, per lo più si tratta di particelle a base di Pd) che formano idruri metallici interstiziali, metalli leggeri (nanoparticelle a base di Mg) che formano idruri ionici. Nel presente lavoro, dopo aver affrontato le problematiche dei film sottili di Mg puro e Mg drogato con 5% Nb, si è posta l attenzione sullo sviluppo e sulle proprietà di un materiale composito ottenuto da componenti disponibili in commercio e a basso costo. I compositi sono stati realizzati mescolando particelle di Pd con polisilossano (Saratoga), in diverse percentuali in peso. I risultati principali sono riportati nel paragrafo 2.3 della presente tesi [36]. 80

89 2.2 Film sottili Deposizione I campioni, forniti dal Dipartimento di Fisica dell Università di Trento, sono film sottili di Mg-Nb 0at.% e Mg-Nb 5at.%; le percentuali si riferiscono al niobio atomico. Il Nb è disperso in soluzione solida nel magnesio. I campioni sono stati depositati tramite r.f. magnetron sputtering su wafer di grafite. Il processo di sputtering (Fig. 2.1) consiste nel bombardare un materiale solido, bersaglio (target), mediante un fascio di particelle sufficientemente energetiche da produrre l'emissione di atomi, ioni o frammenti molecolari, dalla superficie del target stesso. In un sistema r.f. magnetron sputtering il plasma è attivato da una radiofrequenza a MHz (Radio Frequency). Il sistema di deposizione fa inoltre uso di un dispositivo passivo in grado di generare un campo magnetostatico; le particelle e gli ioni dotati di carica elettrica sono soggetti alla forza di Lorentz e vengono quindi deviati dalle linee di flusso del campo, in modo da impattare più volte con il target del materiale da depositare. Con questo sistema si immette più materiale nel plasma ottenendo velocità di deposizione maggiori a pressioni minori. Come gas di processo si utilizza argon con una purezza del %. Il processo di deposizione è stato realizzato ad una pressione di gas all'interno del sistema da vuoto di 0.5 Pa (il vuoto base della camera è inferiore ai 10 5 Pa) utilizzando una potenza di 150 W; con questi parametri operativi, la differenza di potenziale tra gli elettrodi risulta compresa fra i 300 ed i 400 V. La generazione degli ioni Ar- avviene mediante una scarica prodotta tra due elettrodi. Per i film di Mg viene utilizzato un target di magnesio di purezza 99.95%; per i campioni Mg con Nb viene, invece, realizzato un target apposito, ponendo dei frammenti di niobio, caratterizzati da una purezza del 99.95%, sopra il target di Mg. La concentrazione effettiva di niobio nei film viene poi misurata mediante tecnica EDS (Energy Dispersive Spectroscopy). Senza interrompere le condizioni di vuoto, su tutti i film preparati viene depositato, sempre per r.f. magnetron sputtering, un sottile strato di palladio (pochi nm), utilizzando un target con una purezza del 99.95%. La deposizione del palladio ha un duplice scopo: evitare l'ossidazione superficiale del materiale e favorire la dissociazione della molecola di H 2 durante il processo di idrogenazione. 81

90 Fig Rappresentazione schematica del processo di sputtering Interazione con l idrogeno: cinetiche di reazione Una volta sfogliati dalla grafite, i campioni si presentano come film di circa 1 cm di diametro, con superficie lucida. Prima di iniziare i cicli è necessario sottoporre i campioni a base di Mg ad alcuni cicli di attivazione a 350 C e 15 atm di idrogeno, al fine di eliminare la presenza di contaminazione superficiale e di ossidi di magnesio (il layer di palladio, a causa della elevata rugosità, non ricopre efficacemente tutta la superficie del magnesio) che ostacolano l'assorbimento di idrogeno. Terminata questa prima fase, si procede con i ciclaggi veri e propri: l'assorbimento del gas idrogeno viene effettuato mantenendo i campioni per 24h a 15 atm di pressione di idrogeno e alla temperatura di 350 C. Per il desorbimento si esegue l'evacuazione della camera, mantenendo la temperatura a 350 C. Tra un ciclo ed il successivo la camera in cui si trovano i campioni non viene mai aperta e quindi questi ultimi non entrano in contatto con l'ossigeno o con il vapore acqueo presenti nell atmosfera. I campioni analizzati hanno uno spessore compreso nel range nm, mentre lo strato superficiale continuo di Pd ha uno spessore variabile tra i 3 30 nm. I campioni sono stati osservati così come depositati (0 cicli) e dopo 8 cicli, dove con un ciclo si intende un 82

91 completo assorbimento ed un completo desorbimento di idrogeno, da parte del campione [12,37-38]. Le misure cinetiche hanno consentito di valutare come evolvono i tempi di reazione, in funzione del numero di cicli di assorbimento e desorbimento di idrogeno. Per quanto concerne i film di magnesio puro si osserva un progressivo miglioramento delle cinetiche in seguito ai primi cicli di attivazione superficiale. Fig. 2.2 Curve cinetiche integrali misurate a 350 C relative ai cicli di un campione di magnesio puro. La curva del ciclo 8 è relativa alle condizioni stazionarie. Dalla Fig. 2.2 è possibile vedere come all ottavo ciclo si raggiunga il massimo assorbimento di idrogeno (circa 7.6 wt%). Con l inserimento del niobio all interno della matrice di magnesio, si osserva un netto miglioramento delle cinetiche, tanto che il ciclo peggiore (a livello cinetico) dei campioni Mg-Nb 5% è comunque migliore del più veloce ciclo riscontrabile con i campioni di magnesio puro. 83

92 Fig. 2.3 Cicli di attivazione dei campioni Mg-Nb 5%. Fig. 2.4 Andamento delle cinetiche di reazione dal quinto ciclo in poi. 84

93 2.2.3 Caratterizzazione strutturale Misure XRD Le informazioni ottenute dalle misure XRD riguardano le fasi cristalline, l'orientazione e la dimensione dei grani oltreché il livello di stress presente nei film. La dimensione media dei grani è stata calcolata mediante l equazione di Scherrer [39]: k L cos (2.1) dove k è il fattore di forma adimensionale (circa 0.9), λ è la lunghezza d'onda della radiazione impiegata ( Å), mentre β è l'ampiezza a metà altezza (FWHM = Full Width at Half Maximum) del picco. Per il magnesio è stato utilizzato, come riferimento per il calcolo, il picco (002) in tutte le misure; infatti, tale picco risulta essere il più intenso per tutti i campioni, a causa del fatto che la crescita del film avviene con l'asse c orientato ortogonalmente al substrato. La caratterizzazione strutturale dei campioni è stata realizzata tramite spettroscopia XRD nella configurazione convenzionale di Bragg-Brentano mediante un diffrattometro a raggi X Bruker D8 Advance, utilizzando la radiazione CuKα (λ = nm). Lo spettro dei raggi X per i campioni as deposited è quello riportato nella Fig Fig. 2.5 Sinistra: spettro dei raggi X del campione Mg-Nb 0% as deposited ; per i campioni Mg-Nb 5% si ottiene uno spettro analogo. Destra: spettro raggi X dei campioni Mg-Nb 0% dopo un ciclo. 85

94 Gli spetti riportati in Fig. 2.5 mostrano come il magnesio cresca in maniera preferenziale lungo la direzione (002), che è quella termodinamicamente favorita. I campioni di magnesio puro sono stati analizzati ai raggi X dopo 1, 2, 3, 4 e 8 cicli. Dopo un ciclo di assorbimento/desorbimento dell idrogeno, oltre ai picchi caratteristici del magnesio, si osserva la presenza di MgH 2 residuo nel campione e la formazione di ossido in minima parte (2θ 43 ). Sono presenti diversi picchi relativi al composto Mg 6 Pd, mentre non si riscontra alcuna presenza di Pd. Unendo gli spettri, ricavati ad ogni analisi, si ottiene quanto riportato in Fig Fig. 2.6 Spettro raggi X riassuntivo per il campioni Mg-Nb 0% [40]. In Fig. 2.6 si vedono chiaramente tutti i picchi relativi al magnesio; quello relativo a Mg (002) a 2θ = 34 è il più elevato in tutti i cinque casi. Si noti la presenza di picchi, particolarmente importanti dal secondo ciclo in poi, relativi al composto Mg 6 Pd. I picchi relativi all'idruro di magnesio sono maggiormente visibili nello spettro del secondo ciclo e si attenuano all'aumentare del ciclaggio. Per i campioni drogati con il 5% in atomi di Nb, l analisi ai raggi X, effettuata dopo il primo ciclo, ha permesso di ottenere il seguente spettro di diffrazione: 86

95 Fig. 2.7 Spettro del campione Mg-Nb 5% dopo un ciclo; è interessante osservare il multipletto legato alla sovrapposizione dei tre picchi relativi a Mg, Nb 0,89 e Mg 6 Pd. Osservando questo spettro si notano subito i picchi del magnesio. Come ipotizzabile, si osserva la presenza di Nb e soprattutto di idruro di niobio (NbH 0.89 ), mentre non vi è alcuna traccia di MgH 2 residuo. Si noti, inoltre, la presenza di Mg 6 Pd ad un angolo 2θ di circa 38. Lo spettro riassuntivo dell analisi ai raggi X per i campioni Mg-Nb 5% si presenta come indicato nella Fig Fig. 2.8 Sovrapposizione di tutti gli spettri XRD dei campioni Mg-Nb 5%. 87

96 La Fig. 2.8 mostra che i picchi del Nb diventano più intensi dal secondo ciclo in poi, mentre il picco relativo al composto Mg 6 Pd visibile nello spettro del primo ciclo, si attenua con il passare dei cicli. Un comportamento analogo si riscontra anche per l idruro di niobio (NbH 0,89 ). Il picchi del magnesio sono ovviamente ben distinguibili in tutti gli spettri. I picchi relativi al palladio e all ossido di magnesio sono, invece, soltanto accennati, rispettivamente a 0 cicli e ad 8 cicli. Considerando tutti gli spettri XRD dei campioni di Mg puro e Mg-Nb 5% (Fig. 2.6, Fig. 2.8), è possibile notare la formazione del composto Mg 6 Pd legata alla diffusione del Pd nel magnesio a partire dal primo ciclo di assorbimento/desorbimento. Il picco relativo a questo composto tende a crescere nel caso del magnesio puro, mentre nei campioni drogati con niobio si osserva l effetto contrario. Un risultato evidente, e particolarmente enfatizzato nei campioni Mg-Nb 5%, è la diminuzione dell ampiezza del picco Mg (002) durante il ciclaggio. Inoltre, ciclo dopo ciclo l ampiezza di picchi relativi ad altre orientazioni del Mg tende ad aumentare indicando che il magnesio passa dall essere monocristallino nella condizione as deposited (0 cicli) al diventare policristallino. Nei campioni di magnesio drogato si osserva inoltre un aumento del picco relativo al niobio, dal primo ciclo in poi. Le analisi degli spettri XRD hanno permesso di stimare il livello di stress del reticolo di magnesio in tutti i campioni, utilizzando il picco Mg (002) che è sempre il più intenso. L esatta posizione angolare della riflessione Mg (002) è stata ricavata dall interpolazione Lorentziana del picco e la corrispondente distanza interplanare (d) è stata calcolata applicando la legge di Bragg. Lo stress reticolare del piano Mg (002) espresso in termini di variazione della distanza interplanare, è stato determinato grazie alla formula: d d0 (2.3) d dove d 0 è la spaziatura dei piani Mg (002) nel reticolo privo di stress. Per il calcolo è stato assunto un d 0 = nm, che corrisponde alla distanza interplanare per Mg (002) nel reticolo senza stress, riportata nella card ICDD n In queste condizioni, l errore relativo associato alla deformazione del reticolo ɛ è di ~0.15%. 88

97 Fig. 2.9 Evoluzione degli stress residui per campioni di magnesio drogato con diverse concentrazioni di niobio (0% e 5.%) in funzione del numero dei cicli di assorbimento e desorbimento di H 2 [40]. Dalla Fig. 2.9 risulta evidente la differenza di stress tra la matrice di Mg puro e quella di Mg-Nb 5%. Nel caso del magnesio drogato, l interazione con l idrogeno causa un parziale rilassamento della matrice concentrato nei primi quattro cicli. Al contrario, la curva tratteggiata, relativa al magnesio puro, ha un andamento sostanzialmente costante sempre nell intorno del valore 0 di ɛ, indice che la matrice in questo caso non è sottoposta a particolari stress, né dopo la deposizione, né durante il ciclaggio. All ottavo ciclo, i livelli di stress in entrambi i casi, diventano confrontabili. Per ciò che concerne le dimensioni dei grani, considerando sempre il picco Mg (002), si è ottenuto il risultato mostrato in Fig

98 Fig Evoluzione della dimensione dei grani cristallini di magnesio per i campioni Mg-Nb 0% e Mg-Nb 5% in funzione del numero dei cicli di assorbimento e desorbimento dell'idrogeno. Osservazioni SEM CAMPIONI Mg-Nb 0% Il campione di magnesio puro as deposited (Fig. 2.11a) mostra di avere una superficie, sul lato dove è deposto il palladio, particolarmente rugosa, composta di scaglie aventi dimensioni medie variabili tra 1 e 10 micron. Queste scaglie hanno una forma squadrata e gli angoli tra le facce sono di circa

99 Fig Superfici dei campioni di Mg-Nb 0% su cui è stato depositato il palladio: as deposited (a), dopo 8 cicli (b).micrografie delle sezione di campioni Mg-Nb 0%, non ciclato (c), e ciclato otto volte (d). Dopo aver subìto otto cicli di idrogenazione, la superficie del film presenta una struttura finemente rugosa (Fig. 2.11b) e non più la struttura a scaglie osservata in precedenza. La rugosità di tale superficie è da ritenersi legata al fatto che i grani di magnesio sono colonnari e crescono lungo una direzione preferenziale. Il palladio depositato sulla superficie ne ricalca tutte le increspature; questo giustifica la non uniformità dello spessore di tale strato e la conseguente necessità di cicli di attivazione. Gli stessi campioni, 0 cicli (Fig. 2.11d) ed 8 cicli (Fig. 2.11e), sono stati osservati in sezione. Nel campione sottoposto ad 8 cicli, si osserva una struttura molto porosa, mentre la sezione del campione non ciclato appare piatta con qualche gradino e, nel complesso, strutturalmente più ordinata. 91

100 CAMPIONI Mg-Nb 5% Nei campioni drogati con niobio, la situazione superficiale si dimostra subito molto diversa rispetto ai campioni precedentemente osservati (Mg puro), come visibile in Fig Fig Immagine superficiale del campione di Mg-Nb 5%, dopo il primo ciclo (a), dopo 8 cicli (b). Micrografie delle sezioni dei campioni di Mg-Nb 5%, as deposited (c) e dopo otto cicli (d). La superficie del campione di Mg puro sulla quale è stato depositato il Pd (Fig. 2.12a, Fig. 2.12b), presenta una struttura a squame di forma irregolare. In questo caso, gli angoli di 120 tra le facce delle scaglie visibili nel caso del magnesio puro non si distinguono più. Le squame hanno dimensioni che variano tra 1 e 10 μm. Dopo aver sottoposto il campione con analoga composizione a 8 cicli di idrogenazione, si osserva che la superficie mantiene la struttura a squame osservabile dopo il primo ciclo. Come per i campioni di magnesio puro, è stata caratterizzata al SEM anche la sezione dei campioni a 0 ed 8 cicli. Il campione as deposited presenta una struttura caratterizzata da nano porosità (Fig. 2.12c). Dopo otto cicli si osserva una struttura fortemente porosa, caratterizzata da pori di dimensioni più elevate e da una struttura ben organizzata, rispetto alla situazione precedente (Fig. 2.12d). 92

101 Osservazioni TEM Dalle osservazioni al TEM [40] è stato subito rilevato un ispessimento del film, passando dalla condizione as deposited (nessuna idrogenazione) all ottavo ciclo, che passa da ~28 µm nel caso del campione as deposited a ~43 µm nel caso del film sottoposto ad 8 cicli. Nei campioni di Mg puro (Mg-Nb 0%) il film cresce con orientazione (001). Tale orientazione preferenziale tende a ridursi all'aumentare del numero di cicli di assorbimento e desorbimento. In Fig è riportata una immagine TEM che evidenzia lo strato di palladio depositato sulla superficie di tutti i campioni (Mg puro as deposited, in questo caso). Tale ricoprimento ha uno spessore di ~20 nm. Fig Film di Mg puro in cui è evidente lo strato di palladio. Nell inserto è mostrata la figura di diffrazione di una zona a cavallo del layer di Pd. La Fig mostra due micrografie TEM dei film di Mg puro in condizioni as deposited (sinistra) e dopo 8 cicli di assorbimento e desorbimento (destra). Nel primo caso si osservano grani di magnesio con la tipica struttura colonnare e dimensione maggiore confrontabile con lo spessore del film. Dopo l interazione con l idrogeno (Fig destra), la struttura del film è totalmente cambiata: i grani colonnari sono stati sostituiti da una struttura frastagliata e porosa, indice della reazioni tra magnesio ed idrogeno. L analisi degli anelli e degli spot di diffrazione più intensi, ha mostrato la presenza di Pd(111), Pd (200), Pd (220), MgO (200) e MgO (220), risultato compatibile con la posizione del punto in cui è stata effettuata la diffrazione. 93

102 Fig Panoramica TEM del film sottile di magnesio puro a 0 cicli (sinistra) e 8 cicli (destra). Nelle osservazioni del campione Mg-Nb 0% ciclato 8 volte, è stata focalizzata l attenzione sulla ricerca di Mg 6 Pd, già individuato dai raggi X. Questo composto è caratterizzato da parametri reticolari molto grandi e tali da renderne visibile la struttura cristallina già in condizioni di bright field e dark field. Fig Immagine TEM del campione Mg-Nb 0% ad 8 cicli, della zona di Mg 6 Pd; in particolare, si riescono a vedere gli atomi appartenenti a tale composto. 94

103 Fig Cristallo di Mg 6 Pd formatosi nel campione di Mg puro ciclato otto volte: immagine in bright-field (sinistra) e dark field (destra). Nell inserto della micrografia in bright-field c è la relativa figura di diffrazione. L indicizzazione della figura di diffrazione nell inserto di Fig ha mostrato che le distanze interplanari relative sia agli spot che agli anelli, sono in pieno accordo con i parametri reticolari del composto Mg 6 Pd. L immagine del campione in dark field, con gli spot più intensi attribuiti alla fase Mg 6 Pd, permette di vederne i cristalli le cui dimensioni variano tra 5 e 60 nm. CAMPIONI Mg-Nb 5% Il campione sottoposto a otto cicli di assorbimento e desorbimento di H 2 risulta essere estremamente fragile, pertanto è stato preparato per le osservazioni al TEM, frantumandone i resti all interno di un mortaio e depositando la polvere così ottenuta su una griglia di rame ricoperta con un film di carbonio. Tra i frammenti di campione ottenuti sono stati scelti quelli più sottili e quindi trasparenti al fascio elettronico. 95

104 Al fine di determinare la natura delle nanoparticelle, sono state eseguite delle misure di diffrazione elettronica su aree selezionate. Una tipica figura di diffrazione è riportata nell inserto di Fig Gli anelli di diffrazione corrispondono a distanze interplanari in perfetto accordo con i piani reticolari del Nb (cubico, a = nm) che è presente in forma policristallina. Per documentare l esatta posizione dei cristalli di Nb è stata realizzata un immagine del campione, dal quale è stata presa la diffrazione, in bright-field (Fig sinistra). A destra c è un immagine dello stesso campione in dark-field (Fig destra); con questa tecnica le particelle di Nb appaiono molto luminose. Risulta quindi senza alcun dubbio che le nanoparticelle osservate sono cristalli di Nb. Fig Immagine del campione con 5% di Nb in bright-field (destra) e in dark-field (sinistra). Nell inserto della micrografia di sinistra si ha la relativa figura di diffrazione, la cui indicizzazione indica presenza di Nb. In Fig è riportata una immagine TEM del campione Mg-Nb 5% dopo 8 cicli in cui è visibile l amorfizzazione del magnesio in corrispondenza dei clusters del niobio. Nell inserto si ha la relativa figura di diffrazione in cui i cerchi sono indicizzabili come Nb e gli spot come Mg. Il niobio forma clusters aventi dimensioni pari a ~10 nm. 96

105 Fig Micrografia TEM del campione Mg-Nb 5% dopo 8 cicli. Nell inserto c è la relativa figura di diffrazione: gli spot corrispondo a Mg, gli anelli a Nb [40] Discussione Osservando i grafici delle cinetiche (Fig. 2.2, Fig. 2.3, Fig. 2.4), risulta evidente come l idrogeno venga assorbito e desorbito con una velocità maggiore di circa di un ordine di grandezza nel caso di Mg-Nb 5%, rispetto al magnesio puro. Questo effetto è legato alla presenza del niobio che viene disperso in soluzione solida con il magnesio, proprio per migliorarne le cinetiche di reazione. Pur favorendone la penetrazione nel campione, la presenza del niobio nella matrice di magnesio, causa una leggera diminuzione della quantità di H 2 assorbito, a parità di ciclo considerato. Per i campioni di magnesio puro si osserva una evoluzione delle cinetiche fino all ottavo ciclo, superato il quale l andamento si mantiene sostanzialmente costante. Questo risultato può essere spiegato considerando che, durante i ciclaggi, si forma una fase amorfa all interno del campione. Tale fase cresce ciclo dopo ciclo fino a raggiungere l equilibrio con quella cristallina, segnando quindi il punto oltre il quale le cinetiche non migliorano più. Osservando gli spettri XRD (Fig. 2.6, Fig. 2.8), si nota chiaramente la formazione di Mg 6 Pd cubico, dovuta alla diffusione del Pd nel magnesio, a partire dal primo ciclo. Il picco relativo a questo composto aumenta con il passare dei cicli nel caso del magnesio puro, mentre nei campioni drogati con niobio si osserva l effetto contrario. Un risultato evidente, e particolarmente enfatizzato nei campioni Mg-Nb 5%, è la riduzione di ampiezza 97

106 del picco Mg (002) durante il ciclaggio. Questo risultato, unito all aumento di ampiezza di picchi relativi ad altre orientazioni dei grani di Mg, indica che con il ciclaggio il magnesio monocristallino tende a diventare policristallino. Sempre nei campioni Mg-Nb 5% si osserva un aumento del picco relativo al niobio, dal primo ciclo in poi. Osservando le immagini SEM della superficie relativa al campione di Mg puro non ciclato (Fig. 2.11a), si vede che il lato su cui è stato depositato il palladio è composto da scaglie di diverse dimensioni. La rugosità di tale superficie è da ritenersi legata al fatto che i grani di magnesio sono colonnari e crescono lungo una direzione preferenziale. Il palladio depositato in superficie, ne ricalca tutte le increspature; questo giustifica la non uniformità dello spessore di tale strato e la conseguente necessità di cicli di attivazione. Ciclando il campione di Mg puro (Fig. 2.11b), si osserva una diminuzione della rugosità superficiale, mentre aumentando la concentrazione di niobio nel magnesio (Fig. 2.12a), si ha il passaggio da una struttura a scaglie, più o meno geometricamente ordinata, ad una a squame. Questa struttura si conserva anche dopo otto cicli di assorbimento/desorbimento (Fig. 2.12b). L analisi delle immagini SEM, relative ai campioni in sezione, mostra che, nel caso del magnesio puro (Fig. 2.11c), la struttura è sostanzialmente piana e ordinata. Dopo otto cicli (Fig. 2.11d) si nota chiaramente la formazione di porosità. Nei campioni Mg-Nb 5% la presenza di porosità si riscontra anche a 0 cicli (Fig. 2.12c), soprattutto a livello nanometrico; con il ciclaggio (Fig. 2.12d) questo effetto si accentua, ma le dimensioni dei pori aumentano. È evidente quindi che il campione di magnesio drogato con niobio è più poroso di quello di magnesio puro, soprattutto a 0 cicli. Durante il ciclaggio è stato osservato un ispessimento del campione di Mg puro. Questo aumento di spessore del film potrebbe essere riconducibile alla formazione della fase idruro che, essendo caratterizzata da parametri reticolari maggiori rispetto a quelli del magnesio, non può non modificarne il reticolo. Infatti, l'assorbimento di H 2 comporta innanzitutto un cambiamento della struttura reticolare, con il passaggio da quella esagonale compatta del magnesio (hcp-mg), a quella tetragonale dell'idruro. In fase di desorbimento si ha poi la reazione contraria, con la ricostituzione della struttura hcp-mg. Poiché non si ha fuoriuscita di materia, al di là dell idrogeno desorbito, il verificarsi di tali modificazioni all interno del film ne giustifica l aumento di volume. Confrontando le immagini TEM del campione di Mg puro a 0 cicli e 8 cicli (Fig. 2.14), è evidente come la formazione e la decomposizione di MgH 2 durante i cicli modifichi la struttura interna del magnesio, causando la scomparsa dei classici grani colonnari e la formazione di una struttura irregolare, caratterizzata da fori di grandi dimensioni. Con il ciclaggio si osserva la rapida diffusione del Pd nel magnesio e quindi la formazione di Mg 6 Pd cubico (Fig. 2.15, Fig. 2.16). I parametri reticolari di tale composto sono talmente grandi da renderne visibile la struttura cristallina. La presenza di Mg 6 Pd si osserva anche nei campioni di magnesio drogato con niobio (Fig. 2.18) e, anche in questo caso, è in forma cristallina. Nei campioni Mg-Nb 5% è anche visibile una amorfizzazione del magnesio, che 98

107 risulta più importante dove si hanno più clusters di niobio. Questo risultato potrebbe essere spiegabile ipotizzando che, a causa della riduzione di energia, le superfici dei clusters diventino zone di innesco della formazione di idruro, il quale tende poi ad amorfizzare la struttura. La fase amorfa non è compatta (sembra una schiuma, con bolle) e quindi lì si possono formare percorsi percolativi che favoriscono la diffusione di H 2. Ciò che sembra quasi certo dalle osservazioni è che la fase cristallina del campione funge da serbatoio mentre la fase amorfa si limita a fare da strada all idrogeno. Dal grafico relativo all evoluzione degli stress (Fig. 2.9) per le due tipologie di campioni analizzate, si vede che, nei campioni Mg-Nb 5%, il ciclaggio modifica in maniera importante lo stato tensionale della matrice di Mg. È evidente come inizialmente la presenza di niobio, in soluzione solida con il magnesio, crei un grande stress al reticolo di quest ultimo. Con il passare dei cicli questo stress tende a diminuire, fino a diventare confrontabile con quello di Mg-Nb 0%, dal quarto ciclo in poi. Alla diminuzione dello stress corrisponde anche una diminuzione delle dimensioni dei grani di Mg (Fig. 2.10), causata dal fatto che il niobio forma dei clusters. L unione di questi effetti favorisce la diffusione intergranulare dell idrogeno. Per il magnesio puro, la curva si mantiene sostanzialmente costante e le piccole variazioni potrebbero essere imputate alla presenza di impurità nel reticolo; tali impurità non permettono ai grani di Mg di crescere liberamente e creano quindi un leggero aumento dello stress del reticolo. 99

108 2.3 Compositi Come puntualizzato nel paragrafo precedente, l immagazzinamento dell idrogeno in film sottili di magnesio, sia puro che drogato con metalli di transizione, incontra dei grandi ostacoli che ne limitano le possibilità di reale implementazione. Le tipiche limitazioni nell implementazione pratica dei sistemi di idruri metallici sono: decrepitazione, ovvero effettiva polverizzazione dei film dopo ripetuti cicli di interazione con l idrogeno; bassa conduttività termica; effetti di contaminazione ed ossidazione, legati all esposizione all aria, soprattutto nel caso del Mg che reagisce fortemente con l ossigeno presente nell aria; cinetiche di reazione con H 2 lente [41-42]. Il confinamento di particelle metalliche di dimensioni nanometriche (nanoconfinamento) [35] che formano idruri in polimeri [43] o matrici porose [44], può risolvere questi gravi problemi di stabilità. A seconda del fattore di riempimento, i compositi metallo-polimero possono assumere due diverse microstrutture: polymer-like, in cui le particelle metalliche sono inglobate in una matrice polimerica continua; metal-like, in cui le particelle metalliche sono in mutuo contatto. Nella seconda configurazione, il polimero ha soltanto la funzione di legante ed i domini metallici formano dei percorsi percolativi. La microstruttura dei compositi può influenzare le proprietà di immagazzinamento di idrogeno e le cinetiche di reazione secondo diverse modalità. Il trasporto di idrogeno nel materiale composito è inoltre controllato da: diffusione molecolare nella frazione polimerica vetrosa del materiale e trasferimento di H 2 verso specie che formano idruro, attraverso le interfacce metallo-polimero, diffusione dell idrogeno atomico nei domini metallici e trasferimento degli atomi di H nel composito metal-like, attraverso interfacce metallo-metallo. I sistemi efficienti di immagazzinamento di idrogeno, richiedono quindi specifiche caratteristiche ai compositi in questione, affinché il trasporto di massa sia basato sul percorso di diffusione più favorevole, tra quelli elencati in precedenza. Altre importanti proprietà legate alla microstruttura sono l abilità del sistema composito di permettere il trasferimento di calore durante l utilizzo e la possibilità della fase metallica di espandere senza produrre danni macroscopici, quali debonding interfacciale e formazione di cricche nella matrice polimerica. Questo ultimo punto suggerisce l impiego di una matrice elastomerica, ovvero una gomma [45]. 100

109 2.3.1 Descrizione dei campioni e delle misure I campioni in questione sono compositi di palladio e poli-dimetilsilossano (PDMS). Il primo è stato a scelto grazie alla sua elevata permeabilità all idrogeno ed ha caratteristiche quali: stabilità termica nell intervallo -100 C 250 C; bassa conduttività termica; bassa reattività chimica; bassa tossicità; bassa solubilità per H 2 (~0.05 cm 3 (STP)/(cm 3 atm); elevata costante di diffusione H 2 ( cm 2 s -1 ) [46]. Il palladio, reagendo con l idrogeno forma una fase idruro con stechiometria PdH 0.67 [47] (Tab. 2.1), molto meno conveniente, dal punto di vista dell immagazzinamento, rispetto all idruro di magnesio (MgH 2 ). Tuttavia, l assorbimento dissociativo delle molecole di H 2 avviene con una barriera di attivazione quasi nulla, le cinetiche di reazione sono molto veloci e le reazioni sono reversibili; inoltre, il palladio è molto meno reattivo rispetto al magnesio e reagisce solo con l idrogeno (non si ha formazione di ossido di palladio). Idruro Wt.% H P (bar) T ( C) PdH Tab. 2.1 Caratteristiche dell idruro di palladio. Il dato più importante della Tab. 2.1 è che la formazione della fase idruro avviene in condizioni di temperatura e pressione pari a quelle atmosferiche. Il confronto tra queste caratteristiche e quelle del idruro di magnesio, permette di comprendere subito perché come frazione metallica formante idruro sia stato scelto il Pd. Quindi, come frazione metallica è stato impiegato palladium black powder prodotto ed acquistato da Sigma- Aldrich (99.9% Pd), utilizzato senza frazionamento per la preparazione del composito. Come riportato nelle note tecniche fornite dal produttore le particelle di Pd hanno un area superficiale nominale variabile tra 40 e 60 m 2 /g. Le particelle di Pd sono state disperse accuratamente in silicone acetico auto-polimerizzante polisilossano (polisilicone con formulazione Saratoga) utilizzando una comune spatola in acciaio su un substrato di vetro, mescolando per 5 min. La pasta solida omogenea così ottenuta è stata lasciata polimerizzare in aria a temperatura ambiente. Sono state preparate tre diverse composizioni con contenuto nominale di Pd in peso percentuale pari a: 5% (Sample A); 101

110 15% (Sample B); 50% (Sample C) Interazione con l idrogeno: apparato di misura e risultati L analisi della capacità di immagazzinamento di idrogeno e lo studio delle cinetiche di assorbimento e desorbimento di idrogeno, sono solitamente effettuati tramite due differenti apparati sperimentali, gravimetrici o volumetrici. Il campione viene mantenuto all interno di una camera ad una determinata temperatura e ad un determinato valore di pressione; la quantità di idrogeno assorbito o desorbito viene valutata tramite: misurazione della variazione di massa del campione, tramite una microbilancia (tecnica gravimetrica); misurazione della variazione della pressione di idrogeno nella camera di reazione (tecnica volumetrica) [38]. L apparato tipo Sievert utilizzato per le misure sui campioni di questa tesi di dottorato, i cui risultati sono esposti in seguito, è stato costruito presso l Università di Trento [38,45]. L apparato in questione, descritto successivamente, è stato progettato per studiare le cinetiche di desorbimento di H 2, misurando il flusso F di idrogeno, desorbito dal campione in funzione del tempo, mediante un flussometro di massa opportunamente calibrato. L apparato di misura, il cui schema è riportato in Fig. 2.19, è costituito da un manicotto con una camera portacampioni cilindrica (SC), realizzato con acciaio inox AISI 304L, linee del gas ottenute da tubi di rame con diametro interno di 6 mm, valvole Swagelock ON/OFF sigillate con soffietti metallici e misuratori Swagelock. La pressione del gas viene misurata da barometri meccanici (risoluzione 0.1 atm) posti in due differenti punti del sistema: nella camera porta campioni (PG2) e sulla linea del gas (PG1). La camera porta campioni viene inserita in un forno tubolare (TO) e la temperatura viene monitorata da una termocoppia K-type e controllata dal sistema PID (proportional-integral-derivative controller). La misura del flusso di idrogeno desorbito viene fatta da un flussometro di massa (FM) MKS 179 calibrato dal produttore proprio per misurare flussi di idrogeno. L apparato viene messo in condizioni di vuoto fino ad una pressione minima di 10-2 mbar (livello di fondo) grazie ad una pompa meccanica (MP), equipaggiata con trappole di zeoliti. Durante l esperimento, l acquisizione del valore di flusso di massa di H 2, in funzione del tempo, viene effettuata tramite computer utilizzando un software Labview opportunamente progettato. Fissando la temperatura del campione (T S ), la camera portacampioni viene riempita con H 2 gas e l analisi della cinetica di desorbimento viene eseguita dopo che il campione ha raggiunto condizioni di equilibrio con il gas. Questa condizione è assicurata dal valore stabile di P EQ, cioè della pressione di idrogeno nella SC, 102

111 come indicato dal misuratore PG2. In queste condizioni, le valvole V4 e V5 sono chiuse, la linea del gas è in vuoto e le valvole V1, V2 e V3 sono aperte. Fig Apparato tipo Sievert utilizzato per studiare le cinetiche di desorbimento di H 2, diagramma schematico (sinistra) ed apparato reale (destra). La procedura per l analisi delle cinetiche di desorbimento di H 2 inizia aprendo le valvole V4 e V5: questa apertura dà luogo ad una immediata evacuazione della camera. Quando la pressione all interno della camera portacampioni raggiunge il livello di fondo, (PG2 indica la pressione uguale a zero), si innesca la misura chiudendo le valvole V4 e V3: in questa configurazione l idrogeno desorbito dal campione passa attraverso il flussometro e viene poi risucchiato dal sistema di pompaggio (la freccia in Fig. 2.2 indica la direzione del flusso di H 2 durante il desorbimento). Mentre il segnale del flusso di massa in funzione del tempo è una misura diretta del flusso di idrogeno desorbito, l integrale nel tempo del flusso di massa è una misura della quantità di idrogeno desorbito dal campione al tempo t dopo l innesco (Eq. 2.2): m( t) F( ) d t 0 (2.2) 103

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