francesco de sanctis, un intellettuale militante

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1 francesco de sanctis, un intellettuale militante Le due pagine della sua vita Francesco De Sanctis nacque a Morra Irpina (oggi Morra De Sanctis) il 28 marzo1817 da una modesta famiglia. Appresi nel suo paese i primi rudimenti dell'italiano e del latino, si trasferì a nove anni a Napoli presso uno zio sacerdote, lo zio Carlo, che teneva una scuola privata. Lo zio lo imbeveva di retorica, ma egli leggeva per conto suo tutto ciò che gli capitasse fra le mani. Non più confacenti alla sua indole furono i due successivi insegnanti, l'abate Fazzini, mezzo sensista e mezzo cattolico, e l'abate Garzia, uno scolastico di vecchia cultura, presso il quale iniziò gli studi legali. Ma finalmente passò alla famosa scuola superiore per l'insegnamento delle lettere italiane tenuta dal marchese Basilio Puoti. Ivi, scrive il De Sanctis scherzando, davamo opera a riempire i nostri quaderni di bei modi di dire, a rotondare i nostri periodi, a studiare con atteso animo grammatiche e rettoriche, trecentisti e cinquecentisti, pieno il petto di sacro orrore verso il forestierume, e ben risoluti a non essere mai altro che italiani di lingua, di stile e di pensiero, stando come torre fermi e lasciando pur dire gli sciocchi che ci davano la baia e ci chiamavano per istrazio puristi. Ma, se il Puoti era un purista, era altresì un uomo di ingegno, un gran cuore e, specie nei primi anni, un fervido maestro, sicché il D. S., pur destinato ad occuparsi di ben altri problemi, ne trasse per sua stessa confessione giovamento e gli serbò viva gratitudine. Un'apoplessia dello zio lo obbligò a lasciare gli studi per sostituirlo nell' insegnamento; fu nominato altresì insegnante nel Collegio Militare della Nunziatella e aprì una scuola per conto proprio, scuola che, nata come appendice a quella del Puoti, dovette poi di gran lunga superarla, non senza malumore del marchese, come è destino di quelli che vengono sorpassati. Sono questi della prima scuola, come si usa chiamarla per distinguerla dall'ultimo insegnamento del D. S. in Napoli, l'universitario, anni fervidi, operosissimi, in cui docente e discenti, in pieno affiatamento, mettevano già in atto quell'unità inscindibile dei saperi che deve essere nell'azione educativa, e già praticavano una modalità laboratoriale di scuola. Siamo al '48, e precisamente al 15 maggio, il giorno del funesto eccidio dei rivoluzionari di Napoli; ebbene, molti di questi erano della sua scuola: segno del profondo valore umano del suo insegnamento e dell' intima coerenza tra pensiero e azione. Combatte anzi egli stesso, e poco manca che non sia ucciso. Poiché era stato intanto chiamato a far parte di una commissione per la riforma dalla pubblica istruzione, elabora prospetti che accusano fortemente l'influsso del Cuoco, ma essi non sono nemmeno discussi, per l'avanzare della reazione. Per questa non solo il D. S. viene privato della cattedra al Collegio Militare, ma è costretto anche a chiudere la scuola privata e a ritirarsi, ospite del barone Francesco Cuzzolini. in Calabria. Nel dicembre del '50 viene arrestato e condotto nella prigione di Castel dell'ovo, per false voci di congiura contro il re. Questi mesi di prigione non sono per lui senza un profondo significato intellettuale e spirituale, poiché nell'austerità della solitudine si libera da certo suo romanticismo, per acquistare una visione del mondo più virile e una più robusta fede nel progresso umano, e insieme l'accettazione del dolore, come momento necessario del progresso stesso. Tutto ciò gli deriva dallo Hegel, che appunto ora legge nella sua lingua, studiando il tedesco. Dopo più di tre anni di carcere, sebbene riconosciuto innocente, è obbligato da un ordine del re ad andar esule in America; se non che, sbarcato a Malta, può raggiungere il Piemonte. Ivi non accetta per dignità il soccorso che il governo a lui offre come esule, e vive modestamente, insegnando nella scuola privata della signora Elliot e collaborando con alcuni giornali. Per questo acquista subito grande fama. Nel '56 lo troviamo a Zurigo come insegnante di letteratura italiana nel Politecnico, e gli anni zurighesi molto gli giovano per il contatto con gli ingegni più chiari di Europa, da Mommsen a Wagner, da Marx a Mazzini. Legge a una scolaresca entusiasta i poeti della nostra letteratura, specialmente Dante, Petrarca, Ariosto, Manzoni, e il Saggio sul Petrarca risale appunto a questi anni. 1

2 Scoppiata la guerra del '59, non può per ragioni di età essere accolto come volontario; nel giugno del '60 lascia definitivamente Zurigo per Napoli, dove il Borbone aveva concesso e firmato la costituzione. Dopo l'entrata di Garibaldi è chiamato dal governo della dittatura alla Direzione della Pubblica Istruzione: vi rimane poco, ma opera, specie nella vita universitaria di Napoli molti salutari cambiamenti ispirati non già da ragioni di parte, ma da pacati giudizi scientifici. Nel '61 è eletto deputato del Regno d'italia, e poi chiamato dal Cavour come ministro della Pubblica Istruzione. Egli ha scritto una volta: «La mia vita ha due pagine: una letteraria, l'altra politica... Sono due doveri della mia storia, che continuerò sino all'ultimo». Ebbene, in questi anni prevale la pagina politica; il fine a cui tende è la costituzione di un partito progressista di contro al partito conservatore, e così lentamente prepara quella che sarà poi la «rivoluzione parlamentare» del '76. Dopo il '65, senza tuttavia abbandonare la politica, ritorna progressivamente agli studi: pubblica nel '66 i Saggi critici, raccolta di articoli che già aveva sparsamente dato in luce, e li ristampa nel '69 insieme col riveduto Saggio sul Petrarca; diviene anche collaboratore assiduo della Nuova Antologia. Ma la sua principale e più gloriosa fatica è la Storia della Letteratura Italiana, che, nata quale compendio per i licei, gli si trasformò, man mano che la scriveva, in opera scientifica, come era naturale, data la tempra dello scrittore. Vi pose mano nel '68 e la terminò alla fine del '71, sebbene anche il secondo volume, cioè l'ultimo, rechi la data del '70, come già il primo. Quest'opera, sebbene sembri avere un'origine occasionale, è preparata da più che un ventennio di studi scientifici e di esperienze didattiche. Per ragioni editoriali in quest'opera monumentale vi sono, ma dovute a motivi esterni, alcune aporie: la parca trattazione del Petrarca e del Guicciardini, dei quali si era occupato in saggi appositi; scarsissimo poi è lo sviluppo dato al secolo XIX, di cui però tratta ampiamente nelle lezioni che tenne come professore dell' Università di Napoli, dal 71, anno della nomina, al '76, anno del ritiro da lui stesso chiesto; per non dire dei due articoli sul Parini e sul Foscolo, pubblicati nella Nuova Antologia del '71. Scrive ancora altri articoli, raccolti nei Nuovi saggi critici (1872), e tiene conferenze al Circolo Filologico di Napoli; negli ultimi anni si accinge, attraverso un corso universitario tenuto nel '75-76, ad un'opera sul poeta della sua giovinezza, il Leopardi, che la diligenza di uno scolaro ci ha trasmesso; opera vasta, riposata e di carattere analitico, a differenza di molti altri saggi, in cui la veduta sintetica predomina. Ma resta purtroppo interrotta; come interrotte restano anche le sue memorie (La giovinezza), per le quali egli, già vecchio e in mal ferma salute, si valeva dell'opera di una nipotina. Intanto, anche la politica aveva continuato a sollecitarlo: la questione romana, la formazione del partito di sinistra lo ebbero tra i più fervidi sostenitori. Nel '78 e dal '79 all' 82 fu di nuovo Ministro dell'istruzione sotto due successivi gabinetti Cairoli. Morì a Napoli il 29 dicembre Un pensiero conquistato con enorme impegno intellettuale Il D. S. è il più grande critico del sec. XIX e uno dei maggiori critici di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Il suo nome è oggi pronunciato con quel rispetto che basta a dare anche agli inesperti un' idea di ciò che rappresenta. Egli non divenne grande rapidamente, non raggiunse la fama subito, e anche questa è una conferma importante, perché la grandezza presuppone sempre un lungo e faticoso percorso. Da quando, giovane ancora, non tardò a scoprire quanto di formalistico permaneva nell' insegnamento del Puoti, a quando nel positivismo nascente vide, già vecchio, un qualche correttivo alle languidezze romantiche, la sua vita fu una continua ricerca, un continuo superamento. Un singolare bisogno di concretezza era in lui. Ciò gli giovò durante gli studi grammaticali della sua prima scuola a fargli scoprire (né già subito, né senza parentesi logicistiche di ispirazione leibniziana) il carattere intuitivo e individuale della parola, e a fargli dare più importanza allo stile che alla lingua, con l'occhio già rivolto all' interno, al modo di concepire; e ciò valse altresì a fargli combattere il concettualismo e l'allegorismo sociologico allora in voga, quando dai problemi dello stile passò a quelli della critica letteraria vera e propria. Ma un passo anche più risoluto fece infine ribellandosi alla teoria hegeliana di cui per un momento aveva creduto di potersi appagare. Perché lo Hegel sosteneva sì l' identità di forma e contenuto, se non che l'arte era per lui in definitiva «fase storica e transitoria della vita del genere umano» e 2

3 sarebbe morta col trionfo della filosofia e l'apoteosi dell' idea. «Solo un certo grado della verità è capace di essere esposto in opere d'arte: una verità cioè che possa esser trasfusa nel sensibile e apparire in esso adeguatamente, quali sono gli dei ellenici.... Lo spirito del mondo moderno sembra avere oltrepassato il punto nel quale l'arte è la via maestra per apprendere l'assoluto». Il D. S. si ribella a questo decreto di morte, affermando l'autonomia delle singole forme spirituali, che si svolgono dialetticamente senza che l'una assorba l'altra: «Nell'uomo tutto l'essere apparisce ora come riflessione, ora come immaginazione, ora come sentimento, ora come figura, ora come azione, e ciascun momento attrae a sé tutti gli altri, dando ad essi il suo colore». Così sostituisce all'estetica dell' idea la sua estetica della forma: 1'idea nell'opera d'arte indubbiamente c'è, ma «ha già oltrepassato se stessa, non esiste più; ciò che esiste è la forma», dando a questa parola non già il significato estrinseco degli accademici e dei retori, ma quello di organismo vivente, di rappresentazione fantastica. Come si vede, già siamo a un passo dalla concezione odierna della letteratura e dell arte in genere. Questi accenni all'attività teoretica del D. S. sono quanto mai scarsi, ma non per questo dobbiamo tenerne poco conto, perché, anche in tale misura, sono opportuni a dissipare un mito abbastanza radicato, quello di un D. S. che si sarebbe lasciato guidare da un istinto e da un fiuto miracoloso, quasi posseduto dall'estro o invasato dal nume, come in antico si favoleggiava dei poeti. Una tale veduta con i relativi corollari dominava una volta la critica, ma bisogna affrettarsi a espellerla definitivamente anche dalla scuola, dove forse in qualche misura permane ancora. Il D. S. poté pervenire ai risultati a cui pervenne perché tutto un travaglio speculativo era alla base della sua critica; meglio ancora: prassi e teoria in lui si arricchivano e s'integravano a vicenda. E allorché diciamo che egli sarà vero in ogni tempo, come sarà indubbiamente, tale proposizione non ha per noi altro senso che storico. Sarà vero in ogni tempo, perché fu vero al suo tempo, come accade di Heidegger, Sartre, Marx, Hegel, Kant, Vico, Bruno e di tutti gli altri pensatori, i quali risolsero i problemi lasciati a loro dalle precedenti generazioni, e largamente promossero il progresso culturale, sicché ad essi è indispensabile tornare per intendere ciò che in seguito è avvenuto. L arte e la vita Il D. S. è la più superba conclusione di quell'epoca che denominiamo romantica. Quanto essa aveva prodotto nel campo della critica e del pensiero egli accolse e insieme superò. La sua soluzione dei problemi, se non coincide con la nostra, come in verità non potrebbe, le è tuttavia prossima assai. Ho detto in sintesi quali risultati conseguì con la sua concezione dell' estetica della forma: la battaglia per l'autonomia dell'arte, così lunga, così faticosa, con lui poteva dirsi vinta o prossima almeno alla vittoria, mentre con gli scritti egli stesso si faceva il più felice applicatore della sua dottrina. Se più tardi nell'epoca positivistica si tornò ai vecchi equivoci e alle vecchie denominazioni, parlandosi ancora di un'arte sociologica, ciò accadde perché la parola del grande maestro fu dimenticata e boicottata. Non solo, ma risolvendo problemi dell'arte, egli cercò di risolvere problemi più generalmente umani. Perché all'arte non servono i puri estetisti, «i cicaloni dai punti ammirativi», come egli stesso ebbe a chiamarli una volta. Costoro anzi le tolgono l'ossigeno, il quale non può esserle somministrato se non dalla vita. «Sento dire l'arte per l'arte; massima vera o falsa, secondo che la s'intende. Che a fare opera d'arte si richieda l'artista; vero. L'uccello canta per cantare, ottimamente. Ma l'uccello cantando esprime tutto sé, i suoi istinti, i suoi bisogni, la sua natura. Anche l'uomo cantando esprime tutto sé. Non gli basta essere artista, dee essere uomo. Cosa esprime se il suo mondo interiore è povero o artefatto o meccanico, se non ci ha fede, se non ne ha il sentimento, se non ha niente da realizzare al di fuori?» Dopo di che siamo in grado di capire certe note della sua biografia spirituale; come mai egli, critico, tanto si appassionò alla politica e al problema educativo. Ciò avvenne appunto perché aborriva da un'umanità umbratile, mutilata, dimezzata. Aristocraticamente alieno da ogni contaminazione e intrusione (l'arte doveva essere arte, la critica critica e via dicendo, e in ciò è dato scorgere la sua superiorità su altri rappresentanti del romanticismo, Mazzini, Gioberti e simili, tutt'altro che esenti da preconcetti e pregiudizi), egli voleva che nel poeta, nel politico, nel critico fosse alla base una grande ricchezza 3

4 umana: questa era per lui la condizione necessaria. Tale ricchezza si ammira in tutti i suoi scritti, ma principalmente nella Storia letteraria che fu detta l'esame di coscienza di tutta la vita italiana. Permane ancora in essa un certo schema artificioso: gli autori vi sono un po' atteggiati come i personaggi di un dramma, di cui uno progredisce rispetto all'altro o rispetto all'altro regredisce. Non solo, ma non tutte le caratteristiche dei singoli scrittori o delle epoche sono oggi accettabili: questo è ovvio, e il lettore poteva agevolmente dedurlo dal modo tutto storico e niente affatto mistico con cui ho tentato di disegnarne la figura. Ma che importa? è un'opera monumentale, a cui giova sempre ritornare, perché ricca di germi che possono largamente fruttificare; né si sa se più ammirarvi l'acutezza del critico o il fervore dell'uomo. È una di quelle opere, poche sempre di numero, in cui si può dire che un ingegno ha bruciato tutto se stesso senza residui. E pensare che nacque come una cosetta da nulla, come un manuale scolastico. Uno dei secoli più succintamente trattati è l'ottocento, e ne spiegato la ragione; pure proprio da queste pagine viene forse il fascino maggiore. Vi senti lo scrittore che giudica liberamente, cioè scientificamente, ma anche che s'interessa a quella vita, perché fu la sua stessa vita. L'effetto che ne nasce è stupendo: avverti distacco e commozione insieme. Forse questo amore latente è il segreto della sua maggiore preparazione per questo secolo, e dell'averlo più frequentemente trattato in tutta la sua prassi critica e didattica. De Sanctis scrittore e la sua fortuna Ma non si direbbe tutto, se non si aggiungesse qualcosa circa lo stile. La leggenda di un D. S. cattivo scrittore (perché si è detto anche questo) può far compagnia a quella di un D. S. uomo con doti quasi da taumaturgo, se pure non sia anche maggiormente insulsa e banale. Sciatterie, negligenze, frettolosità, nessuno vorrà negare, ma attenti a non confondere con queste quelli che sono reali pregi e non difetti: le sue reazioni antiaccademiche e antiletterarie. Uno scrittore, che alla pienezza della vita guardava a quel modo, non poteva non riflettere tale atteggiamento spirituale nella sua prosa, la quale è agile e versatile, fatta per assecondare tutti i moti del pensiero e del sentimento, dai più seri e commossi ai più lievi e scherzevoli, gli uni senza sussiego e declamazione, gli altri senza banalità. Lo stile del D. S. è rapido, dinamico; scorre e non ristagna, ti dà l'impressione di un continuo farsi: sente il caldo della vita. Pensatore di razza, egli non è tuttavia un puro filosofo, che solo si appaghi nella elaborazione concettuale; per questo il suo pensiero si riveste di forme sanguigne e balena rapido nell'immagine, più fermo nel complesso che nelle singole parti, in cui avverti oscillazioni ed esitazioni. Questo basta già a differenziare il nostro pensatore da altri, come per esempio dal Croce (il raffronto si porge spontaneo perché ciascuno impronta di sé l'epoca a cui appartenne) antiaccademico e antiletterario egli pure, ma in cui la sostenutezza e finezza stilistica, cresciuta con gli anni, attesta un'indole più strettamente speculativa e rigorosamente sistematica, e temperamento più umanistico. La fama del D. S. già grande al tempo della sua massima attività di scrittore, andò diminuendo fin quasi a oscurarsi nell'età successiva, detta positivistica. In tale periodo, al grande maestro si guardava con aria di compiatimento e di ironia; si esageravano certe sue sviste materiali, e tutto il suo lavoro era considerato come effetto non d'altro che di immaginazione e di improvvisazione. Nessuno allora avrebbe previsto quello che pur doveva accadere di lì a poco, quando negli estremi anni del secolo, risorgendo l'amore per i problemi del pensiero, le sue opere vennero di nuovo ristampate e cercate. Da allora ad oggi la fortuna del D. S. è stata in continua ascesa, cosicché in mezzo a tanti tentativi di amorosa comprensione non è mancato nemmeno l'entusiasmo retorico e parolaio. Le principali tappe della sua vita Nasce a Morra Irpina il 28 marzo Entra nella Scuola privata dello zio Carlo, a Napoli Passa nel Liceo dell'abate Fazzini, poi nello Studio del Garzia Nella scuola superiore di Basilio Puoti Fonda la scuola privata superiore al Vico Bisi, mentre sostituisce lo zio Carlo nella sua. 4

5 È nominato insegnante nel Collegio militare della Nunziatella Il 15 maggio combatte sulle barricate. Con la reazione è sospeso dal Collegio Militare Si ritira in Calabria È arrestato il 3 dicembre e rinchiuso in Castel dell' Ovo È liberato, ma deve andare in esilio: in Piemonte È a Zurigo, insegnante di Letteratura Italiana al Politecnico Il 6 agosto torna a Napoli. Nel settembre è nominato da Garibaldi Direttore dell' istruzione pubblica. Assume importanti provvedimenti per rinnovare l'università E deputato del Regno d' Italia e dal 20 marzo Ministro dell' Istruzione Torna agli studi: è il periodo della sua più intensa attività letteraria E professore all' Università di Napoli e Viene di nuovo nominato Ministro dell' Istruzione Muore a Napoli il 29 dicembre. De Sanctis oggi Per ragioni ideologiche e strutturali, oltre che per le interpretazioni magistrali di molti autori e testi, la Storia della letteratura italiana e tutta l opera di D.S., dopo l insuccesso che ebbero nel clima culturale del tardo Ottocento, sono apparse, per gran parte del nostro secolo, come serbatoi di verità critiche, di giudizi esemplari su scrittori, opere, momenti storici; il nome del D.S. è stato identificato con quello del critico per eccellenza, dell interprete privilegiato della nostra storia letteraria. Oggi siamo abbastanza distanti da lui per vedere nella sua opera qualcosa di diverso da questo, benché sia ancora utile richiamarsi a molte sue intuizioni. Ma possiamo riconoscere in lui un grande modello, ancora classico, di rapporto organico tra esperienza umana, politica, storica, letteraria, educativa; vi possiamo scorgere la sintesi più avanzata delle tensioni e delle scommesse della letteratura risorgimentale e un ultimo atto di fiducia nella letteratura come esperienza umana integrale, come organismo interamente immerso nel corso della storia, segno di salda coscienza morale, creazione di realtà in divenire. Da D.S. la letteratura viene vissuta, e per l ultima volta a un livello così alto, in una chiave positiva e insieme problematica, come forza in cui si riassumono i segni sparsi della civiltà, proiezione fiduciosa verso il futuro. Le esperienze successive dovranno invece fare i conti, in un modo o nell altro, con fratture e contraddizioni, con una separazione ineluttabile tra i diversi ambiti del sapere e dell esperienza. (Giulio Ferroni) Romualdo Marandino Il ritorno al De Sanctis di Antonio Gramsci «La mia vita ha due pagine, una letteraria, l'altra politica, né penso a lacerare nessuna delle due: sono due doveri della mia storia, che continuerò sino all'ultimo». F. De Sanctis ESEMPLARITA' L'idea di inserire il mio articolo in questo volume, dedicato alle celebrazioni desanctisiane, è venuta dalla necessità di documentare, attraverso la cultura contemporanea, la riscoperta del grande critico e l'attualità del suo pensiero. Non è mia intenzione, però, limitare il discorso al campo specifico della critica letteraria e svolgere così un lungo esame dei vari saggi pubblicati sull'argomento negli ultimi decenni; mi preme, invece, evidenziare il ritorno al De Sanctis su di un piano sinteticamente culturale, il che credo opportuno e quasi inevitabile fare attraverso il pensiero di Antonio Gramsci, attraverso cioè una delle esperienze culturali più organiche del nostro '900. 5

6 Questo, peraltro, non significa affatto forzare o alterare, per vaghezza di modernità, il messaggio di pensiero e di azione che il nostro conterraneo ci affidò, bensì coglierne la «esemplarità» come momento imperituro e dialettico, sempre comunque legata alle circostanze storiche, che le diedero ragione e ne provarono l'efficacia. «Cosa significa e cosa può e dovrebbe significare - afferma il Gramsci (Quaderni dal carcere, VI) - la parola d'ordine di Giovanni Gentile «Torniamo al De Sanctis»? Significa «tornare» meccanicamente ai concetti che il De Sanctis svolse intorno all'arte e alla letteratura, o significa assumere verso l'arte e la vita un atteggiamento simile a quello assunto dal De Sanctis ai suoi tempi? Posto questo atteggiamento come «esemplare», è da vedere: 1) in che sia consistita tale esemplarità; 2) quale atteggiamento sia oggi corrispondente, cioè quali interessi intellettuali e morali corrispondano oggi a quelli che dominarono l'attività del De Sanctis e le impressero una determinata direzione». E' chiaro che l'essenza della «esemplarità» del critico irpino non può né deve consistere in un modello di coerenza ideologica né nell'elencazione retorica di pregi e virtù; insomma non può né deve consistere in una forma di astrazione etica prodotta ai danni di una personalità fermamente legata ai problemi della sua epoca, né in un processo di distinzione, come fa il Croce, dei vari aspetti, con conseguente diversa valutazione per ognuno di essi. Francesco De Sanctis va giudicato integralmente e dialetticamente: integralmente, come unità di interessi culturali, politici, morali, sociali ecc.; dialetticamente, come realtà umana soggetta a continua evoluzione intellettuale. In tal senso sono anche motivi di «esemplarità» il suo avvicinamento al positivismo (cfr. il discorso La scienza e la vita ) e il suo passaggio alla Sinistra parlamentare, scelte che a certa critica potrebbero apparire errori di senescenza. Dobbiamo, pertanto, individuare - la «esemplarità» del De Sanctis nella sua presenza culturale organica e perciò stesso aperta a tutti i problemi, nella sua persistente capacità di concepire il suo tempo, nella sua forte volontà di lotta contro ogni forma di reazione e di antidemocrazia. «Il segreto dell'efficacia di De Sanctis - scrive Luigi Russo (il passo, tratto dal saggio Francesco De Sanctis e la cultura napoletana, , è riportato dallo stesso Gramsci in Q.d.c., VI) è tutto da cercare nella sua spiritualità democratica, la quale lo fa sospettoso e nemico di ogni movimento o pensiero che assuma carattere assolutistico e privilegiato; e nella tendenza e nel bisogno di concepire lo studio come momento di un'attività più vasta, sia spirituale che pratica, racchiusa nella formula di un suo famoso discorso: La scienza e la vita». Ecco, dunque, conquistato per noi il senso della «esemplarità» del De Sanctis: efficacia di a- zione culturale e politica, originata da una forte sensibilità democratica. EFFICACIA DI AZIONE CULTURALE Per comprendere bene il senso e la portata dell'efficacia dell'azione culturale del De Sanctis, occorre innanzitutto precisare, sempre col Gramsci, che cosa il critico irpino intese per «cultura». «Un giudizio del De Sanctis: Manca la fibra perché manca la fede. E manca la fede, perché manca la cultura. Ma cosa significa cultura in questo caso? Significa indubbiamente una coerente, unitaria e di diffusione nazionale concezione della vita e dell'uomo, una religione laica, una filosofia che sia diventata appunto cultura, cioè abbia generato un'etica, un modo di vivere, una condotta civile ed individuale. Ciò domandava innanzitutto l'unificazione della classe colta e in tal senso lavorò il De Sanctis con la fondazione del Circolo filologico, che avrebbe dovuto determinare l'unione di tutti gli uomini colti ed intelligenti di Napoli, ma domandava specialmente un nuovo atteggiamento verso le classi popolari, un nuovo concetto di ciò che è nazionale, diverso da quello della Destra storica, più ampio, meno esclusivista, meno poliziesco per così dire. E' questo lato dell'attività del De Sanctis che occorrerebbe lumeggiare, questo elemento della sua attività che d'altronde non era nuovo, ma rappresentava lo sviluppo di germi già esistenti in tutta la sua carriera di letterato e di uomo politico». (Q.d.c., VI). La cultura, quindi, è prassi, condotta civile ed individuale, dimensione e misura di ogni momento storico. Di qui l'efficace superamento, in chiave critica, del vuoto accademismo ancora 6

7 dilagante. nell'800 (si leggano al riguardo le pagine de La giovinezza sulla scuola di Basilio Puoti), dei vecchiumi tradizionali, de la retorica e de il gesuitismo ; di qui l'attivistica interpretazione della lezione romantica; di qui la riaffermazione del carattere fondamentalmente evolutivo della letteratura con la conseguente adesione al realismo. L'acquisizione più efficace del De Sanctis resta, comunque, quella del nuovo concetto di ciò che è nazionale, diverso da quello della Destra storica, più ampio, meno esclusivista, meno poliziesco per così dire. In una lettera del 1856, indirizzata ad Angelo De Meis, il Nostro, a proposito della scuola siciliana sorta intorno a Federico II, osservava: «... cominciò fin da allora quella scissione tra la plebe e le classi colte che dura anche oggi, talché sembrano due società accampate nello stesso luogo senza mescolarsi». Era la diagnosi più acuta mai fatta della nostra storia letteraria, era l'individuazione di un male non solo artistico, ma innanzitutto sociale, politico e più generalmente culturale. Non era però sufficiente la sola presa di coscienza, s'imponeva urgentemente una seria soluzione: la nostra cultura doveva finalmente cominciare ad essere nazionale, cioè a dire popolare e non di classe, doveva interpretare ed esprimere la civiltà italiana non nelle sue distinzioni, ma nella sua unità. Purtroppo la lezione del De Sanctis fu trascurata o fraintesa, sicché essa oggi rimane ancora valida ed attuale. Al riguardo il Gramsci così polemizza col critico Giuseppe Antonio Borgese (autore de Il senso della letteratura italiana Nuova Antologia, gennaio 1930): «E' interessante poco prima un brano sul De Sanctis ed il rimprovero buffo: Vedeva vivere la letteratura italiana da più di sei secoli e le chiedeva di nascere realtà, De Sanctis voleva che la letteratura si rinnovasse, perché si erano rinnovati gli italiani, perché era sparito il distacco fra letteratura e vita. E interessante osservare che il De Sanctis è progressista anche oggi nei confronti dei tanti Borgese della critica attuale». (Q. d. c., VIII). E' questo un primo e basilare motivo, per il Gramsci, di un ritorno al De Sanctis. Ma non è il solo. Per la realizzazione del suo programma culturale il De Sanctis individuò nella «unione di tutti gli uomini colti e intelligenti» il momento propulsore ed indispensabile. Il concetto, in verità, potrebbe sembrare a primo esame un po' illuministico. Esso, però, va interpretato con maggiore attenzione. Non si tratta di un vago unanimismo, bensì di una convergenza di impegno intellettuale intorno ad una concreta esigenza della civiltà italiana del tempo; né, peraltro, è da vedersi un paternalistico «abbassare lo sguardo» della classe dominante verso quella dominata, anzi in quella u- nione della «classe colta» manca decisamente ogni idea di classe, almeno in senso strettamente e- conomico. Del resto il De Sanctis chiedeva un impegno per una «cultura nazionale e popolare», proprio al fine che essa cessasse di essere patrimonio di alcuni ceti e cominciasse ad essere patrimonio indiscriminante di tutti; cessasse di interpretare interessi ad aspirazioni particolari e «privilegiati», e si determinasse come rappresentazione reale di problemi «nazionali» e di sentimenti «popolari»; fosse, insomma, espressione dell'italia e non di pochi italiani. Questo richiedeva un notevole impegno, un fervore appassionato di lotta in un contesto socio-politico-economico notevolmente difficile ed incerto. Ecco perché, dice Gramsci: «La critica del De Sanctis è militante, non frigidamente estetica, è la critica di un periodo di lotte culturali, di contrasti tra concezioni di vita antagonistiche. Le analisi del contenuto, la critica della struttura delle opere, cioè della coerenza logica e storico-attuale delle masse di sentimenti rappresentati artisticamente, sono legate a questa lotta culturale: proprio in ciò pare consista la profonda umanità e l'umanesimo del De Sanctis che rendono tanto simpatico anche oggi il critico. Piace sentire di lui il fervore appassionato dell'uomo di parte che ha saldi convincimenti morali e politici e non li nasconde e non tenta neanche di nasconderli. Il Croce riesce a distinguere questi aspetti diversi del critico, che nel De Sanctis erano organicamente uniti e fusi». (Q. d. c., VI). Così, nel concetto che solo una comune lotta può rinnovare la cultura, l' «unione di tutti gli uomini colti e intelligenti» perde ogni sua etichetta aprioristica, in quanto strettamente connessa con la lotta culturale ed essa stessa momento di questa, e quindi impossibilitata a sussistere altrimenti nel pensiero del De Sanctis. 7

8 Nell'ultima parte del passo in precedenza riportato il Gramsci pone una forte riserva sulla interpretazione crociana del pensiero di Francesco De Sanctis: il filosofo liberale distingue i diversi ma organici aspetti del De Sanctis, crocianizzandolo nel privarlo dell'efficace impostazione storicistica. Non è qui il caso di esaminare i profondi motivi di tensione e dissidio intellettuale fra il Croce ed il Gramsci, questi, comunque, pur non rinnegando l'opportunità di una valutazione estetica dell'opera d'arte, la ritiene insufficiente se non integrata dalla ricerca delle componenti storiche, sociali, economiche e morali. Un giudizio limitato soltanto a verificare «l'intuizione lirica» dell'artista di necessità conduce, pur senza la volontà di mortificare il «contenuto storico», alla trionfalistica celebrazione dell'«individualismo artistico espressivo» antistorico ed antirappresentativo. Il metodo critico del De Sanctis, invece, mirava alla comprensione integrale dell'opera d'arte, intesa come contributo, artisticamente positivo, del singolo autore alla problematica della società e dell'epoca nelle quali egli si fosse formato ed avesse culturalmente operato, e pertanto era ben lontano dall'ibrida casistica pregiudiziale di «poesia e non poesia». «Insomma, il tipo di critica letteraria - scrive il Gramsci - propria della filosofia della prassi è offerto dal De Sanctis, non dal Croce o da chiunque altro (meno che mai dal Carducci): essa deve fondere la lotta per una nuova cultura, cioè per un nuovo umanesimo, la critica del costume, dei sentimenti e delle concezioni del mondo, con la critica estetica o puramente artistica nel fervore appassionato, sia pure nella forma del sarcasmo». (Q. d. c., VI). Sono qui racchiusi, in forma sintetica, i motivi salienti del ritorno gramsciano al De Sanctis, che assume un rilievo chiaramente normalizzatore e rivoluzionario insieme: normalizzatore, in quanto ripristina la vera dimensione critica del De Sanctis contro l'unilaterale interpretazione crociana; rivoluzionario, perché rivela, nel denunziare i limiti dell'egemonia intellettuale del Croce, i veri termini per un radicale rinnovamento culturale, per un «nuovo umanesimo». EFFICACIA DI AZIONE POLITICA Un giudizio preciso sull'efficacia dell'azione politica del De Sanctis non è stato mai dato dal Gramsci, anche se qualche accenno è evidente dai passi esaminati nel precedente capitolo. D'altra parte, se è possibile per il Gramsci un ritorno all'impostazione critica del De Sanctis per un rinnovamento radicale della cultura italiana, sarebbe assurdo pensare ad un equivalente ritorno politico sia per le diverse condizioni socio-economiche, sia per il carattere delle soluzioni nei due casi proposte. Ciò, però, non esclude la possibilità di sottolineare l'efficacia della presenza politica del De Sanctis alla luce del pensiero gramsciano. A me sembra che, in tal caso, sarebbe opportuno trascurare la parte ufficiale della politica desanctisiana, che pur ebbe un forte impulso progressista pur nei limiti di un serio riformismo, e rivolgere l'attenzione soltanto al suo impegno di meridionalista, anzi alla specificità di questo impegno. Tale ricerca si connette organicamente alla lezione meridionalista del Gramsci. Tra gli altri temi de La questione meridionale risulta particolarmente lucida l'analisi sugli intellettuali del Sud, analisi che evidentemente si riferisce alla situazione contemporanea, ma che per logica storica trova le sue cause nella organizzazione socio-economica dei primi decenni dell'unità d'italia. «Il Mezzogiorno può essere definito una grande disgregazione sociale; i contadini, che costituiscono la grande maggioranza della sua popolazione, non hanno nessuna coesione fra loro. La società meridionale è un grande blocco agrario costituito di tre stadi sociali: la grande massa contadina amorfa e disgregata, gli intellettuali della piccola e media borghesia rurale, i grandi proprietari terrieri e i grandi intellettuali. I contadini meridionali sono in perpetuo fermento, ma come massa essi sono incapaci di dare una espressione centralizzata alle loro aspirazioni ed ai loro bisogni. Lo strato medio degli intellettuali riceve dalla base contadina le impulsioni per la sua attività politica ed ideologica. I grandi proprietari nel campo politico e i grandi intellettuali nel campo ideologico centralizzano e dominano, in ultima analisi, tutto questo complesso di manifestazioni. Come è naturale, è nel campo ideologico che la centralizzazione si verifica con maggiore efficacia e precisione. Giustino Fortunato e Benedetto Croce rappresentano perciò le chiavi di volta del sistema meridionale e, in un certo senso, sono le due più grandi figure 8

9 della reazione italiana». E' stabilito così un altro serio e concreto motivo di confronto con il Croce, nonché, di riflesso, una valutazione positiva del De Sanctis politico-intellettuale del Mezzogiorno. Giustino Fortunato, ma soprattutto Benedetto Croce si collocano quindi, nel pensiero del Gramsci, come conservatori intellettuali del reazionario blocco del Sud, sulla cui totale disgregazione sociale incidono ulteriormente, inserendo la cultura meridionale nel giro di quella europea e capitalistica, alienandola dalla sua critica realtà di base. La loro opera culturale, perciò, non rispecchia l'ambiente dal quale nasce, non è documentazione della vera questione meridionale, non è testimonianza sofferta della miseria e di quel confuso senso di ribellione che dalla miseria inevitabilmente sortisce. E', invece, essa «pars magna» di «un blocco intellettuale che praticamente ha servito finora ad impedire che le screpolature del blocco agrario divenissero troppo pericolose e determinassero una frana». (A. Gramsci - La questione meridionale). Ma ecco meglio delineata, sempre ne La questione meridionale, la loro straordinaria funzionalità culturale al sistema. «In una cerchia più ampia di quella molto soffocante del blocco agrario, essi hanno ottenuto che la impostazione dei problemi meridionali non soverchiasse certi limiti, non diventasse rivoluzionaria. Uomini di grandissima cultura e intelligenza, sorti sul terreno tradizionale del Mezzogiorno ma legati alla cultura europea e quindi mondiale, essi avevano tutte le doti per dare una soddisfazione ai bisogni intellettuali dei più onesti rappresentanti della gioventù colta del Mezzogiorno, per consolarne le irrequiete velleità di rivolta contro le condizioni esistenti, per indirizzarli secondo una linea media di serenità classica del pensiero e dell'azione... In questo senso Benedetto Croce ha compiuto una altissima funzione nazionale ed europea; ha distaccato gli intellettuali radicali del Mezzogiorno dalle masse contadine, facendoli partecipare alla cultura nazionale ed europea, e attraverso questa cultura li ha fatti assorbire dalla borghesia nazionale e quindi dal blocco agrario». Sorge, a questo punto, spontanea la domanda in che posizione il Gramsci avrebbe collocato il De Sanctis. A me sembra che l'attività culturale e politica dell'irpino, per quanto vissuto in tempi diversi, fu totalmente opposta a quella del Croce e del Fortunato, anche se non rientrante nell'ipotesi gramsciana dell'intellettuale organico meridionale. Abbiamo già visto come il De Sanctis non collaborò con nessun «blocco intellettuale», anzi rivolse tutta la sua energia a frantumare ogni sorta di cultura di classe, nella speranza di favorire una «letteratura nazionale e popolare», nella quale non ci fossero posizioni di preminenza e sudditanza. Del resto la sua intelligente adesione al positivismo non solo come critico, ma anche come narratore (Un viaggio elettorale, La giovinezza) fu dettata dalla necessità di dare anche alla letteratura italiana una funzione di documentazione sociale. Era logico che in questa evoluzione di tendenza assumesse grande importanza la gravissima situazione socio-economica del Sud. Il De Sanctis, però, rifiutò ogni processo che portasse l'intellettuale ad alienarsi dalla realtà attraverso una cultura astratta e cerebrale. Che altro, infatti, vorrebbe dire, quando afferma: «...l'esule viene a chiedervi la patria, date la patria all' esule'» (Un viaggio elettorale, Discorso di Lacedonia). Riconquistare la patria, significava evidentemente continuare a lottare per la sua emancipazione, significava operare nelle sue vetuste strutture per rinnovarle alla luce dei concetti di democrazia e di libertà, significava portare la depressione del Mezzogiorno sul piano della problematica nazionale. Chiara e conseguente fu l'azione: prima la cruenta lotta sulle barricate e il doloroso esilio per riscattare il Regno delle due Sicilie dall'assurda tirannia borbonica, poi l'assiduo e laborioso impegno di deputato e ministro. Certo, il De Sanctis non pose mai in termini rivoluzionari la questione meridionale; tale soluzione era lontana dai suoi ideali, ma soprattutto estranea e inadatta alle contingenze storiche. Qualche decennio prima, è vero, c'era stato il nobile tentativo di suscitare la «guerriglia» da parte di Carlo Pisacane, ma il fatto che esso si fosse spento per incomprensione ed immaturità delle popolazioni meridionali aveva sancito l'astrattezza e l'impossibilità di un tale indirizzo. D'altra parte, il diffuso banditismo, chiara espressione di insoddisfazione verso i primi governi unitari, nel volgersi alla speranza di una restaurazione borbonica, era inconfutabile testimonianza di insufficiente maturità politica e di prospettive socio-economiche involutive e confusionarie. 9

10 Sarebbe stato, quindi, assurdo pensare ad una rivoluzione del Sud, che in ogni caso avrebbe assunto un fine autonomistico nel momento in cui la reazione in Italia era ancora fortissima e gestiva più o meno completamente il potere. Il De Sanctis, invece, pensava giustamente che la questione meridionale avrebbe avuto ottime probabilità di soluzione, se prima fosse stata sconfitta, a tutti i livelli, la reazione, distrutto il suo blocco socio-economico-culturale; questo imponeva come condizione preliminare una dura battaglia politica per l'attuazione di riforme progressiste e democratiche, prima fra tutte quella della scuola. Certo siamo molto lontani dalle ipotesi del Gramsci, ma a me interessa sottolineare come nel De Sanctis la questione del Sud non fu mai tacitata nella concezione di una sua perfetta funzionalità al sistema; interessa ricordare che essa apparve al grande Irpino la riforma delle riforme, il nodo centrale della vita economica, sociale e politica della nuova Italia. Questi principi nessun serio e onesto meridionalista, come il Gramsci, avrebbe potuto o potrebbe respingere. Fu quello del De Sanctis, pertanto, un meridionalismo appassionato e libero; realistico e scientifico proporzionatamente al momento storico. Appassionato, perché nacque dall'amore incontaminato per la propria terra; libero, perché non si asservì mai al blocco economico e culturale imperante; realistico, perché non si abbandonò a teorie comodamente vaghe ed astratte; scientifico, infine, perché operò nel sistema per cambiarne l'essenza e per strumentalizzarlo all'ideale di un'italia libera e democratica, nella quale fossero sanati i gravi disquilibri di varia natura allora esistenti. Grazie a questo giudizio sostanzialmente positivo del Gramsci la fortuna critica del De Sanctis registrò un momento particolarmente positivo durante l esperienza letteraria, artistica e cinematografica del Neorealismo, l ultima grande stagione culturale italiana. Dal maestro della critica e grande intellettuale gli esponenti più rivelanti trassero i concetti fondanti della loro produzione: natura storicistica dell arte e sua funzione di guida morale e civile della nazione, quindi nazional-popolare; il messaggio non soltanto come libertà, ma anche giustizia, democrazia, giuridica e nello stesso tempo effettiva. E, per quanto attiene alla posizione etica, per dirla proprio con il De Sanctis, contro ogni mancanza di fibra che corrisponde a una mancanza di "fede", e contro ogni difetto di "fede che è difetto di "cultura". Ed è superfluo aggiungere che cultura va qui intesa in senso umano e umanistico insieme, come nuova concezione della vita e dell uomo. Romualdo Marandino 10

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