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1 Università Commerciale Luigi Bocconi Econpubblica Centre for Research on the Public Sector SHORT NOTES SERIES Pari opportunità in Italia: perché è un problema economico Alessandra Casarico, Paola Profeta Short note n. 13 February

2 Pari opportunità in Italia: perchè è un problema economico 1 Alessandra Casarico, Università Bocconi Paola Profeta, Università Bocconi Con l inizio dell anno delle Pari Opportunità per tutti ha ripreso avvio in Italia un articolato dibattito sul ruolo delle donne nella nostra società. Una prima direzione della discussione è volta a comprendere la complessità del ruolo della donna nell economia, nella politica, nelle imprese e nella famiglia; un secondo aspetto si concentra sul se e come le politiche pubbliche debbano promuovere e sostenere la natalità e la partecipazione femminile al mercato del lavoro mediante l offerta di servizi per l infanzia, i congedi parentali o l introduzione di quote rosa. In questa nota ci proponiamo di sottolineare l importanza degli aspetti economici delle pari opportunità, offrendo spunti per una riflessione unitaria e fruttuosa sul ruolo della donna e sul ruolo che le politiche pubbliche possono svolgere nella riduzione dei differenziali di genere. La centralità dell aspetto economico nella questione delle pari opportunità e ben sintetizzata da una recente indagine del World Economic Forum, che mostra come i paesi in cui il differenziale di genere è inferiore hanno migliori performance economiche, misurate in termini di PIL pro-capite e di competitività del sistema. Il differenziale di genere misura le disparità tra uomini e donne secondo quattro dimensioni: la partecipazione e le opportunità nel mercato del lavoro; i risultati nel campo dell istruzione, l accesso alle cariche politiche e le condizioni di salute. Come richiamato dalla stampa negli ultimi mesi, l Italia, in Europa, è tra i paesi con i risultati peggiori in termini di differenziali di genere, in particolare con riferimento a lavoro e politica. Questi risultati evidenziano, specialmente per l Italia, un potenziale di crescita che un maggiore e migliore impiego delle capacità femminili consentirebbe di mettere a frutto. O, visto da un altra angolazione, un costo che sarebbe bene ridurre. Gli studi economici concordano sui principali fattori che determinano il livello del PIL e la sua crescita. Il numero di ore lavorate e la loro produttività sono cruciali. L Italia, tra i paesi OCSE, soffre di un mancato utilizzo della sua forza lavoro potenziale, perdendo così almeno il 10% del PIL (calcolato rispetto a quello statunitense). Gran parte della forza lavoro inutilizzata è donna: il tasso di occupazione femminile tra i 15 e i 64 anni è stato pari, nel 2006, al 46% contro il 70,7% per gli uomini (e contro un obiettivo fissato per il 2010 dal Consiglio Europeo di Lisbona del 60%). Nelle coorti più giovani, il tasso di occupazione femminile è più elevato ed è pari al 58,8% (per il gruppo anni), suggerendo una prospettiva più ottimistica sulla partecipazione delle donne. Tuttavia il divario con gli uomini, il cui tasso di occupazione nello stesso gruppo di età è superiore all 80%, resta significativo. Quali fattori economici possono spiegare il ruolo marginale delle donne italiane nel mondo del lavoro? La spiegazione non dipende sicuramente da differenze nell istruzione. I dati di Almalaurea relativi al Profilo dei Laureati del 2005 mostrano che la percentuale di laureate è più elevata rispetto alla composizione per genere della popolazione (60% contro il 49% nella classe di età 15-24); la loro performance, misurata sia in termini di età alla laurea sia di punteggio medio agli esami e voto di laurea, è migliore di quella maschile. Neanche la scelta delle Facoltà sembra un elemento determinante dello svantaggio femminile sul mercato del lavoro: con l eccezione di Ingegneria, le donne sono presenti in eguale o maggior numero in tutte le altre Facoltà (comprese quelle scientifiche e giuridico-economiche). Certo le donne sembrano privilegiare gli impieghi nel settore pubblico e sono meno disponibili a trasferirsi o a viaggiare per motivi di lavoro. Ma questo, da solo, non può spiegare perché le più brave negli studi non avanzino nel mondo del lavoro. Anche tra i 1 Parti di questa nota sono basate su due nostri articoli pubblicati su Il Sole 24 ore del 21 e 23 gennaio 2007, dai quali ha preso avvio l iniziativa de Il Sole 24 ore La carta rosa.

3 laureati, e nonostante i migliori risultati femminili, la percentuale di uomini occupati ad un anno dalla laurea supera del 5,1% quella delle donne e a 5 anni questo divario aumenta al 7,9%. I differenziali occupazionali sono una parte della storia. L altra parte è raccontata dalle differenze salariali, forti fin dall ingresso nel mondo del lavoro: a tre anni dalla laurea il guadagno mensile netto dei laureati supera del 29% quello delle laureate. Secondo un indagine ISFOL del 2005, il differenziale salariale di genere tra i laureati è pari al 32%, superiore a quello nel totale della popolazione lavorativa, pari a circa il 23%. Questi dati suggeriscono che, non solo a parità di titolo di studio le donne sono meno presenti sul mercato del lavoro rispetto agli uomini, ma anche che hanno meno accesso degli uomini alle posizioni più remunerate; il divario aumenta con l avanzare della carriera lavorativa, quando le donne difficilmente raggiungono posizioni di prestigio (il noto effetto soffitti di cristallo ). Solo il 3,6% delle donne infatti appartiene alla categoria di legislatore, dirigente, imprenditore, contro l 11,7% degli uomini. Dal nostro punto di vista, la discrepanza tra risultati nell istruzione e nel mercato del lavoro può essere interpretata come un problema di efficienza. I costi di investire in istruzione sembrano superare i benefici conseguibili sul mercato del lavoro. Sono le donne ad istruirsi troppo? Questa spiegazione sembra poco convincente, in un paese dove si lamenta carenza di capitale umano e dove le donne investono in discipline apprezzate sul mercato del lavoro. E il mercato che non valuta correttamente le competenze delle donne? Ci sembra una spiegazione migliore. La letteratura economica recente ha evidenziato che una gran parte del divario salariale di genere non è attribuibile a diverse caratteristiche di uomini e donne che influenzano la loro produttività: l istruzione, l esperienza, la natura pubblica o privata dell impiego, la tipologia contrattuale, il tipo di professione e settore, l area geografica, la dimensione di impresa e l avere figli complessivamente spiegano in Italia (dati ISFOL) solo il 40% del differenziale di genere. La parte residuale, ben il 60%, è pura discriminazione. Le donne pagano quindi un prezzo elevato, non giustificato, per la loro specificità biologica. Uno studio recente di Ginther e Kahn mostra che, negli Stati Uniti, è la decisione di avere figli a penalizzare le donne (ma non gli uomini!) nella carriera accademica nelle materie scientifiche. Le donne senza figli hanno invece le stesse chance di avanzamento degli uomini. Per il Regno Unito, Paull dimostra che il differenziale salariale tra uomo e donna cresce drasticamente (dal 10% al 33%) con la nascita del primo figlio e continua a salire fino all età in cui i figli diventano indipendenti. Il costo della maternità emerge anche dal confronto tra salari di donne con e senza figli: Davies e Pierre stimano, per un campione di paesi europei, che la riduzione di salario associata alla maternità è tra il 2% e il 6% per il primo figlio e cresce fino al 18% quando i figli sono 3. In Italia il problema è ancora più radicale: la maternità si accompagna ad una riduzione significativa del tasso di partecipazione e di occupazione femminile. Il tasso di occupazione delle madri con figli di età inferiore ai 6 anni è in Italia il 53%, contro il 78% della Svezia, il 65% della Francia e il 57% di Germania e Regno Unito [vedi Grafico]. L Istat rileva che il 18,4% delle madri lascia o perde il lavoro dopo la nascita del bambino; questa percentuale varia dal 32% per le donne con bassi livelli di istruzione al 7,8% per quelle con alti livelli di istruzione. Eppure ben il 67% delle mamme che lavoravano e il 43% di quelle che non lavoravano, vorrebbe avere un impiego, a indicare che il loro ruolo marginale sul mercato del lavoro non è unicamente frutto delle loro preferenze. Se poche donne con figli lavorano, non deve sorprendere, e neanche rallegrare, il fatto che in Italia l inasprimento dei differenziali salariali in corrispondenza della maternità sia meno critico che altrove. E allora impossibile conciliare lavoro e responsabilità familiari? Per le donne italiane questo sembra un problema serio: il 52,3% dei bambini di 1 e 2 anni è accudito dai nonni quando la mamma lavora. Solo il 13,5% dai nidi pubblici. Nel nostro paese la cura dell infanzia è tuttora sostanzialmente basata su impegno materno e reti informali, sia famigliari che non.

4 In questo contesto, e veniamo così al secondo aspetto di riflessione, le politiche pubbliche possono svolgere un ruolo essenziale per promuovere le pari opportunità. Utilizzare la risorsa donna nel mondo del lavoro impone a Governo, imprese e famiglie un cambiamento concreto. Quote rosa, obiettivi sull occupazione femminile nelle aziende a tutti i livelli gerarchici e incentivi per le imprese che assumono e promuovono le donne -le cosiddette misure di affirmative action - sono sicuramente desiderabili. La radice del problema è però più profonda. Lo sviluppo di servizi pubblici per l infanzia, in Italia molto limitati, così come una maggiore flessibilità nei tempi di lavoro per uomini e donne sono precondizioni per l aumento della presenza femminile. Così come sono precondizioni per raggiungere reali pari opportunità. Puntare tutto sulle politiche di affirmative action potrebbe sì dare più chance alle donne, ma non necessariamente alle madri, le più escluse. Se il ritorno al lavoro con una garanzia di pari opportunità è un miraggio, forse la prospettiva può cambiare se anche i padri fanno la loro parte. La Norvegia, per prima, ha introdotto nel 1993 un periodo di congedo riservato ai padri: sono 4 settimane pienamente retribuite che si aggiungono ai benefici che spettano alle madri. L 85% dei padri prende il congedo, in uno dei paesi con il più elevato tasso di occupazione femminile. E solo un esempio, ma potrebbe essere di qualche ispirazione. Una combinazione di queste politiche potrebbe avere risvolti positivi importanti sul tasso di fertilità, il più basso nei paesi europei insieme alla Spagna [Vedi Grafico]. In un paese in cui le donne lavorano poco ma hanno anche pochi figli, è prioritario interrogarsi sulle opportunità di sostenere la nascita e la cura dei bambini. Queste politiche dovrebbero a nostro avviso essere prioritarie e precedenti rispetto agli interventi in materia di previdenza, e in particolare all equiparazione tra età di pensionamento maschile e femminile, misura che nelle ultime settimane è stata di frequente ricollegata al dibattito sulle pari opportunità, come se potesse rappresentare l occasione per promuovere la parità di genere. In un periodo in cui si discute di riforma del sistema pensionistico pubblico, di innalzamento generalizzato dell età pensionabile, di revisione dei coefficienti di trasformazione per le pensioni contributive, è forse naturale che il tema donne e previdenza acquisti un rilievo particolare. La Riforma Dini prevede un età flessibile di pensionamento tra i 57 e i 65 anni, con penalizzazioni in termini attuariali per chi decide di ritirarsi il prima possibile dal mercato del lavoro. Tali penalizzazioni sono uguali tra uomini e donne, essendo i coefficienti di trasformazione uniformi: questo si traduce in un vantaggio per le donne, la cui speranza di vita al pensionamento è maggiore. La Riforma Maroni che, salvo interventi del presente Governo, entrerà in vigore dal 1 gennaio 2008, reintroduce due diverse età di pensionamento per uomini e donne (65 e 60). Su questo aspetto il dibattito è acceso. Vogliamo ora uguagliare l età di pensionamento? L uguaglianza nell età di pensionamento non ci sembra la questione che dovrebbe assorbire la maggiore attenzione. Il tema delle mancate pari opportunità dovrebbe avere a nostro giudizio una sua autonomia nel dibattito e nella formulazione degli interventi di politica pubblica. Iniziare dalle pensioni ci sembra singolare. La pari età di pensionamento non può rappresentare il primo passo verso la parità di genere o il primo strumento per scardinare i ruoli che vedono la donna impegnata nel lavoro di cura e quindi meno presente sul mercato del lavoro. La diversità nell età di pensionamento o l utilizzo di uguali coefficienti di trasformazione tra uomini e donne sono delle imperfette correzioni ex-post della diversa partecipazione sul mercato del lavoro, più che degli impliciti avalli di questa diversità o la loro causa. E a nostro giudizio il mercato del lavoro il primo terreno su cui occorre operare. Siamo consapevoli che per colmare o almeno ridurre le differenze in questo ambito i tempi siano molto lunghi. Anche perché le differenze di genere nel mondo del lavoro hanno radici culturali molto profonde. Un avvio o un impegno deciso in questa direzione ci sembrano una premessa per eliminare poi le compensazioni, sia pur insoddisfacenti, al momento del pensionamento.

5 In questi giorni si ricorda spesso che pochi sono i paesi, oltre all Italia, che prevedono età di pensionamento differenziate per genere. Forse vale la pena di ricordare che anche pochi sono i paesi che hanno una disparità sul mercato del lavoro forte come la nostra. Ci auguriamo che nell anno delle pari opportunità le iniziative e gli interventi a sostegno della partecipazione femminile possano trovare piena valorizzazione e non essere subordinate alla questione della pari età nel sistema pensionistico. Bibliografia Davies R. e Pierre G., 2005, The Family Gap in Pay in Europe: a Cross-country Study, Labour Economics, Agosto. Ginther D. e Kahn S., 2006, Does Science Promote Women? Evidence from Academia , NBER working paper n.12691, Novembre. Paull G., 2006, The Impact of Children on Women s Paid Work, Fiscal Studies, Dicembre. Tasso di occupazione delle donne con almeno un figlio di età inferiore ai 6 anni 90,0 80,0 70,0 60,0 50,0 40,0 30,0 20,0 10,0 0,0 Australia Austria Belgium Canada Czech Rep. Denmark Finland France Germany Greece Hungary Ireland Italy Japan Luxembourg Netherlands New Zealand Portugal Slovak Rep. Spain Sweden Switzerland United Kingdom United States

6 Tasso di fertilità nei paesi OCSE, ,00 2,50 2,00 1,50 1,00 0,50 0,00 Australia Austria Belgium Canada Czech Rep. Denmark Finland France Germany Greece Hungary Iceland Ireland Italy Japan Korea Luxembourg Mexico Netherlands New Zealand Norway Poland Portugal Slovak Rep. Spain Sweden Switzerland Turkey United Kingdom United States

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