IL DEBITO INESTINGUIBILE : SUL SACRIFICIO. Ugo Fabietti

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1 IL DEBITO INESTINGUIBILE : SUL SACRIFICIO Ugo Fabietti Il corso di quest anno ha inteso esplorare alcuni aspetti della relazione che intercorre tra la dimensione sacrificale e quelle del dono e del debito. Si tratta di un tema complesso e controverso. Si tratta infatti di riaprire, tra molte altre questioni, quella del sacrificio inteso come dono di qualcosa a qualcuno : un idea certamente antica, presente tanto in coloro che hanno praticato e praticano sacrifici, quanto tra gli studiosi di storia di religioni e gli antropologi. Le teorie del sacrificio come dono fatto alle divinità affondano le loro radici, come del resto quelle dell origine della religione, nel pensiero religioso e filosofico degli antichi. 1. Che cosa è realmente un sacrificio? La teoria secondo cui il sacrificio sarebbe un dono fatto alle divinità lascia di per sé aperti alcuni interrogativi che non hanno mai cessato di imporsi alla riflessione degli studiosi. Poiché il sacrificio consiste molto spesso in un atto violento (o comunque distruttivo) ecco che sorge la questione di come la violenza possa rientrare in una religione che promette (come è il caso di tutte le religioni) di sollevare gli esseri umani dalla sofferenza e dalla presenza del male. In alcuni casi ciò è particolarmente evidente. Alcune divinità di popoli del mondo antico (Fenici) o extra-europei (Aztechi) richiedevano sacrifici umani in quanto divinità assetate di sangue, nel senso che il sangue umano era ciò che le manteneva in vita ed era quindi in grado di far sì che tali divinità elargissero benessere agli umani. In altre religioni le divinità, pur considerate benevole e non legate agli uomini da questo patto sanguinario, chiedevano comunque la morte di un essere umano. E il caso del dio ebraico che chiede ad Abramo di sacrificare il proprio figlio, ed è il caso del dio cristiano che si sacrifica per il bene degli esseri umani. Se il sacrificio è un atti violento ed è una dimensione 2

2 centrale di tutte le religioni, qual è la relazione che lega tra loro sacrificio, religione e violenza? Come tutti sappiamo la parola sacrificio può essere anche usata col significato di rinuncia. In effetti tutti i sacrifici implicano, oltre che una dimensione di dono, anche una dimensione di rinuncia, di dono e quindi di abbandono, di rinuncia della cosa donata. La parola sacrificio sta per rinuncia soprattutto negli usi metaforici del termine, quando con essa vogliamo indicare qualcosa che non ha nulla di strettamente attinente alla sfera religiosa. Se il sacrificio è la distruzione violenta di qualcosa che viene donata a qualcuno, esso è un atto che comporta la presenza di varie figure, la cui rilevanza può variare in funzione di ragioni molteplici, complesse e contingenti. In quello che di solito viene definito sacrificio entrano infatti quattro elementi costitutivi. Essi sono: 1) Ciò che viene sacrificato (se è un essere vivente si tratta della vittima); 2) colui o colei che compie l azione di sacrificare (sacrificante) 1 ; 3) colui o coloro che traggono vantaggio dall atto sacrificale (beneficiari) 4) l entità a cui il sacrificio è offerto, la cui natura è invariabilmente ultraterrena: spiriti, antenati, divinità (destinatario). Queste quattro figure sono sempre presenti in un sacrificio, sebbene la loro importanza possa variare in base a considerazioni particolari. Queste figure sono anche sempre distinte, sebbene in alcuni casi possa esservi una fusione di ruoli, come nel caso in cui il sacrificante sia anche il beneficiario, o nel caso che il sacrificante sia la vittima stessa (per esempio in atti di auto immolazione, un tema su cu torneremo diffusamente più avanti). Ogni atto sacrificale presume l esistenza di un destinatario in quanto figura che rende effettiva, con la sua intermediazione, l efficacia del sacrificio. Questo punto appare chiaro se consideriamo l etimologia del termine sacrificio che, derivato dal latino, si rifà a una concezione specifica della sacralità. Il sacrificium dei latini implica infatti il significato di sacer facere rendere sacro, per cui il termine sacrificio, così come lo usiamo in questa sede (in 1 A volte detto anche sacrificatore, mentre con il termine sacrificante viene indicato colui o coloro che commissionano il sacrificio (e che è qui chiamato beneficiario) 3

3 senso cioè non metaforico) significa mettere a contatto una cosa con il sacro, renderla sacra. Sul significato della parola sacer Il cristianesimo ha finito per identificare la dimensione della sacralità con quella della santità, ma nel mondo latino, da cui provengono i termini sacro e santo, (sacer e sanctus), non era così. Emile Benveniste 2 ci ha spiegato il significato di queste due parole che solo in circostanze speciali potevano trovarsi riunite per indicare la medesima cosa. Sacer è attributo divino ma è anche ambiguo. Significa infatti consacrato agli dèi, ma è anche caricato di una contaminazione incancellabile, augusta e maledetta degna di venerazione e suscitante orrore. Nell antica Roma homo sacer era il condannato a morte che, come tale, era portatore di una vera e propria contaminazione. Esso era separato dalla società degli uomini, era altro. Come tale era consacrato agli dèi nel senso che aspettava soltanto di essere tolto dalla fera terrena. Benveniste dice anche che i termini che definiscono l universo religioso latino sembrano formare delle coppie. In latino abbiamo infatti, oltre a sacer, il termine sanctus. Quest ultimo, che col cristianesimo ha subito, come dicevamo, una identificazione con sacro, designava in origine ciò che è proibito da una pena (sanctio, sanzione). Leges sanctae: leggi inviolabili. Sancire vuole dire infatti anche per noi circoscrivere il campo di applicazione di una disposizione e metterla sotto la protezione di una legge, una volta magari di un dio, invocando sul trasgressore la punizione divina. E ciò che dipende da un interdetto imposto dagli esseri umani, quindi potrebbe essere assimilato per molti aspetti al tabu polinesiano 3. 2 E. Benveniste, Vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Einaudi, Torino Sebbene con le dovute differenze. Nell area polinesiana tabu (tapu) può essere una proibizione che nasce da un atto formale di un capo, persona sacra lui stesso, secondo la concezione latina del sacer. Gli veniva attribuito infatti un potere (mana) ambiguo e pericoloso. Il capo polinesiano era tabu lui stesso. La nozione polinesiana di tabu sembra esprimere, entrambi i significati di sacer e di sanctus, ma non nel senso in cui questi due termini si trovano riuniti nella visione cristiana, bensì come una parola in grado di indicare il sacer e il sanctus così come erano intesi dai latini (pericoloso, ambiguo potente il sacer; vietato, off limits, il sanctus). Lo stesso Benveniste avanza l ipotesi che la coppia sacer-sanctus possa essere derivata 4

4 Sancta, nel mondo latino, sono le cose che non sono né sacre né profane ma che sono confermate da una certa sanzione. Ciò che è sottoposto a sanzione è sanctus anche se non è consacrato agli dèi (cioè non è sacer di per sé). 2. Tylor: il sacrificio come dono Dovendo fissare un punto di partenza per la nostra trattazione del sacrificio abbiamo deciso di riferirci a E. B. Tylor che, nel suo Primitive Culture del 1871, dedica largo spazio alla comparsa del pensiero religioso e, all interno di questo, si sofferma abbastanza a lungo sul tema del sacrificio. In Primitive culture del 1871 Tylor definisce la religione come la credenza negli spiriti soprannaturali. Si tratta dunque di stabilirne l origine, e naturalmente l evoluzione che, nel tempo, ha portato il selvaggio a farsi prima sacerdote e poi filosofo, dove per quest ultimo la credenza negli esseri soprannaturali è definitivamente sostituita da una fede nelle possibilità che gli umani hanno di trascendersi e di elevarsi al di sopra delle superstizioni. Il ragionamento di Tylor, che si muove nel clima culturale dell evoluzionismo britannico, può essere sinteticamente espresso in questo modo. Gli esseri umani sanno di avere un corpo vivo. Ma il corpo muore, la vita lo abbandona. Al tempo stesso, nei sogni, gli esseri umani hanno l impressione che esista un loro doppio, il quale lascia il corpo temporaneamente per farvi ritorno con la ripresa dello stato di veglia. Cos è questo doppio che si distacca dal corpo, e dove va la vita quando il corpo muore? Esso sopravvive all essere umano perché nei sogni non è soltanto il proprio doppio che appare, ma anche quello dei defunti (Tylor lo chiama il fantasma). E qui che, secondo Tylor, nasce la credenza negli esseri soprannaturali: il fantasma del morto e il doppio del vivente sono alla base di ciò che noi chiamiamo anima, soffio vitale, pneuma (greco), ruh (arabo) ecc. e che deve essere stata alla base della prima credenza negli esseri sovrannaturali. L animismo è quindi il nome da una nozione a doppia faccia: positiva (perché caricata da presenza divina) e negativa (perché è vietata agli uomini). 5

5 che Tylor assegna alla prima forma di religione intesa come credenza negli esseri sovrannaturali 4 Con le epoche, e con il variare delle relazioni che gli umani intrattengono con il mondo secondo un rapporto baconiano di progressiva capacità di controllo dei fenomeni naturali, l animismo originario sarebbe andato incontro, sempre secondo Tylor, a trasformazioni che ci hanno portato verso forme sempre più evolute di religione (contenenti però ciascuna delle sopravvivenze, ossia tracce degli stadi anteriori qualificate solitamente come superstizioni ). Non è interessante qui ripercorrere le tappe di questa evoluzione, ma è invece utile soffermarsi brevemente sul modo in cui Tylor si accostò al problema della religione. Tylor era un razionalista, non un mistico. Essere razionalisti, nello studio della religione, significa indagare il fenomeno senza nulla concedere agli aspetti fideistici che sono alla base di esso 5. Tylor era anche un intellettualista, che significa invece prestare attenzione alle forme di ragionamento che sono alla base delle rappresentazioni religiose, mettendo in secondo piano gli aspetti sociali, linguistici, storici da cui una data rappresentazione può dipendere. Quest ultimo punto spiega perché molte delle critiche che sono state rivolte, in seguito, all approccio tyloriano allo studio della religione abbiano avuto a oggetto, più che la sua prospettiva evoluzionista 6, il suo intellettualismo. Di queste critiche ne ricordiamo alcune: l intellettualismo ignora la dimensione emotiva dei fenomeni religiosi; esso inoltre trascura la dimensione 4 Questa definizione della religione, che può apparire generica e alquanto vaga, è da porsi in relazione al rifiuto, da parte di Tylor, di pensare la religione sul modello del culto organizzato. Egli esortava infatti a non considerare la religione come qualcosa di troppo simile all idea che ne avevano gli europei, perché altrimenti la maggior parte dell umanità avrebbe potuto difficilmente essere ritenuta una umanità religiosa. 5 Si ricorda che nello studio antropologico della religione si può essere scettici fin che si vuole sulle rappresentazioni e le pratiche di coloro che studiamo, ma che non possiamo invece esserlo affatto nei riguardi dei discorsi, dei linguaggi e delle pratiche mediante cui, coloro che studiamo, vivono la loro esperienza religiosa. Come dice C. Geertz nel saggio La religione come sistema culturale (1967), quando intraprendiamo uno studio antropologico della religione non possiamo certo impersonare la figura del predicatore del villaggio, ma nemmeno quella dell ateo del villaggio. 6 Le critiche all evoluzionismo antropologico ottocentesco mosse dagli antropologi del XX secolo non implicano assolutamente una critica dell evoluzionismo di tipo biologico così come questo è stato fondato da Charles Darwin. 6

6 collettiva, sociale della pratica religiosa, e i suoi effetti di ritorno sulla comunità; è eccessivamente speculativa, al punto che produce una sorta di sostituzione del nativo da parte dell antropologo. Si assume cioè che l altro ragioni come io ragionerei se fossi nelle stesse condizioni in cui io presumo che lui si trovi. L approccio di Tylor ebbe comunque dei meriti notevoli. Nella sua prospettiva evoluzionista Tylor riteneva che le società evolvessero sulla base di un sempre maggior efficace controllo sul mondo, o che perlomeno il grado di questo controllo fosse il principale indice dello stadio evolutivo raggiunto dalla cultura. Si tratta certamente di una visione riduttiva della cultura ma, nello spirito del tempo, significò almeno introdurre l idea che gli esseri umani si rapportano religiosamente al mondo in maniera diversa a seconda della possibilità che essi hanno di controllare razionalmente il mondo che li circonda. Quindi non era più questione di religioni vere e di religioni false, ma di religioni più evolute, e di religioni che lo erano meno. L approccio intellettualistico di Tylor, ancorché etnocentrico (siamo nella Gran Bretagna dell età vittoriana), mette inoltre l accento sugli universali dell esperienza e del pensiero umani, stabilendo un ponte tra quelle che per lui erano le società semplici e quelle che venivano considerate le società più evolute. In fin dei conti il merito vero di Tylor fu quello di porre al centro della riflessione il tema dell agire razionale dell umanità e della sua creatività culturale, contro quelle correnti degenerazioniste che assegnavano all uomo cristiano europeo il privilegio di non essere rimasto nello stato selvaggio a cui la caduta dallo stato di grazia originario aveva condannato il resto dell umanità 7. E importante ricordare che la prospettiva intellettualista (almeno in materia di studio della religione) presupponeva, all epoca di Tylor, che le azioni rituali traducessero quelle preoccupazioni intellettuali (illusorie) che erano alla base delle credenze religiose. Secondo questa prospettiva, le credenze sono ad esempio tentativi di spiegazione di fenomeni naturali che fanno riferimento all azione di 7 Incontreremo infatti, nel nostro percorso sul sacrificio, le acute osservazioni di un pensatore come J. de Maistre che, agli inizi dell Ottocento, nella sua violenta polemica anti illuminista e un sostenitore delle teorie della caduta dell Uomo e del selvaggio come essere degenerato. 7

7 esseri soprannaturali, per cui i riti sono molto spesso dei tentativi di controllarne la manifestazione. Tipico il caso della danza della pioggia, interpretata a lungo come un tentativo maldestro, perché illusorio, di manipolare la natura; o anche della preghiera con cui ci si rivolge alla divinità per ottener e da essa dei favori. Anche il sacrifico pertanto, in questa prospettiva, diventa un dono fatto agli esseri soprannaturali : un atto rituale cioè mirante ad ingraziarsi quelle forze che gli umani credono essere all origine del mondo e della vita. In Primitive Culture (pp ) Taylor espone una teoria del sacrificio che prevede un evoluzione del rito in tre fasi: dono in senso stretto, omaggio e abnegazione. Sacrifice has its apparent origin in the same early period of culture and its place in the same animistic scheme as prayer, with which through so long a range of history it has been carried on in the closest connexion. As prayer is a request made to a deity as if he were a man, so sacrifice is a gift made to a deity as if he were a man. The suppliant who bows before his chief, laying a gift at his feet and making his humble petition, displays the anthropomorphic model and origin at once of sacrifice and prayer. But sacrifice, though in its early stages as intelligible as prayer is in early and late stages alike, has passed in the course of religious history into transformed conditions, not only of the rite itself but of the intention with which the worshipper performs it. And theologians, having particularly turned their attention to the rite as it appears in the higher religions, have been apt to gloss over with mysticism ceremonies which, when traced ethnographically up from their savage forms, seem open to simply rational interpretation.. In now attempting to classify sacrifice in its course through the religions of the world, it seems a satisfactory plan to group the evidence as far as may be according to the manner in which the offering is given by the worshipper, and received by the deity. At the same time, the examples may be so arranged as to bring into view the principal lines along which the rite has undergone alteration. The ruder conception that the deity takes and values the offering for itself, gives place on the one hand to the idea of mere homage expressed by a gift, and on the other to the negative view that the virtue lies in the worshipper depriving himself of something prized. These ideas may be broadly distinguished as the gift-theory, the homage-theory, and the abnegation-theory. Along all three the usual ritualistic change may be traced, from practical reality to formal ceremony. The originally valuable offering is compromised for a 8

8 smaller tribute or a cheaper substitute, dwindling at last to a mere trifling token or symbol. The gift-theory, as standing on its own independent basis, properly takes the first place. That most childlike kind of offering, the giving of a gift with as yet no definite thought how the receiver can take and use it, may be the most primitive as it is the most rudimentary sacrifice. Moreover, in tracing the history of the rite from level to level of culture, the same simple unshaped intention may still largely prevail, and much of the reason why it is often found difficult to ascertain what savages and barbarians suppose to become of the food and valuables they offer to the gods, may be simply due to ancient sacrificers knowing as little about it as modern ethnologists do, and caring less. Yet rude races begin and civilized races continue to furnish with the details of their sacrificial ceremonies the key also to their meaning, the explanation of the manner in which the offering is supposed to pass into the possession of the deity. 8 Importante è il fatto che Taylor sottolinei come queste differenze siano connesse non solo con la prassi rituale, ma anche con le diverse intenzioni di coloro i quali compiono i riti sacrificali. Altrettanto importante è il fatto che, secondo Taylor, gli umani si comportano con gli dèi (esseri spirituali) allo stesso modo in cui si comportano con gli umani stessi ma di rango superiore. All atto del sacrificio come dono in senso stretto nei confronti di poteri come possono essere le forze della natura o alcuni animali particolari, atti sostenuti da un atteggiamento quasi infantile di dipendenza nei confronti delle forse a cui si dona, subentra l omaggio. Questo si ha quando si elabora un sentimento di riverenza nei confronti degli esseri spirituali (dèi) a cui si dona con la stessa devozione e con le stesse aspettative che si hanno quando si dona a un capo o a un re. Scrive infatti Tylor:...let us now follow the question of the sacrificer s motive in presenting the sacrifice. Important and complex as this problem is, its key is so obvious that it may be almost throughout treated by mere statement of general principle. If the main proposition of animistic natural religion be granted, that the idea of the human soul is the model of the idea of deity, then the analogy of man's dealings with man ought, inter alia, to explain his motives in sacrifice. It does so, and very fully. The proposition may be maintained in wide generality, that 8 E.B. Tylor, Primitive Culture, London Gordon Press, N. Y. 1977, vol. II, pp

9 the common man's present to the great man, to gain good or avert evil, to ask aid or to condone offence, needs only substitution of deity for chief, and proper adaptation of the means of conveying the gift to him, to produce a logical doctrine of sacrificial rites, in great measure explaining their purpose directly as they stand, and elsewhere suggesting what was the original meaning which has passed into changed shape in the course of ages. It will be noticed that offerings to divinities may be classed in the same way as earthly gifts. The occasional gift made to meet some present emergency, the periodical tribute brought by subject to lord, the royalty paid to secure possession or protection of acquired wealth, all these have their evident and well-marked analogues in the sacrificial systems of the world We do not find it easy to analyse the impression which a gift makes on our own feelings, and to separate the actual value of the object from the sense of gratification in the giver's good-will or respect, and thus we may well scruple to define closely how uncultured men work out this very same distinction in their dealings with their deities. In a general way it may be held that the idea of practical acceptableness of the food or valuables presented to the deity, begins early to shade into the sentiment of divine gratification or propitiation by a reverent offering, though in itself of not much account to so mighty a divine personage. These two stages of the sacrificial idea may be fairly contrasted, the one among the Karen 9 who offer to a demon arrack or grain or a portion of the game they kill, considering invocation of no avail without a gift,' the other among the negroes of Sierra Leone, who sacrifice an ox " to make God glad very much, and do Kroomen good." 10 La fase dell abnegazione si ha quando il nucleo del sacrificio non riguarda più tanto la divinità, quanto piuttosto il sacrificante. Si sacrificano allora (sempre agli esseri spirituali) cose che hanno un valore sostanzioso, tanto di natura sociale che economica, quanto di natura affettiva. Si inserisce qui l economia del sacrificio e il principio di sostituzione, nel senso che ciò che si dona in sacrificio può essere scelto secondo le convenienze del caso, sostituendo un essere umano con un animale, un animale di valore con uno meno pregevole, un animale con un vegetale sfino a scegliere come vittima sacrificale una sua rappresentazione (immagine, simbolo ecc.). Nel cristianesimo troviamo sacrifici di animali (nella Grecia contemporanea ad esempio) e in effigie, come nel caso degli exvoto, e nella stessa eucarestia. 9 Popolazione del Myanmar (Birmania). 10 Primitive Culture,

10 As for sacrificial rites most fully and officially existing in modern Christendom, the presentation of ex-votos is one. The ecclesiastical opposition to the continuance of these thank-offerings was but temporary and partial. In 5th century it seems to have been usual to offer silver or gold eyes, feet, etc., to saints in acknowledgment of cures they had effected. At the beginning of the 16th century, Polydore Vergil, describing the classic custom, e s on to say : " In the same manner do we now offer up our churches sigillaria, that is, little images of wax, and oscilla. As oft as any part of the body is hurt, as the hand, foot, breast, we present1y make a vow to God, and his saints, to whom upon our recovery we make an offering of that hand or foot or breast shaped in wax, which custom has so far obtained that this kind of images have passed to the other animals. Wherefore so for an ox, so for a horse, for a sheep, we place puppets in the temples. In which thing any modestly scrupulous person may perhaps say he knows not whether we are rivalling the religion or the superstition of the ancients." In modern Europe the custom prevails largely, but bas perhaps somewhat subsided low levels of society, to judge by the general use of mock silver and such like worthless materials for the dedicated effigies. In Christian as in pre-christian temples, clouds of incense rise as of old. Above all, though the ceremony of sacrifice did not form an original part of Christian worship, its prominent place in the ritual was obtained in early centuries. In that Christianity was recruited among nations to whom the conception of sacrifice among the deepest of religious ideas, and the ceremony of sacrifice among the sincerest efforts of worship, there arose an observance suited to supply the vacant place. This result was obtained not by new introduction, but by transmutation. The solemn eucharistic meal of the primitive Christians in time assumed the name of the sacrifice of the mass, and was adapted to a ceremonial in which an offering of food and drink is set out by a priest on an altar in a temple, and consumed by priest and worshippers. The natural conclusion of an ethnographic survey of sacrifice, is to point to the controversy between Protestants and Catholics, for centuries past one of the keenest which have divided the Christian world, on this express question whether sacrifice is or is not a Christian rite. (pp vol. II). Tylor sembra comunque far capire che ogni fase del sacrificio porta con sé aspetti della fase precedente, aspetti che, nella prospettiva di questo autore, dovrebbero costituire delle sopravvivenze, sebbene esse mantengano pur sempre una loro funzionalità anche in epoche successive della storia umana. 11

11 3. Robertson Smith: il sacrificio come rito comunitario Vari anni dopo la pubblicazione di Primitive Culture in cui Tylor aveva esposto la propria idea circa l origine della religione e la natura del sacrificio, un altro studioso britannico adottò una prospettiva per alcuni importanti aspetti opposta a quello del suo contemporaneo. Lo scozzese William Robertson Smith illustrò le sue idee in materia di religione soprattutto in Lectures on the Religion of the Semites (1889), dove raccolse la sintesi dei sui studi dedicati al rapporto tra società e religione tra i popoli antichi, gli ebrei e gli arabi preislamici. Benché evoluzionista come Tylor, Robertson Smith partì da premesse diametralmente opposte a quelle di molti suoi contemporanei, Tylor compreso. Al contrario di Tylor, che aveva individuato la fase aurorale della religione in un attitudine riflessiva dell individuo (la spiegazione del doppio e del fantasma), Robertson Smith si concentrò sulla dimensione sociale e collettiva della religione, e in particolare sull'attività rituale che, secondo lui, costituiva il dato essenziale da cui partire. Alla teoria della religione come risultato di uno sforzo intellettuale teso a comprendere la realtà, Smith contrappose l'idea secondo cui il dato primario di ogni esperienza religiosa sono i riti e i simboli ad essi correlati. Tali riti e simboli sono condivisi dai membri di una determinata comunità i quali, nascendo all interno di una determinata società, li trovano già presenti ed attivi. Proprio perché mirò a elaborare una teoria dei rapporti tra religione e società, Smith privilegiò nettamente la dimensione dell'azione sociale su quella della rappresentazione intellettuale. E in effetti non c è azione, nella religione, che non si esprima essenzialmente nei riti. La derivazione del mito dal rito E in questa prospettiva che va intesa la discussione del rapporto tra rito e mito, considerati da molti studiosi di allora (ma non solo) l uno come l effetto dell altro, cioè il rito come prodotto del mito. Per Smith il rapporto doveva essere rovesciato. Il rito non era una traduzione del mito, perché mentre un certo rito appare costante, il 12

12 mito che lo spiega può essere diverso da luogo a luogo. Questo non voleva affatto dire che per Smith gli esseri umani compivano riti come gesti meccanici, indipendentemente cioè dal loro significato, ma che, essendo la religione antica (pre-monoteista) priva di veri e propri dogmi della fede, la religiosità si concretizzava innanzitutto nell adempimento di atti di culto ritenuti appropriati dalla comunità intera. 11 (v. anche più avanti nota n. 7). Scrive Smith: Commetteremmo un errore assai grave se dessimo per scontato che ciò che è per noi l aspetto più importante e rilevante della religione lo fosse stato anche nella società antica di cui stiamo trattando. In relazione ad ogni società, antica o moderna che sia, troviamo la presenza da un lato di certe credenze e, dall altro, di certe istituzioni, pratiche rituali e regole di condotta. L abitudine di noi moderni è di guardare alla religione dal punto di vista delle credenze piuttosto che da quello delle pratiche [..] Di conseguenza lo studio della religione è coinciso con lo studio delle credenze cristiane, dove l istruzione religiosa ha d abitudine inizio con la professione di fede, e nella quale i doveri religiosi sono presentati al discepolo come se discendessero dalle verità dogmatiche che gli si insegna ad accettare [.] Le antiche religioni erano per lo più prive di fede. Consistevano interamente di istituzioni e di pratiche. Certamente gli uomini non seguivano d abitudine alcune pratiche senza collegare ad esse un qualche significato; ma di regola constatiamo che mentre la pratica era rigorosamente fissata, il significato ad essa connesso era estremamente vago, e il medesimo rito era spiegato da persone diverse in maniera differente, senza che di conseguenza venisse sollevata una questione di ortodossia o eterodossia in materia. Nell antica Grecia, ad esempio, certe cose venivano fatte in un tempio, e la gente concordava sul fatto che sarebbe stato empio non farle. Ma se aveste chiesto perché erano fatte, avreste probabilmente ricevuto molte diverse risposte contraddittorie da individui differenti, e nessuno avrebbe pensato che il fatto di sceglierne una piuttosto che un altra avrebbe avuto un significato religioso 11 E però molto importante introdurre delle precisazioni. A volte il rito serve a riattualizzare il mito, se per mito si intende una narrazione sacra dotata di un potere di significazione attuale. Qui riattualizzare significa riportare all attenzione agendo la rappresentazione centrale del mito. Per esempio i rituali orgiastici dionisiaci con consumo di carni animali crude, che rimettevano in scena lo smembramento del corpo di Dioniso da parte dei Titani; l Eucaristia cristiana dove i fedeli assumono il corpo di Cristo in memoria dell ultima cena; il rito musulmano dello sgozzamento del montone nel giorno dello Id al Kabir (X giorno del mese di Pellegrinaggio) in ricordo del sacrificio (poi non compiuto grazie all intervento divino) di Isacco (Ismaele per i musulmani) da parte del padre Abramo. Si tratta di riattualizzazioni così come le abbiamo definite. Tuttavia anche quanti compiono una riattualizzazione rituale di un mito difficilmente conoscono una versione unica del mito, a meno che questo non sia codificato in un testo scritto (e anche in questo caso molti fedeli hanno una conoscenza diversificata e ineguale del testo). 13

13 inferiore. La verità è che le diverse spiegazioni avanzate non erano di quelle che suscitano sentimenti particolarmente forti; poiché in molti casi esse sarebbero coincise con storie diverse riguardanti semplicemente le circostanze in cui il rito venne stabilito per la prima volta per un ordine o un esempio direttamente dato dalla divinità. Il rito, insomma, non era connesso con un dogma, ma con un mito.[..] In certe serie di miti la credenza non era considerata obbligatoria in quanto parte della vera religione, né si riteneva che, per il fatto di credere, un uomo acquistasse un qualche merito religioso e si conciliasse il favore degli dèi. Obbligatorio e meritorio era l espletamento preciso di certi atti sacri previsti dalla tradizione religiosa. Stando così le cose, ne consegue che la mitologia non doveva avere quel posto preminente che le è così spesso assegnato nello studio scientifico delle antiche religioni. Sebbene i miti consistano in spiegazioni del rituale, il loro valore è tuttavia secondario, e si può affermare con sicurezza che in quasi tutti i casi il mito era derivato dal rituale, e non il rituale dal mito; questo perché il rito era fisso e il mito variabile; il rito era obbligatorio mentre la credenza nel mito era a discrezione del credente. Ora, la grandissima maggioranza dei miti delle religioni antiche era connesso coi riti di certi santuari, o con i comandamenti religiosi di tribù e regioni particolari. In tutti i casi del genere è probabile, e nella maggior parte di essi è sicuro, che il mito è la semplice spiegazione dell usanza religiosa; e che di solito si tratta di una spiegazione tale che non avrebbe potuto emergere finché il significato originario della pratica non fosse più o meno caduto nell oblio. Di regola il mito non costituisce la spiegazione dell origine del rituale per chiunque non creda che si tratti del racconto di fatti realmente accaduti, e il più temerario studioso di mitologia non lo crederà di certo. Ma se non è vero, il mito stesso richiede una spiegazione, e qualunque principio della filosofia e del senso comune richiede che la spiegazione vada ricercata non in arbitrarie teorie allegoriche, ma nei fatti reali riguardanti il rito o le pratiche religiose a cui il mito è collegato. La conclusione è che nello studio delle religioni antiche dobbiamo cominciare non con il mito, ma con il rito e con la pratica tradizionale 12. La dimensione collettiva e pubblica del fenomeno religioso, che Smith antepone anche storicamente alla dimensione individuale, riflessiva e sistematica 13, si rivela negli atti di devozione che coinvolgono l intera società, e cioè in quelli che egli chiama riti comunitari. Attraverso lo studio del materiale biblico, rivelatore 12 Lectures on the Religion of the Semites, 1889, Black, London, pp Per Robertson-Smith, come per altri evoluzionisti suoi contemporanei, i processi di individualizzazione in ogni campo (matrimonio, economia, religione ecc.) erano il frutto di un processo di progressiva affermazione della persona in quanto entità giuridicamente distinta dalla comunità, riflesso asua volta della maturazione delle facoltà intellettuali degli esseri umani. 14

14 dell'esistenza di una religione a tinte fortemente comunitarie ( nazionali ), Smith giunse a sostenere l'esistenza di una sostanziale omologia tra attività religiosa e rituale da un lato e identità politica e sociale dall'altro. Affermando che, nella società arcaica, "la religione di un uomo è un elemento integrante delle sue relazioni politiche" (1889:36), Smith sottolineava come il fatto di conformarsi o meno ai rituali pubblici fosse il segno dello stato dei rapporti tra gli individui e tra l individuo e la comunità. Ciò era rivelatore della natura "sociale" della religione e della sua funzione di elemento coesivo della società. La religione appariva così un fattore regolativo dei rapporti sociali in quanto, attraverso l'adesione ai rituali pubblici, spingeva gli individui a conformarsi agli standard di comportamento collettivi. Al tempo stesso, però, la religione rappresentava un elemento coesivo poiché, riunendo periodicamente gli individui a scopi rituali, rafforzava nei partecipanti, mediante i riti stessi, il senso di appartenenza ad un unico corpo sociale. In tal modo la religione non appariva più come il prodotto di un atteggiamento speculativo, ma neppure come il frutto di un bisogno spirituale dell individuo in quanto tale. Per Smith le credenze erano sì qualcosa di illusorio (come in Tylor), ma non coincidevano con delle preoccupazioni intellettuali: esse erano piuttosto chiamate a rispondere alle necessità pratiche della vita. La religione, sostenne Smith, è qualcosa che esiste "non per la salvezza delle anime, ma per la conservazione e il benessere della società" (1889: 29). Il sacrificio Smith, cercò di fortificare queste sue ipotesi attraverso lo studio dell'istituzione del sacrificio tra i popoli semitici, presso i quali egli riteneva di poter rintracciare le sopravvivenze (egli le chiamava relics) di fasi ancora anteriori. L'istituzione del sacrificio in favore della divinità non era, sostenne Smith, un dono rivolto ad una potenza sovrastante allo scopo di ingraziarsela. Contro Tylor che aveva avanzato l idea che il sacrifico fosse un dono agli esseri spirituali, Smith propose la teoria secondo 15

15 la quale il sacrificio era un rituale di comunione tra gli esseri umani e la divinità. 14 Egli infatti scrive: Qualunque atto di culto, per essere veramente completo un semplice voto non poteva essere considerato tale finché non veniva pronunciato accompagnandolo con un sacrifico aveva un carattere pubblico o quasi pubblico. La maggior parte dei sacrifici venivano offerti a periodi fissi, nelle grandi feste collettive o di carattere nazionale, ma anche un offerta privata era considerata incompleta senza la presenza di ospiti e senza che i resti delle carni sacrificali, anziché essere vendute, fossero distribuite con grande generosità. Pertanto qualunque atto di culto esprimeva l idea secondo cui l individuo non vive per sé stesso ma solo per i suoi simili, e che questa comunanza di interessi è la sfera su cui vegliano le divinità e a cui queste ultime dispensano la loro benedizione. Il significato etico che va dunque attribuito al pasto sacrificale, considerato come un atto sociale, ricevette un enfasi particolare per via di certe abitudini e di certe idee connesse con gli atti del mangiare e del bere. Secondo le idee anticamente connesse con tali atti, coloro che mangiano e bevono insieme sono, per il fatto stesso di compiere tali atti in comune, legati da amicizia e obbligazione reciproca. Di conseguenza, quando troviamo, nelle religioni antiche, che tutte le funzioni ordinarie di culto sono riassunte nel pasto sacrificale, e che il normale rapporto tra gli dei e gli uomini non riveste altra forma che questa, dobbiamo ricordarci che l atto di mangiare e di bere insieme è l espressione solenne e riconosciuta del fatto che coloro che condividono il pasto sono fratelli, e che i doveri dell amicizia e della fratellanza sono implicitamente riconosciuti nella loro comune azione. Accogliendo l uomo alla sua tavola, il dio lo accoglie come amico; ma questo favore è esteso non ad un uomo in quanto individuo privato; egli è ricevuto, piuttosto, come un membro della comunità, a mangiare e a bere con i suoi compagni, e nella stessa misura 14 Questa idea della divinità come nume tutelare del gruppo era già presente negli studi dello storico francese N. D. Fustel de Coulanges ( ). Ne la La cité antique del 1864, uno studio comparato sull origine delle istituzioni politico-religiose di Atene e di Roma, Fustel de Coulanges sostenne che la società era all inizio fondata su basi teocratiche. La discendenza comune e la co-territorialità, sebbene elementi fondamentali nella costituzione della comunità politica (la città), erano tuttavia secondarie rispetto al culto comune delle divinità tutelari. Gli stessi legami parentali, primo vincolo «politico» tra gli esseri umani, erano ciò che consentiva di assicurare la continuità del culto domestico, ed erano pertanto secondari (benché funzionali) rispetto a quest ultimo. Si era parenti innanzitutto perché si tributava un culto ad un antenato comune. Tali idee, unitamente a quelle di Smith sul sacrificio, sarebbero confluite poi ne Le forme elementari della vita religiosa di Émile Durkheim. In questo libro del 1912, fondato in larga misura sull etnografia allora disponibile, Durkheim presentò la sua teoria del culto del totem come celebrazione dell unità del clan e forma aurorale di religione, facendo del rapporto tra il totem e il clan il punto di partenza della sua visione dei rapporti tra società e religione. 16

16 in cui l atto di culto cementa il legame tra lui e il suo dio, tale atto cementa anche il legame tra lui e i suoi fratelli in una fede comune. Abbiamo così raggiunto un punto della nostra discussione a partire dal quale è possibile tentare una stima generale del valore etico del tipo di religione che è stato descritto. Il potere della religione sulla vita è duplice: da un lato tale potere consiste nella associazione di essa con particolari norme di condotta a cui assegna delle sanzioni sovrannaturali; ma soprattutto tale potere consiste nel determinare il tono generale e la tempra delle menti degli individui, che in tal modo vengono spronate al coraggio e a più alti ideali, e le eleva al di sopra della brutale servitù nei confronti dei istinti fisici insegnando agli uomini che la loro vita e la loro felicità non sono il semplice trastullo delle cieche forze della natura, ma che un potere più alto li sorveglia e si prende cura di loro. In quanto fonte ispiratrice di comportamento, questa influenza è più potente della paura nelle sanzioni sovrannaturali, dal momento che funge da stimolo, mentre quest ultima è semplicemente regolativa 15. Il rituale di comunione per eccellenza era il sacrificio nel quale il dio era chiamato a partecipare, come commensale, alla tavola degli uomini che, nell atto comune del mangiare e del bere, trovavano l occasione per rinsaldare la propria alleanza, tra loro e con la divinità rappresentativa dell unità stessa (il prototipo di questa divinità è lo Yahvé, degli antichi israeliti). Come molti suoi contemporanei, Smith non poté sottrarsi al problema di ricostruire le origini del sacrificio. Benché partito da posizioni sociologiche e non intellettualistiche, Smith ragionò molto spesso come il suo collega Tylor. Ciò è chiaramente visibile nella ricostruzione che egli fa dell origine del totemismo e delle sue relazioni con il sacrificio inteso come rito collettivo. Smith riteneva infatti, come altri (ma non Tylor, come abbiamo visto), che la prima forma di religione fosse il totemismo, cioè il culto tributato da un gruppo a un essere animale o vegetale con il quale il gruppo stesso si autoidentificava. 16 Questa identificazione era una conseguenza dell usanza dell orda primitiva di consumare un cibo in comune, pianta o animale che fosse. Consumando ad esempio la carne dello stesso animale, gli esseri umani ebbero la sensazione di essere partecipi della medesima sostanza e quindi di essere non solo 15 Lectures on the Religion of the Semites, 1889, Black, London, pp L idea del totemismo come prima forma di religione gli veniva da un altro studioso scozzese, J. F. Mc Lennan che, nel 1869, aveva pubblicato un importante lavoro proprio su questo argomento. 17

17 parenti tra loro, ma anche parenti dell animale. Poiché un pasto comune non può mantenere per un tempo indeterminato questa comunanza tra uomini da un lato, e tra questi ultimi e l animale dall altro, il consumo della sostanza comune doveva essere ripetuto periodicamente per rinnovare nel tempo il legame comunitario tra gli umani stessi e tra questi ultimi e l animale. L idea che tutti partecipavano, per incorporazione, della stessa sostanza, rafforzava l idea di comunione e, al tempo stesso, consolidava l identificazioni degli umani con l animale in questione. Di qui la convinzione, tipica della religione totemica, che un gruppo umano sia parente del suo totem, o animale (o vegetale), da cui prende il nome. Scrive infatti Smith: In the course of the last lecture we were led to look with some exactness into the distinction drawn in the later ages of ancient paganism between ordinary sacrifices, where the victim is one of the animals commonly used for human food, and extraordinary or mystical sacrifices, where the significance of the rite lies in an exceptional act of communion with the godhead, by participation in holy flesh which is ordinarily forbidden to man. Analysing this distinction, and carrying back our examination of the evidence to the primitive stage of society in which sacrificial ritual first took shape, we were led to conclude that in the most ancient times all sacrificial animals had a sacrosanct character, and that no kind of beast was offered to the gods which was not too holy to be slain and eaten without a religious purpose, and without the consent and active participation of the whole clan. For the most primitive times, therefore, the distinction drawn by later paganism between ordinary and extra-ordinary sacrifices disappears. In both cases the sacred function is the act of the whole community, which is conceived as a circle of brethren, united with one another and with their god by participation in one life or life-blood. The same blood is supposed to flow also in the veins of the victim, so that its death is at once a shedding of the tribal blood and a violation of the sanctity of the divine life that is transfused through every member, human or irrational, of the sacred circle. Nevertheless the slaughter of such a victim is permitted or required on solemn occasions, and all the tribesmen partake of its flesh, that they may thereby cement and seal their mystic unity with one another and with their god. In later times we find the conception current that any food which two men partake of together, so that the same substance enters into their j flesh and blood, is enough to establish some sacred unity of life between them; but in ancient times this significance seems to be always attached to participation in the flesh of a sacrosanct victim, and the solemn mystery of its death is justified by the consideration that only in this way can the sacred cement be procured which creates or keeps alive a living bond of union between the worshippers and their god. This 18

18 cement is nothing else than the actual life of the sacred and kindred animal, which is conceived as residing in its flesh, but especially in its blood, and so, in the sacred meal, is actually distributed among all the participants, each of whom incorporates a particle of it with his own individual life. The notion that, by eating the flesh, or particularly by drinking the blood, of another living being, a man absorbs its nature or life into his own, is one which appears among primitive peoples in many forms [ ] 17 Il sacrificio di comunione presente nelle religioni pre-monoteiste e monoteiste sarebbe dunque lo sviluppo di questa prima fase originaria in cui, comunque, al centro delle preoccupazioni umane vi era quella di rinsaldare continuamente i legami tra i membri della comunità, e tra questi e il nume tutelare (è qui che la dimensione sociologica di Smith prende il sopravvento sull impostazione intellettualistica del ragionamento). Molti critici posteriori hanno fatto notare, come vedremo, che per quanto riguarda l idea del sacrificio di comunione, come atto fondante e rinnovante la comunità, la prospettiva di Smith era influenzata dalla prospettiva cristiana e dal rito dell eucaristia in particolare. Questa distorsione prospettica, certamente presente nella sua opera (dopotutto era un evoluzionista), è bilanciata tuttavia dal merito di aver posto l accento sulla religione non solo come mera speculazione, ma come qualcosa di sociale, di collettivo, e quindi morale. Inoltre Smith diede importanza al rito come a serie di atti concreti in cui si rinnovano continuamente i principi che stanno alla base della società e del rapporto di questa con le proprie divinità tutelari. Da ultimo, Smith ha avanzato una teoria del sacrificio che superava l idea di quest ultimo come semplice dono alla divinità. L idea del dono non è certamente assente dalle pratiche sacrificali, come abbiamo visto, ma ne è solo un aspetto, e talvolta nemmeno sempre il più importante. In fondo quella di Smith era una teoria che non riduceva la religione a mera speculazione, ma faceva di essa ciò che pochi anni più tardi i sociologi francesi H. Hubert, M. Mauss e E. Durkheim (che si ispirarono a Smith, pur criticandolo) avrebbero definito un fatto sociale Lectures, pp Vale la pena di ricordare anche come in Smith si ha un superamento della tesi in base alla quale il culto sarebbe stato originato dalla paura in esseri sovrumani (incarnazione delle potenze naturali) e una frottola architettata dai sacerdoti a scopi politici. Angoscia, paura, 19

19 Un ultimo punto a cui prestare attenzione, anche se certamente Smith lo enunciò in forma assai indiretta, è l idea della violenza come atto fondativo della società e della cultura (Freud che aveva letto Smith - in Totem e tabù del 1913 enunciò una teoria psicoanalitica dell origine della religione, della cultura e dell esogamia che riprendeva proprio questa idea di violenza iniziale). Per Smith infatti, nell uccisione dell animale, poi animaletotem, e quindi nel suo sacrificio, gli esseri umani si riconobbero per la prima volta come membri di un gruppo e come parenti tra loro. 4. Il sacrificio come consacrazione : H. Hubert e M. Mauss Ricollegandoci a quanto abbiamo visto nel paragrafo 1, e in particolare alla nozione di sacro, possiamo esaminare una delle più importanti teorie del sacrificio. Henry Hubert e Marcel Mauss dedicarono al tema un opera specifica, il Saggio sulla natura e funzione del sacrificio, pubblicato circa dieci anni dopo il lavoro di Robertson Smith, nel Questi due autori erano allievi di Emile Durkheim, ma non c è dubbio che molte delle idee confluite poi nell opera più celebre del grande sociologo francese, Le forme elementari della vita religiosa (1912) provenissero dalla loro riflessione. Nello studio del 1898 Hubert e Mauss intrapresero una critica delle precedenti teorie del sacrificio, e in particolare di quella di Robertson Smith. Pur riconoscendo a Roberston Smith di aver compiuto un progresso rispetto a Tylor, essi ne criticavano la comune impostazione evoluzionistica per cui, come scrivevano, Roberston-Smith si è soffermato a raggruppare genealogicamente i fatti secondo i rapporti di analogia che credeva scorgere fra di essi (p. 15). L impostazione data da Mauss e Hubert al problema consisteva invece di enucleare le forme elementari del sacrificio, ossia quei tratti fondamentali che, al di là della grande apparente diversità, potevano essere ritenuti comuni a questo tipo di rituale. Essi, si senso di inadeguatezza, così come potere autorità e manipolazione politica sono dimensioni inerenti a qualunque religione, ma Smith insistette, dal suo punto di vista, soprattutto sulla funzione coesiva ed etica svolta dalla religione sul piano sociale. 19 Hubert, H. e Mauss, M. Saggio sulla natura e funzione del sacrificio, Morcelliana, Brescia

20 potrebbe dire, partirono alla ricerca di una struttura comune a tutti i riti sacrificali. Mauss e Hubert iniziano con una definizione formale di sacrificio. Essi precisano a) che la cosa sacrificata è sempre consacrata, cioè rivestita di un aura di sacralità, e che b) questa stessa cosa funge da intermediario tra colui o coloro che devono beneficiare del sacrificio e la divinità alla quale il sacrificio viene rivolto. Ma ciò non basta, secondo loro, a definire compiutamente il sacrificio. Infatti vi sono offerte di cose che non vengono distrutte e offerte di cose che vengono distrutte, in parte o totalmente. E solo in quest ultimo caso che si può parlare di sacrificio, ossia quando c è, diremmo noi, un atto violento esercitato su quella cosa che funge da intermediario tra l uomo e la divinità. Per Mauss e Hubert il sacrificio si presenta come un atto religioso che, mediante la consacrazione della vittima, modifica lo stato della persona morale che lo compie e lo stato di certi oggetti di cui la persona si interessa (p. 22) 20. Esistono sacrifici personali e sacrifici oggettivi. I primi sono quelli in cui è toccata la persona che officia il sacrificio stesso. I secondi sono quelli in cui sono degli oggetti,reali o ideali, a ricevere direttamente i benefici dell azione sacrificale (un campo, una casa, un tempio ecc.). Esiste dunque un unità dei sistemi sacrificali ma questa non può risiedere, come invece ritenevano Tylor (dono) o Smith (comunione) in qualcosa di sostanziale: essa risiede invece in qualcosa di formale, in una struttura relazionale tra termini, i cui effetti sono la modificazione dello stato morale del beneficiario e/o dell officiante. Abbiamo dunque la vittima (che viene consacrata), degli officianti (il cui stato morale viene modificato) così come dei beneficiari che acquisiscono i vantaggi dell atto sacrificale e vengono quindi modificati anch essi moralmente. Il saggio di Hubert e Mauss si ispira a principi comparativi che sono differenti da quelli dei loro predecessori evoluzionisti: Anziché raggruppare genealogicamente i fatti secondo i rapporti di analogia che si crede poter scorgere fra di essi (come dicevano di Robertson-Smith) i due studiosi francesi si limitano ad esaminare in 20 Il termine morale indica in questo caso la sua condizione sociale di fronte agli altri componenti di una comunità. 21

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